Sistematicamente quando il paese si
trova in difficoltà sul fronte dei conti pubblici si
torna a parlare di privatizzazioni. Privatizzazioni e
liberalizzazioni sembrano essere due parole magiche che
dovrebbero permettere al contempo di abbattere il debito
pubblico e di promuovere la crescita liberando energie
vitali per il Paese.
C’è del vero in questa posizione ma
sicuramente la strada non è semplice da percorrere e a
ben guardare non porterebbe molto lontano.
Partiamo da un piccolo bilancio
delle privatizzazioni in Italia. Le privatizzazioni
negli anni ’90 e nei primi anni del nuovo secolo - per
un controvalore di circa 150 miliardi di euro - hanno
contribuito ad abbattere il debito pubblico nella misura
di circa il 10%, hanno permesso di risanare le aziende e
sono state un tassello importante della manovra sui
conti pubblici per entrare nell’euro. Hanno però anche
trasferito rendite di mercato ai privati e sono state
un’occasione perduta o forse un alibi per non affrontare
i problemi strutturali del paese. Un solo dato rende
chiaro il punto: la spesa corrente al netto di quella
per interessi negli ultimi venti anni è rimasta
pressoché stabile tra il 40 e il 45% del PIL. Quindi,
una misura sul patrimonio pubblico può essere una buona
cosa ma non risolverebbe i problemi del Paese che
richiedono misure incisive sul fronte dei tagli alla
spesa.
La volontà di usare le leva delle
privatizzazioni si scontra con due dati di fatto che non
vengono ricordati a sufficienza: c’è oramai assai poco
da privatizzare almeno per quanto riguarda lo Stato
centrale, i mercati finanziari non permettono grandi
spazi di manovra.
Partiamo dal primo punto. Se
andiamo a valutare le società ancora a controllo statale
non arriviamo a 50 miliardi di euro di cui oltre la metà
custoditi in ENEL e ENI, le imprese non quotate valutate
al patrimonio netto non arrivano a 60 miliardi. Delle
due l’una o lo Stato italiano intende dismettere due
multinazionali oramai condotte pienamente secondo una
logica privata che investono e che generano un flusso
significativo di dividendi (40 miliardi negli ultimi 15
anni) oppure gli spazi per fare cassa con le
privatizzazioni sono assai ridotti: escludendo le reti
(Terna e Snam) e Finmeccanica, abbiamo una parte di
poste (bancoposta), la parte più redditizia di Ferrovie
dello Stato (Freccia Rossa), SACE. In tutto non si
arriva a 10 miliardi di euro. Ricordiamo che privarsi di
aziende che investono, crescono e producono utili non
porta vantaggi al bilancio dello Stato, l’operazione è
neutrale: si anticipa un flusso dividendi futuro e si
rischia di privarsi di un asset strategico per
l’economia del Paese.
Passiamo al secondo punto. I
mercati finanziari sono in tensione, è assai difficile
reperire fondi per operazioni di finanza straordinaria.
Quali possono essere gli attori in grado di mettere sul
piatto i miliardi che vorremmo ricavare dalle
privatizzazioni? Sicuramente non le banche italiane,
quindi di fatto non possiamo contare su investitori
istituzionali italiani. La strada della public company è
impraticabile, rimangono i fondi di private equity,
hedge funds o competitors internazionali (spesso a
controllo pubblico) che sarebbero ben lieti di acquisire
quello che rimane delle aziende pubbliche italiane. Non
si tratta di una bella prospettiva.
Appurato che sul fronte dello Stato
centrale gli spazi sono pochi occorre orientarsi verso
gli enti locali. Qui gli spazi sono maggiori e gli
ambiti sono sostanzialmente due: le cosiddette ex
municipalizzate, gli immobili. La strada potrebbe essere
quella di passare tramite una revisione del patto di
stabilità interno che a fronte di tagli sui
trasferimenti introduca incentivi per le dismissioni da
parte degli enti locali. Quanto alle ex municipalizzate
si deve passare per forza di cose tramite la cessione
delle imprese nel campo dell’energia e delle
infrastrutture, le uniche che possono essere appetibili
sul mercato, è però difficile procedere rapidamente su
questa strada in quanto si dovrebbe passare tramite
processi di aggregazioni di piccole realtà. Forse più
praticabile è un’operazione sugli immobili (quelli in
mano agli enti locali – soprattutto ai comuni - valgono
circa 300 miliardi di euro): la strada degli incentivi
per una loro alienazione tramite anche misure che ne
favoriscano la riqualificazione/cambio di destinazione
sembra essere l’unica praticabile.
Dunque privatizzazioni sì per dare
anche un segnale forte ma non ci facciamo illusioni: i
mercati in realtà ci aspettano al varco sul riordino
della spesa. Qui i segnali sono ancora troppo timidi. |