Ci è sembrato un punto di vista
interessante e non lontano da prossimi sviluppi,
pertanto riportiamo quan to scritto da Marco Faraci,
ingegnere elettronico di 34 anni. La sua proposta non
sembra lonrtana da una possibile, immediata,
applicazione, in attesa della rinnovata legge
sull'affido condiviso che "dorme" in parlamento.
Negli ultimi anni si
sono rafforzate, in alcuni settori del paese, richieste
di novità normative riguardanti la famiglia ed il
matrimonio, con l’obiettivo di rispondere ad alcuni
fenomeni di evoluzione della società ed in
particolare all’emergere di alcune forme alternative
e non tradizionali di rapporto che rivestono ormai
un’innegabile rilevanza de facto. In questo
senso, le unioni civili o l’accesso al matrimonio per
gli omosessuali sono questioni che fanno parte di un
dibattito importante che ha investito tutti i paesi
occidentali ed al quale anche il nostro paese, con i
suoi tempi, non può sfuggire.
Tuttavia una cosa deve
essere notata, cioè che l’attenzione di chi – anche tra
i liberali – si propone di innovare l’istituto familiare
è quasi sempre concentrata sulle modalità con le quali
si dà vita ad un’unione, mentre molto più raramente
ci si chiede cosa è davvero giusto che succeda quando il
rapporto tra due persone arriva alla fine.Eppure si
tratta di una problematica altrettanto importante e per
molti versi persino più concreta, in quanto gli esiti
di una separazione e di un divorzio possono
effettivamente sconvolgere la vita di una persona
anche dal punto di vista economico.
Abbiamo già parlato, in
più occasioni del tema fondamentale dell’affidamento
dei minori al momento della rottura del legame tra i
genitori. La riforma in gestazione in questa
legislatura – purtroppo ancora lontana dalla
calendarizzazione al Senato – sancirebbe definitivamente
il principio dell’affido condiviso e quindi il
superamento di tutte le storture legate all’attuale
collocazione esclusiva presso un solo genitore. In ogni
caso è probabilmente l’ora di aprire la riflessione
anche su un altro aspetto dello scenario di rottura
della coppia, quello dei rapporti economici
orizzontali tra i due coniugi ed in definitiva
dell’assegno di mantenimento per il coniuge “più debole”
– prefigurando possibili approcci normativi alternativi
più rispettosi della libertà individuale e della
proprietà privata. Non si può fare a meno di notare,
infatti, che obbligare sic et simpliciter una
persona adulta a mantenerne indefinitamente un’altra è
qualcosa di molto illiberale e per certi versi
rappresenta una piccola forma moderna di schiavitù.
Da questo punto di vista
occorre considerare che il matrimonio implica spesso
un trasferimento di risorse dal coniuge economicamente
“più forte” all’altro coniuge, ma questo è in
generale compensato dal fatto che, il più delle
volte, quest’ultimo contribuisce in altre forme al
benessere della famiglia e quindi anche al livello di
vita del partner. Così accade sovente che il marito
porti più soldi in casa, ma che la moglie contraccambi
svolgendo una quota parte più importante di lavori
domestici. Evidentemente, quello a cui assistiamo non
è altro se non uno scambio volontario – i due sposi
hanno semplicemente ricercato l’equilibrio più
soddisfacente per la famiglia secondo princìpi di
divisione del lavoro. La separazione ed il divorzio
fanno venire meno la bilateralità del rapporto di
assistenza tra marito e moglie ed in questo senso non
risulta giustificato che da quel momento sia solo uno
dei due a dovere qualcosa all’altro.
In fondo se il coniuge
più ricco viene obbligato da un tribunale a pagare a
vita il mantenimento dell’altro, forse non sarebbe
giusto che il beneficiario del dispositivo si trovasse a
sua volta obbligato a fornire un qualche tipo di
contropartita? E’ bene mettere in chiaro che non si
intende dire che la presenza di un assegno divorzile sia
sbagliata in sé. Ciò che è improprio è che essa sia
derivata in maniera automatica da considerazioni sui
redditi e sui patrimoni dei due coniugi, senza che
entrino realmente in gioco fattori come l’effettiva
durata del matrimonio, né l’effettivo contributo dato
all’altro dal coniuge “più debole”. In altre parole,
il principale vizio dell’attuale meccanismo è quello di
configurarsi prevalentemente come uno strumento
assistenziale che fa scaturire in modo intrinseco
dei diritti dalla condizione di diseguaglianza
economica, al punto da potersi prestare anche a
strategie maliziose e predatorie.
Al contrario
l’eventualità di un assegno perequativo (o di una
“liquidazione”) dovrebbe idealmente risultare da
contratti liberamente sottoscritti dalle persone
interessate, che hanno una maggiore probabilità di
rivelarsi effettivamente “equi” perché predisposti
in una fase di armonia della coppia.
Lo scenario più naturale
per tali patti sarebbe quello in cui uno dei due sposi
sacrifichi le proprie prospettive personali di
avanzamento economico a favore della famiglia. Ad
esempio se la donna rinunciasse ad opportunità
professionali per occuparsi dei bambini e per sostenere
la carriera del marito, sarebbe sacrosanto che volesse
garantirsi dall’eventualità di una rottura attraverso un
accordo che preveda, in tal caso, un’adeguata
compensazione economica.
Anche se allo stato
attuale pare più che altro un’iniziativa di bandiera,
merita senz’altro una positiva menzione il recente
disegno di legge 2629 a firma dei deputati della Lega
Filippi, Garavaglia e Mazzatorta che punta ad
introdurre nel nostro ordinamento i patti
prematrimoniali o prenuptial agreements (“prenups”),
muovendo, tra l’altro, da un impianto in buona sostanza
liberale.
Secondo i proponenti,
questi contratti “lungi dal sostituirsi integralmente
alla legge, consentono una maggiore flessibilità
nella regolazione dei rapporti di diritto di famiglia”.
Essi non riguardano il
tema dell’affidamento dei figli, che segue giustamente
percorsi diversi, perché invece la loro funzione
“consiste nel permettere alla coppia che intende
sposarsi di derogare al regime legale degli effetti,
soprattutto patrimoniali, che scaturiscono dal
matrimonio o dall’ipotetica separazione e divorzio.”
In realtà, rispetto alla proposta dei parlamentari
leghisti, varrebbe la pena non limitarsi alla
possibilità di prendere accordi “prima di contrarre il
matrimonio”, in quanto può avere senso che i
patti possano essere rivisti nel tempo, per mutuo
accordo, a fronte dei cambiamenti che di volta in
volta intervengano nell’equilibrio familiare.
Consideriamo, ad
esempio, il caso di una coppia che non avesse ritenuto
necessario stipulare alcun tipo di accordo – perché sia
lui che lei hanno redditi comparabili – e in cui ad un
certo punto uno dei due coniugi ottenga un’importante
promozione in un’altra città e chieda al partner di
rinunciare al proprio lavoro per seguirlo. Evidentemente
quest’ultimo potrà condizionare il proprio assenso alla
stipulazione di un accordo adeguato.
Peraltro, è opportuno
superare le obiezioni di carattere religioso all’idea di
patti prematrimoniali, considerando pragmaticamente
che il divorzio comunque esiste nel nostro
ordinamento e con esso anche le procedure che lo
inquadrano. La presenza di questo tipo di accordi va
pertanto a modificare e non certo ad introdurre le norme
che regolano da un punto di vista legale la rottura
dell’unità coniugale. Ben lungi dal rappresentare una
banalizzazione del matrimonio, al contrario,
l’introduzione di un modello contrattuale
rappresenterebbe un fattore di responsabilizzazione
degli individui, in quanto marito e moglie sarebbero
chiamati a gestire in modo maturo e consapevole le
implicazioni economiche delle scelte di coppia e dei
modelli familiari.
Per certi versi si
tratterebbe persino di una riforma “femminista”,
nel senso che motiverebbe maggiormente le donne a
rimanere economicamente indipendenti nel corso di tutta
la loro vita e comunque a negoziare in modo più
assertivo con i mariti la distribuzione degli oneri
legati alla vita familiare. Si tratterebbe, da questo
punto di vista, di rigettare una certa visione
“passivizzante” secondo cui la donna “subisce” il
matrimonio e la distribuzione dei ruoli all’interno
della famiglia e quindi poi, al momento del divorzio,
deve essere “salvata” dallo Stato – e di riconoscere
invece all’uomo e alla donna il ruolo di partner
paritari, entrambi in grado di prendere decisioni in
piena indipendenza.
Molti sarebbero gli
effetti virtuosi dell’introduzione degli accordi
pre-matrimoniali e pre-divorzio nel nostro
ordinamento. Per un verso, ciò rappresenterebbe un
disincentivo a matrimoni di interesse, perché si
verrebbero a porre limiti negoziati alla possibilità di
aggredire il patrimonio del coniuge più abbiente. Al
tempo stesso, grazie alla possibilità di proteggersi con
dei contratti, potrebbero sentirsi meglio disposti a
mettersi in gioco nella costituzione di una famiglia
anche coloro che oggi magari rinunciano all’altare,
proprio perché percepiscono il possibile rischio di
rimanere “incastrati” economicamente nel caso le cose
vadano storte.
I patti, poi, potrebbero
rappresentare una migliore difesa persino per il
coniuge più debole qualora includessero
l’eventualità del pronunciamento di nullità del
matrimonio, che invece oggi resta totalmente scoperto
dalla tutela “statalista”. Similmente, ad ulteriore
tutela del coniuge con minori mezzi, niente vieterebbe
che gli accordi potessero prevedere il perdurare
dell’assegno anche a fronte di un successivo matrimonio
– cosa assolutamente sensata se esso è stato previsto in
un’ottica compensativa più che assistenziale – evitando
gli aspetti distorsivi delle attuali norme che spesso
inducono chi gode di un assegno ad evitare
strumentalmente di risposarsi al fine di non perdere il
beneficio.
Ricondurre il matrimonio
ad un’autentica dimensione pattizia va necessariamente a
disinnescare parte importante dei contrasti associati
alla fine di un percorso di coppia. Ciò vuol dire
rendere questo passo meno difficile sul piano umano e
meno costoso sul piano economico per le due persone
coinvolte, andando così a colpire gli interessi di
categoria di quell’ “industria del divorzio” che fa i
suoi affari proprio sulla conflittualità tra gli
ex-coniugi.
In definitiva, una
politica aperta all’innovazione sociale non deve aver
paura di toccare anche questo tipo di argomenti,
anche a costo di sfidare pregiudizi o rendite di
posizione. I numeri, del resto, dovrebbero bastare a
vincere qualsiasi imbarazzo. Ogni anno per ogni 1000
matrimoni ci sono circa 450 tra separazioni e divorzi
con punte molto alte in alcune regioni, come la Liguria
dove ci sono ogni anno oltre 900 addii per ogni 1000
coppie che si giurano fedeltà.
La separazione ed il
divorzio non sono più lo scandalo isolato di cui i
benpensanti fanno meglio a non parlare.
Sono, invece, sempre più delle questioni economiche di
assoluta importanza nella vita di milioni di persone –
questioni che per la loro rilevanza non possiamo più
permetterci di lasciare al di fuori di un giusto
inquadramento in un sistema liberale di diritti di
proprietà.
Fonte: Marco Faraci - da Libertiamo.it |