La notizia (smentita) che il
governo greco sta valutando l'opzione di uscita
dall'Unione monetaria è sul tavolo delle cancellerie
europee. La crisi libica è un pasticcio in salsa
francese e una figuraccia all'amatriciana. Stiamo
scivolando nel baratro di miopia, insipienza e
irresponsabilità dell'Europa delle Patrie.
E' possibile che il ballon d'essai
di un ritorno alla dracma, da parte di una ministra
greca, sia "solo" una minaccia da far pesare nella
trattativa molto complessa, e sempre più ingarbugliata,
tra governo di Atene, governi europei, istituzioni
internazionali e lobby finanziarie. La minaccia ha una
sua logica. Governi e istituzioni hanno dichiarato di
voler scongiurare la rottura dell'UME, se non per amore
della Grecia per il timore fondatissimo di una
disintegrazione a catena. Però i difensori (a parole?)
dell'euro sono indecisi a tutto.
L'opzione A è dare alla Grecia
tutta la linea di credito a tassi di favore che serve,
per tutto il tempo che serve, e con tutta l'ingegneria
istituzionale che serve, per realizzare un piano di
risanamento fiscale ed economico di lungo termine.
L'opizione B è un piano di ristrutturazione del debito
che riduca drasticamente il rischio di default, con
compartecipazione delle perdite del settore finanziario
privato. I governi e le istituzioni che realmente
desiderano difendere l'UME devono solo scegliere per chi
vogliono spendere i (tanti) quattrini necessari:
direttamente per salvare la Grecia oppure per i
rispettivi intermediari finanziari privati. Ma la
cacofonia europea è salita al massimo volume, in
particolare in terra tedesca. Dal quartier generale di
Francoforte la Banca centrale europea è totalmente
avversa all'opzione B, mentre Berlino non vuole
l'opzione A (non la vuole la mggioranza dell'opinione
pubblica e il governo non è in grado di pilotarla). Se è
abbastanza chiaro ciò che i vari attori non vogliono,
non è chiaro ciò che vogliono. Tranne, forse, la nuova
lobby dei privatizzatori che è emersa negli ultimi tempi
tra le pieghe dell'inettitudine delle istituzioni
governative: spoliare la Grecia di un congruo ammontare
di asset e capitali reali, a copertura delle eventuali
perdite sul debito, e poi lasciarla al suo destino.
In questa situazione, l' eurocarità
pelosa messa in campo finora è puro spreco di energie
politiche, denaro e tempo
‑
tre risorse drammaticamente scarse. I denari sono già
troppi agli occhi dell'opinione pubblica dei paesi
pagatori, mentre sono troppo pochi e troppo costosi
rispetto a quanto necessario per l'opzione A. D'altra
parte se si voleva abbandonare la Grecia al suo destino,
tanto valeva farlo un anno fa, piuttosto che fiaccarla
con sacrifici durissimi e destabilizzarla giorno per
giorno con le punture velenose delle gazzette popolari
tedesche e delle agenzie di rating (la differenza di
credibilità, e di ruolo, tra le due fonti informative si
è molto assottigliata). L'uscita di scena di Strauss
Kahn, per cui qualcuno potrebber aver brindato, ha
peggiorato il quadro privando il Fondo monetario del
ruolo di global player politico che aveva acquisito
dalla personalità del suo Direttore. Il lamento del
premier greco faremo tutti i sacrifici necessari, ma
lasciateci in pace per un po' è del tutto
giustificato. Ma, in questa indecente partita, la mossa
d'azzardo di Atene potrebbe essere proprio la minaccia
di una pesante ristrutturazione del debito, se non il
default, e andare a vedere le carte degli altri
biscazieri.
Sia come sia, le convulsioni
intorno alla crisi greca sono solo uno degli episodi che
stanno delineando una delle fasi peggiori della storia
dell'edificazione europea. E occorre chiamare le cose
col loro nome: questa è l'Europa delle Patrie, bellezza.
Lo sfaldamento dell'europeismo e il ripiegamento sulle
Patrie grandi e piccole, cresciuti passo passo con i
venti della globalizzazione e con le paure
dell'allargamento, alimentati dai fallimenti dei grandi
disegni costituzionali e dallo scollamento crescente tra
politiche comunitarie e bisogni dei cittadini, stanno
producendo i loro frutti avvelenati. Non si può
generalizzare, ma l'epicentro di questi fenomeni è nei
paesi con governi di centrodestra. Non è un caso.
L'europarola asettica è "metodo intergovernativo". Può
voler dire che, laddove non si arriva con reali
istituzioni sovranazionali, si cerca di arrivare con
negoziati idretti tra i governi nazionali. Oppure che
l'Europa diventa l'arena per prove di forza degli
interessi nazionali ad uso e consumo dell'elettorato
euroscettico o apertamente antieuropeo.
Prendiamo l'altro grande fallimento
europeo di questi mesi: la crisi libica. Si tratta del
pessimo risultato del torneo quadrangolare tra Francia,
Germania, Gran Bretagna e Italia, tutto dentro il campo
di gioco del centrodestra europeo. Se ne possono trarre
alcune dure lezioni. La prima è che, indipendentemente
da chi vince questi tornei, perde l'Europa, cioè noi
tutti. Hanno vinto Francia e Gran Bretagna, ma l'Europa
tutta paga i prezzi assai salati di un'ennessima
attestazione mondiale d'inesistenza politica, di
un'avventura militare senza capo né coda, dell'assenza
di una strategia politica comune rispetto alla Primavera
araba, con le gravi ricadute su capitoli vitali come le
fonti energetiche e i flussi migratori.
La seconda lezione riguarda il
nostro paese. Se c'è una Patria che non ha niente da
guadagnare da questo tipo di competizioni muscolari è la
nostra. Questa regola fu scolpita nei codici di condotta
della nostra diplomazia dopo la Seconda guerra mondiale
ed è stata fermamente seguita fino all'ascesa del
Piccolo Padre, il quale ha attivamente partecipato alla
destrutturazione degli spazi comuni europei, per poi
sedersi al tavolo del Risiko delle Grandi Patrie. La
sconfitta politica, diplomatica e militare dell'Italia
sul fronte libico non è altro che l'esito inevitabile di
questa linea di condotta. Solo gli europeisti convinti e
coerenti avrebbero il diritto (e dovere) di protestare
per il trattamento indegno subìto dall'Italia nella
gestione dei flussi migratori (e l'hanno fatto troppo
poco, se si esclude, anche in questo frangente, il
Presidente Napolitano). Tutti gli altri, governo in
testa e suoi sostenitori ideologici e pratici al
seguito, dovrebbero avere il pudore di ammettere di aver
perso un guerra tutta dentro la logica del conflitto tra
interessi e poteri nazionali che essi stessi hanno
promosso in questi anni. Non si può rivendicare, magari
spudoratamente, di andare per la propria strada quando
si tratta di fare affari con un dittatore ex (?)
terrosita internazionale, o di ributtare in mare gli
immigrati contro ogni legge internazionale, e poi
pietire l'aiuto comunitario (sì, è stata usata anche
l'odiata parola) quando si è nei guai. La politica della
porta chiusa di Francia e Germania è perfettamente nella
logica degli interessi nazionali del più forte, ed è la
stessa che avrebbe seguito l'Italia di centrodestra a
parti invertite. V'immaginate quale piano di
condivisione dei flussi migratori avrebbe predisposto il
ministro Maroni se la crisi fosse scoppiata in Marocco e
l'invasione dei nordafricani l'avesse subita la Spagna
(di Zapatero per giunta)?
Il vento dell'Europa delle Patrie
ha soffiato forte e ancora batte il continente. Per
quanto tempo ancora, e con quanti danni? La cattiva
politica dei governi condiziona le nostre vite nel breve
periodo, ma in democrazia, nel lungo periodo, il nostro
destino è nelle nostre mani. La buona politica si
organizza, emerge, s'impone se i cittadini di buona
volontà hanno la forza e la capacità di farlo, facendo
nascere nuove idee e nuove classi dirigenti per portarle
avanti. La Primavera araba lo dimostra. Speriamo che
cominci a risalire anche a Nord di Lampedusa. |