Avv. Paolo Nesta


Palazzo Giustizia  Roma


Palazzo Giustizia Milano

Sede di Roma: C.so Vittorio Emanuele II,  252   00186 – Roma
Tel. (+39) 06.6864694 – 06.6833101 Fax (+39) 06.6838993
Sede di Milano:  Via Pattari,  6   20122 - Milano 
Tel. (+39) 02.36556452 – 02.36556453  Fax (+ 39) 02.36556454 

 

Condizioni e limiti dell’integrazione probatoria da parte del magistrato decidente-Diritto.it

 

Home page

Note legali e privacy

Dove siamo

Profilo e attività

Avvocati dello Studio

Contatti

Cassa di Previdenza e deontologia forense

Notizie di cultura e di utilità varie

 

 

Allegria Angela

 

La sentenza n. 41281/2006 è di particolare interesse perché affronta e risolve due questioni interpretative per anni controverse.

 

La prima riguarda la qualificazione o no della relazione di servizio della polizia giudiziaria come atto irripetibile, ai fini e per gli effetti dell’inserimento nel fascicolo per il dibattimento (art. 431, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale).

 

La seconda concerne la ricostruzione delle condizioni e dei limiti entro cui può essere esercitato il potere integrativo del giudice del dibattimento in materia di prova (articolo 507 del codice di procedura penale).

 

La soluzione adottata in specie sulla natura ripetibile della relazione di servizio consente alla Corte di affrontare l’altra questione sottoposta alla sua attenzione, ovvero quella relativa all’ambito dei poteri di iniziativa probatoria del giudice nel processo penale.

 

L’art. 507 cpp prende in esame la questione concernente l’assetto tra i poteri delle parti e l’iniziativa del giudice in campo probatorio attribuendo a questi il potere di integrazione probatoria ex officio. L’intervento del giudice su tale terreno costituisce una sorta di “intrusione nell’iniziativa” che, in via principale, è demandata alle parti in virtù del principio dispositivo incardinato nell’art. 190 cpp, tuttavia una ragionevole deroga a tale principio si rende necessaria per pervenire ad una “giusta” condanna a cui non si potrebbe giungere se l’istruttoria dibattimentale si rivelasse lacunosa ed incompleta.

 

In un contesto nel quale si passa da sistema di tipo inquisitorio nel quale vigeva il principio del “contraddittorio sulla prova” che veniva assunta in una precedente fase istruttoria e poi valutata nel contraddittorio mentre la figura del giudice istruttore costituiva un organo d’accusa che aveva il potere di formulare un’ipotesi ricostruttiva del fatto e ricercava le fonti di prova necessarie a fondarla, ad un sistema di tipo accusatorio nel quale si parla di “contraddittorio per la prova” facendo riferimento all’art. 111 co. 4 Cost che dispone che “il processo penale è regolato dal contraddittorio nella formazione della prova”, ed i poteri del giudice istruttore sono stati assorbiti dal ruolo del pm, si deve stabilire se i poteri officiosi del giudice in campo probatorio costituiscono un “nostalgico” residuo del sistema inquisitorio o se essi siano a sostegno del principio della ricerca della verità come fine “primario ed ineludibile del processo”, come ribadito dalla Corte Costituzionale con sent. 3 giugno 1992 n. 255.

 

La questione concernente la natura dei poteri attribuiti al giudice dall’art. 507 si pone in relazione ad un duplice ordine di problemi: se tali poteri possano essere esercitati in rapporto a prove non tempestivamente dedotte dalle parti (come nel caso in cui il pm non abbia presentato la lista testimoniale entro il termine previsto a pena di decadenza dall’art. 468 cpp) e, più in generale, se l’attivazione di tali poteri necessiti o meno di un principio di attività probatoria svolta dalle parti.

 

La risposta a tali quesiti ha dato origine ad una sorta di “guerra di religione”, un dibattito che ha coinvolto dottrina e giurisprudenza.

 

Secondo un orientamento restrittivo, il quale fa riferimento ad un modello accusatorio “puro”, il potere ex art. 507 presenta un carattere di eccezionalità, in quanto la gestione dell’istruzione dibattimentale è demandata alle parti, sicché al giudice, il quale deve mantenersi rigorosamente neutrale rispetto alle prospettive individuali, è consentito un potere di intervento nell’acquisizione probatoria limitato all’integrazione delle tesi rimaste incomplete; non è quindi esercitabile se nessuna attività istruttoria è stata compiuta per essere stata dichiarata inammissibile la richiesta di prova testimoniale, come nel caso di omesso deposito della lista ex art. 468 ovvero di mancata indicazione delle circostanze su cui l’esame deve vertere.

 

Secondo un indirizzo intermedio, il potere di integrazione probatoria attribuito al giudice dall’art. 507 non è vincolato da preclusioni o decadenze, ma non può supplire alla totale inerzia delle parti; è quindi esercitabile a condizione che qualche prova sia stata acquisita, quantomeno sulla base della lettura degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento.

 

Secondo un orientamento estensivo, il potere di assunzione di nuove prove non tollera alcuna limitazione, purché vi sia l’assoluta necessità ai fini dell’accertamento della verità. Aderendo a tale orientamento in dottrina si è sottolineato che il principio dispositivo possiede una forza espansiva dei poteri delle parti, ma non svolge una funzione preclusiva, con la conseguenza che i poteri officiosi del giudice, seppure residuali, delimitano il potere dispositivo sia “verso l’alto”, ovvero attribuendo al giudice la facoltà di escludere le prove irrilevanti, superflue e vietate dalla legge, sia “verso il basso”, consentendo di integrare le prove dedotte dalle parti, quando queste risultino insufficienti ad assicurare la funzione conoscitiva del processo.

 

Dal punto di vista giurisprudenziale nel 1992 le SS. UU. si erano pronunciate sulla questione con la Sent. 6 novembre 1993 n. 11227, c.d. sentenza Martin la quale aderisce all’orientamento estensivo ed afferma che la tesi restrittiva, secondo la quale al giudice è precluso il potere di ammettere prove che le parti avrebbero potuto chiedere ma non hanno chiesto, non è sorretta “né da argomenti letterali né sistematici”, argomenti che sorreggono invece la tesi estensiva. Infatti, dai lavori preparatori concernenti la genesi della direttiva 73, da cui l’art. 507 trae origine, fin dagli emendamenti proposti dall’allora Guardasigilli Morlino in relazione al testo della legge delega del 1974, emerge con chiarezza l’intenzione del legislatore di dare al giudice un potere in grado di ovviare all’inerzia delle parti in materia probatoria.

 

Inoltre la lettura estensiva dell’art. 507 ben si armonizza con il dettato dell’art. 603 cpp, non potendo riconoscersi che al giudice di appello, rinnovando l’istruttoria dibattimentale, competa un potere probatorio più ampio che gli consenta di ammettere prove che erano precluse al giudice di prima istanza: “altrimenti in alcuni casi si renderebbe necessario l’appello per completare il quadro probatorio, costringendo il giudice di primo grado ad una decisione non sorretta da elementi e quindi provvisoria”.

 

Tale pronuncia è stata consacrata dalla Corte Costituzionale con sent. 26 marzo 1993 n. 111 nella quale la Corte dichiara la infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 507 sollevate in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 76, 77, 101, 111 e 112 Cost. ed afferma che il potere istruttorio del giudice del dibattimento, di cui all’art. 507 non è affatto eccezionale, bensì suppletivo rispetto a quello delle parti. Il Giudice delle leggi afferma che una lettura in chiave limitativa del potere ex art. 507 contrasta con “la ricerca della verità” che rimane “il fine primario ed ineludibile del processo penale”. Infatti il metodo dialogico che presiede alla formazione della prova nel dibattimento, non può porsi come un ostacolo al pieno accertamento dei fatti, “altrimenti ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalità e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio di obbligatorietà dell’azione penale”.

 

Riprendendo le argomentazioni affrontate nella Sentenza Martin, la Corte Costituzionale ha evidenziato che il diritto alla prova, pur rivestendo un ruolo centrale nel processo di parti, non può escludere la “introduzione ad iniziativa del giudice delle prove necessarie all’accertamento dei fatti, rispetto alle quali le parti siano rimaste inerti o dalla quali siano decadute”. Una simile conclusione trova giustificazione nella previsione di numerosi poteri d’ufficio riconosciuti al giudice nella fasi dibattimentale (artt. 506, 508, 511, 511 bis) fra i quali spicca proprio quello fissato dall’art. 507.

 

Nonostante gli interventi delle SS. UU. e della Corte Costituzionale, non sono mancate pronunce contrarie da parte delle singole sezioni della Cassazione, le quali hanno restrinto i poteri officiosi del giudice escludendo che essi possano esercitarsi in caso di inerzia delle parti.

 

Si ricordino, ad esempio, la Cass. Sez. V, 1 dicembre 2004, n. 15631 e la Cass. Sez. I, 30 gennaio 1995, Rizzo, Cass. Sez. I 28 settembre 1995, Cass. Sez. I 8 luglio 2000, Cass. Sez. III 10 dicembre 1996, sentenze che “seppure talvolta accreditate come espressione del contrario orientamento, sono in realtà caratterizzate da peculiarità dei singoli casi che non consentono di ritenerle adesive dell’uno o dell’altro orientamento”.

 

Con sentenza 41281/2006, le SS. UU. riaffermano in toto l’impianto argomentativo della sentenza Martin alla luce dell’art. 111 Cost. in tema di “giusto processo” e dichiarano che il potere del giudice di disporre d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell’art. 507, può essere esercitato pur quando non vi sia stata precedente acquisizione di prove che le parti avrebbero potuto chiedere e non hanno chiesto, ma sempre che l’iniziativa probatoria si necessaria e miri all’assunzione di una prova decisiva nell’ambito delle prospettazioni delle parti.

 

La riforma dell’art. 111 Cost. ha, infatti, solamente accentuato il principio fondante del processo accusatorio, ossia quello secondo il quale la prova si forma nel contraddittorio delle parti, ma non ha in alcun modo inciso sul principio dispositivo che, pur caratterizzando il processo accusatorio, non è stato integralmente recepito nel codice di rito, cosa che neppure è stata fatta per il processo civile, nel quale quel principio trova la sua più ampia applicazione.

 

La Corte svolge alcune considerazioni di tipo storico e comparatistico ricordando il sistema nordamericano all’interno del quale nel 1976 vi fu un’innovazione legislativa che consentì la nomina d’ufficio dell’esperto indipendente (expert witness) da parte del giudice ad opera della Rule 706 delle Federal Rules of Evidence del 1975 riguardante sia il processo civile che quello penale. Tale innovazione conferma normativamente una deroga del principio dispositivo che peraltro la giurisprudenza civile aveva già affermato, mentre permane ancora oggi nella giurisprudenza penale un certo rifiuto nell’applicazione della norma.

 

Si chiede la Suprema Corte: “Perché mai non dovrebbe essere considerato terzo un giudice scrupoloso che intende giudicare a ragion veduta e non con informazioni conoscitive insufficienti ben sapendo che è possibile colmare almeno una parte delle lacune esistenti? È questo potere (da esercitare solo in caso di assoluta necessità) un residuo del principio inquisitorio oppure vale a fondare un processo veramente «giusto»?”

 

In realtà l’attribuzione al giudice dei poteri officiosi in materia di prova, lungi dall’interferire sul principio di terzietà del giudice, ha la funzione di fondare un “giusto processo”, funzione che può essere perseguita colmando anche le eventuali lacune delle parti qualora il giudice non si ritenga in grado di decidere per la lacunosità o l’insufficienza del materiale probatorio.

 

Si legge nella Sent. 41281/2006: “senza neppure scomodare i grandi principi, in particolare quello secondo cui lo scopo del processo è l’accertamento della verità, si può ragionevolmente affermare che la norma mira esclusivamente a salvaguardare la completezza dell’accertamento probatorio, sul presupposto che se le informazioni probatorie a disposizione del giudice sono più ampie è più probabile che la sentenza sia equa e che il giudizio si mostri aderente ai fatti”.

 

A questo punto va rimarcata la differenza logico-concettuale tra l’ipotesi di incertezza probatoria all’origine dei poteri ex art. 507 e l’ambito in cui ricadono le situazioni contemplate dall’art. 530 co. 2 cpp, nel quale si impone al giudice di assolvere l’imputato quando la prova sia insufficiente e contraddittoria.

 

Nel caso dell’art. 507 si tratta di una valutazione afferente l’incompletezza del materiale probatorio a cui può essere posto rimedio essendo emersa in dibattimento una fonte che, astrattamente, consentirebbe l’integrazione del thema probandum, mentre nel caso delle ipotesi contemplate dall’art. 530 co. 2 si tratta di una regola di giudizio in base alla quale la prova, pur esaurientemente raccolta nel corso dell’istruttoria dibattimentale, si rivela inidonea a fondare la colpevolezza dell’imputato. Le due norme in esame hanno quindi un diverso oggetto.

 

Inoltre, l’attribuzione del potere ex art. 507 mira a dare concretezza al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, costituzionalizzato nell’art. 112, il quale comporta la necessità che il giudice possa e debba sempre verificare l’esercizio da parte del pm dei suoi poteri di iniziativa, come delle sue carenze od omissioni.

 

“Una limitazione dei poteri probatori officiosi del giudice sarebbe idonea a vanificare il principio dell’obbligatorietà dall’azione penale e si porrebbe in palese contraddizione con l’esistenza degli amplissimi poteri del giudice in tema di richiesta di archiviazione del pm”.

 

Ciò a differenza dei sistemi accusatori dei Paesi di commow law nei quali l’azione penale non è obbligatoria ed il pm può rinunciare ad essa anche per facta concludentia, ad esempio rinunciando ad ammettere alcune prove.

 

Presupposto per l’esercizio del potere officioso ex art. 507 è l’espletamento dell’istruttoria dibattimentale. L’espressione “terminata l’acquisizione delle prove” indica il limite temporale decorso il quale il giudice può esercitare il potere di integrazione probatoria, anche nel caso in cui non vi sia stata alcuna precedente attività delle parti.

 

Pur recependo questa interpretazione sostenuta da dottrina e giurisprudenza, quest’ultima non si è tuttavia mostrata rigida nell’applicazione della regola temporale stabilita dall’art. 507. Si è, infatti, stabilito che l’assunzione di una testimonianza disposta ai sensi dell’art. 507 in un momento diverso rispetto a quello indicato dalla norma costituisce mera irregolarità la quale non è sanzionata né sotto il profilo della inutilizzabilità, né di quello della nullità di ordine generale ricollegabile all’art. 178 co. 1 lett. C cpp in quanto l’escussione di un teste, “anticipata” rispetto al termine dell’acquisizione delle prove, non incide sull’assistenza, sulla rappresentanza o sull’intervento dell’imputato.

 

La prova deve essere nuova, assolutamente necessaria e pertinente.

 

Secondo le Sezioni Unite e la Corte Costituzionale per “prova nuova” deve intendersi non solo la prova sopravvenuta o scoperta successivamente rispetto all’allegazione di parte a norma dell’art. 493 cpp, ma anche la prova non disposta precedentemente, preesistente o sopravvenuta, conosciuta o non conosciuta, purché risulti dagli atti.

 

Dalla lettera dell’art. 507 la prova deve essere “assolutamente necessaria”, deve cioè avere carattere di decisività, presupposto indefettibile “diversamente da quanto avviene nell’esercizio ordinario del potere dispositivo delle parti in cui si richiede soltanto che le prove siano ammissibili e rilevanti”.

 

L’assunzione d’ufficio ex art. 507 presuppone l’assoluta impossibilità di decidere allo stato degli atti, è una valutazione ampiamente discrezionale e per questo può essere in concreto contestata. Ma il giudice ha l’onere di motivare tale assunzione di prove sicché, secondo la giurisprudenza, l’eventuale carenza giustificativa determina un vizio di motivazione passibile di determinare la nullità della sentenza. Tale ordinamento giurisprudenziale è stato criticato in dottrina in quanto rischia di vanificare ogni tipo di controllo sull’operato del giudice.

 

Il canone dell’assoluta necessarietà comporta quindi una più penetrante ed approfondita valutazione di pertinenza e rilevanza delle nuove prove, che è correlata alla più ampia conoscenza dei fatti di causa già acquisita.

 

Una parte della dottrina sostiene che la prova risulta assolutamente necessaria quando il suo grado di rilevanza risulta indispensabile perché il giudice possa superare l’incertezza probatoria ed emettere una giusta decisione, un’altra parte, la quale si riallaccia all’interpretazione maggiormente restrittiva dell’art. 507, afferma che nuove acquisizioni probatorie sono legittime solo in presenza di un elemento emergente per la prima volta nel dibattimento tale da incrinare la linearità della costruzione del fatto.

 

Inoltre il potere integrativo può essere esercitato solo nell’ambito delle prospettazioni e non per supportare probatoriamente una diversa ricostruzione che il giudice possa ipotizzare, giacché diversamente si finirebbe con il pregiudicare il basilare principio della terzietà del giudice. (Cass. SS. UU. 30 ottobre 2003, n. 20, Andreotti).

 

Si legge nella sentenza per il delitto Pecorelli: “la corte di assise di appello, disancorandosi consapevolmente dalle ipotesi antagoniste prospettate dall’accusa e dalla difesa ed esimendosi dall’obbligo istituzionale di sciogliere i nodi del confronto dialettico sviluppatosi, sia sulle ipotesi che sulle prove, nel corso del giudizio di merito, ha deciso di sottoporre a verifica giudiziale un proprio «teorema»accusatorio, da essa formulato in via autonoma ed alternativa, in violazione sia delle corrette regole di valutazione della prova che del basilare principio di terzietà della giurisdizione, anche rispetto ai problemi implicati nel caso giudiziario”.

 

Circa la tipologia delle prove assumibili è controversa la questione se il legislatore abbia voluto circoscriverle o meno.

 

Se si segue la lettera dell’art. 507 sono da escludere i mezzi di ricerca della prova (ispezione, perquisizione, sequestro probatorio, intercettazione), salvo che tendano alla ricerca di una cosa o di un documento la cui acquisizione sia per legge obbligatoria o la cui esistenza o collocazione risulta dagli atti.

 

Ma l’orientamento maggioritario sostiene che la formula impiegata dal legislatore non deve intendersi in senso riduttivo, perché sarebbe frutto di una mera svista del legislatore, come dimostrato sia dalla rubrica della norma (ammissione di nuove prove), sia dal contenuto dell’omologa previsione dell’art. 523 co. 6 cpp i quali si riferiscono entrambi all’assunzione di nuove prove, espressione comprensiva anche dei mezzi di ricerca della prova.

 

Nello stesso senso è orientata la giurisprudenza, la quale sostiene che l’esercizio dei poteri ex art. 507 comprende tutti i mezzi di prova nuovi rispetto a quelli acquisiti ad iniziativa delle parti, ivi compresi i mezzi di ricerca della prova.

 

In conclusione la Suprema Corte si sofferma sulla posizione delle parti a fronte dell’esercizio del potere integrativo officioso da parte del giudice affermando: “resta integro il potere delle parti di chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova – secondo la regola indicata nell’art. 495 cpp co. 2 (prova contraria) – la cui assunzione si sia resa necessaria a seguito dell’integrazione probatoria disposta d’ufficio e, da diverso punto di vista, che l’esercizio dei poteri in deroga al principio dispositivo non fa venir meno l’onere del Pubblico Ministero di provare il fondamento dell’accusa e, tanto meno, l’obbligo per il giudice di rispettare i divieti probatori esistenti”.

 

 

 

Legislazione e normativa nazionale

Dottrina e sentenze

Consiglio Ordine Roma: informazioni

Rassegna stampa del giorno

Articoli, comunicati e notizie

Interventi, pareri e commenti degli Avvocati

Formulario di atti e modulistica

Informazioni di contenuto legale

Utilità per attività legale

Links a siti avvocatura e siti giuridici