Allegria Angela
La sentenza n. 41281/2006 è di
particolare interesse perché affronta e risolve due
questioni interpretative per anni controverse.
La prima riguarda la qualificazione
o no della relazione di servizio della polizia
giudiziaria come atto irripetibile, ai fini e per gli
effetti dell’inserimento nel fascicolo per il
dibattimento (art. 431, comma 1, lettera b), del codice
di procedura penale).
La seconda concerne la
ricostruzione delle condizioni e dei limiti entro cui
può essere esercitato il potere integrativo del giudice
del dibattimento in materia di prova (articolo 507 del
codice di procedura penale).
La soluzione adottata in specie
sulla natura ripetibile della relazione di servizio
consente alla Corte di affrontare l’altra questione
sottoposta alla sua attenzione, ovvero quella relativa
all’ambito dei poteri di iniziativa probatoria del
giudice nel processo penale.
L’art. 507 cpp prende in esame la
questione concernente l’assetto tra i poteri delle parti
e l’iniziativa del giudice in campo probatorio
attribuendo a questi il potere di integrazione
probatoria ex officio. L’intervento del giudice su tale
terreno costituisce una sorta di “intrusione
nell’iniziativa” che, in via principale, è demandata
alle parti in virtù del principio dispositivo
incardinato nell’art. 190 cpp, tuttavia una ragionevole
deroga a tale principio si rende necessaria per
pervenire ad una “giusta” condanna a cui non si potrebbe
giungere se l’istruttoria dibattimentale si rivelasse
lacunosa ed incompleta.
In un contesto nel quale si passa
da sistema di tipo inquisitorio nel quale vigeva il
principio del “contraddittorio sulla prova” che veniva
assunta in una precedente fase istruttoria e poi
valutata nel contraddittorio mentre la figura del
giudice istruttore costituiva un organo d’accusa che
aveva il potere di formulare un’ipotesi ricostruttiva
del fatto e ricercava le fonti di prova necessarie a
fondarla, ad un sistema di tipo accusatorio nel quale si
parla di “contraddittorio per la prova” facendo
riferimento all’art. 111 co. 4 Cost che dispone che “il
processo penale è regolato dal contraddittorio nella
formazione della prova”, ed i poteri del giudice
istruttore sono stati assorbiti dal ruolo del pm, si
deve stabilire se i poteri officiosi del giudice in
campo probatorio costituiscono un “nostalgico” residuo
del sistema inquisitorio o se essi siano a sostegno del
principio della ricerca della verità come fine “primario
ed ineludibile del processo”, come ribadito dalla Corte
Costituzionale con sent. 3 giugno 1992 n. 255.
La questione concernente la natura
dei poteri attribuiti al giudice dall’art. 507 si pone
in relazione ad un duplice ordine di problemi: se tali
poteri possano essere esercitati in rapporto a prove non
tempestivamente dedotte dalle parti (come nel caso in
cui il pm non abbia presentato la lista testimoniale
entro il termine previsto a pena di decadenza dall’art.
468 cpp) e, più in generale, se l’attivazione di tali
poteri necessiti o meno di un principio di attività
probatoria svolta dalle parti.
La risposta a tali quesiti ha dato
origine ad una sorta di “guerra di religione”, un
dibattito che ha coinvolto dottrina e giurisprudenza.
Secondo un orientamento
restrittivo, il quale fa riferimento ad un modello
accusatorio “puro”, il potere ex art. 507 presenta un
carattere di eccezionalità, in quanto la gestione
dell’istruzione dibattimentale è demandata alle parti,
sicché al giudice, il quale deve mantenersi
rigorosamente neutrale rispetto alle prospettive
individuali, è consentito un potere di intervento
nell’acquisizione probatoria limitato all’integrazione
delle tesi rimaste incomplete; non è quindi esercitabile
se nessuna attività istruttoria è stata compiuta per
essere stata dichiarata inammissibile la richiesta di
prova testimoniale, come nel caso di omesso deposito
della lista ex art. 468 ovvero di mancata indicazione
delle circostanze su cui l’esame deve vertere.
Secondo un indirizzo intermedio, il
potere di integrazione probatoria attribuito al giudice
dall’art. 507 non è vincolato da preclusioni o
decadenze, ma non può supplire alla totale inerzia delle
parti; è quindi esercitabile a condizione che qualche
prova sia stata acquisita, quantomeno sulla base della
lettura degli atti contenuti nel fascicolo del
dibattimento.
Secondo un orientamento estensivo,
il potere di assunzione di nuove prove non tollera
alcuna limitazione, purché vi sia l’assoluta necessità
ai fini dell’accertamento della verità. Aderendo a tale
orientamento in dottrina si è sottolineato che il
principio dispositivo possiede una forza espansiva dei
poteri delle parti, ma non svolge una funzione
preclusiva, con la conseguenza che i poteri officiosi
del giudice, seppure residuali, delimitano il potere
dispositivo sia “verso l’alto”, ovvero attribuendo al
giudice la facoltà di escludere le prove irrilevanti,
superflue e vietate dalla legge, sia “verso il basso”,
consentendo di integrare le prove dedotte dalle parti,
quando queste risultino insufficienti ad assicurare la
funzione conoscitiva del processo.
Dal punto di vista
giurisprudenziale nel 1992 le SS. UU. si erano
pronunciate sulla questione con la Sent. 6 novembre 1993
n. 11227, c.d. sentenza Martin la quale aderisce
all’orientamento estensivo ed afferma che la tesi
restrittiva, secondo la quale al giudice è precluso il
potere di ammettere prove che le parti avrebbero potuto
chiedere ma non hanno chiesto, non è sorretta “né da
argomenti letterali né sistematici”, argomenti che
sorreggono invece la tesi estensiva. Infatti, dai lavori
preparatori concernenti la genesi della direttiva 73, da
cui l’art. 507 trae origine, fin dagli emendamenti
proposti dall’allora Guardasigilli Morlino in relazione
al testo della legge delega del 1974, emerge con
chiarezza l’intenzione del legislatore di dare al
giudice un potere in grado di ovviare all’inerzia delle
parti in materia probatoria.
Inoltre la lettura estensiva
dell’art. 507 ben si armonizza con il dettato dell’art.
603 cpp, non potendo riconoscersi che al giudice di
appello, rinnovando l’istruttoria dibattimentale,
competa un potere probatorio più ampio che gli consenta
di ammettere prove che erano precluse al giudice di
prima istanza: “altrimenti in alcuni casi si renderebbe
necessario l’appello per completare il quadro
probatorio, costringendo il giudice di primo grado ad
una decisione non sorretta da elementi e quindi
provvisoria”.
Tale pronuncia è stata consacrata
dalla Corte Costituzionale con sent. 26 marzo 1993 n.
111 nella quale la Corte dichiara la infondatezza delle
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 507
sollevate in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 76,
77, 101, 111 e 112 Cost. ed afferma che il potere
istruttorio del giudice del dibattimento, di cui
all’art. 507 non è affatto eccezionale, bensì suppletivo
rispetto a quello delle parti. Il Giudice delle leggi
afferma che una lettura in chiave limitativa del potere
ex art. 507 contrasta con “la ricerca della verità” che
rimane “il fine primario ed ineludibile del processo
penale”. Infatti il metodo dialogico che presiede alla
formazione della prova nel dibattimento, non può porsi
come un ostacolo al pieno accertamento dei fatti,
“altrimenti ne sarebbe risultata tradita la funzione
conoscitiva del processo, che discende dal principio di
legalità e da quel suo particolare aspetto costituito
dal principio di obbligatorietà dell’azione penale”.
Riprendendo le argomentazioni
affrontate nella Sentenza Martin, la Corte
Costituzionale ha evidenziato che il diritto alla prova,
pur rivestendo un ruolo centrale nel processo di parti,
non può escludere la “introduzione ad iniziativa del
giudice delle prove necessarie all’accertamento dei
fatti, rispetto alle quali le parti siano rimaste inerti
o dalla quali siano decadute”. Una simile conclusione
trova giustificazione nella previsione di numerosi
poteri d’ufficio riconosciuti al giudice nella fasi
dibattimentale (artt. 506, 508, 511, 511 bis) fra i
quali spicca proprio quello fissato dall’art. 507.
Nonostante gli interventi delle SS.
UU. e della Corte Costituzionale, non sono mancate
pronunce contrarie da parte delle singole sezioni della
Cassazione, le quali hanno restrinto i poteri officiosi
del giudice escludendo che essi possano esercitarsi in
caso di inerzia delle parti.
Si ricordino, ad esempio, la Cass.
Sez. V, 1 dicembre 2004, n. 15631 e la Cass. Sez. I, 30
gennaio 1995, Rizzo, Cass. Sez. I 28 settembre 1995,
Cass. Sez. I 8 luglio 2000, Cass. Sez. III 10 dicembre
1996, sentenze che “seppure talvolta accreditate come
espressione del contrario orientamento, sono in realtà
caratterizzate da peculiarità dei singoli casi che non
consentono di ritenerle adesive dell’uno o dell’altro
orientamento”.
Con sentenza 41281/2006, le SS. UU.
riaffermano in toto l’impianto argomentativo della
sentenza Martin alla luce dell’art. 111 Cost. in tema di
“giusto processo” e dichiarano che il potere del giudice
di disporre d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di
prova, ai sensi dell’art. 507, può essere esercitato pur
quando non vi sia stata precedente acquisizione di prove
che le parti avrebbero potuto chiedere e non hanno
chiesto, ma sempre che l’iniziativa probatoria si
necessaria e miri all’assunzione di una prova decisiva
nell’ambito delle prospettazioni delle parti.
La riforma dell’art. 111 Cost. ha,
infatti, solamente accentuato il principio fondante del
processo accusatorio, ossia quello secondo il quale la
prova si forma nel contraddittorio delle parti, ma non
ha in alcun modo inciso sul principio dispositivo che,
pur caratterizzando il processo accusatorio, non è stato
integralmente recepito nel codice di rito, cosa che
neppure è stata fatta per il processo civile, nel quale
quel principio trova la sua più ampia applicazione.
La Corte svolge alcune
considerazioni di tipo storico e comparatistico
ricordando il sistema nordamericano all’interno del
quale nel 1976 vi fu un’innovazione legislativa che
consentì la nomina d’ufficio dell’esperto indipendente
(expert witness) da parte del giudice ad opera della
Rule 706 delle Federal Rules of Evidence del 1975
riguardante sia il processo civile che quello penale.
Tale innovazione conferma normativamente una deroga del
principio dispositivo che peraltro la giurisprudenza
civile aveva già affermato, mentre permane ancora oggi
nella giurisprudenza penale un certo rifiuto
nell’applicazione della norma.
Si chiede la Suprema Corte: “Perché
mai non dovrebbe essere considerato terzo un giudice
scrupoloso che intende giudicare a ragion veduta e non
con informazioni conoscitive insufficienti ben sapendo
che è possibile colmare almeno una parte delle lacune
esistenti? È questo potere (da esercitare solo in caso
di assoluta necessità) un residuo del principio
inquisitorio oppure vale a fondare un processo veramente
«giusto»?”
In realtà l’attribuzione al giudice
dei poteri officiosi in materia di prova, lungi
dall’interferire sul principio di terzietà del giudice,
ha la funzione di fondare un “giusto processo”, funzione
che può essere perseguita colmando anche le eventuali
lacune delle parti qualora il giudice non si ritenga in
grado di decidere per la lacunosità o l’insufficienza
del materiale probatorio.
Si legge nella Sent. 41281/2006:
“senza neppure scomodare i grandi principi, in
particolare quello secondo cui lo scopo del processo è
l’accertamento della verità, si può ragionevolmente
affermare che la norma mira esclusivamente a
salvaguardare la completezza dell’accertamento
probatorio, sul presupposto che se le informazioni
probatorie a disposizione del giudice sono più ampie è
più probabile che la sentenza sia equa e che il giudizio
si mostri aderente ai fatti”.
A questo punto va rimarcata la
differenza logico-concettuale tra l’ipotesi di
incertezza probatoria all’origine dei poteri ex art. 507
e l’ambito in cui ricadono le situazioni contemplate
dall’art. 530 co. 2 cpp, nel quale si impone al giudice
di assolvere l’imputato quando la prova sia
insufficiente e contraddittoria.
Nel caso dell’art. 507 si tratta di
una valutazione afferente l’incompletezza del materiale
probatorio a cui può essere posto rimedio essendo emersa
in dibattimento una fonte che, astrattamente,
consentirebbe l’integrazione del thema probandum, mentre
nel caso delle ipotesi contemplate dall’art. 530 co. 2
si tratta di una regola di giudizio in base alla quale
la prova, pur esaurientemente raccolta nel corso
dell’istruttoria dibattimentale, si rivela inidonea a
fondare la colpevolezza dell’imputato. Le due norme in
esame hanno quindi un diverso oggetto.
Inoltre, l’attribuzione del potere
ex art. 507 mira a dare concretezza al principio
dell’obbligatorietà dell’azione penale,
costituzionalizzato nell’art. 112, il quale comporta la
necessità che il giudice possa e debba sempre verificare
l’esercizio da parte del pm dei suoi poteri di
iniziativa, come delle sue carenze od omissioni.
“Una limitazione dei poteri
probatori officiosi del giudice sarebbe idonea a
vanificare il principio dell’obbligatorietà dall’azione
penale e si porrebbe in palese contraddizione con
l’esistenza degli amplissimi poteri del giudice in tema
di richiesta di archiviazione del pm”.
Ciò a differenza dei sistemi
accusatori dei Paesi di commow law nei quali l’azione
penale non è obbligatoria ed il pm può rinunciare ad
essa anche per facta concludentia, ad esempio
rinunciando ad ammettere alcune prove.
Presupposto per l’esercizio del
potere officioso ex art. 507 è l’espletamento
dell’istruttoria dibattimentale. L’espressione
“terminata l’acquisizione delle prove” indica il limite
temporale decorso il quale il giudice può esercitare il
potere di integrazione probatoria, anche nel caso in cui
non vi sia stata alcuna precedente attività delle parti.
Pur recependo questa
interpretazione sostenuta da dottrina e giurisprudenza,
quest’ultima non si è tuttavia mostrata rigida
nell’applicazione della regola temporale stabilita
dall’art. 507. Si è, infatti, stabilito che l’assunzione
di una testimonianza disposta ai sensi dell’art. 507 in
un momento diverso rispetto a quello indicato dalla
norma costituisce mera irregolarità la quale non è
sanzionata né sotto il profilo della inutilizzabilità,
né di quello della nullità di ordine generale
ricollegabile all’art. 178 co. 1 lett. C cpp in quanto
l’escussione di un teste, “anticipata” rispetto al
termine dell’acquisizione delle prove, non incide
sull’assistenza, sulla rappresentanza o sull’intervento
dell’imputato.
La prova deve essere nuova,
assolutamente necessaria e pertinente.
Secondo le Sezioni Unite e la Corte
Costituzionale per “prova nuova” deve intendersi non
solo la prova sopravvenuta o scoperta successivamente
rispetto all’allegazione di parte a norma dell’art. 493
cpp, ma anche la prova non disposta precedentemente,
preesistente o sopravvenuta, conosciuta o non
conosciuta, purché risulti dagli atti.
Dalla lettera dell’art. 507 la
prova deve essere “assolutamente necessaria”, deve cioè
avere carattere di decisività, presupposto indefettibile
“diversamente da quanto avviene nell’esercizio ordinario
del potere dispositivo delle parti in cui si richiede
soltanto che le prove siano ammissibili e rilevanti”.
L’assunzione d’ufficio ex art. 507
presuppone l’assoluta impossibilità di decidere allo
stato degli atti, è una valutazione ampiamente
discrezionale e per questo può essere in concreto
contestata. Ma il giudice ha l’onere di motivare tale
assunzione di prove sicché, secondo la giurisprudenza,
l’eventuale carenza giustificativa determina un vizio di
motivazione passibile di determinare la nullità della
sentenza. Tale ordinamento giurisprudenziale è stato
criticato in dottrina in quanto rischia di vanificare
ogni tipo di controllo sull’operato del giudice.
Il canone dell’assoluta
necessarietà comporta quindi una più penetrante ed
approfondita valutazione di pertinenza e rilevanza delle
nuove prove, che è correlata alla più ampia conoscenza
dei fatti di causa già acquisita.
Una parte della dottrina sostiene
che la prova risulta assolutamente necessaria quando il
suo grado di rilevanza risulta indispensabile perché il
giudice possa superare l’incertezza probatoria ed
emettere una giusta decisione, un’altra parte, la quale
si riallaccia all’interpretazione maggiormente
restrittiva dell’art. 507, afferma che nuove
acquisizioni probatorie sono legittime solo in presenza
di un elemento emergente per la prima volta nel
dibattimento tale da incrinare la linearità della
costruzione del fatto.
Inoltre il potere integrativo può
essere esercitato solo nell’ambito delle prospettazioni
e non per supportare probatoriamente una diversa
ricostruzione che il giudice possa ipotizzare, giacché
diversamente si finirebbe con il pregiudicare il
basilare principio della terzietà del giudice. (Cass.
SS. UU. 30 ottobre 2003, n. 20, Andreotti).
Si legge nella sentenza per il
delitto Pecorelli: “la corte di assise di appello,
disancorandosi consapevolmente dalle ipotesi antagoniste
prospettate dall’accusa e dalla difesa ed esimendosi
dall’obbligo istituzionale di sciogliere i nodi del
confronto dialettico sviluppatosi, sia sulle ipotesi che
sulle prove, nel corso del giudizio di merito, ha deciso
di sottoporre a verifica giudiziale un proprio
«teorema»accusatorio, da essa formulato in via autonoma
ed alternativa, in violazione sia delle corrette regole
di valutazione della prova che del basilare principio di
terzietà della giurisdizione, anche rispetto ai problemi
implicati nel caso giudiziario”.
Circa la tipologia delle prove
assumibili è controversa la questione se il legislatore
abbia voluto circoscriverle o meno.
Se si segue la lettera dell’art.
507 sono da escludere i mezzi di ricerca della prova
(ispezione, perquisizione, sequestro probatorio,
intercettazione), salvo che tendano alla ricerca di una
cosa o di un documento la cui acquisizione sia per legge
obbligatoria o la cui esistenza o collocazione risulta
dagli atti.
Ma l’orientamento maggioritario
sostiene che la formula impiegata dal legislatore non
deve intendersi in senso riduttivo, perché sarebbe
frutto di una mera svista del legislatore, come
dimostrato sia dalla rubrica della norma (ammissione di
nuove prove), sia dal contenuto dell’omologa previsione
dell’art. 523 co. 6 cpp i quali si riferiscono entrambi
all’assunzione di nuove prove, espressione comprensiva
anche dei mezzi di ricerca della prova.
Nello stesso senso è orientata la
giurisprudenza, la quale sostiene che l’esercizio dei
poteri ex art. 507 comprende tutti i mezzi di prova
nuovi rispetto a quelli acquisiti ad iniziativa delle
parti, ivi compresi i mezzi di ricerca della prova.
In conclusione la Suprema Corte si
sofferma sulla posizione delle parti a fronte
dell’esercizio del potere integrativo officioso da parte
del giudice affermando: “resta integro il potere delle
parti di chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova –
secondo la regola indicata nell’art. 495 cpp co. 2
(prova contraria) – la cui assunzione si sia resa
necessaria a seguito dell’integrazione probatoria
disposta d’ufficio e, da diverso punto di vista, che
l’esercizio dei poteri in deroga al principio
dispositivo non fa venir meno l’onere del Pubblico
Ministero di provare il fondamento dell’accusa e, tanto
meno, l’obbligo per il giudice di rispettare i divieti
probatori esistenti”.
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