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SOMMARIO
Precedenti legislativi e ratio
dell’intervento legislativo;
L’indennità onnicomprensiva;
L’applicabilità della nuova
disciplina ai giudizi pendenti.-
PRECENDENTI LEGISLATIVI E RATIO
DELL’INTERVENTO LEGISLATIVO
Tra le tante modifiche apportate
alla L. 183/10, quelle più dirompenti sul piano pratico
sembrano essere quelle relative al contratto a termine.
Non a caso, una norma della predetta legge, l'art. 32, è
specificamente dedicata al contratto a termine, con il
seguente titolo: "Decadenze e disposizioni in materia di
contratto di lavoro a tempo determinato"; ciò fa capire
l’interesse mostrato dal legislatore nei confronti di
questo istituto.-
Il legislatore negli ultimi anni è
intervenuto con una certa frequenza nel diritto de
lavoro con l’intento di modificare la regolamentazione
di alcuni istituti, in relazione ai quali, giustamente,
si può richiamare la felice similitudine che descrive
il diritto del lavoro come un «cantiere aperto[1]».-
A questo destino non si è
sottratta la disciplina del contratto a termine, che,
dopo una fase di tranquillità, succeduta alla l. 18
aprile 1962, n. 230, è stata interessata da varie
incursioni legislative, che, con alterne fortune e con
ripensamenti, hanno reso un quadro d’insieme, che hanno
provocato dibattiti, contrasti in dottrina ed in
giurisprudenza, decisioni della Corte costituzionale,
che, a loro volta, hanno ulteriormente arricchito la
problematica relativa.-
A solo titolo esemplificativo basti
pensare al D. Lgs. 368/01.-
Tutti i commentatori dell’epoca
erano convinti che la riforma avrebbe provocato, tramite
il passaggio dal sistema chiuso a quello aperto, una
maggiore flessibilità nel ricorso a questa tipologia
contrattuale; tuttavia, la giurisprudenza che si è
sviluppata a seguito della richiamata disciplina del
2001, ha invece dimostrato che, con quella riforma, il
ricorso al contratto a termine è divenuto
paradossalmente meno flessibile, almeno per il datore di
lavoro.-
La riforma del 2008 prevedeva una
tutela appunto depotenziata nei confronti dei lavoratori
a termine che avessero, alla data di entrata in vigore
della riforma stessa, un giudizio pendente. Ma anche
questo tentativo venne demolito dalla Corte
costituzionale, che ne dichiarò l'illegittimità.-
In questa logica complessiva si
colloca la l. 4 novembre 2010, n. 183, che con l’art.
32, in maniera particolarmente incisiva, ha modificato
la disciplina del contratto a termine, in primo luogo
per quanto riguarda la decadenza dalla relativa
impugnazione: dispone, infatti, il co. 3 lett. d) che
il regime delle decadenze contenuta nell’art. 6 della
l. 15 luglio 1966 n. 604, come modificato dal co. 1
della stessa legge n. 183, si applica all’azione di
nullità del termine apposto al contratto di lavoro ai
sensi degli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. 6 settembre 2001,
n. 368 e successive modifiche, con termine decorrente
dalla scadenza del medesimo. Il successivo co. 4, lett.
a), verosimilmente nella logica di evitare un eventuale
problema di costituzionalità, precisa che tale normativa
si applica anche ai rapporti pendenti alla data in
vigore della legge (nel qual caso l’impugnativa va
proposta tenendo conto della scadenza del termine),
nonché ai contratti a termine stipulati in forza di
leggi previgenti al d.lgs. n. 368 e conclusi alla data
in vigore della legge in commento, nel qual caso la
decorrenza del termine per l’impugnativa è fissata dalla
data di entrata in vigore della nuova legge.-
Con questo ardito intervento,
quindi, si è introdotta una certa assimilazione, quanto
alle decadenze, con il licenziamento invalido, ma,
soprattutto, una evidente eccezione alla disciplina
dell’azione di nullità, che— come è noto — non è
sottoposta ad alcuna prescrizione (art. 1422 c.c.).-
L’intento perseguito dal
legislatore è quello di evitare che questa azione, nella
specie, possa essere fatta valere a distanza di anni
dalla conclusione del rapporto, esponendo il datore di
lavoro all’eventualità di essere chiamato a rispondere
dei danni patiti dal lavoratore per il periodo
intercorrente tra la cessazione del rapporto e la
sentenza che accerti la nullità.-
Si tratta di una scelta
condivisibile in un’epoca nella quale il ricorso a
figure contrattuali flessibili è ampiamente diffuso e
nella quale è quanto mai necessario che si abbia
chiarezza su questi rapporti, ormai entrati a pieno
titolo nell’attuale realtà socio-economica.
INDENNITA’ ONNICOMPRENSIVA
A distanza di poco più di 2 mesi
dall'entrata in vigore, le novità apportate dal
Collegato lavoro - legge n. 183/2010 - stanno dando
adito ad ampi dibattiti e, conseguentemente, si iniziano
a registrare i primi orientamenti giurisprudenziali.-
Infatti, copiose risultano essere
le sentenze applicative delle nuove regole
sull'impugnazione del contratto a termine e sulle
conseguenze risarcitorie nei casi di conversione del
contratto, in base a quanto previsto dall'art. 32 della
legge n. 183/2010[2].-
Pertanto, senza voler trattare qui
della disciplina del contratto a termine e, in
particolare, dell'effetto della declaratoria di nullità
del termine apposto al contratto, la presente
trattazione mira a fare un primo punto sugli
orientamenti che si stanno affermando da parte della
giurisprudenza.-
L’art. 32[3], dal comma 5 in
avanti, si concentra, sui contratti di lavoro a tempo
determinato. In particolare, il comma 5 prevede, nei
casi di conversione del contratto a tempo determinato
(evidentemente per difetto dei requisiti di forma e di
sostanza richiesti dal Dlgs n. 368/2001), la condanna
del datore di lavoro a risarcire il lavoratore con
un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra
un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto
riguardo ai criteri indicati nell’art. 8, legge n.
604/1966[4]. -
Prima di entrare nel merito delle
prime pronunce giurisprudenziali sul punto, è opportuno
soffermarsi sulle diverse posizioni dottrinali in merito
alla natura di questa problematica “indennità
onnicomprensiva”, se sostitutiva (della conversione del
rapporto e di ogni indennità risarcitoria ad essa
connessa), alternativa o aggiuntiva rispetto alla
disciplina generale.-
È stata prospettata la tesi che,
non prevedendo la norma espressamente la condanna
all’indennità come alternativa alla dichiarazione di
nullità del termine, non vengono meno gli effetti che a
tale accertamento conseguono, ossia, oltre alla
continuità del rapporto ed al pagamento delle
retribuzioni medio tempore maturate, anche l’indennità
in oggetto.-
E’ stata poi prospettata la
considerazione che, in tema di licenziamento
illegittimo, il lavoratore ha diritto al risarcimento
che va dall’illegittimo recesso alla reintegra (e
comunque in misura non inferiore a cinque mensilità),
nonché, qualora non opti per la continuazione del
rapporto, a 15 mensilità (art. 18, co. 5, l. 20 maggio
1970, n. 300).
La tesi non si sottrae a rilievi
critici.-
L’originario co. 4 bis aggiunto al
d.lgs. n. 368 con l’art. 21 d.l. 25 giugno 2008, n. 112,
convertito in l. 6 agosto 2008, n. 133, del quale è
stata dichiarata l’illegittimità costituzionale,
prevedeva «unicamente» il pagamento di un indennizzo.-
La mancata riproduzione di tale
avverbio nel co. 5 dell’art. 32 fa pensare che il
legislatore non abbia più voluto escludere la
dichiarazione di conversione del rapporto (e, quindi,
della permanenza del vincolo tra le parti), ma non pure
prevedere un indennizzo che si aggiunge al risarcimento
per il periodo nel quale il lavoratore non è stato messo
in condizione di prestare la sua opera.-
E che il legislatore abbia voluto
intendere questo è dimostrato dal fatto che, essendo la
dichiarazione di nullità del termine accompagnata dal
diritto al ristoro dei danni per il periodo in cui il
rapporto non ha avuto esecuzione, il co. 5 parla di
«condanna […] al risarcimento del lavoratore, stabilendo
un’indennità onnicomprensiva», espressione che
ovviamente non può che riferirsi a quel danno, che il
lavoratore ha subito. Del resto, proprio il richiamo
alle conseguenze risarcitorie del licenziamento
illegittimo, nel quale è previsto un indennizzo minimo
pari a cinque mensilità, conferma che con l’art. 32 si è
voluto forfettizzare il danno, sia pure in una fascia
compresa tra 2,5 e 12 mensilità.-
Per un altro orientamento,
completamente opposto, l'indennità di cui si parla deve
essere considerata aggiuntiva anche al diritto del
lavoratore di percepire le retribuzioni perdute dal
giorno della messa in mora a quello della sentenza.
Ancora una volta rileva il dato testuale della norma,
che lega la condanna al pagamento dell'indennità alla
conversione a tempo indeterminato del rapporto (che,
come si è detto, è il frutto di una domanda diversa da
quella, eventuale, finalizzata alla ricostituzione del
rapporto). Ciò porta inevitabilmente a concludere che
l'indennità rappresenta la sanzione all'illegittima
apposizione del termine e non alla disdetta del
contratto, tanto più che la quantificazione
dell'indennità si fonda sui criteri ex art. art. 30 c. 3
L. 183/10 (dimensioni e condizioni dell'attività
esercitata al datore di lavoro, situazione del mercato
del lavoro locale, anzianità e condizioni del
lavoratore, comportamento delle parti), che nulla hanno
a che vedere con i requisiti relativi al pagamento delle
retribuzioni perdute a seguito della disdetta del
contratto (offerta della prestazione lavorativa,
mancanza di fonte alternativa di reddito). Sul punto,
come detto, è già intervenuta la giurisprudenza di
merito[5] la quale, appigliandosi al semplice tenore
letterale della norma, che qualifica l’indennità
risarcitoria come onnicomprensiva, sostiene che la
stessa sia da intendersi inclusiva di ogni risarcimento
spettante al lavoratore, rimanendo salva la conversione
del contratto a termine in contratto a tempo
indeterminato (coerentemente a tale orientamento, anche
dai lavori preparatori, nel dossier di documentazione
del DDL 1441quater f, si desume che la previsione del
risarcimento del danno si aggiunge e non sostituisce il
ripristino del rapporto di lavoro […] non vi sia
conflitto tra la conversione a tempo indeterminato e
quella di definizione di risarcimento, anzi i due
termini coabitano”); così si pronunciano Tribunale
Milano 29 novembre 2010 nn. 4966 e 4971; 2 dicembre
2010, n. 5058, Tribunale di Trani 24 novembre 2010, n.
6808; Tribunale di Bari, 30 novembre 2010 n. 15017,
Tribunale di Milano 29 novembre 2010 nn. 4966 e 4971; 2
dicembre 2010, n. 505; 11 gennaio 2011 e Tribunale Roma
16 dicembre 2010, n. 2970: quest’ultimo, in riferimento
all’indennità risarcitoria, specifica che essendo
“onnicomprensiva”, esclude che possa permanere il
diritto del lavoratore al risarcimento da mora
accipiendi relativamente al periodo tra la cessazione
del rapporto e la sentenza dichiarativa della nullità
del termine.-
Di diverso tenore è, invece, la
decisione del Tribunale di Busto Arsizio 29 novembre
2010, n. 528 che, nel riconoscere la nullità del termine
apposto al contratto, per la totale mancanza delle
ragioni tecniche, organizzative, produttive e
sostitutive previste dall’art. 1 D.Lgs. n. 368/2001 – si
trattava, peraltro, di un lavoratore assunto dalle liste
di mobilità ai sensi dell’art. 8 della legge n. 223/1991
– ha dato applicazione alla indicata disposizione,
prevedendo, da un lato, la conversione automatica del
contratto, per nullità del termine e, dall’altro, la
condanna del datore di lavoro al pagamento sia delle
retribuzioni nel frattempo maturate, sia dell’indennità
risarcitoria prevista dalla norma.-
Alcuni Tribunali, tenendo conto
delle impugnative di costituzionalità proposte, hanno
emesso alcune pronunce di condanna parziale, cioè solo
sulla conversione del rapporto, mentre hanno disposto la
prosecuzione della causa per la definizione del
risarcimento (Tribunale di Roma 14 dicembre 2010 n.
19913 e Tribunale di Trani 6 dicembre 2010 n. 6952).-
A complicare l’applicazione delle
disposizioni sopra riportate si segnalano due ordinanze,
con le quali è stata sollevata la questione di
legittimità costituzionale in riferimento alle stesse
disposizioni in parola. Infatti, già il Giudice del
Tribunale di Trani[6] ha, con ordinanza del 20 dicembre
2010, sollevato la questione di legittimità delle
disposizioni di cui ai commi 5, 6 e 7 dell’art. 32, con
riguardo agli artt. 3, 11, 24, 101, 102, 111 e 117
Cost., principalmente per la disparità di trattamento,
che verrebbe a determinarsi per effetto della previsione
di un’indennità omnicomprensiva diretta a “contenere le
lungaggini del processo”, per non parlare della perdita
del diritto alla ricostruzione previdenziale del
rapporto di lavoro. Per il giudice del Tribunale di
Trani “non avrebbe alcun senso logico (prima ancora che
giuridico) parlare di conversione (e, quindi di
ricostruzione ex tunc) di un rapporto, se a questa non
si ricolleghi pure il diritto del lavoratore a
percepire- così come accade per i licenziamenti
illegittimi intimati in area di stabilità reale – tutte
le retribuzioni (a partire dalla lettera di messa in
mora e fino all’effettiva reintegra, al netto
dell’aliunde perceptum) e, soprattutto, il diritto a
beneficiare della regolarizzazione della posizione
contributiva”.-
A ciò si aggiunge la questione di
legittimità avanzata, in riferimento all’art. 32, commi
5 e 6, con ordinanza del 20 gennaio 2011, n. 2112 dalla
Corte di Cassazione. Secondo la Cassazione l’indennità,
definita come onnicomprensiva, “acquista significato
solo escludendo qualsiasi altro credito del lavoratore,
indennitario o risarcitorio: pertanto, i commi 5 e 6
escludono ogni tutela reale e lasciano la possibile,
grave sproporzione fra indennità e danno effettivo,
connesso al perdurare dell’illecito”; con ciò
dimostrando, non solo di essere in contrasto con i
principi di ragionevolezza nonché di effettività del
rimedio giurisdizionale di cui agli artt. 3, comma 2, 24
e 111 Cost., ma anche di ledere il diritto al lavoro,
riconosciuto a tutti i cittadini dall’art. 4 Cost:
inoltre, la sproporzione tra la tenue indennità ed il
danno, che comporterebbe, per contro, lo spostamento sul
datore di lavoro di comportamenti da qualificarsi come
dilatori, assecondando le lungaggini del processo,
sembra contravvenire all’accordo quadro sul contratto a
tempo determinato e alla direttiva comunitaria 1999/70,
che impone agli stati membri di “prevenire efficacemente
l’utilizzazione abusiva di contratti o rapporti di
lavoro a tempo determinato”.-
Per i sostenitori di questa tesi,
una diversa interpretazione porrebbe seri dubbi di
legittimità costituzionale della norma, in particolare
nel caso in cui la durata del processo fosse tale da
rendere l'indennità in questione insufficiente a coprire
il reale depauperamento del lavoratore. In primo luogo,
si configurerebbe la violazione dell'art. 3 Cost.,
giacché due lavoratori a termine, che avessero subito lo
stesso illecito, sarebbero trattati diversamente,
ottenendo un risarcimento sufficiente o incongruo a
seconda della durata del processo. Il lavoratore a
termine sarebbe trattato differentemente, quanto alla
tutela risarcitoria, anche rispetto a ogni altro
lavoratore, che abbia illegittimamente perduto il posto
di lavoro nell'ambito della tutela reale: quest'ultimo
percepirebbe l'integrale ristoro delle retribuzioni
perdute (ex art. 18 SL o in base ai principi comuni nel
caso di licenziamento nullo o di applicazione dell'art.
27 D. Lgs. 276/03), a differenza del lavoratore a
termine che, nonostante la tutela reale, potrebbe
percepire un trattamento risarcitorio insufficiente a
coprire tutte le retribuzioni perdute[7].-
In secondo luogo, verrebbe violato
l'art. 36 Cost., giacché il lavoratore (pur in pendenza
del rapporto, per effetto della ricostituzione a opera
del giudice) sarebbe almeno in parte privato della
retribuzione equa e sufficiente. Infine, sarebbe violato
il principio del giusto processo ex art. 24 Cost.:
evidentemente, il limite al risarcimento massimo
incentiverebbe comportamenti processuali dilatori da
parte del datore di lavoro.-
Qui di seguito si riporta la tesi
del Prof. Antonio Vallebona[8], che appare fortemente
condivisibile: “L’«indennità» assorbe qualsiasi
«risarcimento», come risulta dall’aggettivo
«onnicomprensiva» che appalesa l’intenzione del
legislatore di predeterminare e non di accrescere il
risarcimento. Assorbe, quindi, sicuramente il
risarcimento da mora accipiendi per il periodo dalla
fine del lavoro alla sentenza dichiarativa della nullità
del termine, secondo la qualificazione del consolidato
orientamento anche delle Sezioni Unite, che,
coerentemente con la natura risarcitoria e non
retributiva del credito, impone l’offerta della
prestazione e ammette la detrazione dell’aliunde
perceptum e percipiendum.
Pertanto non è proponibile una
valutazione in termini di retribuzione con riferimento
all’art. 36 Costituzione, anche perché qui manca la
prestazione lavorativa.-
Del resto la ragionevolezza, in
conformità all’art. 3 Costituzione, del regime speciale,
sotto tutti i punti di vista, è sicura perché
sostituisce la liquidazione del risarcimento, finora
effettuata caso per caso dal giudice anche mediante
presunzioni semplici o giurisprudenziali sull’aliunde
perceptum e percipiendum, con una indennità comunque
dovuta a prescindere da un danno effettivo. I limiti
dell’indennità predeterminati dal legislatore tengono
conto, in un equilibrato bilanciamento degli interessi,
del vantaggio per il lavoratore derivante dal
mantenimento della regola di «conversione», senza
neppure decadenza in caso di violazione delle regole
sulla successione di contratti, e della intollerabile
incertezza sull’ammontare del risarcimento appunto
sostituendo una valutazione legale tipica alle ricordate
presunzioni.
Non può dirsi, dunque, con
superficialità che il nuovo regime sia per definizione
peggiorativo del precedente per il lavoratore, poiché,
in un mercato del lavoro con tanti posti rifiutati dagli
italiani, da rendere necessarie sanatorie per centinaia
di migliaia di extracomunitari, che li occupano, sarebbe
davvero arduo sostenere che la diligente ricerca di una
qualsiasi occupazione, tutte con pari dignità, possa
normalmente superare i dodici mesi. Né potrebbe
affermarsi che, nelle more a volte lunghissime della
sentenza di “conversione” ormai per definizione
irrilevanti nel nuovo regime indennitario, il lavoratore
possa restare in panciolle, sol perché non trova
un’occupazione professionalmente equivalente a quella
che spera di ottenere con detta sentenza. Il precedente
regime, nei casi di lassismo giurisprudenziale,
incentivava l’ignavia o, peggio, il lavoro nero, sicché
la valutazione del nuovo regime non può prescindere da
questa fondamentale considerazione, se davvero si hanno
a cuore le sorti di un Paese che non può più consentirsi
ipocrisie e condotte speculative”.-
Del resto, quand’anche si ritenesse
il nuovo regime sfavorevole per il lavoratore rispetto
al precedente, agevolmente sarebbe escluso qualsiasi
dubbio di costituzionalità non solo per le assorbenti
ragioni esposte, ma anche perché il legislatore ben può,
nell’esercizio della sua ragionevole discrezionalità,
ripartire tra le parti i rischi dell’incertezza in un
processo lungo, evitando che questo possa accrescere la
posta in gioco oltre un certo limite.-
Né si pongono problemi di
conformità al diritto comunitario, che da un lato lascia
al legislatore nazionale la scelta di prevedere «se del
caso» la trasformazione, qui comunque confermata ex
nunc, in contratto a tempo indeterminato della serie
illegittima di contratti a termine, come è stato
riconosciuto proprio per l’esclusione di tale regola
nella disciplina italiana del lavoro pubblico, e
dall’altro lato, ove pure fosse configurabile un
regresso del livello generale di tutela, consente
arretramenti purché riferibili ad un «valido motivo» di
politica legislativa, qui, come si è visto, tuttavia, da
dimostrare.-
Appare ragionevole anche la
riduzione alla metà dell’indennità in esame, qualora,
secondo la lettura preferibile, il lavoratore già
occupato a termine scelga di non avvalersi del diritto
all’assunzione a termine o a tempo indeterminato
previsto dal contratto collettivo preferendo far valere
la nullità del termine con le conseguenze di legge (art.
32, comma 6).-
Non è leso, infatti, il diritto di
azione in giudizio e resta salvo, in caso di vittoria
del lavoratore, l’accertamento di un rapporto di lavoro
a tempo indeterminato, riducendosi solo l’indennità per
il passato quale incentivo alla adesione alla soluzione
pacifica concordata dalle organizzazioni sindacali
«comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale».-
Alla luce di quanto la
giurisprudenza sta producendo sul punto, appare chiaro
che il dibattito, seppure ancora agli inizi, stante la
recentissima promulgazione della legge, dopo un lungo
travaglio, è ormai aperto; sicchè, dato il contrasto
dottrinale e giurisprudenziale, doverosa è l’attesa di
una pronuncia interpretativa della Corte
Costituzionale.-
APPLICABILITA’ DELLA DISCIPLINA
Altra e connessa problematica su
cui i giudici hanno iniziato a pronunciarsi[9] è data
dalla previsione di cui al comma 7 dello stesso art.
32[10], il quale riconosce l'applicabilità delle
disposizioni di cui ai commi 5 e 6 anche ai giudizi
pendenti alla data di entrata in vigore del Collegato.
Sul punto, si registrano due tesi contrapposte: la prima
sostiene l'applicabilità della nuova norma ai soli
giudizi pendenti in primo grado (Corte d'Appello di Roma
30 novembre 2010); la seconda, ritiene, invece, che la
stessa debba essere riferita a tutti i giudizi, ivi
compresi quelli in Cassazione (Cass. 20 gennaio 2011, n.
2112).-
Preliminarmente, bisogna osservare
che attenendosi ad una rigorosa lettura letterale del
testo di legge[11], il legislatore si riferisce ai soli
giudizi pendenti in primo grado: infatti, il testo di
legge l'art. 421 c.p.c., contemplato dalla norma,
disciplina i poteri istruttori del giudice di primo
grado, mentre i medesimi poteri del giudice dell'appello
sono trattati all'art. 437, comma 2, c.p.c.; di qui la
conseguenza che, non essendoci nessun riferimento ai
poteri in appello del giudice, la norma non apparrebbe
riferibile al secondo grado.- A maggior ragione, la
norma non contempla i giudizi pendenti avanti la Corte
di Cassazione, dove, come tutti sanno, non può esservi
istruttoria.-
In ogni caso, la norma sembrerebbe
di dubbia legittimità costituzionale. La Corte
costituzionale, con la sentenza n. 311 del 2009, ha
recepito, in virtù del rinvio realizzato tramite l'art.
117, 1° comma, Costituzione, il divieto di interventi
legislativi retroattivi anche in materia civile,
contemplando come eccezione la sola ipotesi che tali
interventi retroattivi siano dovuti a motivi imperativi
di interessi generali, così accogliendo
l'interpretazione dell'art. 6 della Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali, come proposta in alcune sentenze
della Corte Europea dei diritti dell'uomo. Per questo
motivo, ogni disposizione retroattiva contenuta nella L.
183/10 è irrimediabilmente illegittima.-
Ma qui, come detto, si verrebbe a
creare un notevole, e forse insuperabile, conflitto
interpretativo, rispetto a quanto detto a proposito
della disciplina dell’indennità onnicomprensiva.-
Altra parte della dottrina,
tuttavia, ritiene che l’efficacia retroattiva è
pienamente legittima, non trattandosi di norma penale ed
essendo assolutamente ragionevole che il nuovo regime
speciale investa, nel limite indicato, anche il passato,
per le stesse esigenze, che ne hanno consigliato
l’introduzione.-
Questa retroattività, oltretutto,
soddisfa una esigenza di parificazione di trattamento di
situazioni eguali a prescindere dalla data di
introduzione del giudizio, evitando così proprio quella
disparità, che ha fatto dichiarare incostituzionale la
nota ricordata disposizione dell’art. 21, comma 1 bis,
L. n. 133/2008, che modificava la disciplina per i soli
giudizi in corso.-
Del resto è noto che l’unico limite
di costituzionalità alla retroattività della legge in
materia civile è la sua ragionevolezza o, meglio, non
manifesta irragionevolezza.-
Mentre, nel caso in esame, per il
detto orientamento, è completamente fuori luogo invocare
la giurisprudenza della CEDU, in quanto: a) la Corte di
Strasburgo ritiene che «in linea di principio non è
vietato al legislatore di regolare in materia civile con
nuove disposizioni retroattive diritti derivanti dalla
legge in vigore» (CEDU, sez. III, 2 giugno 2007, c.
12106/03); b) la Corte costituzionale ha affermato che
«deve escludersi l’esistenza di un principio, secondo
cui la necessaria incidenza delle norme retroattive sui
procedimenti in corso si porrebbe automaticamente in
contrasto con la Convenzione europea», in quanto «la
Corte di Strasburgo non ha inteso enunciare un divieto
assoluto di ingerenza del legislatore» (Corte cost. n.
311/2009); c) un limite alla retroattività della legge
civile, in base alla Convenzione europea, è ravvisato
solo nella interferenza del legislatore
«nell’amministrazione della giustizia allo scopo di
influire sulla singola causa o su di una determinata
categoria di controversie attraverso norme
interpretative, che assegnino alla disposizione
interpretata un significato vantaggioso per lo Stato
parte del procedimento, salvo il caso di ragioni
imperative di interesse generale » (Cass. ord. di
rimessione n. 400/2008, come riportata da Corte cost. n.
311/2009, che ha rigettato la questione); d) nel nostro
caso si tratta di una norma, che non riguarda lo Stato
parte, e che ha carattere generale, introducendo una
nuova disciplina a regime dell’istituto, la cui
retroattività non è conseguentemente diretta a
interferire sulla decisione di specifiche controversie,
ma a parificare il trattamento di situazioni eguali a
prescindere dalla data di introduzione del giudizio, nel
rispetto dei processi già decisi in primo grado.-
Pare opportuno, infine, segnalare,
il recente orientamento giurisprudenziale in merito
all'applicazione retroattiva della nuova disposizione.
In particolare, si è chiarito che la retroattività della
condanna, di cui all'art. 32, trova un limite qualora si
sia già formato un giudicato sulla domanda di
risarcimento, avendo quest'ultima un suo carattere di
individualità ed autonomia rispetto alla domanda di
declaratoria di nullità del termine apposto al
contratto. Pertanto, nel caso in cui la statuizione
relativa alla condanna risarcitoria non sia stata
specificatamente impugnata, sulla stessa si formerebbe
il giudicato ai sensi dell'art. 324 c.p.c. (Cass. 3
gennaio 2011, n. 65).
Inoltre, secondo altro orientamento
circa l'applicazione dello ius superveniens, in merito
alle conseguenze economiche derivanti dalla conversione
del contratto di cui all'art. 32, comma 5 e seguenti del
Collegato, si è specificato che è necessario che i
motivi del ricorso investano specificatamente la
questione del risarcimento in maniera diretta e che essi
non siano tardivi, generici o non pertinenti. Pertanto,
in caso di assenza o di inammissibilità di una censura
in ordine alle conseguenze patrimoniali dell'accertata
nullità del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale
aspetto pregiudiziale produce, infatti, la stabilità
delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze
(Cass. 4 gennaio 2011, n. 80).-
A parere di chi scrive, la norma va
intesa come riferita solo ai giudizi pendenti in primo
grado, come risulta dalla espressa previsione di
integrabilità di domande ed eccezioni – non escluso il
riferimento ai poteri istruttori di cui all’art. 421
c.p.c., caposaldo del processo di primo grado - e non
dei motivi di impugnazione.- Anche perché l’applicazione
in grado di appello o in Cassazione non solo
prolungherebbe irragionevolmente la durata del processo,
tra l’altro costringendo sempre ad una cassazione con
rinvio, ma equivarrebbe ad un inopportuno travolgimento
di una sentenza già emanata.-
[1] Espressione utilizzata dal
Presidente Onorario aggiunto della Corte di Cassazione,
dott. Giuseppe Ianniruberto, nella sua analisi “Il
contratto a termine dopo la legge 4-11-2010 n. 183”.-
[2] Il Comma 3, estende
l'applicazione delle disposizioni di cui all’art. 6
della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal
comma 1 dello stesso a tutti “i licenziamenti che
presuppongano controversie aventi ad oggetto sia la
corretta qualificazione del rapporto di lavoro sia la
legittimità dell’apposizione del termine al contratto”
(lett. a) ed anche all'azione di nullità del termine
apposto in violazione delle disposizioni di cui agli
artt. 1, 2 (disciplina aggiuntiva per il trasporto aereo
ed i servizi aeroportuali) e 4 del D.lgs 368/2001, con
termine decorrente dalla scadenza del medesimo (lett.
d).
- Comma 4: Estensione della
disciplina della legge sui licenziamenti individuali,
così come novellata, ai contratti di lavoro a termine
stipulati ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del D.lgs
368/2001 in corso di esecuzione alla data di entrata in
vigore della legge di riforma (lett. a) e già conclusi
alla data di entrata in vigore del Collegato e con
decorrenza dalle medesima (lett. b).
- Comma 5 (Indennità
onnicomprensiva): “Nei casi di conversione del contratto
a tempo determinato, il giudice condanna il datore di
lavoro al solo risarcimento del lavoratore stabilendo
un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra
un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità
dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto
riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge
15 luglio 1966, n. 604”.
- Comma 6 (Ipotesi di riduzione
dell’indennità): “In presenza di contratti o accordi
collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati
con le organizzazioni sindacali comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale, che prevedano
l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori
già occupati con contratto a termine nell’ambito di
specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità
fissata dal comma 5 è ridotto della metà.”
- Comma 7 (Disciplina di cui ai
commi 5 e 6 e giudizi pendenti): “Quanto statuito nei
due commi precedenti trova applicazione rispetto a tutti
i giudizi, compresi quelli pendenti alla data di entrata
in vigore della riforma, con la specificazione per cui,
in riferimento a questi ultimi, e ove necessario, ai
soli fini della determinazione della indennità di cui ai
commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per
l’eventuale integrazione della domanda e delle relative
eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi
dell’art. 421 del codice di procedura civile”.
[3] Quanto all’ambito di
applicazione dell’indennità sostitutiva, si evidenzia
come il Collegato utilizzi una formula ampia,
riferendosi genericamente “ai contratti a termine”, il
che non esclude espressamente tipologie contrattuali
diverse dal lavoro a tempo determinato ex art. 368/2001
(nelle prime sentenze, 30 novembre 2010 n. 18986 e 1°
dicembre 2010, n. 19101, il Tribunale di Roma, considera
pacifica l’applicabilità dell’indennità sostitutiva del
risarcimento ai casi di somministrazione irregolare, il
tribunale di Milano parrebbe di diverso avviso).-
[4] È opportuno segnalare che resta
la differenza di disciplina rispetto al lavoro alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in quanto,
ai sensi dell’art. 36, co. 6, d.lgs. 30 marzo 2001, n.
165, la violazione delle disposizioni imperative
riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori non
può mai comportare la costituzione di rapporti a tempo
indeterminato, ma il lavoratore ha solamente diritto al
risarcimento dei danni derivanti dalla prestazione di
lavoro in violazione di disposizioni normative.-
[5] Rassegna di giurisprudenza
prelevata dalla banca dati giuridica Lex24
(www.lex24.ilsole24ore.com)
Tribunale Milano 29 novembre 2010
n. 4966:: “Nel caso di scadenza di un contratto di
lavoro a termine illegittimamente stipulato e di
comunicazione da parte del datore di lavoro della
conseguente disdetta, non è applicabile - tenuto conto
della specialità della disciplina della L. n. 230/1962 e
della qualificabilità dell'azione diretta
all'accertamento dell'illegittimità del termine come
azione di nullità parziale del contratto e non come
impugnazione del licenziamento - la norma dell'art. 18
L. n. 300/1970 relativa alla reintegrazione nel posto di
lavoro. Il contratto, come dice l'art. 32, c. 5 della L.
n. 183/2010, si converte in contratto a tempo
indeterminato. In casi del genere, non spetta la
retribuzione, e questo anche se la parte ricorrente
avesse provveduto ad offrire la prestazione all'azienda,
determinando una situazione di mora accipiendi del
datore di lavoro. Inoltre, vista l'onnicomprensività
dell'indennizzo in tal modo specificato, non va
considerato l'aliunde perceptum”.-
Tribunale di Milano 29 novembre
2010 n. 4971 :”L'art. 32, c. 5 della L. n. 183/2010
conferma che all'illegittima apposizione di termine
finale al rapporto di lavoro consegue la conversione in
rapporto a tempo indeterminato: a tale conversione
consegue il diritto del ricorrente al risarcimento del
danno da stabilirsi in ?un'indennità onnicomprensiva
nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo
di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di
fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo
8 della legge 15 luglio 1966, n. 604?: pertanto, tale
indennità è da intendersi inclusiva di ogni risarcimento
spettante al lavoratore, rimanendo salva la conversione
del contratto a termine in contratto a tempo
indeterminato”.
Tribunale di Milano 2 dicembre 2010
n. 5058: “Quanto alle conseguenze economiche della
statuizione dell'illegittimità del termine apposto al
contratto si considera che sul punto è intervenuto l'art
32, c. 5 della L. n. 183/2010 che prevede un'indennità
onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di
2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima
retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri
indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n.
604: l'indennizzo è da intendersi come sostitutivo del
risarcimento del danno ma si cumula alla conversione del
rapporto in rapporto a tempo indeterminato”.
Tribunale Roma 16 dicembre 2010 n.
2970: “In riferimento all'indennità risarcitoria di cui
all'art. 32, c. 5 della L. n. 183/2010, conseguente alla
conversione del contratto a tempo determinato, si
specifica che, essendo onnicomprensiva, esclude che
possa permanere il diritto del lavoratore al
risarcimento da mora accipiendi relativamente al periodo
tra la cessazione del rapporto e la sentenza
dichiarativa della nullità del termine”.
Tribunale di Milano 25-2-2011:
“L’indennità forfettaria prevista nella norma (fra 2,5 e
12 mensilità) deve ritenersi sostitutiva e non
aggiuntiva dell’indennità ordinaria”.
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro
, Ordinanza del 28 gennaio 2011, n. 2112: “L'indennità
prevista dall'articolo 32, commi 5 e 6, della legge 4
novembre 2010 n. 183, esclude qualsiasi altro credito,
indennitario o risarcitorio, del lavoratore e si
applica, alla stregua del comma 7, anche ai giudizi
pendenti in Cassazione. Non sono manifestamente
infondate le questioni di legittimità costituzionale
dell'articolo 32, commi 5 e 6, della legge citata, con
riferimento agli articoli 3, 4, 24, 111 e 117 della
Costituzione”.
Tribunale Busto Arsizio Civile,
Sentenza del 29 novembre 2010, n. 528: “La mancata
indicazione, in forma scritta, delle ragioni di
carattere tecnico, produttivo, organizzativo e
sostitutivo che giustificano il ricorso alla fattispecie
del lavoro a tempo determinato comporta la conversione
del rapporto, al pagamento, a titolo di risarcimento del
danno, delle retribuzioni non percepite dalla messa in
mora sino alla riammissione in servizio, nonché, alla
luce della recente novella legislativa introdotta con
legge n. 183/2010,l'obbligo di corrispondere al
prestatore una sanzione economica compresa tra un minimo
di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima
retribuzione globale di fatto”.
Tribunale di Busto Arsizio, 29
novembre 2010 n. 528: “In caso di nullità del termine
apposto al contratto, per la totale mancanza delle
ragioni tecniche, organizzative, produttive e
sostitutive previste dall'art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001
- nel caso di specie si tratta di un lavoratore assunto
dalle liste di mobilità ai sensi dell'art. 8 della L. n.
223/1991 - si applica la disposizione di cui all'art. 32
c. 5 della L. n. 183/2010: quest'ultima prevede da un
lato, la conversione automatica del contratto, per
nullità del termine e, dall'altro, la condanna del
datore di lavoro al pagamento sia delle retribuzioni nel
frattempo maturate, sia dell'indennità risarcitoria
prevista dalla novella: pertanto, l'indennità introdotta
dal collegato lavoro è da intendersi in via cumulativa –
e non invece, in via alternativa – rispetto alla tutela
risarcitoria ordinaria”.
Tribunale di Trani, ordinanza del
20 dicembre 2010: “Le disposizioni di cui ai c. 5, 6 e 7
dell'art. 32, evidenziano un contrasto con riguardo agli
artt. 3, 11, 24, 101, 102, 111 e 117 Cost.
principalmente per la disparità di trattamento che
verrebbe a determinarsi per effetto della previsione di
un'indennità omnicomprensiva diretta a contenere le
lungaggini del processo, per non parlare della perdita
del diritto alla ricostruzione previdenziale del
rapporto di lavoro. Non avrebbe alcun senso logico
(prima ancora che giuridico) parlare di conversione (e,
quindi di ricostruzione ex tunc) di un rapporto, se a
questa non si ricolleghi pure il diritto del lavoratore
a percepire – così come accade per i licenziamenti
illegittimi intimati in area di stabilità reale – tutte
le retribuzioni (a partire dalla lettera di messa in
mora e fino all'effettiva reintegra, al netto
dell'aliunde perceptum) e, soprattutto, il diritto a
beneficiare della regolarizzazione della posizione
contributiva. Infatti, il lavoratore, che è
illegittimamente assunto a termine, finisce per
diventare un moderno capite deminutus a cui vengono
negati i diritti riconosciuti agli uomini liberi: il che
comporta la violazione di una quantità incredibile di
norme costituzionali...[…].l'art. 32 della L. 183/2010,
omettendo di dare rilevanza alle lungaggini processuali
e contenendo ingiustificatamente l'importo risarcibile,
finisce per farne pagare il costo solo all'incolpevole
lavoratore, nonostante che questi non possa porre in
essere comportamenti virtuosi, tesi cioè a limitare
l'entità del danno risarcibile”.
[6] Dott.ssa Maria Antonietta
Lanotte Chirone
[7] Ancora con riferimento alla
indennità omnicomprensiva introdotta dall'art. 32 della
legge n. 183/2010 l'Inps con la Circolare n. 40 del 22
febbraio 2011 ha chiarito che per la natura risarcitoria
della somma l'indennità va esclusa dalla base imponibile
ai fini contributivi.
[8] “Lavoro a termine illegittimo
per il Collegato Lavoro 2010: l’indennità per il periodo
fino alla sentenza” di Antonio Vallebona, Professore
Ordinario di Diritto del Lavoro nell’Università di Roma
“Tor Vergata”, in “Il lavoro nella Giurisprudenza
1/11”.-
[9] Corte d'Appello di Roma 30
novembre 2010 : “In merito al c. 7 dell'art. 32 della L.
n. 183/2010, il quale recita ?le disposizioni di cui ai
commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi,
ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in
vigore della presente legge, si opina che la tesi
dell'applicabilità della norma sopravvenuta ai soli
giudizi pendenti in primo grado meglio si concilia con i
limiti derivanti dalle regole che governano il giudizio
d'appello, nell'ambito del quale, all'esito del
progressivo verificarsi di effetti preclusivi derivanti
dal tenore dei motivi di censura e dai comportamenti
processuali delle parti, la materia del contendere viene
via via a ridursi, con la conseguenza che tutto quanto
non risulta essere più dibattuto (o mai dibattuto),
resta insensibile alla nuova disposizione legislativa,
la cui applicazione presuppone specifiche deduzioni
anche in punto di fatto.)”
Cassazione, ordinanza 20 gennaio
2011 n. 2112: “Prendendo a fondamento il dato letterale
della disposizione di cui al c. 7 dell'art. 32 della L.
n. 183/2010, il quale recita ?le disposizioni di cui ai
commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi,
ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in
vigore della presente legge, si ritiene che la stessa
debba essere riferita a tutti i giudizi, ivi compresi
quelli in Cassazione. Infatti ?la soluzione negativa
equivarrebbe a discriminare tra situazioni diverse in
base alla circostanza, del tutto accidentale, di una
pendenza della lite giudiziaria, in una o altra fase,
tra le parti del rapporto di lavoro. Inoltre,
l'indennità, definita come onnicomprensiva, acquista
significato solo escludendo qualsiasi altro credito del
lavoratore, indennitario o risarcitorio: pertanto, i
commi 5 e 6 escludono ogni tutela reale e lasciano la
possibile, grave sproporzione fra indennità e danno
effettivo, connesso al perdurare dell'illecito. Con ciò
dimostrando, non solo di essere in contrasto con i
principi di ragionevolezza, nonché di effettività del
rimedio giurisdizionale di cui agli artt. 3, 2° c., 24 e
111 Cost., ma anche di ledere il diritto al lavoro,
riconosciuto a tutti i cittadini dall'art. 4 Cost. La
sproporzione tra la tenue indennità ed il danno, che
comporterebbe, per contro, lo spostamento sul datore di
lavoro di comportamenti da qualificarsi come dilatori,
assecondando le lungaggini del processo, sembra
contravvenire all'accordo quadro sul contratto a tempo
determinato e alla direttiva comunitaria 1999/70, che
impone agli stati membri di prevenire efficacemente
l'utilizzazione abusiva di contratti o rapporti di
lavoro a tempo determinato”.
Cassazione 3 gennaio 2011, n. 65
“In merito all'applicazione retroattiva della nuova
disposizione di cui all'art. 32, c. 5 e seguenti della
L. n. 183/2010, si è chiarito che la retroattività della
condanna di cui allo stesso art. 32 trova un limite
qualora si sia già formato un giudicato sulla domanda di
risarcimento, avendo quest'ultima un suo carattere di
individualità ed autonomia rispetto alla domanda di
declaratoria di nullità del termine apposto al
contratto. Pertanto, nel caso in cui la statuizione
relativa alla condanna risarcitoria non sia stata
specificatamente impugnata, sulla stessa si formerebbe
il giudicato ai sensi dell'art. 324 c.p.c”.
Cassazione 4 gennaio 2011, n. 80
“Circa l'applicazione dello ius superveniens, in merito
alle conseguenze economiche derivanti dalla conversione
del contratto di cui all'art. 32, c. 5 e seguenti della
L. n. 183/2010, si è specificato che è necessario che i
motivi del ricorso investano specificatamente la
questione del risarcimento in maniera diretta e che essi
non siano tardivi, generici o non pertinenti. Pertanto,
in caso di assenza o di inammissibilità di una censura
in ordine alle conseguenze patrimoniali dell'accertata
nullità del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale
aspetto pregiudiziale produce la stabilità delle
statuizioni di merito relative a tali conseguenze”.
L’Ufficio del massimario della
Corte di Cassazione ha altresì presentato, il 12 gennaio
2011, una approfondita relazione tematica che affronta
le “problematiche interpretative dell’art. 32, commi
5-7, della legge n. 183/2010 alla luce della
giurisprudenza comunitaria, CEDU, costituzionale e di
legittimità”.
La Suprema Corte giunge alla
seguente conclusione: “Da tutto quanto ampiamente fin
qui rilevato, emerge che, secondo un’interpretazione
costituzionalmente orientata e comunitariamente
adeguata, in linea con il principio di effettività ed
adeguatezza delle sanzioni, con il principio di parità
di trattamento e con la clausola di non regresso delle
tutele, l’indennità di cui all’art. 32, commi. 5-6,
della legge n. 183 del 2010 può ritenersi essere
aggiuntiva rispetto alle tradizionali tutele (incidendo
solo sulla limitazione del danno risarcibile), dovendo
escludersi per converso che essa possa essere
sostitutiva della conversione del rapporto, o del
diritto al pagamento delle retribuzioni da parte del
datore che abbia rifiutato la prestazione offerta, pur
dopo la scadenza del termine illegittimamente apposto.
Osserva l’Ufficio del Massimario
che la nuova disciplina, applicabile anche nei giudizi
pendenti, da un lato si riferisce ai casi di
“conversione”, dall’altro lato prevede a carico del
datore una indennità “onnicomprensiva”; il comma 6
ulteriormente ridimensiona le conseguenze risarcitorie
che scaturiscono dall’accertamento della natura
indeterminata del rapporto, riducendo della metà
l’indennità in presenza di contratti o accordi
collettivi nazionali, territoriali o aziendali,
stipulati con le organizzazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo
indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto
a termine nell’ambito di specifiche graduatorie: la
regola attiene all’ipotesi in cui, verosimilmente per
far fronte a un contenzioso seriale di notevole
dimensione, le parti sociali abbiano predisposto una
graduatoria nominativa dei lavoratori già occupati a
termine, per i quali sia prevista nel tempo l’assunzione
a tempo indeterminato o a termine, e, nondimeno, il
lavoratore abbia agito in giudizio per far valere la
nullità, senza attendere la maturazione del proprio
diritto secondo la convenzione.
[10]Le disposizioni, generale e
speciale, sull’indennità si applicano anche ai «giudizi
pendenti alla data di entrata in vigore della presente
legge», con rimessione in termini per ogni occorrenza
[11] Le disposizioni di cui ai
commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi,
ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in
vigore della presente legge. Con riferimento a tali
ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della
determinazione della indennita' di cui ai commi 5 e 6,
il giudice fissa alle parti un termine per l'eventuale
integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed
esercita i poteri istruttori ai sensi dell'articolo 421
del codice di procedura civile. |