Lo spostamento su scala globale di
persone e capitali ha riportato alla ribalta fenomeni
che sembravano ormai estinti o in via di estinzione,
come alcune forme di sfruttamento della persona, quali
il caporalato e la riduzione in schiavitù, che
erroneamente si era pensato, almeno nell’ambito dei
confortanti confini degli Stati membri dell’Unione
europea, di poter archiviare negli annali della storia.
Il c.d. caporalato è un fenomeno da
tempo noto al mercato del lavoro italiano. Negli anni
cinquanta e sessanta, si indicava con termine caporalato
quella forma di utilizzazione dei lavoratori che avviene
per via indiretta, senza l’instaurazione di un rapporto
di lavoro tra il lavoratore e colui che beneficia delle
sue prestazioni, ma attraverso l’interposizione di un
soggetto terzo, il c.d. “caporale”, che si limita a
reclutare la manodopera e ad inviarla al soggetto
utilizzatore delle prestazioni di lavoro, non senza
avere prima trattenuto una parte del compenso da
corrispondere al lavoratore. La diffusione in Italia del
fenomeno del caporalato - significativa soprattutto nel
settore agricolo - fu messa in evidenza da un’indagine
parlamentare commissionata alla fine degli anni ’50 alla
Commissione Rubinacci, la quale diede luogo, nel 1959 ad
una celebre relazione che fu d’impulso all’introduzione
della legge n. 1369 del 1960, che ha sancito il divieto
di interposizione nelle prestazioni di lavoro.
Da allora la materia
dell’interposizione nelle prestazioni di lavoro è stata
progressivamente oggetto di modifiche legislative, volte
ad adattare questa legislazione alle nuove esigenze
dell’economia dei servizi. Tutte queste modifiche -
riassumibili nei due passaggi fondamentali della l. n.
196/1997 (il c.d. pacchetto Treu), che ha autorizzato la
fornitura di lavoro temporaneo, e del d. lgs. n.
276/2003, che ha riformulato dalle fondamenta la
materia, abrogando la stessa legge del 1960 (ma non,
secondo i più, il principio generale che vieta
l’interposizione nelle prestazioni di lavoro) – hanno
avuto come punto di riferimento le nuove forme del
decentramento produttivo, alle quali questo “nuovo”
caporalato è completamente estraneo.
I fatti di cronaca mostrano infatti
che il fenomeno del caporalato rivive nell’ambito del
mercato del lavoro italiano, e trova terreno fertile
soprattutto in alcuni settori - agricoltura ed edilizia
-, in alcuni ambiti territoriali – le regioni
meridionali -, e con riferimento ad alcuni gruppi di
lavoratori - in prevalenza lavoratori immigrati, non di
rado clandestini. Il fenomeno del “nuovo” caporalato si
contraddistingue per una duplice caratteristica: da un
lato, le vittime di questo caporalato di seconda
generazione versano in una condizione di bisogno
estremo, della quale non è particolarmente difficile
approfittare offrendo lavoro a condizioni che di molto
si discostano da quei minimi che la nostra Costituzione
richiede a tutela della dignità e della libertà
dell’esistenza della persona umana (artt. 35, 36, 41
comma 2 Cost.). D’altro lato, il fatto che spesso le
vittime del caporalato coincidano con lavoratori
immigrati incide fortemente sul dato delle asimmetrie
informative, che, se caratterizzano di norma tutte le
relazioni di lavoro, in questi contesti si presentano
particolarmente marcate, in ragione di fattori
linguistici, economici e culturali. Questo fenomeno
sembra una ulteriore conferma di quella tesi che da
tempo descrive il mercato del lavoro degli immigrati
come “duale”, in virtù dei differenziali retributivi,
dei diversi tassi di disoccupazione, del diverso tasso
di accesso al lavoro qualificato e, soprattutto, della
diversa incidenza del lavoro regolare.
Il lavoro irregolare (o sommerso) è
uno dei tratti caratterizzanti di questo “nuovo”
caporalato. Non di rado il caporale “arruola” lavoratori
immigrati senza alcuna forma di contratto regolare, e al
di fuori di ogni regola soprattutto per quel che
riguarda le disposizioni poste a tutela della salute e
sicurezza del lavoratore (non è un caso che a queste
vicende venga data pubblicità proprio in seguito a
episodi di infortunio del lavoratore). Da ciò deriva,
peraltro, l’inafferrabilità del fenomeno per mezzo delle
tradizionali tecniche del diritto del lavoro, che per
reprimere le forme di interposizione nel rapporto di
lavoro fanno leva, comunque, sulla verifica delle
caratteristiche di imprenditorialità del presunto
appaltatore, e presuppongono, perciò, un minimo di
formalizzazione contrattuale della vicenda (data dalla
presenza, almeno, di un contratto di appalto e di un
contratto di lavoro).
Di fronte al “nuovo” caporalato,
l’impressione è che il mercato duale che si è sviluppato
intorno all’espansione del fenomeno migratorio richieda
forme di intervento e tecniche di tutela del lavoro del
tutto diverse, in grado di incidere proprio sui fattori
responsabili di questa segmentazione e generatori delle
condizioni di bisogno su cui il caporalato prolifera. Di
questa necessità si sono peraltro accorte di recente sia
le forze politiche che quelle sindacali, dalle quali
arrivano alcuni segnali interessanti.
Il primo segale in questa direzione
è offerto dall’Indagine conoscitiva presentata dalla
Commissione XI (lavoro pubblico e privato) della Camera
dei deputati il 26 maggio 2010, su taluni fenomeni del
mercato del lavoro (lavoro nero, caporalato e
sfruttamento della manodopera straniera). Le proposte
emerse nel corso di questa indagine sono riassumibili in
alcune riforme dell’amministrazione e della
legislazione. Sul piano dell’attività amministrativa si
segnala, in particolare, la necessità di un
rafforzamento dell’attività degli Ispettorati del lavoro
presenti sul territorio, mediante un abbandono
dell’approccio formalistico basato sui monitoraggi, a
favore di un approccio che consenta di concentrare
l’attenzione sulle violazioni sostanziali delle norme,
anche attraverso una maggiore mobilità degli ispettori.
Quanto alle modifiche normative, è significativa la
proposta di estendere il campo di applicazione dell’art.
18 del testo Unico sull’immigrazione - che prevede un
permesso di soggiorno e forme di protezione sociale per
le vittime della tratta degli esseri umani – anche alle
forme di grave sfruttamento della manodopera. A ciò si
aggiunge la necessità di potenziare (o di avviare)
adeguate politiche sociali di integrazione, che vanno
dagli alloggi, alla formazione linguistica e scolastica.
Sono da segnalare infine una serie di misure che
dovrebbero incidere sull’organizzazione delle imprese,
per arginare questi fenomeni di competizione alterata.
Compie un passo deciso nella
direzione della saldatura tra prevenzione del fenomeno
del caporalato e necessità di politiche di integrazione
degli immigrati la proposta di legge elaborata in ambito
sindacale dalle sigle Fillea e Flai (Cgil). La proposta,
che a quanto risulta non è ancora sfociata in un vero e
proprio disegno di legge, si inserisce in una più ampia
campagna di informazione sul fenomeno che il sindacato
sta portando avanti nei diversi territori delle regioni
interessate (si tratta della campagna
“Stop-caporalato”).
Accanto a obiettivi di repressione
del fenomeno perseguiti mediante il rafforzamento delle
sanzioni penali, il progetto di legge insiste sulla
necessità di promuovere l’integrazione dei lavoratori
stranieri e dei lavoratori di lunga disoccupazione o
svantaggiati in genere, soprattutto nei settori
dell’edilizia e dell’agricoltura. L’attivazione concreta
di queste politiche di integrazione è affidata dal
progetto a protocolli di intesa tra strutture pubbliche
(Stati, regioni e altri enti territoriali) e
associazioni imprenditoriali e sindacali, che dovrebbero
avviare sperimentazioni su base locale o settoriale,
promuovendo buone prassi e meccanismi di incentivo per
le imprese virtuose. Si segnala, poi, nell’ambito delle
proposte di dettaglio, la previsione di corsi di lingua
italiana e adeguate campagne informative, a carico del
Ministero del lavoro e delle politiche sociali di
concerto con i centri per l’impiego. L’importanza
dell’aspetto formativo emerge, peraltro, anche dai
risultati dell’indagine parlamentare sopra citata.
Più che una riforma che introduca
regole speciali per l’utilizzazione indiretta del
lavoro, in deroga a quanto previsto dalla legislazione
attuale in materia di interposizione nelle prestazioni
di lavoro, sembra allora più efficace puntare
sull’introduzione di tecniche di tutela che consentano
di colmare il deficit informativo e formativo delle
vittime del “nuovo” caporalato. A quanto pare, è questa
la radice che consente alle nuove forme di caporalato di
attecchire e prosperare. E’ da qui che occorre allora
partire per estirpare questo fenomeno, che sembra
altrimenti difficile non solo da combattere, ma anche da
identificare, soprattutto per il suo profondo
radicamento nell’ambito dell’economia informale. |