La calma piatta dell'economia
italiana nei primi mesi 2011 è il riassunto di
situazioni molto diverse. C'è chi langue sul mercato
interno e chi sta sfondando sui mercati lontani. Ma se
le aziende che esportano stanno in piedi con le loro
gambe, la politica economica dovrebbe sostenere la
domanda interna. Senza devastare i conti pubblici. Non
serve la riforma fiscale complessiva di nuovo in agenda.
Meglio la ripresa delle liberalizzazioni e un piano
anti-burocrazia, oltre a specifici interventi fiscali e
legislativi sul mercato del lavoro.
I dati definitivi sui conti
nazionali del primo trimestre 2011 danno un quadro di
calma piatta per l’economia italiana. Il Pil si è
fermato a +0,1 per cento rispetto al quarto trimestre
2010. Ma i dati ufficiali sulle componenti della domanda
dicono di più. I consumi delle famiglie hanno fatto
registrare un +0,2, gli investimenti un +0,1 e la spesa
pubblica un +0,5. Come è possibile che il tutto (il Pil)
cresca meno delle singole parti (consumi, investimenti,
spesa pubblica)? Un mistero, un clamoroso errore
dell’Istat?
L’ITALIA NEL MONDO GLOBALE
Il fatto è che l’Italia è
un’economia pienamente inserita nel contesto globale,
un’economia che in tutto il 2010 ha esportato beni e
servizi per 413 miliardi di euro e che ne ha importati
per 441 miliardi di euro, e questo cambia le cose. Nel
primo trimestre 2011, infatti, la domanda interna (la
somma di consumi, investimenti e spesa pubblica, pari a
circa 400 miliardi di euro) è cresciuta dello 0,3 per
cento, mentre la domanda estera di prodotti italiani
(l’export, pari a 112 miliardi) è cresciuta dell’1,4 per
cento rispetto al trimestre precedente. Se l’aumento
complessivo di domanda fosse stato soddisfatto da
produzione delle aziende nei confini italiani avremmo
avuto un incremento del Pil di 0,5 per cento: +0,5, non
un dato “tedesco” ma nemmeno il minuscolo +0,1
registrato dall’Istat.
Che cosa è successo dunque? È
successo che l’incremento di domanda è stato soddisfatto
solo in misura molto parziale con produzione interna
(appunto il +0,1 di crescita del Pil). A intercettare il
desiderio delle famiglie, della pubblica amministrazione
e delle imprese italiane di spendere un po’ più che nel
trimestre precedente sono state soprattutto le imprese
estere: l’import nel periodo è infatti aumentato dello
0,7 per cento. E sono dati a prezzi costanti, cioè al
netto dell’aumento del prezzo del petrolio: le
importazioni in valore sono infatti aumentate ben di
più, del 5,2 per cento, a causa dell’incremento dei
prezzi del 4,5 per cento e, appunto, dell’aumento dei
volumi importati dello 0,7 per cento.
Insomma, il quadro è quello che chi
è disponibile a leggere l’andamento dell’economia
italiana senza avere su gli occhiali da tifoso conosce
dall’inizio 2010: l’export è ripartito dopo la crisi, ma
il Pil langue perché la domanda interna non cresce molto
e il poco di crescita che si vede se ne va all’estero e
non si ferma a creare occupazione in Italia.
LA GLOBALIZZAZIONE INDIGESTA
La domanda “va all’estero” in tanti
modi. Si importa e si esporta di più a parità di
produzione complessiva perché il mondo è sempre più
globale: grazie alla tecnologia i costi di trasporto e
di comunicazione sono sempre più bassi e quindi rispetto
al passato gli scambi internazionali sono sempre più
importanti. Così i consumatori comprano i beni al prezzo
più basso e le imprese vendono dove i loro prodotti sono
meglio valorizzati e apprezzati. L’invasione cinese dei
nostri mercati e l’esportazione della Dolce Vita - come
il Centro studi Confindustria chiama il successo del
Made in Italy - sono figli dello stesso padre, il Mondo
Globale. Ma per l’Italia c’è di più: la ripresa 2010-11
ha fatto ripartire le importazioni rispetto al periodo
di crisi molto più rapidamente di quanto fosse avvenuto
con la ripresa 2006-07 rispetto alla stagnazione 2005
(vedi anche Perché è così lenta la ripresa italiana,
04/01/11).
È un sintomo delle difficoltà dei
terzisti, delle piccole imprese senza un marchio, che
non fanno ricerca e usano poco le nuove tecnologie.
Rappresentano, in poche parole, il back office delle
grandi imprese, loro sì in competizione sui mercati di
tutto il mondo. Se però le grandi imprese delocalizzano
la produzione e non si portano con sé i fornitori
italiani e se le grandi imprese estere non portano i
loro impianti di produzione all’interno dei confini
italiani o li chiudono (come avvenuto nei mesi scorsi),
i conti delle grandi imprese italiane ed estere
migliorano, le borse brindano agli accresciuti
dividendi, ma i dati sull’occupazione e sulla produzione
interna soffrono. E così abbiamo dati ancora troppo
deludenti per il mercato del lavoro e per la produzione
industriale. Da qualche mese la disoccupazione ha
finalmente cominciato a diminuire, ma la percentuale di
disoccupati sulla forza lavoro nell’aprile 2011 è ancora
all’8,1 per cento. È un dato di mezzo punto inferiore al
dato di aprile 2010 che però resta di due punti sopra al
minimo pre-crisi di 5,9 per cento raggiunto nell’aprile
2007. E le stesse indicazioni vengono anche dai dati
sulla produzione industriale. L’indice di aprile 2011 è
di 3,7 punti sopra a quello dell’aprile 2010: good news,
ma rimane pur sempre di 17 punti percentuali inferiore
al dato registrato nel punto di massimo pre-crisi,
quello dell’aprile 2008. E - significativamente - a non
decollare è soprattutto la produzione industriale di
beni di consumo non durevole che, nell’aprile 2011,
mostra un modesto +0,2 per cento rispetto all’aprile
2010, mentre il resto delle voci dei prodotti
industriali mostra incrementi di 6 punti percentuali. È
lo scontrino medio delle famiglie che vanno a fare la
spesa al supermercato a rimanere troppo basso, non le
vendite di prodotti high-tech.
QUALE POLITICA ECONOMICA
I dati dicono che la calma piatta
dell’economia italiana nei primi mesi 2011 è il
riassunto di situazioni molto diverse, di chi langue sul
mercato interno e di chi sta sfondando sui mercati
lontani. Questi pochi dati danno però indicazioni
precise sulla politica economica possibile per i
prossimi mesi.
Le aziende che riescono a esportare
- spesso presenti con investimenti esteri nei mercati di
sbocco - potrebbero certamente avere più aiuto dalla
politica, ma nel complesso stanno in piedi con le loro
gambe. Gli sforzi della politica economica dovrebbero
dunque andare a sostenere la domanda interna senza
devastare i conti pubblici. A questo per esempio non
serve la riforma fiscale complessiva che sembra
ritornare ancora una volta nell’agenda politica: per
benissimo che vada, potrà essere a regime nel 2013. Nel
frattempo per ridare fiato ai terzisti e ai consumi non
ci sono alternative alla ripresa delle liberalizzazioni
e a un piano anti-burocrazia per sfoltire la giungla di
adempimenti e procedure con cui fanno i conti le
imprese, oltre a specifici interventi fiscali e
legislativi sul mercato del lavoro che ridiano fiducia
ai consumatori-lavoratori. |