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LA POLITICA ECONOMICA PER USCIRE DALLA CALMA PIATTA di Francesco Daveri –La voce.info

 

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La calma piatta dell'economia italiana nei primi mesi 2011 è il riassunto di situazioni molto diverse. C'è chi langue sul mercato interno e chi sta sfondando sui mercati lontani. Ma se le aziende che esportano stanno in piedi con le loro gambe, la politica economica dovrebbe sostenere la domanda interna. Senza devastare i conti pubblici. Non serve la riforma fiscale complessiva di nuovo in agenda. Meglio la ripresa delle liberalizzazioni e un piano anti-burocrazia, oltre a specifici interventi fiscali e legislativi sul mercato del lavoro.

 

I dati definitivi sui conti nazionali del primo trimestre 2011 danno un quadro di calma piatta per l’economia italiana. Il Pil si è fermato a +0,1 per cento rispetto al quarto trimestre 2010. Ma i dati ufficiali sulle componenti della domanda dicono di più. I consumi delle famiglie hanno fatto registrare un +0,2, gli investimenti un +0,1 e la spesa pubblica un +0,5. Come è possibile che il tutto (il Pil) cresca meno delle singole parti (consumi, investimenti, spesa pubblica)? Un mistero, un clamoroso errore dell’Istat?

 

L’ITALIA NEL MONDO GLOBALE

 

Il fatto è che l’Italia è un’economia pienamente inserita nel contesto globale, un’economia che in tutto il 2010 ha esportato beni e servizi per 413 miliardi di euro e che ne ha importati per 441 miliardi di euro, e questo cambia le cose. Nel primo trimestre 2011, infatti, la domanda interna (la somma di consumi, investimenti e spesa pubblica, pari a circa 400 miliardi di euro) è cresciuta dello 0,3 per cento, mentre la domanda estera di prodotti italiani (l’export, pari a 112 miliardi) è cresciuta dell’1,4 per cento rispetto al trimestre precedente. Se l’aumento complessivo di domanda fosse stato soddisfatto da produzione delle aziende nei confini italiani avremmo avuto un incremento del Pil di 0,5 per cento: +0,5, non un dato “tedesco” ma nemmeno il minuscolo +0,1 registrato dall’Istat.

Che cosa è successo dunque? È successo che l’incremento di domanda è stato soddisfatto solo in misura molto parziale con produzione interna (appunto il +0,1 di crescita del Pil). A intercettare il desiderio delle famiglie, della pubblica amministrazione e delle imprese italiane di spendere un po’ più che nel trimestre precedente sono state soprattutto le imprese estere: l’import nel periodo è infatti aumentato dello 0,7 per cento. E sono dati a prezzi costanti, cioè al netto dell’aumento del prezzo del petrolio: le importazioni in valore sono infatti aumentate ben di più, del 5,2 per cento, a causa dell’incremento dei prezzi del 4,5 per cento e, appunto, dell’aumento dei volumi importati dello 0,7 per cento.

Insomma, il quadro è quello che chi è disponibile a leggere l’andamento dell’economia italiana senza avere su gli occhiali da tifoso conosce dall’inizio 2010: l’export è ripartito dopo la crisi, ma il Pil langue perché la domanda interna non cresce molto e il poco di crescita che si vede se ne va all’estero e non si ferma a creare occupazione in Italia.

 

LA GLOBALIZZAZIONE INDIGESTA

 

La domanda “va all’estero” in tanti modi. Si importa e si esporta di più a parità di produzione complessiva perché il mondo è sempre più globale: grazie alla tecnologia i costi di trasporto e di comunicazione sono sempre più bassi e quindi rispetto al passato gli scambi internazionali sono sempre più importanti. Così i consumatori comprano i beni al prezzo più basso e le imprese vendono dove i loro prodotti sono meglio valorizzati e apprezzati. L’invasione cinese dei nostri mercati e l’esportazione della Dolce Vita - come il Centro studi Confindustria chiama il successo del Made in Italy - sono figli dello stesso padre, il Mondo Globale. Ma per l’Italia c’è di più: la ripresa 2010-11 ha fatto ripartire le importazioni rispetto al periodo di crisi molto più rapidamente di quanto fosse avvenuto con la ripresa 2006-07 rispetto alla stagnazione 2005 (vedi anche Perché è così lenta la ripresa italiana, 04/01/11).

È un sintomo delle difficoltà dei terzisti, delle piccole imprese senza un marchio, che non fanno ricerca e usano poco le nuove tecnologie. Rappresentano, in poche parole, il back office delle grandi imprese, loro sì in competizione sui mercati di tutto il mondo. Se però le grandi imprese delocalizzano la produzione e non si portano con sé i fornitori italiani e se le grandi imprese estere non portano i loro impianti di produzione all’interno dei confini italiani o li chiudono (come avvenuto nei mesi scorsi), i conti delle grandi imprese italiane ed estere migliorano, le borse brindano agli accresciuti dividendi, ma i dati sull’occupazione e sulla produzione interna soffrono. E così abbiamo dati ancora troppo deludenti per il mercato del lavoro e per la produzione industriale. Da qualche mese la disoccupazione ha finalmente cominciato a diminuire, ma la percentuale di disoccupati sulla forza lavoro nell’aprile 2011 è ancora all’8,1 per cento. È un dato di mezzo punto inferiore al dato di aprile 2010 che però resta di due punti sopra al minimo pre-crisi di 5,9 per cento raggiunto nell’aprile 2007. E le stesse indicazioni vengono anche dai dati sulla produzione industriale. L’indice di aprile 2011 è di 3,7 punti sopra a quello dell’aprile 2010: good news, ma rimane pur sempre di 17 punti percentuali inferiore al dato registrato nel punto di massimo pre-crisi, quello dell’aprile 2008. E - significativamente - a non decollare è soprattutto la produzione industriale di beni di consumo non durevole che, nell’aprile 2011, mostra un modesto +0,2 per cento rispetto all’aprile 2010, mentre il resto delle voci dei prodotti industriali mostra incrementi di 6 punti percentuali. È lo scontrino medio delle famiglie che vanno a fare la spesa al supermercato a rimanere troppo basso, non le vendite di prodotti high-tech.

 

QUALE POLITICA ECONOMICA

 

I dati dicono che la calma piatta dell’economia italiana nei primi mesi 2011 è il riassunto di situazioni molto diverse, di chi langue sul mercato interno e di chi sta sfondando sui mercati lontani. Questi pochi dati danno però indicazioni precise sulla politica economica possibile per i prossimi mesi.

Le aziende che riescono a esportare - spesso presenti con investimenti esteri nei mercati di sbocco - potrebbero certamente avere più aiuto dalla politica, ma nel complesso stanno in piedi con le loro gambe. Gli sforzi della politica economica dovrebbero dunque andare a sostenere la domanda interna senza devastare i conti pubblici. A questo per esempio non serve la riforma fiscale complessiva che sembra ritornare ancora una volta nell’agenda politica: per benissimo che vada, potrà essere a regime nel 2013. Nel frattempo per ridare fiato ai terzisti e ai consumi non ci sono alternative alla ripresa delle liberalizzazioni e a un piano anti-burocrazia per sfoltire la giungla di adempimenti e procedure con cui fanno i conti le imprese, oltre a specifici interventi fiscali e legislativi sul mercato del lavoro che ridiano fiducia ai consumatori-lavoratori.

 

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