(Maurizio
Villani)
Nella
disciplina del processo tributario negli ultimi anni
abbiamo assistito ad una sorprendente evoluzione della
c.d. efficacia esterna del giudicato.
Giurisprudenza e dottrina hanno lungamente dibattuto se
l'accertamento circa un determinato periodo d'imposta
contenuto in una sentenza passata in giudicato possa
estendersi, con l'efficacia dell'art. 2909 c.c., a mente
del quale “l'accertamento contenuto nella sentenza
passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le
parti”anche ad altri periodi (c.d. efficacia
esterna del giudicato) al di fuori del giudizio che
ha dato luogo alla sentenza passata in giudicato.
Si è
sempre ritenuto, con riferimento alle imposte
periodiche, ossia le imposte per le quali il presupposto
impositivo si verifica anno per anno (come l’Irpef,
l’Irpeg in passato e oggi l’Ires, l’Iva, l’Ici), che vi
fosse totale autonomia fra i diversi periodi d’imposta
(cioè fra il rapporto tributario concernente ciascun
anno). A tal riguardo, secondo la recente
sentenza della Cassazione 30 luglio 2009, n. 17718, fra
i limiti che tale principio incontra vi è quello della
diversa articolazione degli elementi fattuali nell'arco
di più periodi di imposta: tale limite ricorre quando
dalla medesima fonte scaturiscono poste attive e passive
diverse anno per anno.
L'autonomia dei periodi d'imposta, peraltro, trova
espresso riconoscimento in materia di imposte sui
redditi all'art. 7, c. 1, D.P.R. 22 dicembre 1986, n.
917, ove è chiaramente affermato che «l'imposta è
dovuta per anni solari, a ciascuno dei quali corrisponde
un'obbligazione tributaria autonoma».
Da
siffatte considerazioni si argomentava che l'efficacia
del giudicato doveva ritenersi limitata a una singola
annualità. In proposito la Corte ebbe modo di affermare
che «nel sistema tributario, ogni anno fiscale
mantiene la propria sostanziale autonomia rispetta gli
altri e comporta la costituzione tra contribuente e
fisco, di un rapporto giuridico distinto rispetto a
quelli relativi agli anni precedenti e successivi» (Cass.,
Sez. trib., sentenza 30 maggio 2003, n. 8709, e,
conformemente, Cass., Sez. trib., sentenza 22 febbraio
2005, n. 3551; Cass., 24 novembre 2004, n. 22197; Cass.,
sentenza 21 novembre 2001, n. 14702) laddove le sentenze
relative producono effetti circoscritti alle singole
annualità, non extra litem (Cass. 2 dicembre
2004, n. 22648; Cass. 15 dicembre 2003, n. 19152).
Il
problema che si pone per la sentenza tributaria – sia
essa di annullamento, di modifica o di conferma
dell’atto – è se l’efficacia del giudicato si limiti
all’atto impugnato ovvero si estenda ai fatti
costitutivi dell’obbligazione, che vengono in
considerazione come elementi del rapporto, realizzando o
qualificando il presupposto del tributo anche in altre
annualità.
L’orientamento non era univoco e, a causa del contrasto
di orientamenti, la questione è stata sottoposta alle
Sezioni Unite, che intervenendo ad appianare i
contrasti– con la sent. n. 13916 del 16 giugno 2006
– hanno confermato il valore extra litem (ossia
l’efficacia vincolante ultrannuale) della soluzione di
questioni di fatto o di diritto.
Per le
Sezioni Unite, inoltre, l’efficacia ultrannuale del
giudicato sarebbe rilevabile d’ufficio, ed anche per la
prima volta nel giudizio di Cassazione, purché la parte
che la invoca produca copia autentica della sentenza
recante l’attestazione del passaggio in giudicato.
Tale
principio, secondo la citata sentenza, opera, a
determinate condizioni, anche nel processo tributario e
in relazione ad altro anno d'imposta (Cass. n.
9512/2009; Cass. n. 13087/2008; Cass. n. 8214/2008;
Cass. n. 11226/2007; Cass. n. 24067/2006; Cass. n.
22036/2006).
Ed invero,
in base alla ricordata concezione dualistica del
processo tributario, che, avendo ad oggetto la tutela di
un diritto soggettivo del contribuente, non è solo un
“giudizio sull’atto” (da annullare o modificare), ma si
estende anche all’accertamento del rapporto, il
giudicato non esaurisce i propri effetti nel limitato
perimetro del giudizio, ma ha una potenziale capacità
espansiva in altri giudizi fra le stesse parti, secondo
le medesime regole che disciplinano nel processo civile
il giudicato esterno. Ne deriva, che il criterio
dell’autonomia dei periodi di imposta non impedisce che
il giudicato relativo ad uno di essi faccia stato anche
per altri, quando incida su elementi che siano rilevanti
per più periodi di imposta, cioè in relazione ad
elementi costitutivi della fattispecie a carattere
duraturo ovvero a fatti o a qualificazioni giuridiche di
fatti rimasti immutati nei diversi periodi di imposta. E
a questo indirizzo si sono uniformate diverse sentenze
successive (Cass. 23 luglio 2007, n. 16260; Cass. 23
luglio 2007, 16258; Cass. 15 giugno 2007, n. 14012;
Cass. 4 dicembre 2006, n. 25681).
Tuttavia,
la Corte ha poi meglio definito quel principio, in
quanto ha stabilito che “l’efficacia di giudicato in
un diverso periodo d’imposta va riconosciuta alla
statuizione relativa ad un elemento che non solo è
rimasto identico in tale periodo, ma che per sua natura
non poteva modificarsi”; ed ha pertanto affermato
che “la statuizione di deducibilità dal reddito di un
componente passivo assume il valore di giudicato
esterno, vincolante in altre annualità, solo quando si
tratti di uno stesso componente la cui deduzione è
frazionata in più anni”, mentre tale effetto non si
produce nei confronti di poste che si rinnovano di anno
in anno in base a presupposti diversi (Cass. 7 maggio
2008, n. 11084); in quel caso si è negata
l’applicabilità del giudicato favorevole al contribuente
circa la spettanza dell’esenzione per un accantonamento
a riserva, correlata, cioè, a situazioni di fatto che si
presentano variabili nelle diverse annualità e che
perciò implicano uno specifico accertamento in ciascun
periodo d’imposta (si vedano Cass. 8 ottobre
2007, n. 21041; Cass. 22 febbraio 2008, n. 4607).
Giudicato
tributario
Ebbene, il
giudicato va considerato un valore imprescindibile
dell'ordinamento giuridico, che si ricollega anche al
principio di cui all'art. 111 della Costituzione in tema
di giusto processo, in quanto funge da presidio
essenziale per la sua ragionevole durata. Il giudicato
rappresenta l'aspetto terminale della vicenda
processuale a cui viene assegnato valore vincolante ed
immutabile. L'assegnazione di un valore stabile al
giudicato corrisponde innanzitutto all'interesse
generale e superiore della giustizia, oltre che a quello
precipuo delle parti in causa, e comunque dà attuazione
ad una serie di principi di diretta derivazione
costituzionale (artt. 24 e 111 della Costituzione). Come
noto, il giudicato è un istituto giuridico di valenza
generale. Esso conferisce stabilità, certezza, rapidità
e coerenza agli accertamenti giudiziali, aspetti
imprescindibili nell’esercizio della funzione
giurisdizionale. In termini generali, poi, la rilevanza
nel processo tributario del giudicato esterno
costituisce espressione del superiore principio del
ne bis in idem, e sarebbe contrario ai
criteri di logicità ed economia dei giudizi imporre al
giudice di non tener conto di un giudicato di cui abbia
contezza.
Il
principio del ne bis in idem impone al giudice di
verificare se la regola da applicare alla controversia
sottoposta alla sua cognizione non si sia già
definitivamente formata, eventualmente anche in un
diverso giudizio purché avente a oggetto lo stesso tipo
di vertenza ed intercorso fra le stesse parti o fra
parti parzialmente diverse e, in caso affermativo, di
conformarsi ad essa.
Tant'è che
la Corte definisce “dovere istituzionale” del giudice
l'espletamento di tale verifica, in particolare, ma
non solo, se le parti hanno dato nei propri atti
indicazioni puntuali in ordine alla pendenza dell'altro
giudizio. Di più, le indicazioni fornite dalle parti
portano necessariamente a concludere che le stesse
abbiano conoscenza, o che si possa ragionevolmente
ritenere che la debbano avere, della formazione della
cosa giudicata, il che vale ad escludere qualsiasi
violazione del diritto di difesa.
L'autorità
del giudicato esterno è pari a quella del giudicato, per
così dire, ordinario, in quanto come esso ha efficacia
di legge fra le parti: da ciò deriva che, dal punto di
vista processuale, «il giudice ha il dovere di
conformarsi alla regula iuris già formatasi sulla
res iudicanda, quand'anche essa risulti da
diverso giudizio intercorso tra le stesse parti». La
relativa eccezione sarà, quindi, rilevabile d'ufficio,
in ogni stato e grado.
Ciò
significa che il giudicato, quindi, oltre a garantire la
certezza del diritto, permette anche di realizzare il
principio di economia processuale che è proprio di ogni
sistema giurisdizionale. Il giudicato non deve essere
incluso nel fatto, ma è da assimilarsi, per natura ed
effetti, agli elementi normativi: l'interpretazione del
giudicato deve essere quindi considerata alla stregua
dell'interpretazione di norme e non di fatti, negozi o
atti giuridici. Per cui non solo i comportamenti
(successivi) delle parti devono adeguarsi al giudicato,
ma anche i giudici in seguito aditi devono subire la
forza vincolante del giudicato.
Anche il
giudicato tributario è destinato ad assicurare la
certezza dei diritti e la stabilità delle posizioni
giuridiche. Esso determina l'impedimento di qualsiasi
indagine sulla situazione giuridica antecedente al fatto
di accertamento e pertanto l'irrilevanza di ogni
contestazione relativa al contenuto della situazione
giuridica accertata sulla base della sua validità
storico-giuridica. La forza del giudicato sostanziale
assiste soltanto le pronunce giurisdizionali a contenuto
decisorio di merito cioè quelle che statuiscono sul bene
della vita oggetto della domanda.
Secondo
condiviso orientamento giurisprudenziale il passaggio in
giudicato della sentenza, ex art. 324 del codice
di procedura civile, fa stato tra le parti a norma
dell’art. 2909 del codice civile giacché i principi
regolatori del giudicato si applicano, in quanto regole
generali ordinatrici del processo, anche al processo
tributario.
La cosa
giudicata è l’affermazione indiscutibile di una
volontà concreta di legge che riconosce o disconosce un
bene della vita a una delle parti; essa è l’esistenza di
una volontà di legge nel caso concreto. La cosa
giudicata non è altro che il bene della vita
riconosciuto o disconosciuto dal giudice con sentenza,
la quale materialmente si compone del dispositivo e
della motivazione.
Ebbene, le
Sezioni Unite n. 13916/2006, sono giunte attraverso una
serie di passaggi logici, che hanno aperto al
riconoscimento, anche nel contenzioso tributario, di
processi che, pur a finalità diverse, insistano sul
medesimo rapporto giuridico - condizione questa
indispensabile, secondo il citato assunto delle Sezioni
civili, per l'esplicarsi del giudicato su questioni
(fondamentali e comuni a più giudizi). Questo, in breve,
il ragionamento svolto dalle Sezioni Unite nella sent.
n. 13916/2006.
In linea
di principio, si tratta dell'applicazione in materia
tributaria del consolidato orientamento secondo cui, in
tema di autorità del giudicato, allorquando due
giudizi tra le stesse parti abbiano ad oggetto un
medesimo negozio o rapporto giuridico ed uno di essi sia
stato definito con sentenza passata in giudicato,
l'accertamento compiuto in merito ad una situazione
giuridica o la risoluzione di una questione di fatto o
di diritto incidente su un punto decisivo comune ad
entrambe le cause o costituente indispensabile premessa
logica della statuizione contenuta nella sentenza
passata in giudicato, precludono l'esame del punto
accertato e risolto, anche nel caso in cui il successivo
giudizio abbia finalità diverse da quelle che
costituiscono lo scopo ed il petitum del primo. (si
veda Cass. 13 ottobre 2006, n. 22036, Cass., Sez.
Trib., ord. 21 dicembre 2007, n. 26996, 21.3.2007, n.
6753; Cass. n. 11365/2006; Cass. n. 19317/2005).
Nel
processo tributario l'autonomia dei periodi d'imposta
non impedisce che il giudizio relativo ad un periodo
tenga conto del giudicato esterno formatosi su un'altra
controversia fra le stesse parti per un diverso periodo,
quando la relativa sentenza investe elementi
pregiudiziali della medesima fattispecie impositiva
comuni ad entrambi.
Così
riconosciuto che giudizi tributari successivi inerenti
ad un tributo periodico abbiano ad oggetto il medesimo
rapporto giuridico, le Sezioni Unite trovano via aperta
all'affermazione, anche nel contenzioso tributario, del
giudicato su questioni, ammesso dalle Sezioni civili
laddove più processi riguardino lo stesso rapporto. In
particolare, la Suprema Corte sostiene una cd. efficacia
ultrattiva (o regolamentare) del giudicato tributario
che, riferito ad un determinato periodo d'imposta,
sarebbe, però, vincolante in altro giudizio relativo ad
un periodo d'imposta diverso: oltre all'oggetto
principale di merito, il giudicato tributario
investirebbe anche singole questioni (di fatto o di
diritto) comuni a più giudizi su periodi d'imposta
diversi.
Emergeva
però il duplice problema di individuarne, da un lato, la
portata oggettiva - quali questioni comuni sarebbero
coperte dal giudicato esterno – e dall'altro, l'ambito
di concreta applicazione - quando l'oggetto di
successivi processi tributari insisterebbe sullo stesso
rapporto giuridico.
La Corte
di Cassazione con sentenza del 28 maggio 2008, n. 13897,
ha ribadito che “il giudicato relativo ad un singolo
periodo di imposta”, di norma, “non è idoneo a far stato
in periodi successivi od antecedenti in via
generalizzata ed aspecifica”(così,
Cass. 13 gennaio 2011,
n. 688).
Con la
stessa sentenza, la Suprema Corte chiarisce che “il
giudicato incentra la sua potenziale capacità espansiva
in funzione regolamentare” solo “su quegli elementi
che abbiano un valore condizionante inderogabile sulla
disciplina degli altri elementi della fattispecie
esaminata per cui la sentenza che risolva una situazione
fattuale in uno specifico periodo di imposta non può
estendere i suoi effetti automaticamente ad altro
periodo se non vi sia un dato preliminare costante e
comune che avvinca entrambe le annualità” di
conseguenza “l’accertamento negativo di un tributo non
determina in favore del soggetto inciso l’acquisto di
uno stato soggettivo (vuoi per non assoggettamento vuoi
per esenzione) opponibile all’A.F. attraverso la tecnica
del giudicato ove il presupposto di imposta o la
situazione esente siano costituiti non già da una
condizione personale dell’oblato ma”, come anche nel
caso di specie esaminato dai giudici di legittimità, “da
una situazione obbiettiva connessa all’esercizio di una
attività od al possesso di un bene”. Ed
ancora con sentenza del 20 giugno 2007, n. 14294,
precisa che “nell’ipotesi in cui il prelievo
tributario sia afferente un unico rapporto ed un unico
periodo d’imposta (nella specie, imposta sostitutiva
della maggiorazione di conguaglio) il giudicato
formatosi sull’istanza di rimborso avanzata per taluni
versamenti rateali di detto tributo non può non
estendersi alla successiva controversia relativa
all’indebenza di un’ulteriore tranche della medesima
imposta. L’unicum costituito dal rapporto d’imposta
rende addirittura superfluo il ricorso alla
giurisprudenza di legittimità sull’estensibilità del
giudicato tributario a periodi d’imposta differenti le
controversie afferenti i quali che abbiano elementi
costitutivi comuni”.
Quanto
alla portata oggettiva dell'ultrattività del giudicato
tributario, le Sezioni Unite nella sent. n. 13916/2006,
cit., si esprimono da subito con chiarezza:
l'efficacia del giudicato esterno non è
generalizzata ed aspecifica, ma limitata a
determinate statuizioni della sentenza relative alla
soluzione di selezionate questioni di fatto e di
diritto. Ne è discesa una nutrita casistica
giurisprudenziale che ha dato concretezza all'assunto.
Le Sezioni
Unite nella sentenza n. 13916/2006 - e con esse la
giurisprudenza successiva – (si veda Cass.
febbraio 2011, n. 4383 hanno ammesso
l'ultrattività (o efficacia regolamentare) del giudicato
in ipotesi di tributo periodico, allorché giudizi
successivi abbiano ad oggetto il medesimo tipo di
tributo, pur relativo a periodi d'imposta diversi.
In questi casi, l'unicità del rapporto giuridico oggetto
dei processi susseguenti (la suddetta obbligazione
tributaria unica) giustificherebbe l'ultrattività del
primo giudicato con riguardo ad alcune selezionate
questioni comuni a tutti i giudizi: quelle relative
all'accertamento di elementi, a carattere
tendenzialmente permanente, con «valore condizionate» la
produzione degli effetti della norma tributaria da
applicarsi al caso di specie, quali, ad esempio, la
qualità di ente commerciale, di soggetto residente, di
spettanza di un'agevolazione od esenzione pluriennale in
capo al contribuente (Cass., Sez. trib., 22 aprile 2009,
n. 9512).
In altri
termini, gli accertamenti di tali «qualificazioni» od
«elementi» avrebbero forza vincolante in giudizi
successivi, tra le stesse parti e per periodi d'imposta
diversi, almeno fino al mutamento della situazione di
fatto o di diritto che ne fosse stata alla base.
Limiti al
giudicato esterno secondo la Corte di cassazione
Va
precisato che il giudicato esterno incontra limiti ben
precisi dato che è, in estrema sintesi necessario
affinché sia possibile l'estensione degli effetti del
giudicato, innanzitutto, che gli elementi processuali
caratterizzanti i giudizi (parti, causa petendi
e petitum) siano gli stessi.
Di
particolare importanza è la coincidenza delle parti e il
fatto che esse siano state attivamente presenti nel
giudizio la cui sentenza è divenuta definitiva: un
giudicato pregresso, in cui però una delle parti era
rimasta contumace, non produrrà effetto vincolante sul
successivo giudizio (Cass., Sez. trib., sentenza n.
14012/2007).
L'identità
della causa petendi e del petitum
implicano che l'obbligazione tributaria dedotta in
giudizio deve avere gli stessi elementi costitutivi
(presupposti) e che sulla base degli stessi sia fondata
la richiesta processuale del contribuente. A tal
riguardo la Cassazione ha precisato che “deve,
invero, considerarsi, al riguardo, che, perché una lite
possa ritenersi coperta dal giudicato di una precedente
sentenza resa tra le stesse parti, è necessario che il
giudizio introdotto per secondo investa lo stesso
rapporto giuridico che ha già formato oggetto del primo.
In mancanza di tale essenziale presupposto, pertanto,
non rileva che la seconda lite richieda accertamenti di
fatto già compiuti nel corso della prima” (Cass. 14
gennaio 2011, n. 802; Cass. n.
14087/2007).
Vieppiù, è
necessaria l'identità delle circostanze fattuali
laddove non è sufficiente, in questo senso, la
similarità o analogia delle circostanze fattuali,
dovendo ricorrere le medesime situazioni oggettive in
entrambi i giudizi (vincolante e vincolato).
Le
circostanze fattuali, per poter conferire alla sentenza
definitiva efficacia anche nei giudizi su altri periodi
d'imposta, devono pertanto essere riferibili a più
periodi di imposta in modo univoco o essere permanenti
laddove vi sia identità dell'imposta nei diversi
giudizi.
A tal
proposito la Corte Suprema ha ritenuto che il giudicato
formatosi circa il valore di un immobile ai fini
dell'imposta di registro non si riflettesse con
efficacia vincolante nel giudizio in cui fosse in
discussione il valore dello stesso immobile ai fini
Invim (Cass., Sez. trib., sentenza 2 marzo 2007, n.
4904). Sicché nel giudizio in materia di imposte
dirette, come l’IRPEF, non può in alcun modo spiegare
efficacia di giudicato esterno una sentenza in materia
di IVA, ancorché fondata sui medesimi presupposti di
fatto” (Cass. 5 febbraio 2007, n. 2438) e nello stesso
senso (Cass. 14 marzo 2007, n. 5943; Cass. 4 aprile
2008, n. 8773; Cass. 30 novembre 2009, n. 25200; Cass.
26313/2009).
Di
recente, la Cassazione (Sez. V 13-09-2010 n. 19493)
torna ad occuparsi dell'efficacia ultrattiva del
giudicato tributario (o cd. effetto di giudicato
esterno), arricchendo il già nutrito orientamento
giurisprudenziale che, ben prima (ma soprattutto dopo)
la sentenza delle Sezioni Unite n. 13916/2006, si è
occupato del perimetro oggettivo della res judicata
nel contenzioso tributario. In particolare, la
pronuncia in esame si segnala quale specificazione
delimitativa degli assunti fissati dalle menzionate
Sezioni Unite e, precisamente, del principio per cui,
ove oggetto di successivi processi tributari sia lo
stesso rapporto giuridico, il giudicato sul primo ha
effetto vincolante anche nel secondo, in merito a
questioni di fatto o di diritto incidenti su un punto
decisivo comune ad entrambe le cause, pur avendo queste
finalità (e cioè petita) diversi. Nel rivisitare
tale principio, la sentenza in esame ne auspica un
temperamento, trovando, per questo, suggestioni in
recenti prese di posizione della giurisprudenza europea
in materia tributaria, nonché in una più attenta
riflessione sulla differenza tra tipologie di tributi e
periodi d'imposta e, quindi, del rapporto tra
Amministrazione finanziaria e contribuente. Nega il
giudicato esterno in ipotesi di giudizi tra loro
successivi aventi ad oggetto pretese fiscali a titoli e
per periodi d'imposta diversi. In tal caso, infatti,
oggetto dei due contenziosi tributari non sarebbe lo
stesso rapporto giuridico - presupposto questo
necessario per l'operare del giudicato esterno - ma
rapporti diversi.
Peraltro,
un altro limite all’efficacia vincolante del giudicato è
rinvenibile nell’impossibilità di estenderne gli effetti
alle questioni non eccepite espressamente dalle parti.
Il giudicato di fatti non si forma sulle questioni
esaminate incidenter tantum e non si forma sugli
obiter dicta. In altri termini, il giudicato non
si forma sulle enunciazioni incidentali e sulle
considerazioni estranee alla controversia.
Si ricorda
che, in caso di contrasto tra due giudicati, prevale
quello successivo sotto il profilo temporale; formatosi
il giudicato sulla nuova sentenza, si ritiene che
l’autorità del giudicato posteriore prevalga
sull’antecedente. L’utilizzazione del criterio
temporale, in base alla regola generale lex posterior
derogat priori, determina la prevalenza del
giudicato successivo sul primo.
Ed ancora,
la Cassazione con la sentenza 13869/2010 ha
individuato un ulteriore limite all'invocazione del c.d.
giudicato esterno. Ed infatti, una sentenza della
Suprema Corte che abbia rinviato al giudice di merito
per il compimento di accertamenti di fatto non implica
certo “la soluzione di questioni di fatto e diritto
relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le
cause” tale da costituire “premessa logica
indispensabile che preclude il riesame dello stesso
punto accertato e risolto”.
Secondo un
orientamento fatto proprio dalla Corte Suprema negli
ultimi anni è stato affermato che “l'accertamento già
compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla
soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad
un punto fondamentale comune ad entrambe le cause,
formando la premessa logica indispensabile della
statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza con
autorità di cosa giudicata, preclude il riesame dello
stesso punto di diritto accertato e risolto, e ciò anche
se il successivo giudizio abbia finalità diverse da
quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del
primo” sent. 16 giugno 2006, n. 13916.
Degna di
nota, la sentenza della Suprema Corte n. 25142/2009 in
cui viene esclusa la rilevanza di giudicato esterno
della precedente decisione definitiva, correttamente
allegata al ricorso per cassazione, resa fra le stesse
parti, per la stessa annualità. Secondo la Cassazione,
infatti, nel caso di specie, la questione non risulta
risolta, con efficacia di giudicato, dal precedente
giudiziario citato, in quanto, nonostante il giudice ne
dia atto nella parte narrativa della sentenza, omette
poi completamente di considerarla in parte motiva.
Ritenendo
che non si formi alcun giudicato su una questione,
quando la stessa non venga espressamente risolta nella
motivazione della sentenza, la Corte di Cassazione,
forse sollecitata dalle circostanze del caso concreto,
assesta un duro colpo non solo alla portata del
giudicato esterno, ma dello stesso giudicato tributario.
Secondo la
Suprema Corte, il giudice deve esplicitamente esaminare
una determinata questione e dare puntuale riscontro
della sua decisione nella motivazione della sentenza,
perché, in caso contrario, nessun giudicato si avrà su
tale questione, e nessuna chiara regula iuris
potrà evincersi al fine di farla valere in un diverso
giudizio.
Limiti al
giudicato esterno di origine comunitaria
I giudici
comunitari hanno posto precisi limiti agli effetti del
c.d. “giudicato esterno”, affermando che “laddove la
decisione giurisdizionale divenuta definitiva sia
fondata su un’interpretazione delle norme comunitarie
[…] in contrasto con il diritto comunitario, la non
corretta applicazione di tali regole si riprodurrebbe
per ciascun nuovo esercizio fiscale, senza che sia
possibile correggere tale erronea interpretazione” (cd.
caso Fallimento Olimpiclub) Corte di Giustizia UE,
sentenza 3 settembre 2009 in causa C - 2/08 (Cass. 19
maggio 2010, n. 12249, Cass. 30 novembre 2009, n.
25200).
Con
riferimento all'art. 2909 del Codice civile, la sentenza
della Corte europea del 3 settembre 2009, proc. C-2/08
ha affermato il principio del cd. "primato" del
diritto comunitario su quello interno, nel senso che
è possibile rimettere in discussione il principio
dell'autorità di cosa giudicata (cd."giudicato
esterno"), ove si faccia questione, in un altro e
diverso procedimento, non ancora definitivo, della
corretta applicazione del diritto comunitario.
La
soluzione della questione sottoposta al vaglio della
Corte di Giustizia verte sui limiti di applicazione del
principio dell'autorità della cosa giudicata, nonché sul
rapporto e sul coordinamento con i principi e le
disposizioni comunitarie. L'art. 2909 c.c. stabilisce
che "l'accertamento contenuto nella sentenza passata in
giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro
eredi o aventi causa".
La
riferita disposizione è stata interpretata dalla Corte
di Cassazione, come già ampiamente illustrato, nel senso
che: "Qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano
riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di
essi sia stato definito con sentenza passata in
giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine alla
situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni
di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale
comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica
indispensabile della statuizione contenuta nel
dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello
stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il
successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che
hanno costituito lo scopo ed il "petitum" del primo".
L'adozione
di una simile soluzione non risulta affatto pacifica
laddove il diritto nazionale incontra il diritto
comunitario: sono sorti, infatti, dubbi circa la
compatibilità del principio dell'autorità della cosa
giudicata col principio di effettività dell'ordinamento
comunitario.
Ed ecco,
che il principio di diritto innovativo affermato è il
seguente: "Il diritto comunitario osta
all'applicazione, in circostanze come quelle della causa
principale, di una disposizione del diritto nazionale,
come l'art. 2909 c.c., in una causa vertente
sull'imposta sul valore aggiunto concernente
un'annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta
una decisione giurisdizionale definitiva, in quanto essa
impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa
di prendere in considerazione le norme comunitarie in
materia di pratiche abusive legate a detta imposta".
Ed allora
la decisione delle Sezioni Unite 13916/2006, più volte
citata, immediatamente seguita dalla Sezione tributaria
in considerazione dell’elaborazione concettuale svolta,
ci si poteva aspettare che costituisse elemento
acquisito nel diritto tributario anche per un lungo
periodo.
Ed,
invece, soltanto un anno dopo, nel 2007, la Sezione
tributaria, con l’ordinanza
21 dicembre 2007, n. 26996 ha sottoposto alla
Corte di Giustizia della Comunità Europea la questione
della compatibilità del principio di intangibilità del
giudicato esterno con il principio del divieto di abuso
del diritto comunitario, inteso come uso improprio di
strumenti giuridici per ottenere un illegittimo
vantaggio fiscale.
Nell’ordinanza, la Sezione tributaria ha richiamato la
sentenza del 21 febbraio 2006 (causa C-255/02,
Halifax), in cui la Corte di Giustizia ha elaborato
il principio comunitario del divieto dell’abuso di
diritto sulla base della c.d. Sesta Direttiva CE in
materia di Iva.
In altri
termini, il principio di autorità del giudicato,
vessillo del nostro ordinamento processuale, cede il
passo dinanzi ad un principio comunitario elaborato
dalla Corte di Giustizia.
Ora, nel
caso «Olimpiclub», la Corte di Giustizia decideva sul
rinvio pregiudiziale di un giudice italiano che, in una
controversia vertente sull'IVA per un'annualità fiscale
su cui non era ancora intervenuta sentenza definitiva,
chiedeva se il diritto comunitario osti all'applicazione
di una disposizione nazionale, l'art. 2909 c.c., ove
questo sia interpretato in modo tale da portare
all'inosservanza della disciplina comunitaria -
relativa, in casu, a pratiche abusive in tema di
IVA. Esplicito, nel quesito alla Corte di giustizia, il
riferimento del giudice nazionale all'interpretazione
pretoria dell'art. 2909 c.c., favorevole a riconoscere,
anche in ambito tributario, un'ultrattività del
giudicato e, quindi, il vincolo su questioni, già decise
in un primo giudizio, in contenziosi tributari
successivi.
Nel
richiamare suoi importanti precedenti sulla tenuta del
giudicato nazionale formatosi in violazione di norme
comunitarie, la Corte ha ripetuto, nella sentenza
«Olimpiclub», che, pur riconosciuta
l'importanza della certezza del diritto garantita dalla
res judicata, questa deve cedere di fronte al
principio di effettività del diritto comunitario:
nelle cause tributarie quali quelle a base del rinvio
pregiudiziale, tale principio impone così ai giudici
nazionali di tener conto in ogni caso delle norme
comunitarie in materia di IVA, con conseguente obbligo
di disapplicare l'art. 2909 c.c. come interpretato dalla
giurisprudenza italiana.
Con
riferimento agli aiuti di Stato, la Corte di giustizia
ha già precisato con la sentenza del 18 luglio 2007
nella causa C-255/02 (caso "Lucchini") che il diritto
comunitario osta all'applicazione di una disposizione
del diritto nazionale volta a sancire il principio
dell'autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui
l'applicazione di tale disposizione impedisca il
recupero di un aiuto di stato erogato in contrasto con
il diritto comunitario e la relativa incompatibilità con
il mercato comune sia stata dichiarata con decisione
definitiva della Commissione delle Comunità europee.
Con la
consueta sinteticità, pertanto, la Corte di giustizia
conferma il carattere "relativo", tangibile e cedevole,
del giudicato esterno, in nome della supremazia del
diritto comunitario ed al fine di assicurarne la più
ampia ed uniforme applicazione in tutto lo spazio
giudiziario europeo. La motivazione, come già accaduto
tutte le volte in cui è stato necessario affrontare
questo delicato tema, sin da Eco Swiss, muove da un
"deferente" riconoscimento della fondamentale
importanza, sia a livello interno che comunitario, della
res iudicata quale baluardo della certezza del diritto e
dei rapporti giuridici, di guisa che una buona
amministrazione della giustizia, l’esigenza ultima di
stabilità cui è teleologicamente orientato ogni
processo, impongono che le decisioni giurisdizionali,
una volta esaurite le vie legali di ricorso, ovvero dopo
l’infruttuoso maturare dei termini previsti per
esperirle, non siano più suscettibili di essere
ridiscusse.
La Corte
di giustizia, pur riconoscendo che il principio del
giudicato anche in diritto comunitario è indispensabile
presidio della certezza del diritto e dei rapporti
giuridici, ha valorizzato l’autonomia dei periodi
d’imposta ed ha escluso che quel principio possa
spiegare efficacia in altre annualità quando
l’applicazione condurrebbe il giudice nazionale ad un
approdo contrario al diritto comunitario in materia di
repressione delle condotte illecite, fraudolente ed
abusive. E ciò in forza dei principi di effettività e di
non discriminazione, che obbligano le autorità degli
Stati ad applicare, anche d’ufficio, le norme di diritto
comunitario, se necessario attraverso la disapplicazione
del diritto nazionale.
In estrema
sintesi, secondo la Corte di giustizia, non si producono
gli effetti vincolanti del giudicato esterno quando ciò
finirebbe con il perpetuare interpretazioni della legge
contrastanti con il principio del divieto di abuso del
diritto.
Ne
consegue che, il giudice adito per secondo potrà,
pertanto, discostarsi dalla decisione adottata da
altro giudice e passata in giudicato in relazione ad un
diverso periodo di imposta, laddove ritenga che la
condotta del contribuente costituisse abuso del diritto
e fosse finalizzata a procurargli indebiti risparmi di
imposta.
La
pronuncia della Corte di giustizia è riferita all'ambito
della sola imposta sul valore aggiunto, in quanto
imposta «armonizzata» ed espressamente oggetto dei
trattati comunitari, di talché fra i limiti
all'applicazione del giudicato esterno può ben dirsi che
vi sia anche quello derivante dal divieto di abuso del
diritto.
Conclusioni
Prima c’è
un ruolo creativo della Cassazione nel riconoscere tale
efficacia; poi, c’è un ruolo “normativo” della Corte di
Giustizia nell’affermare che tale efficacia deve cedere
il passo dinanzi ad principio (quello del divieto di
abuso del diritto) elaborato dalla stessa Corte di
Giustizia.
È evidente
che assistiamo alla formazione di un “diritto vivente”
costituito da un susseguirsi di elaborazioni
giurisprudenziali, in cui le disposizioni del
legislatore (nazionale o comunitario) vengono richiamate
quale (imprescindibile) supporto alle scelte del
giudicante.
Peraltro,
l’efficacia ultrattiva del giudicato della res in
judicium deducta e judicata nel processo
tributario delineata dalla giurisprudenza
«geometricamente» evita quell'effetto «sorpresa» - anche
nella propagazione dell'errore giudiziario - che
deriverebbe da un giudicato «esteso», ma dai confini
incerti. La previa e sicura conoscenza di quali giudizi
abbiano lo stesso oggetto e di che questioni debbano
ritenersi, per questo, coperte dal giudicato, infatti,
dà alle parti modo di prendere effettivamente posizione
su tali questioni già nel primo giudizio (o, se del
caso, di farle oggetto di impugnazione), consapevoli del
vincolo che su di esse si creerebbe in successivi
processi.
Maurizio Villani
e Iolanda Pansardi)
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