Se le dimissioni del lavoratore a tempo determinato
escludano il diritto alla reintegrazione in servizio
ed al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 32
comma 5° L. 4 novembre 2010 n. 183 («collegato
lavoro») una volta accertata o non controversa
l’illegittima apposizione del termine
di
Lorenzo Maratea
Avvocato del Foro di Napoli
La questione che si affronta è se le dimissioni del
lavoratore, assunto con contratto a tempo
determinato, rassegnate ante tempus rispetto
alla data di estinzione del rapporto possano, in
ogni caso, escludere l’applicazione delle tutele che
l’ordinamento prevede in rapporto all’improprio
ricorso alla manodopera a termine. In specie,
quello che ci si chiede è se il prestatore
dimissionario, possa vedersi ugualmente riconosciuto
il diritto ad essere riammesso in servizio ed a
percepire il ristoro previsto dalla legge citata in
epigrafe, nell’ipotesi in cui il giudice del lavoro
comunque accerti la natura illegittima del termine
apposto al contratto.
Le considerazioni che seguono fondano in larga
misura sull’applicazione della teoria della
presupposizione che valorizza le situazioni di fatto
o di diritto (dotate di carattere obiettivo) che
possano essere considerate come presupposto comune
alle parti, avente valore determinante ai fini del
permanere del vincolo contrattuale.
Un simile approccio, come è ovvio, implica non tanto
la tendenziale apertura verso un’indagine
introspettiva circa il comune volere dei
contraenti, quanto la ricostruzione di una volontà
teorica del lavoratore, rapportata cioè
all’ipotesi in cui, a parità di condizioni,
le dimissioni, anziché collocarsi nel quadro di un
rapporto a tempo determinato, si fossero situate nel
contesto di uno a tempo indeterminato. Nella
difficoltà di enucleare una convincente regola
generale, non si può non riconoscere, in via
preliminare, che l’intera problematica in esame sia
strettamente legata ad un profilo di carattere
processuale relativo all’ordine di trattazione delle
questioni; è infatti evidente che l’attribuzione
alle modalità estintive del rapporto di una
(eventuale) valenza condizionante rispetto al
diverso e distinto thema della
legittimità/illegittimità del termine abbia come
principale ricaduta quella di rendere superfluo
l’esame di tale secondo aspetto una volta che il
giudice accerti il consenso del lavoratore alla
cessazione del rapporto (in qualunque modo sia esso
espresso).
Ciò a parere di chi scrive non può ritenersi
giuridicamente fondato in ragione di una
considerazione di fatto prima ancora che di diritto.
Il lavoratore che rassegni “prematuramente” le
proprie dimissioni dal contratto a termine manifesta
il proprio sopravvenuto disinteresse verso un
rapporto destinato comunque ad esaurirsi entro un
prefissato lasso di tempo. Pare scarsamente
persuasivo, già in punto di logica, pretendere di
dimostrare a partire da tale atto, un disinteresse
verso il protrarsi di accordo (in fatto inesistente
al momento tanto della stipula, quanto della
conclusione del contratto) diverso sotto il profilo
temporale, avente cioè la caratteristica saliente
del non essere limitato temporalmente. L’opportunità
di un riferimento alla presupposizione è di tutta
evidenza: il lavoratore assunto a termine non può
non considerare come “un dato”, ossia come un evento
futuro e certo, il verificarsi dell’estinzione del
rapporto alla data fissata in contratto, e ciò
qualunque intimo convincimento egli nutra circa la
legittimità del termine. In questo senso è allora
più che convincente la metafora (utilizzata in
dottrina) dell’“effetto moviola”, immagine nella
quale si riflette la necessità per il giudice di
ricostruire la vicenda delle dimissioni sottraendo
mentalmente
il dato della illegittimità del termine ed
ipotizzando come il lavoratore si sarebbe comportato
in assenza della violazione commessa dal datore con
la previsione del termine nullo.
L’impossibilità di escludere categoricamente un
comportamento di segno opposto da parte del
lavoratore nel caso di ipotetica costituzione ab
initio del rapporto come a tempo indeterminato
fonda e giustifica la conclusione che l’ordine di
trattazione delle questioni (stabilito nel rito
civile dall’art. 276 c.p.c.) non possa che essere
fissato in maniera tale da escludere valenza
dirimente al profilo delle modalità estintive del
rapporto. In particolare, deve essere escluso che
fra l’apprezzamento della volontà del lavoratore di
concludere l’esperienza di lavoro a tempo
determinato, da un lato, e accertamento circa la
validità del termine dall’altro, il primo profilo
rappresenti un prius. Preliminarmente il
giudice non potrà che porsi il problema della
validità del termine apposto al contratto. In questa
direzione si muove anche parte della giurisprudenza
di merito.
Prova principale a sostegno di quanto si va qui
sostenendo emerge dall’assetto stabilito dal codice
civile per la declaratoria di nullità del contratto.
Come, ancora, un giudice di merito ha avuto modo di
stabilire
in rapporto ad un caso di scioglimento per mutuo
dissenso (dunque sorretto dalla volontà convergente
del lavoratore), il Giudice non ha potuto non
valorizzare l’irrilevanza del “mero trascorrere del
tempo” come “elemento sintomatico della volontà del
lavoratore di rinunciare all'azione di nullità del
termine ed al conseguente ripristino del rapporto di
lavoro”.
La sentenza, lungi dall’elidere ambiti materiali di
operatività della risoluzione per mutuo consenso del
rapporto di lavoro ex art. 1372 c.c., ne subordina
la stabilità dell’effetto invece alla presenza di
comportamenti significativi delle parti, che
denotino la volontà concorde di entrambe di volere
porre definitivamente fine ad ogni rapporto di
lavoro fra loro (così Cass. 2.12.2002 n. 17070). In
assenza di tale prova che (tanto nel caso della
risoluzione del rapporto per mutuo consenso, quanto
nel caso delle dimissioni) potrebbe, per esempio,
ritenersi implicita nella conclusione del rapporto
seguita dalla successiva acquisizione da parte del
prestatore di posizioni lavorative stabili ed
ugualmente o meglio retribuite, non vi è ragione di
negare spazio alla applicazione della teoria della
presupposizione.
Competerà al giudice di merito, valutate le
circostanze del caso e ricostruita la volontà
teorica del lavoratore sulla base delle risultanze
di fatto, decidere la questione della conversione
del rapporto di lavoro e quella, correlata, della
titolarità degli emolumenti a titolo risarcitorio
indicati dalla legge, fermo il potere di modulare il
quantum da riconoscere in funzione delle
caratteristiche peculiari del caso. Con riferimento
a tale ultimo profilo, quello cioè che emerge dal
già citato art. 32, l’impiego del termine
“risarcimento” operato dal legislatore rende ancora
più certe le conclusioni qui raggiunte. La natura
illecita della condotta datoriale (tale
qualificazione pare appunto implicita, a tacer
d’altro, nella scelta del legislatore di fare uso
del termine “risarcimento”) fa sì che le
dimissioni del lavoratore potrebbero essere
considerate come fattore suscettibile di elidere il
diritto al ristoro solo a condizione che si
riconoscessero nell’atto abdicativo del lavoratore i
tratti propri del consenso dell’avente diritto; una
simile soluzione non convince atteso che per
acconsentire validamente all’atto illecito è
necessario che l’avente diritto oltre ad avere piena
titolarità della posizione giuridica in questione,
abbia altresì piena consapevolezza e possibilità di
dominio materiale degli accadimenti indotti
dall’altrui condotta antigiuridica. Le dimissioni
rassegnate ante tempus rispetto alla
cessazione naturale di un rapporto di lavoro
illegittimamente a termine non segnalano alcuna
acquiescenza giuridicamente rilevante rispetto al
contegno datoriale, dato che non esprimono alcuna
signoria del lavoratore rispetto al corso del
rapporto. Il consenso atto a raggiungere l’effetto
ora descritto non può che essere solo quello proprio
di un soggetto in grado, realmente, con la propria
volontà di determinare l’agente cui la condotta sia
materialmente ascrivibile, a porre, come a non
porre, in essere l’atto illecito. La volontà del
lavoratore, proprio perché debole sul fronte
della durata del rapporto (materia tradizionalmente
gestita in modo gelosamente unilaterale dal datore
di lavoro) esula dallo schema secondo cui volenti
non fit iniuria il che conferma la bontà di
quegli approcci che negano la concludenza di talune
modalità estintive del rapporto a termine (si allude
a quelle presupponesti il consenso del prestatore)
rispetto all’applicazione delle tutele contro
illegittimo ricorso al “tempo determinato” nel
rapporto di lavoro.