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Vignera Giuseppe

 

Sommario: 1. Premessa: l’art. 111, 1° e 2° comma, Cost. quale norma vecchia nel contenuto e nuova nella funzione. - 2. Le interpretazioni minimalista e massimalista della clausola del giusto processo: esame critico. - 3. La nozione di giusto processo nella dottrina. - 4. (Segue) Nostra opinione: la giustezza del processo quale conformità dello stesso ai valori di civiltà giuridica espressi o condivisi dalla collettività. - 5. La funzione della clausola del giusto processo: norma di apertura del sistema delle garanzie costituzionali della giurisdizione. - 6. Esemplificazioni applicative della clausola del giusto processo: il principio del doppio grado di giurisdizione. - 7. (Segue) Il principio della pubblicità dei giudizi.

 

 

 

1. Premessa: l’art. 111, 1° e 2° comma, Cost. quale norma vecchia nel contenuto e nuova nella funzione.

 

L’art. 111 Cost. nella sua formulazione originaria constava di tre commi.

 

Il 1° comma, più esattamente, divisava (e divisa ancora) la garanzia della motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali (1).

 

Il 2° comma, a sua volta, assicurava (e continua ad assicurare) l’esperibilità del ricorso (c.d. straordinario) in Cassazione contro le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale (2).

 

Il 3° comma, infine, fissava (e continua a farlo) i limiti (“per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”) del ricorso in Cassazione avverso le decisioni delle Supreme magistrature amministrative (Consiglio di Stato e Corte dei conti) (3).

 

L’art. 1 l. cost. 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’art. 111 della Costituzione) ha lasciato immutato il testo dei commi predetti, dei quali è cambiata solamente la collocazione nell’ambito dell’art. 111 Cost., (diventandone, rispettivamente, i commi 6°, 7° e 8°) a seguito dell’aggiunta di altri cinque commi.

 

Di questi nuovi commi, il 3°, il 4° ed il 5° si riferiscono esclusivamente al processo penale (4).

 

Il 1° ed il 2° di tali commi, invece, attesa la loro formulazione in termini generalissimi, riguardano qualsiasi procedimento giurisdizionale (5).

 

Infatti, il nuovo 1° comma dell’art. 111 Cost. stabilisce che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge” (6).

 

Il nuovo 2° comma, a sua volta, prevede che “ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.

 

Come detto, codeste disposizioni (in forza dell’indiscusso carattere onnicomprensivo della loro formulazione) sono destinate ad influenzare la struttura di ogni processo concretamente modellato dal Legislatore ordinario: penale, civile, amministrativo, contabile o tributario che esso sia (7).

 

Le norme de quibus, tuttavia, hanno veramente innovato il precedente sistema delle garanzie costituzionali della giurisdizione?

 

La domanda trova la sua ragion d’essere nel fatto che l’art. 111, 1° e 2° comma, Cost. (nuovo testo) ha immediatamente provocato tra gli studiosi una strana contrapposizione: a compensare quasi l’altrettanto strana (attesa la materia interessata dall’intervento normativo: quella della giustizia) concordia politica, che “ha condotto il parlamento ad approvare con singolare rapidità ed in assenza di un approfondito dibattito vuoi nelle sedi istituzionali, vuoi nell’ambito scientifico e tra gli operatori della giustizia una riforma costituzionale destinata ad incidere sull’assetto complessivo del sistema giudiziario” (8).

 

Tale riforma costituzionale, più esattamente, è stata da alcuni annichilita con un perentorio “niente di nuovo” (9).

 

Altri, invece, l’hanno esaltata a tal punto da considerarla foriera di “nuovi principi costituzionali” concretanti un nuovo “modello processuale” (quello del “giusto processo”), contrapposto alle preesistenti “garanzie procedimentali minime costituzionalmente dovute” (10).

 

A nostro avviso la verità (more solito) sta nel mezzo.

 

Tanto il 1° quanto il 2° comma del nuovo art. 111 Cost. non sembrano, infatti, avere un contenuto veramente innovativo rispetto al precedente sistema delle garanzie costituzionali della giurisdizione.

 

Esse, a ben considerare, non fanno altro che ribadire o – se si preferisce – esplicitare il contenuto di garanzie oggettive (id est: incidenti sulla struttura dei procedimenti giurisdizionali) e soggettive (id est: condizionanti i requisiti degli organi preposti all’esercizio della giurisdizione) preesistenti alle modifiche apportate all’art. 111 Cost. dall’art. 1 l. cost. 23 novembre 1999, n. 2.

 

Ciò, tuttavia, non giustifica affatto l’affermazione che la riforma de qua é stata assolutamente inutile (11).

 

Ad essa, per vero, può sicuramente assegnarsi una valenza (non contenutistica, ma) funzionale ben precisa: quella di fornire una sorta di chiave di rilettura delle garanzie costituzionali attinenti al processo, richiamando tutti ad una loro interpretazione ispirata al principio di effettività (12).

 

Per convincersi pienamente dell’opportunità di codesta rilettura è sufficiente pensare alla vera e propria attività di mortificazione compiuta dalla Corte costituzionale (recte: nell’ambito della giustizia civile) nei confronti dei valori oggi esplicitati dall’art. 111, 2° comma, Cost.: nei confronti, cioè, del principio della parità delle parti (13), della garanzia della terzietà del giudice (14) e del principio della ragionevole durata del processo (15).

 

Secondo noi, pertanto, il vigente art. 111, 1° e 2° comma, Cost., pur avendo un contenuto totalmente (o quasi) vecchio, ha nondimeno una funzione sicuramente nuova.

 

 

 

2. Le interpretazioni minimalista e massimalista della clausola del giusto processo: esame critico.

 

La contrapposizione dei due orientamenti surricordati si è manifestata con particolare evidenza rispetto alla clausola del giusto processo divisata dal nuovo art. 111, 1° comma, Cost. (“La giurisdizione si attua mediante il giusto processo”).

 

In base all’interpretazione minimalista, infatti, la formula giusto processo ha solo una “intenzione polemica” (“quasi ad insinuare che il processo finora sia stato ingiusto”), “appartiene al folklore delle istituzioni e sarà presto dimenticata”, dato che “dall’art. 24, 2° comma, Cost., anche nella sua connessione con l’art. 3, sono ricavabili tutte le garanzie enunciate dalla prima parte del nuovo art. 111”: con la conseguenza “che non esiste un solo caso in cui, oggi, si dovrebbe dichiarare l’illegittimità di norme ordinarie per violazione di garanzie costituzionali che non si sarebbe potuta (e dovuta) dichiarare prima. Non esistono norme del processo civile legittime prima dell’entrata in vigore della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 e illegittime dopo” (16).

 

Alla stregua dell’interpretazione massimalista, di contro, “la introduzione nella Carta fondamentale della Repubblica, cinquantadue anni dopo la sua emanazione, di nuovi principi in materia di ‘giusto processo’ implica che, in questo periodo il processo, quello penale, quello civile, quello amministrativo, quello tributario e quello contabile, non fossero giusti”: con la conseguenza che “non appare scientificamente corretto e, quindi, ammissibile, invocare la giurisprudenza costituzionale anteriore in funzione del giudizio di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87. Quella giurisprudenza, infatti, aveva quale termine di riferimento la Costituzione nel testo anteriore alla legge costituzionale n. 2 del 1999” (17).

 

A dimostrare l’erroneità di quest’ultima interpretazione basta la considerazione che già prima della l. cost. 23 novembre 1999, n. 2 la nozione di giusto processo era ben presente e vitale all’interno del nostro sistema costituzionale.

 

Tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, invero, era stata in più occasioni ravvisata nella norma ex art. 24, 2° comma, Cost. (assicurante ex professo il diritto alla difesa) la garanzia dello svolgimento di un processo giusto, assegnandosi ad essa (norma) una funzione corrispondente a quella della due process of law clause della Costituzione nordamericana (18).

 

Quanto testé detto, nondimeno, non ci porta affatto a condividere la prima prospettiva: quella, cioè, del nihil novi, alla cui stregua l’art. 111, 1° comma, Cost. rappresenterebbe una disposizione dal “contenuto innovativo totalmente inesistente”, che “può interessare a breve termine il commentatore politico o lo studioso dei costumi”, ma che invece “non può interessare il giurista positivo” (19).

 

A nostro avviso, infatti, l’art. 111, 1° comma, Cost. è destinato ad avere una funzione centrale nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, trattandosi di disposizione dalle indubbie potenzialità espansive.

 

Per rendersi conto di tutto ciò, occorre ricostruire esattamente la nozione di giusto processo fatta propria dalla disposizione in parola.

 

 

 

3. La nozione di giusto processo nella dottrina.

 

A tale scopo va osservato, per cominciare, che “giusto non è qualunque processo che si limiti ad essere regolare sul piano formale” (20).

 

Così intesa, per vero, la nuova nozione divisata dall’art. 111, 1° comma, Cost. si risolverebbe in una mera tautologia, in una formula retorica priva di qualsivoglia significato e di ogni giustificazione.

 

Infatti, poiché solo nei confronti di specifici e determinati procedimenti già esauritisi è possibile stabilire se gli stessi siano stati o meno regolari sul piano formale, nel significato suindicato il giusto processo null’altro sarebbe che un inutile criterio di valutazione di (particolari e concrete) esperienze processuali già compiute.

 

E’ innegabile, viceversa, che il valore della giustezza di cui all’art. 111, 1° comma, Cost. deve connotare il modello costituzionale (generale ed astratto) del processo, il quale (data la posizione primaria occupata dalle norme costituzionali nella gerarchia delle fonti) è destinato a condizionare la fisionomia dei singoli procedimenti giurisdizionali elaborati (sempre in via generale ed astratta) dal Legislatore ordinario (21).

 

In secondo luogo, poi, va detto che non appare condivisibile neppure la tesi, secondo cui il processo può considerarsi giusto ai sensi dell’art. 111, 1° comma, Cost., “solo in quanto la sua regolamentazione per legge realizzi pienamente le condizioni previste nel 2° comma, facendo sì che qualsiasi processo si svolga nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale, con le garanzie legali di ragionevole durata” (22).

 

Ed invero, se presa alla lettera, codesta nozione di giusto processo (23) si rivela incompleta perché estrania da sé tutte quelle garanzie contemplate da altre disposizioni costituzionali: quali ad esempio della motivazione ex art. 111, 6° comma (24), quella del ricorso in cassazione ex art. 111, 7° comma (25), quella del giudice naturale precostituito per legge ex art. 25, 1° comma (26), il diritto alla prova (27) e il diritto alle misure cautelari (28) ex art. 24, 1° comma 1, Cost.

 

Se, di contro, viene intesa estensivamente quale “formula in cui si compendiano i principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, quanto ai diritti di azione e difesa in giudizio” (29), questa stessa nozione di giusto processo si rivela un’inutile superfetazione priva di ogni contenuto normativo (30), rappresentando non già un principio costituzionale autonomo, ma una semplice espressione sintetica del complesso dei valori costituzionali inerenti all’attività giurisdizionale (31).

 

La nozione di giusto processo enucleabile dal nuovo art. 111, 1° comma, Cost., invece, secondo noi ha una funzione ben più incisiva e pregante.

 

 

 

4. (Segue) Nostra opinione: la giustezza del processo quale conformità dello stesso ai valori di civiltà giuridica espressi o condivisi dalla collettività.

 

Per individuare esattamente il significato della formula de qua bisogna fare una considerazione preliminare: è “difficile negare che nell’era moderna la locuzione in discorso ripete le proprie origini soprattutto dal diritto anglosassone, prima inglese e poi americano, dove l’espressione due process, o anche l’espressione due process of law, risale indietro nei secoli fino all’inizio del presente millennio e trova particolare sviluppo presso i giuristi del secolo XIV, mantenendosi peraltro come principio vivo ed operante fino ai nostri giorni” (32).

 

Orbene!

 

Come la clausola del due process of law integra “un quid di valore positivo e vincolante superiore alle leggi, tratto o dal diritto naturale o dai caratteri essenziali ed inalienabili della civiltà propria di un determinato popolo” (33), così pure il giusto processo evocato dall’art. 111 Cost. “allude ad un concetto ideale di Giustizia, preesistente rispetto alla legge e direttamente collegato a quei diritti inviolabili di tutte le persone coinvolte nel processo che lo Stato, in base all’art. 2 Cost., si impegna a riconoscere” (34).

 

Alla stregua di tutto ciò si può senz’altro affermare che l’art. 111 Cost., là dove parla di giusto processo, ha voluto assegnare a tale formula il significato pratico di processo coerente con quei valori di civiltà giuridica, che in un determinato contesto storico sono espressi o condivisi dalla collettività (o, se si preferisce, dal Popolo, in nome del quale la giustizia è amministrata: art. 101, 1° comma, Cost.) (35).

 

 

 

5. La funzione della clausola del giusto processo: norma di apertura del sistema delle garanzie costituzionali della giurisdizione.

 

Individuato il significato della clausola del giusto processo, la sua rilevanza pratica nell’ordinamento emerge con tutta chiarezza mettendosene in evidenza la funzione.

 

Con essa, a ben considerare, il Legislatore ha voluto introdurre una vera e propria clausola generale destinata a funzionare – per così dire – come norma di apertura del sistema delle garanzie costituzionali della giurisdizione: come norma, cioè, in forza della quale è destinato a trovare ingresso all’interno di quel sistema qualsiasi principio o potere processuale ritenuto (secondo l’esperienza e la coscienza collettiva) necessario per un’effettiva e completa tutela delle ragioni delle parti (36).

 

Quale norma di apertura nel senso anzidetto, dunque, la clausola del giusto processo fa sì che il sistema delle garanzie costituzionali del processo non può e non deve essere considerato un hortus conclusus: non può e non deve, cioè, essere concepito come un “catologo chiuso” suscettibile tutt’al più di un’auto-integrazione analogica o estensiva.

 

Quella clausola, infatti, rappresenta lo strumento operativo dato alla Corte costituzionale per arricchire la gamma delle garanzie processuali e, più esattamente, per aggiungere a quelle tipiche (enumerate o desumibili dal testo costituzionale positivo) delle ulteriori componenti garantistiche (atipiche) enucleabili attraverso un’operazione di etero-integrazione [o, se si preferisce, di “giusnaturalismo processuale” (37)], recettiva:

 

    tanto dei principi del processo equo disegnati dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) del 1950 (38) e dagli altri Accordi internazionali in materia (39);

 

    quanto (e soprattutto) di quegli eventuali nuovi valori di civiltà [o, se si preferisce, “di natura etico-morale e tecnica, insieme” (40)] espressi e/o condivisi dalla collettività (41).

 

E’ ben vero che pure in questo significato la garanzia del giusto processo e le altre ex art. 111, 2° comma, Cost. avrebbero potuto erano desunte in via interpretativa dalle preesistenti norme della Costituzione (42): in particolare, dalla direttiva generale di razionalità dell’ordinamento espressa dall’art. 3 Cost. (43).

 

Tuttavia, “la loro cristallizzazione per tabulas, in una sorta di interpretazione autentica, … consente di identificare in modo chiaro ed esplicito i canoni ai quali dichiaratamente intende ispirarsi il nostro ordinamento” (44).

 

Tale “interpretazione autentica”, infatti, è finalizzata proprio ad evitare che in futuro il riconoscimento delle garanzie de quibus dipenda esclusivamente ed estemporaneamente (com’è spesso accaduto in passato) dall’ispirazione di qualche illuminato giurista o dalla saggezza dell’occasionale estensore di qualche sentenza della Consulta (45).

 

Giustamente, pertanto, è stato osservato che, “senza voler predire il futuro, oggi sarebbe comunque sbagliato non dare alcuna valenza all’espressione ‘giusto processo’, come se questa fosse solo un modo sintetico per richiamare le singole garanzie esplicitate nell’art. 111 Cost. In realtà la costruzione della norma impone all’interprete di dare a quell’espressione il valore di un’autonoma garanzia, ancorché indeterminata, solo in una certa misura sostanziata dalle restanti parti dell’art. 111 Cost.” (46).

 

 

 

6. Esemplificazioni applicative della clausola del giusto processo: il principio del doppio grado di giurisdizione.

 

Per rendere più concreto il discorso appena fatto, possiamo esemplificativamente menzionare il principio del doppio grado di giurisdizione e quello della pubblicità dei giudizi.

 

Cominciamo dal primo.

 

Non sono mancati in tempi “antichi e recenti” scrittori, che si sono sforzati di dimostrare il rango costituzionale del principio del doppio grado.

 

In passato, più precisamente, qualcuno (47) ha basato tale convinzione sull’art. 125, 2° comma, Cost. (48) e sulla situazione di diritto positivo presupposta dal Costituente.

 

Sennonché, il primo dei superiori argomenti si risolve in una distorta lettura dell’art. 125, 2° comma, Cost., il quale “comporta soltanto l’impossibilità di attribuire al Tar competenza giurisdizionale in unico grado e la conseguente necessaria appellabilità di tutte le sue pronunce, e, quindi, una garanzia del doppio grado riferita alle controversie che il Legislatore ordinario attribuisce agli organi locali della giustizia amministrativa” (49).

 

Ancor più specioso, poi, si rivela il secondo dei surricordati argomenti: con il quale, a ben considerare, si opera una inammissibile interpretazione “alla rovescia” delle norme costituzionali (interpretazione finalizzata, cioè, ad adeguare le medesime alla legislazione ordinaria vigente anziché a rapportare questa al significato intrinseco di quelle), surrettiziamente subordinandole così alle leggi ordinarie ed “invertendo il naturale rapporto per cui sono le prime ad incidere sulle seconde” (50).

 

Più recentemente la costituzionalizzazione del principio del doppio grado è stata postulata da chi (51), prendendo le mosse dalla nota tesi di Cerino Canova sulla garanzia costituzionale del giudicato ex art. 111, 2° (oggi 7°) comma, Cost. (52), ha sostenuto che quest’ultima disposizione deve essere valutata quale norma postulante un modello procedimentale articolato in almeno due gradi (“perché mai?”, chiederemmo noi) e concluso dalla ricorribilità in Cassazione: ragionamento, codesto, manifestamente privo di persuasività in quanto mera petizione di principio, assumendo esso come sua premessa (id est: un modello costituzionale di processo strutturato in almeno due gradi) proprio la conclusione che intende dimostrare (53).

 

Totalmente contraddittoria si rivela, infine, la posizione di chi, dopo avere osservato che il principio del doppio grado di giurisdizione “non è stato costituzionalizzato, almeno per quanto riguarda il processo civile”, afferma nondimeno che “una componente essenziale” del diritto di difesa ex art. 24, 2° comma, Cost. “è indubbiamente costituita dalla possibilità di ottenere il riesame della causa da parte di un giudice diverso da quello che ha emanato la sentenza” (54).

 

A nostro avviso, soltanto una baldanzosa sicumera può indurre a definire “indubbia” una simile conclusione.

 

Invero, l’art. 24 Cost., “stabilendo che la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del processo, precisa l’implicito riferimento alla” possibile “esistenza di più di un grado, ma non ne determina né il numero né la consistenza e deve leggersi pertanto come diritto alla difesa in ogni momento in cui sussista il processo, essendo evidente che non si può ledere tale diritto se non è previsto il grado in cui la difesa stessa deve esercitarsi” (55).

 

Se si prescinde dalle (rare e singolari) opinioni sopra ricordate (e confutate), il principio del doppio grado di giurisdizione è quasi sempre stato considerato privo di “copertura” costituzionale (56).

 

Esso, invece, gode di una certa rilevanza nel sistema della CEDU, ma trattasi di un riconoscimento incompleto. All’interno di quel sistema, infatti, la garanzia del doppio grado è esplicitamente prevista solo in materia penale (art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 del 22 settembre 1984), mentre in materia civile è contemplata soltanto da una (non vincolante) Raccomandazione: quella del Comitato dei Ministri del 7 febbraio 1995.

 

Orbene!

 

Proprio attraverso la “mediazione” della clausola del giusto processo il principio de quo potrebbe in futuro “transustanziarsi” in una vera e propria garanzia costituzionale del processo, se la Consulta lo riterrà rispondente ad un’istanza eventualmente espressa in tal senso dall’opinione pubblica e/o da concrete esperienze giudiziarie (57).

 

I tempi, tuttavia, non sembrano ancora maturi, se è vero per esempio che il Legislatore, novellando recentemente l’art. 616 c.p.c. (58), non ha esitato a prevedere la non impugnabilità (recte: la non appellabilità, stante sempre l’esperibilità del ricorso “straordinario” in Cassazione ex art. 111, 7° comma. Cost.) della sentenza che decide la causa di opposizione all’esecuzione: innovazione, codesta, che ha bensì suscitato seri dubbi di costituzionalità, ma per motivi diversi da quelli inerenti alla garanzia del doppio grado (59).

 

 

 

7. (Segue) Il principio della pubblicità dei giudizi.

 

“Il principio della pubblicità delle udienze giudiziarie si afferma nei tempi moderni con la caduta dell’assolutismo e viene proclamato, con una disposizione di portata generale, per la prima volta, nell’art. 208 della Costituzione francese del 1795, anno III (non mancarono, prima, disposizioni particolari: art. 163 Cost. del 1791, in materia di istruzione criminale; art. 94 e 96 Cost. del 1793, rispettivamente in materia di deliberazione delle cause civili e di istruzione criminale), disposizione in cui viene costituzionalizzato, sempre con carattere di generalità, l’obbligo di motivazione, ritenuto parimenti necessario al controllo sugli atti giudiziari. Il principio è successivamente accolto anche in carte costituzionali della Restaurazione e trova larga diffusione, assurgendo presto al ruolo di normale guarentigia d’una retta amministrazione della giustizia, anche in ordinamenti non ispirati ai principi di libertà e di eguaglianza.

 

In Italia la regola fu recepita nell’art. 72 dello Statuto albertino (‘le udienze dei tribunali in materia civile e i dibattimenti in materia criminale saranno pubblici conformemente alle leggi’) e in attuazione di questa disposizione statutaria le varie leggi processuali regolarono la pubblicità delle udienze (art. 52 c.p.c.; art. 268 c.p.p.; art. 443 c.p. per l’esercito; art. 490 c.p. militare marittimo; art. 34 della legge sul Consiglio di Stato).

 

Nell’iter formativo della Costituzione repubblicana, il principio venne esplicitamente enunciato nell’art. 101 del progetto presentato all’assemblea costituente il 31 gennaio 1947 (2° comma: ‘le udienze sono pubbliche, salvo che la legge per ragioni di ordine pubblico o di moralità disponga altrimenti’); ma poi, come risulta dai lavori preparatori, un’espressa enunciazione fu ritenuta superflua, in quanto si ritenne che la pubblicità delle udienze fosse implicitamente prescritta dal sistema costituzionale quale conseguenza necessaria del fondamento democratico del potere giurisdizionale, esercitato appunto, come recita l’art. 101, in nome del popolo.

 

Coerentemente, tutte le leggi processuali hanno mantenuto o introdotto la regola (art. 128 c.p.c.; art. 423 c.p.p.; art. 41 t.u. sul Consiglio di Stato approvato con r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, ora applicabile anche ai tribunali amministrativi regionali; art. 72 t.u. 12 luglio 1934, n. 1214, sull’ordinamento della Corte dei conti; art. 364 c.p. mil. pace; art. 15 legge 11 marzo 1953, n. 87 sul funzionamento della Corte costituzionale). Nelle varie norme ora indicate è possibile riscontrare qualche differenza, quanto alle eccezioni, peraltro molto limitate e largamente coincidenti, ma queste non scalfiscono affatto l’essenziale unità del principio, da considerare indefettibile – ripetesi – in un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, come il nostro, al quale non può non conformarsi l’amministrazione della giustizia, che in quella sovranità trova la sua legittimazione ..., riconoscendosi peraltro il potere del Legislatore ordinario di introdurre per singole categorie di procedimenti deroghe determinate da ragioni obiettive e razionali. Il principio, invero, non può considerarsi assoluto ma deve cedere in presenza di particolari circostanze giustificative, ma, ove queste non si verifichino, è indubitabile che la regola della pubblicità delle udienze debba trovare piena attuazione.

 

Vale aggiungere che detta pubblicità, in quanto espressione di civiltà giuridica, viene prescritta non soltanto nell’ordinamento italiano, ma è prevista anche in convenzioni internazionali, quali la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (art. 6) e ratificata con la legge 4 agosto 1955 n. 848 (e così anche il nuovo ordinamento processuale della Corte europea dei diritti dell’uomo, art. 18), il patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966 e ratificato con legge 25 ottobre 1977 n. 881 (art. 14), i protocolli sullo statuto della Corte di giustizia, annessi ai trattati CECA, CEE ed EURATOM (rispettivamente art. 28 e 29)” (60).

 

Codeste affermazioni della Corte costituzionale sul principio della pubblicità delle udienze (e sui suoi limiti) in linea di massima vanno condivise.

 

Nel nostro ordinamento, tuttavia, non è configurabile (in senso tecnico) un controllo politico-costituzionale (diretto o indiretto) del Popolo nei confronti della Magistratura (61).

 

A nostro avviso, pertanto, non è corretto desumere il principio de quo dall’art. 101, 1° comma, Cost. (siccome hanno fatto i Giudici costituzionali), mentre più pertinente ci sembra l’istituzione di una relazione inferenziale tra esso (principio) ed il 2° comma dello stesso art. 101 Cost., dovendosi ravvisare nella regola della pubblicità delle udienze una garanzia “deontologica” del valore della legalità dell’attività giurisdizionale del tutto analoga a quella fornita dall’obbligo della motivazione ex art. 111, 6° comma, Cost. (62).

 

Negli ultimi anni, tuttavia, la Corte costituzionale, nel nome del carattere non assoluto del principio in questione e della sua conseguente derogabilità giustificata da esigenze ragionevoli (quali la moralità, l’ordine pubblico, la dignità umana, la sicurezza nazionale, l’interesse dei minori, il rapido funzionamento del processo), ha di fatto avallato soluzioni legislative comportanti per determinati procedimenti giurisdizionali la soppressione di ogni forma di pubblicità delle relative udienze (63).

 

Ebbene!

 

Se si considera che l’intenzione di “perseguire un migliore e più rapido funzionamento del processo” (64) e quella di tutelare la dignità umana dell’imputato (65) si prestano ad esser ravvisate (da sole o congiuntamente) in qualunque intervento legislativo “mortificante” il principio della pubblicità delle udienze giudiziarie civili e penali, si ha la sensazione che la Consulta stia contribuendo a far degenerare quel principio da garanzia immanente nel sistema costituzionale a mera formula declamatoria priva di contenuto sostanziale.

 

Questa sensazione è avvalorata pure da alcune sorprendenti affermazioni della Consulta circa una pretesa funzione succedanea della “pubblicità degli atti depositati nel fascicolo di causa” e della pubblicazione di una sentenza “motivata nell’osservanza del canone di congruità argomentativa” (66).

 

Sperando che la Corte costituzionale riesca a recuperare integralmente il senso della civiltà giuridica ispirante le sue prime pronunce in subiecta materia, osserviamo che a tale scopo potrebbe contribuire proprio la clausola del giusto processo introdotta dall’art. 111, 1° comma, Cost. (67).

 

Evidenziamo conclusivamente che appare equilibrata la soluzione oggi divisata in argomento dagli artt. 275 e 281 sexies c.p.c per il processo ordinario di cognizione: tali norme, pur conservando l’udienza (pubblica ex art. 128 c.p.c.) di discussione della causa (così rispettando il principio in parola), ne hanno condizionato lo svolgimento alla richiesta di una delle parti (in tal modo tutelando anche l’interesse ad “un migliore e più rapido funzionamento del processo”) (68).

 

 

 

1 () Su tale garanzia v. ANDOLINA-VIGNERA, I fondamenti costituzionali della giustizia civile, Torino, 1997, 191 ss., dove l’obbligo motivazionale viene configurato quale condizione minima di effettività del principio di legalità dell’attività giurisdizionale ex art. 101, 2° comma, Cost.: il tutto, previo esame critico della c.d. concezione democratica dell’obbligo costituzionale della motivazione (ravvisante in esso lo strumento per il controllo popolare sull’attività giurisdizionale: in questo senso v. specialmente TARUFFO, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975, 370 ss., 405 ss.) e della c.d. concezione istituzionale dell’obbligo stesso (individuante il profilo funzionale di codesto obbligo nell’effettività del sindacato di legittimità conferito alla Corte di cassazione dallo stesso art. 111 Cost., sindacato che “non sarebbe possibile se le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale non consentissero di ricostruire l’iter logico-giuridico attraverso il quale il giudice è pervenuto alla decisione”: DENTI, La magistratura, IV, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, art. 111-113, Bologna-Roma, 1987, 8-9).

 

2 () Sulla funzione di tale mezzo d’impugnazione (consistente nel garantire pienamente il valore della legalità ex art. 101, 2° comma, Cost. nei confronti dei provvedimenti decisori e sulla libertà personale), sul suo oggetto (rappresentato dalla sentenza in senso sostanziale, caratterizzata a sua volta dalla coesistenza dei requisiti della decisorietà e della definitività) e sui motivi con esso deducibili v. ANDOLINA-VIGNERA, I fondamenti costituzionali della giustizia civile, cit., 205 ss.

 

Sotto quest’ultimo profilo va ricordato che, dopo Cass. civ., Sez. un., 16 maggio 1992, n. 5888 (in Foro it., 1992, I, 1737), la giurisprudenza è stata costante nell’affermare che il vizio di motivazione deducibile col ricorso “straordinario” è soltanto quello concretantesi nell’inesistenza, nella contraddittorietà o nella mera apparenza della motivazione stessa, limitatamente ai casi in cui tale vizio risulti dal testo del provvedimento impugnato.

 

Sennonché, a seguito della sua sostituzione posta in essere dall’art. 2, d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, l’art. 360, ultimo comma, c.p.c., stabilisce oggi che “le disposizioni di cui al primo comma” (sui motivi di impugnazione] “e terzo comma” (sulla necessaria ed automatica riserva di ricorso contro le sentenze non definitive che “decidono di questioni insorte”) “si applicano alle sentenze ed ai provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge”: ivi compreso, quindi, quello ex art. 111, 7° comma, Cost.

 

Orbene!

 

“Imporre l’applicazione dell’art. 360, 1° comma, c.p.c. allo stesso modo in qualunque ipotesi di ricorso per cassazione (ordinario o straordinario che sia) significa assicurare che il vizio di motivazione sia censurato sempre nei medesimi termini. Sicché, delle due l’una: o il n. 5 va ristretto anche per il ricorso ordinario entro i confini di quanto sino ad oggi valso per quello straordinario, ovvero si impone l’appiattimento delle differenze in direzione opposta, estendendo al ricorso straordinario il controllo sulla motivazione così come la prassi lo vuole per quello ordinario. La prima ipotesi sarebbe causa di un eccessivo depauperamento della portata precettiva del n. 5, a tale disposizione attribuendosi un significato che da tempo mostra i suoi limiti nel circoscritto orto del rimedio straordinario. Si avallerebbe peraltro una lettura che neppure la versione novellata del motivo sarebbe idonea a sostenere e che probabilmente risulterebbe troppo stretta per la stessa Corte. La seconda ipotesi è senz’altro più ragionevole perché finalizzata a vincere la patologia di cui il rimedio straordinario era gravato” [così esattamente TISCINI, Gli effetti della riforma del giudizio di cassazione sul ricorso straordinario ex art. 111 comma 7 cost., in www.judicium.it, 2008, par. 4, la quale mette pure in evidenza che la seconda ipotesi corrisponde all’intentio del Legislatore desumibile dalla Relazione illustrativa al decreto delegato. Infatti, “impedire il controllo del vizio logico della motivazione significa precludere al giudice di legittimità il sindacato indiretto sul fatto; è questo però un sindacato che si rivela indispensabile per soddisfare le aspettative delle parti, le quali puntano a conseguire attraverso il rimedio straordinario proprio il controllo sul giudizio di fatto di cui (data la definitività del provvedimento) sarebbero altrimenti private”].

 

3 () Sullo specifico tema v. BERLATI, “Limiti esterni” della giurisdizione amministrativa e ricorso in Cassazione contro le decisioni del Consiglio di Stato, in Arch. civ., 1997, 241 ss.; MARINO, Corte di cassazione e giudici “speciali”, in Giur. it., 1993, IV, 14 ss.

 

4 () Le norme attuative di questa parte della riforma costituzionale sono state date con la l. 1° marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale ed al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell’art. 111 Cost.).

 

5 () Precisiamo subito che nella nostra esposizione il concetto di procedimento e quello di processo verranno usati promiscuamente, poiché non ci sembra fondata su dati normativi positivi la loro distinzione incentrata sulla mancanza nel primo e sulla presenza nel secondo del contraddittorio tra le parti (per tale distinzione v. specialmente FAZZALARI, Diffusione del processo e compiti della dottrina, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 861 ss.; FAZZALARI, Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1983, 73 ss.; PICARDI, La dichiarazione di fallimento dal procedimento al processo, Milano, 1974, 133 ss., 154 ss.).

 

Codesta distinzione, invero, appare anzitutto inficiata da un’intrinseca artificiosità, essendo del tutto nominalistica: ben si potrebbero, infatti, invertire le definizioni (riconoscendo al procedimento e negando, invece, al processo la peculiarità strutturale del contraddittorio inter partes) senza che ne derivino conseguenze applicative (per tale saggia obiezione v. GIANNINI, Diritto amministrativo, Milano, 1970, 822 ss.).

 

La distinzione stessa, poi, si rivela assolutamente inutile dal punto di vista pratico, considerato che nel diritto positivo è possibile riscontrare (da un lato) procedimenti giurisdizionali senza contraddittorio (come, per esempio, quello monitorio in senso stretto); e (dall’altro lato) procedimenti non giurisdizionali aventi struttura dialettica (i c.d. procedimenti amministrativi contenziosi o quasi-contenziosi, sui quali v. ex multis BENVENUTI, Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, 126 ss., 138 ss.; GIANNINI, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 1981, 379 ss.): anzi, per effetto degli artt. 7-10 l. 7 agosto 1990, n. 241, la dialetticità integra attualmente un requisito coessenziale alla stessa nozione giuridica di procedimento amministrativo (v. per tutti CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, 2, Milano, 2001, 1291 ss., secondo cui oggi “il principio del giusto procedimento, e con esso il principio del contraddittorio, è inderogabile in procedimenti che si concludono con provvedimenti afflittivi della sfera giuridica del privato”).

 

Sulla tendenza ad esaltare l’utilizzazione del metodo partecipativo pure nell’ambito del procedimento legislativo v., infine, PATRONO, “Procedimento legislativo”, in Nov. dig. it., Appendice, V, Torino, 1984, 1343 ss.

 

Conclusivamente, pertanto, appare corretto affermare che “l’unico dato certo, che abbia rilievo per l’interprete del diritto positivo, … par quello che tale diritto non usa la parola ‘processo’ per definire procedimenti che non siano giudiziari, più precisamente ove non operi il giudice, e la riserva, prevalentemente, a quei procedimenti giudiziari, le cui funzioni sono giurisdizionali necessarie” (MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1985, 7).

 

6 () COMOGLIO, Il “giusto processo” civile nella dimensione comparatistica, in Riv. dir. proc., 2002, 702 ss., 739-740, evidenzia le “imprecisioni od incertezze semantiche” caratterizzanti le disposizioni costituzionali del 1999, esattamente rilevando (tra l’altro) che la giurisdizione “non si ‘attua’, ma semmai ‘si esercita’ o viene ‘esercitata’ dai giudici che ne siano titolari, come è possibile argomentare dall’art. 1 c.p.c.”.

 

7 () Sul punto v. esemplificativamente BOVE, Art. 111 Cost. e “giusto processo civile”, in Riv. dir. proc., 2002, 479 ss., 483-484, secondo cui anzi ai canoni del giusto processo devono attenersi pure “la giurisdizione privata, ossia l’arbitrato (rituale), e la giurisdizione straniera, perché esse hanno ormai assunto nel nostro ordinamento piena ed autonoma rilevanza nel momento in cui il Legislatore ha statuito l’efficacia del lodo arbitrale e della sentenza straniera a prescindere da ogni atto di recezione del giudice pubblico” (v. per l’arbitrato gli artt. 823, 4° comma, 827, 2° comma e 828, 1° e 2° comma, c.p.c.; e per le sentenze straniere l’art. 64 della l. 31 maggio1995, n. 218).

 

8 () Son parole di COSTANTINO, Il giusto processo di fallimento, in La tutela dei crediti nel giusto processo di fallimento, a cura di Didone e Filippi, Milano, 2002, 1 ss., 5-6.

 

Sulla genesi ideologico-politica e culturale del ‘nuovo’ art. 111 Cost. v. COMOGLIO, Il “giusto processo” civile nella dimensione comparatistica, cit., 710 ss.; TROCKER, Il nuovo articolo 111 della costituzione e il “giusto processo” in materia civile: profili generali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 381 ss., 383 ss.

 

9 () Così specialmente CHIARLONI, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il processo civile, in Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, a cura di Civinini e Verardi, Milano, 2001, 13 ss. passim; conf. DIDONE, La Corte costituzionale, la ragionevole durata del processo e l’art. 696 c.p.c., in Giur. it., 2000, 1127 ss., 1128-1129.

 

10 () E’ la contrapposta tesi di COSTANTINO, Il giusto processo di fallimento, cit., 8-9.

 

11 () Così sostiene, invece, CHIARLONI, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il processo civile, cit., 13 ss.

 

12 () Sulla “effettività” [di cui “si colgono tracce eloquenti nello stesso linguaggio costituzionale (artt. 3, comma 2°, 4, comma 1°, 10, comma 3°, 34, comma 3°)”] quale “componente definitoria insopprimibile delle garanzie costituzionali attinenti al processo” e sulla sua funzione nell’interpretazione delle norme costituzionali (consistente nello svincolare la loro lettura da criteri formalistici e nel favorire l’estrinsecazione e lo sviluppo di tutte le potenzialità garantistiche latenti in esse, consentendo così di “ascrivere a quelle norme un significato ‘forte’, che possa avere un’incidenza concreta e diretta sul progresso evolutivo delle istituzioni processuali”) v. COMOGLIO, I modelli di garanzia costituzionale del processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1991, 677 ss.; COMOGLIO, Giurisdizione e processo nel quadro delle garanzie costituzionali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, 1063 ss., spec. 1070 ss. (dove, con specifico riferimento alla garanzia costituzionale dell’azione, si distinguono quattro profili di effettività: soggettiva, tecnica, qualitativa ed oggettiva; a questo autore appartengono altresì le parole riportate fra virgolette).

 

In una prospettiva più generale v. COMOGLIO-FERRI-TARUFFO, Lezioni sul processo civile, Bologna, 1995, 28 ss.

 

Per la giurisprudenza v. tra le più recenti Corte cost. 12 marzo 2007, n. 77, in Foro it., 2007, I, 1009.

 

13 () V. VIGNERA, Il giusto processo d’ingiunzione, in BODRITO-FIORENTIN-MARCHESELLI-VIGNERA, Giusto processo e riti speciali, Milano, 2009, 67 ss., 160 ss.

 

14 () Su ciò v. VIGNERA, La garanzia costituzionale della terzietà del giudice civile, in Informazione prev., 2003, 1445 ss; VIGNERA, Incompatibilità per “pre-giudizio esecutivo” del giudice dell’opposizione ex art. 617 c.p.c., in Riv. es. forz., 2004, 1 ss.

 

15 () V. VIGNERA, Il giusto processo regolato dalla legge, in BODRITO-FIORENTIN-MARCHESELLI-VIGNERA, Giusto processo e riti speciali, cit., 1 ss., 45 ss.

 

16 () Queste cose sono state scritte da CHIARLONI, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il processo civile, cit., 14-16.

 

17 () Trattasi dell’opinione di COSTANTINO, Il giusto processo di fallimento, cit., 6, 9.

 

18 () In dottrina v. ANDOLINA-VIGNERA, Il modello costituzionale del processo civile italiano, Torino, 1990, 167-168; BALLERO, Tutela sostanziale del diritto di difesa e nuovo corso della giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost., 1972, 996 ss., 997; BARILE, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1982, 360; CAPPELLETTI, Diritto di azione e di difesa e funzione concretizzatrice della giurisprudenza costituzionale. (Art. 24 Costituzione e «due process of law clause»), in Giur. cost., 1961, 1284 ss., 1286 ss.; MONTESANO, “Dovuto processo” su diritti incisi da giudizi camerali e sommari, in Riv. dir. proc., 1989, 915, 917 ss.; SCAPARONE, Rapporti civili, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, art. 24-26, Bologna-Roma, 1981, 82 ss., 84; SERGES, Il principio del “doppio grado di giurisdizione” nel sistema costituzionale italiano, Milano, 1993, 115 ss.

 

Per la giurisprudenza v. Corte cost. 26 marzo 1986, n. 66, in Foro it., 1986, I, 1496; Corte cost. 22 aprile 1986, n. 102, in Foro it, 1986, I, 1762; Corte cost. 30 aprile1986, n. 120, in Foro it., 1986, I, 1753; Corte cost. 15 settembre 1995, n. 432, in , Foro it., 1995, I, 3068; Corte cost. 20 maggio 1996, n. 155, in Foro it., 1996, I, 1898; Corte cost. 31 maggio 1996, n. 177, in Foro it., 1996, I, 2278.

 

Per un’elencazione più completa delle decisioni della Consulta richiamanti la nozione di giusto processo v. CECCHETTI, “Giusto processo (Diritto costituzionale)”, in Enc. dir., Aggiornamento, V, Milano, 2001, 595 ss., 597 ss.

 

19 () Così CHIARLONI, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il processo civile, cit., 16.

 

20 () TROCKER, Il nuovo articolo 111 della costituzione e il “giusto processo” in materia civile: profili generali, cit., 386, il quale in tal modo contesta esattamente la nozione divisata da SCOTTI, Il testo sulla giustizia approvato dalla commissione bicamerale, in Doc. giust., 1997, 2183 ss., 2184 (nozione che è fatta propria pure da LOZZI, Lezioni di procedura penale, Torino, 2000, 17).

 

21 () Sul modello costituzionale del processo e sui suoi caratteri generali (espansività, variabilità e perfettibilità) v. ANDOLINA-VIGNERA, I fondamenti costituzionali della giustizia civile, cit., 9-11.

 

22 () Son parole di COMOGLIO, Il “giusto processo” civile nella dimensione comparatistica, cit., 740.

 

23 () Tale nozione è fatta propria da COSTANTINO, Il giusto processo di fallimento, cit., 8-9; e da FERRUA, Il “giusto processo” in Costituzione, in Diritto e giustizia, 2000, f. 1, 1 ss., 5 ss.

 

24 () V. la nota 1.

 

25 () V. la nota 2.

 

26 () V. ANDOLINA-VIGNERA, I fondamenti costituzionali della giustizia civile, cit., 21 ss., dove vengono esaminati il profilo sostanziale della garanzia de qua (rappresentato dalla parte della norma che impone la precostituzione del giudice) ed il suo profilo formale (rappresentato dalla parte della norma che copre la materia della precostituzione stessa con una riserva di legge).

 

27 () Sul diritto alla prova, sulla sua correlazione con la garanzia costituzionale dell’azione (e non della difesa: come, invece, usualmente si dice) e sulle sue proiezioni sulla disciplina positiva delle prove civili v. ANDOLINA-VIGNERA, I fondamenti costituzionali della giustizia civile, cit., 97 ss.

 

Nello stesso senso v.; Corte cost. 19 luglio 1996, n. 257, in Foro it., 1997, I, 1716; Corte cost. 20 febbraio 1997, n. 46, in Giust. civ., 1997, I, 880; Corte cost. 16 maggio 2008, n. 144, in Corriere giur., 2008, 1070.

 

28 () Sul diritto alla tutela cautelare quale condizione di effettività della garanzia costituzionale dell’azione e sulle “oscillazioni” giurisprudenziali in subiecta materia v. ANDOLINA-VIGNERA, I fondamenti costituzionali della giustizia civile, cit., 66 ss.

 

Nella giurisprudenza più recente, comunque, tende per fortuna a prevalere la tesi, che considera la tutela cautelare insita nel diritto ex art. 24, 1° comma Cost. (v. tra le più recenti Corte cost. 16 maggio 2008, n. 144 cit., , nella cui motivazione si legge: “Con riguardo alla normativa censurata” (id est: quella sui procedimenti di istruzione preventiva), “si rileva anzitutto che essa fa parte della tutela cautelare, della quale condivide la ratio ispiratrice che è quella di evitare che la durata del processo si risolva in un pregiudizio della parte che dovrebbe veder riconosciute le proprie ragioni. Non si può dubitare che l'impossibilità di sentire in futuro nella sede ordinaria uno o diversi testimoni, così come l'alterazione dello stato di luoghi o, in generale, di ciò che si vuole sottoporre ad accertamento tecnico possano provocare pregiudizi irreparabili al diritto che la parte istante intende far valere”.

 

29 () Così si legge in Corte cost. 24 aprile 1996, n. 131, in Foro it., 1996, I, 1489.

 

30 () Per analogo rilievo v. pure BOVE, Art. 111 Cost. e “giusto processo civile”, cit., 493.

 

31 () Stupisce non poco, pertanto, l’entusiasmo manifestato nei confronti di tale nozione da CECCHETTI, “Giusto processo (Diritto costituzionale)”, cit., 598, secondo cui la surricordata formula espressa da Corte cost. 24 aprile 1996, n. 131, cit., “è divenuta punto di riferimento essenziale per l’interprete”.

 

32 () Così VASSALLI, Il giusto processo: la genesi e la storia, in Il Giusto processo, 2002, 149 ss., 151-152, il quale richiama al riguardo la Magna Charta Libertatum del 1215, una legge inglese del 1335 ed il 5° emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America.

 

33 () VASSALLI, Il giusto processo: la genesi e la storia, cit., 152.

 

34 () Così perspicuamente CONTI, “Giusto processo (Diritto processuale penale)”, in Enc. dir., Aggiornamento, V, Milano, 2001, 627 ss., 628.

 

35 () V. VIGNERA, Le garanzie costituzionali del processo civile alla luce del “nuovo” art. 111 Cost., in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 1185 ss., 1194.

 

36 () V. VIGNERA, Le garanzie costituzionali del processo civile alla luce del “nuovo” art. 111 Cost., cit., 1193.

 

Questo profilo funzionale del giusto processo era stato già da noi intravisto in ANDOLINA-VIGNERA, Il modello costituzionale del processo civile italiano, cit., 167-168, anche sulla base delle considerazioni di MONTESANO, “Dovuto processo” su diritti incisi da giudizi camerali e sommari, cit., 917 ss.; e soprattutto di SCAPARONE, Rapporti civili, cit., 84, che a proposito dell’art. 24, 2° comma, Cost. parla icasticamente di “disposizione generica ed ‘aperta’ cosicchè, qualora l’esperienza dimostrasse e la coscienza collettiva riconoscesse l’utilità, ai fini di una più efficace difesa dell’imputato, di un qualsiasi altro diritto, potere o facoltà, anche questo dovrebbe immediatamente dirsi compreso nella garanzia offerta dalla norma in esame”.

 

Nel senso qui divisato v. oggi BOVE, Art. 111 Cost. e “giusto processo civile”, cit., 493 ss. (che parla di “autonoma garanzia, ancorché indeterminata”, dalla quale la Corte costituzionale può trarre “la necessità di rispettare garanzie ulteriori rispetto a quelle esplicitate nel 2° comma dello stesso articolo” 111 Cost.); COMOGLIO, Il “giusto processo” civile nella dimensione comparatistica, cit., passim, spec. 751 ss. [dove si rileva in particolare che la nozione de qua “si configura quale sintesi superiore (e, sul piano tecnico, quale ‘categoria ordinante’) di più valori sottesi ad una ben determinata ideologia di giustizia – con forti componenti etico-deontologiche, basate sull’inviolabile rispetto dei diritti fondamentali della persona – nonché quale risultante di talune scelte fondamentali di civiltà e di democrazia, che appartengono per millenaria tradizione alla natural justice”]; CONTI, “Giusto processo (Diritto processuale penale)”, cit., 628 (“Preferibile appare la tesi secondo cui la locuzione allude ad un concetto ideale di Giustizia, preesistente rispetto alla legge e direttamente collegato a quei diritti inviolabili di tutte le persone coinvolte nel processo che lo Stato, in base all’art. 2 cost., si impegna a riconoscere”); TROCKER, Il nuovo articolo 111 della costituzione e il “giusto processo” in materia civile: profili generali, cit., 386 (“giusto è il processo che si svolge nel rispetto dei parametri fissati dalle norme costituzionali e dei valori condivisi dalla collettività”).

 

Lo stesso COSTANTINO, Il giusto processo di fallimento, cit., 7, dopo avere scritto che “il processo ‘giusto’ è quello che la legge, nel caso di specie la Costituzione, definisce tale”, riconosce (alla fine della nota 10) che “la effettiva portata dei nuovi principi costituzionali è destinata ad essere definita dalla giurisprudenza”.

 

Del tutto ambigua si rivela, invece, la posizione di CECCHETTI, “Giusto processo (Diritto costituzionale)”, cit., 605 ss., secondo cui “la corretta ricostruzione della nozione di ‘giusto processo’, come formula di sintesi, ‘aperta’ e suscettibile di espansioni e integrazioni rispetto al testo dell’art. 111, ma pur sempre rigorosamente nell’ambito di quanto si può ricavare dal sistema del diritto costituzionale positivo, impone di respingere non soltanto ogni riferimento a concezioni che in qualche modo riecheggino il ‘diritto naturale’, ma anche quelle posizioni (manifestatesi da più parti) tendenti a ‘svalutare’ la portata autenticamente normativa dell’espressione ‘giusto processo’”: la superiore puntualizzazione da noi trascritta in corsivo, invero, non solo mal si concilia con il riconoscimento della “portata autenticamente normativa dell’espressione ‘giusto processo’”, ma ci sembra pure pericolosamente idonea a comprimere quelle che abbiamo sopra definito “potenzialità espansive” della norma de qua.

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