Vignera Giuseppe
Sommario: 1. Premessa: l’art. 111,
1° e 2° comma, Cost. quale norma vecchia nel contenuto e
nuova nella funzione. - 2. Le interpretazioni
minimalista e massimalista della clausola del giusto
processo: esame critico. - 3. La nozione di giusto
processo nella dottrina. - 4. (Segue) Nostra opinione:
la giustezza del processo quale conformità dello stesso
ai valori di civiltà giuridica espressi o condivisi
dalla collettività. - 5. La funzione della clausola del
giusto processo: norma di apertura del sistema delle
garanzie costituzionali della giurisdizione. - 6.
Esemplificazioni applicative della clausola del giusto
processo: il principio del doppio grado di
giurisdizione. - 7. (Segue) Il principio della
pubblicità dei giudizi.
1. Premessa: l’art. 111, 1° e 2°
comma, Cost. quale norma vecchia nel contenuto e nuova
nella funzione.
L’art. 111 Cost. nella sua
formulazione originaria constava di tre commi.
Il 1° comma, più esattamente,
divisava (e divisa ancora) la garanzia della motivazione
di tutti i provvedimenti giurisdizionali (1).
Il 2° comma, a sua volta,
assicurava (e continua ad assicurare) l’esperibilità del
ricorso (c.d. straordinario) in Cassazione contro le
sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale (2).
Il 3° comma, infine, fissava (e
continua a farlo) i limiti (“per i soli motivi inerenti
alla giurisdizione”) del ricorso in Cassazione avverso
le decisioni delle Supreme magistrature amministrative
(Consiglio di Stato e Corte dei conti) (3).
L’art. 1 l. cost. 23 novembre 1999,
n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo
nell’art. 111 della Costituzione) ha lasciato immutato
il testo dei commi predetti, dei quali è cambiata
solamente la collocazione nell’ambito dell’art. 111
Cost., (diventandone, rispettivamente, i commi 6°, 7° e
8°) a seguito dell’aggiunta di altri cinque commi.
Di questi nuovi commi, il 3°, il 4°
ed il 5° si riferiscono esclusivamente al processo
penale (4).
Il 1° ed il 2° di tali commi,
invece, attesa la loro formulazione in termini
generalissimi, riguardano qualsiasi procedimento
giurisdizionale (5).
Infatti, il nuovo 1° comma
dell’art. 111 Cost. stabilisce che “la giurisdizione si
attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”
(6).
Il nuovo 2° comma, a sua volta,
prevede che “ogni processo si svolge nel contraddittorio
delle parti, in condizioni di parità, davanti ad un
giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la
ragionevole durata”.
Come detto, codeste disposizioni
(in forza dell’indiscusso carattere onnicomprensivo
della loro formulazione) sono destinate ad influenzare
la struttura di ogni processo concretamente modellato
dal Legislatore ordinario: penale, civile,
amministrativo, contabile o tributario che esso sia (7).
Le norme de quibus, tuttavia, hanno
veramente innovato il precedente sistema delle garanzie
costituzionali della giurisdizione?
La domanda trova la sua ragion
d’essere nel fatto che l’art. 111, 1° e 2° comma, Cost.
(nuovo testo) ha immediatamente provocato tra gli
studiosi una strana contrapposizione: a compensare quasi
l’altrettanto strana (attesa la materia interessata
dall’intervento normativo: quella della giustizia)
concordia politica, che “ha condotto il parlamento ad
approvare con singolare rapidità ed in assenza di un
approfondito dibattito vuoi nelle sedi istituzionali,
vuoi nell’ambito scientifico e tra gli operatori della
giustizia una riforma costituzionale destinata ad
incidere sull’assetto complessivo del sistema
giudiziario” (8).
Tale riforma costituzionale, più
esattamente, è stata da alcuni annichilita con un
perentorio “niente di nuovo” (9).
Altri, invece, l’hanno esaltata a
tal punto da considerarla foriera di “nuovi principi
costituzionali” concretanti un nuovo “modello
processuale” (quello del “giusto processo”),
contrapposto alle preesistenti “garanzie procedimentali
minime costituzionalmente dovute” (10).
A nostro avviso la verità (more
solito) sta nel mezzo.
Tanto il 1° quanto il 2° comma del
nuovo art. 111 Cost. non sembrano, infatti, avere un
contenuto veramente innovativo rispetto al precedente
sistema delle garanzie costituzionali della
giurisdizione.
Esse, a ben considerare, non fanno
altro che ribadire o – se si preferisce – esplicitare il
contenuto di garanzie oggettive (id est: incidenti sulla
struttura dei procedimenti giurisdizionali) e soggettive
(id est: condizionanti i requisiti degli organi preposti
all’esercizio della giurisdizione) preesistenti alle
modifiche apportate all’art. 111 Cost. dall’art. 1 l.
cost. 23 novembre 1999, n. 2.
Ciò, tuttavia, non giustifica
affatto l’affermazione che la riforma de qua é stata
assolutamente inutile (11).
Ad essa, per vero, può sicuramente
assegnarsi una valenza (non contenutistica, ma)
funzionale ben precisa: quella di fornire una sorta di
chiave di rilettura delle garanzie costituzionali
attinenti al processo, richiamando tutti ad una loro
interpretazione ispirata al principio di effettività
(12).
Per convincersi pienamente
dell’opportunità di codesta rilettura è sufficiente
pensare alla vera e propria attività di mortificazione
compiuta dalla Corte costituzionale (recte: nell’ambito
della giustizia civile) nei confronti dei valori oggi
esplicitati dall’art. 111, 2° comma, Cost.: nei
confronti, cioè, del principio della parità delle parti
(13), della garanzia della terzietà del giudice (14) e
del principio della ragionevole durata del processo
(15).
Secondo noi, pertanto, il vigente
art. 111, 1° e 2° comma, Cost., pur avendo un contenuto
totalmente (o quasi) vecchio, ha nondimeno una funzione
sicuramente nuova.
2. Le interpretazioni minimalista e
massimalista della clausola del giusto processo: esame
critico.
La contrapposizione dei due
orientamenti surricordati si è manifestata con
particolare evidenza rispetto alla clausola del giusto
processo divisata dal nuovo art. 111, 1° comma, Cost.
(“La giurisdizione si attua mediante il giusto
processo”).
In base all’interpretazione
minimalista, infatti, la formula giusto processo ha solo
una “intenzione polemica” (“quasi ad insinuare che il
processo finora sia stato ingiusto”), “appartiene al
folklore delle istituzioni e sarà presto dimenticata”,
dato che “dall’art. 24, 2° comma, Cost., anche nella sua
connessione con l’art. 3, sono ricavabili tutte le
garanzie enunciate dalla prima parte del nuovo art.
111”: con la conseguenza “che non esiste un solo caso in
cui, oggi, si dovrebbe dichiarare l’illegittimità di
norme ordinarie per violazione di garanzie
costituzionali che non si sarebbe potuta (e dovuta)
dichiarare prima. Non esistono norme del processo civile
legittime prima dell’entrata in vigore della legge
costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 e illegittime
dopo” (16).
Alla stregua dell’interpretazione
massimalista, di contro, “la introduzione nella Carta
fondamentale della Repubblica, cinquantadue anni dopo la
sua emanazione, di nuovi principi in materia di ‘giusto
processo’ implica che, in questo periodo il processo,
quello penale, quello civile, quello amministrativo,
quello tributario e quello contabile, non fossero
giusti”: con la conseguenza che “non appare
scientificamente corretto e, quindi, ammissibile,
invocare la giurisprudenza costituzionale anteriore in
funzione del giudizio di legittimità costituzionale ai
sensi dell’art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87. Quella
giurisprudenza, infatti, aveva quale termine di
riferimento la Costituzione nel testo anteriore alla
legge costituzionale n. 2 del 1999” (17).
A dimostrare l’erroneità di
quest’ultima interpretazione basta la considerazione che
già prima della l. cost. 23 novembre 1999, n. 2 la
nozione di giusto processo era ben presente e vitale
all’interno del nostro sistema costituzionale.
Tanto in dottrina quanto in
giurisprudenza, invero, era stata in più occasioni
ravvisata nella norma ex art. 24, 2° comma, Cost.
(assicurante ex professo il diritto alla difesa) la
garanzia dello svolgimento di un processo giusto,
assegnandosi ad essa (norma) una funzione corrispondente
a quella della due process of law clause della
Costituzione nordamericana (18).
Quanto testé detto, nondimeno, non
ci porta affatto a condividere la prima prospettiva:
quella, cioè, del nihil novi, alla cui stregua l’art.
111, 1° comma, Cost. rappresenterebbe una disposizione
dal “contenuto innovativo totalmente inesistente”, che
“può interessare a breve termine il commentatore
politico o lo studioso dei costumi”, ma che invece “non
può interessare il giurista positivo” (19).
A nostro avviso, infatti, l’art.
111, 1° comma, Cost. è destinato ad avere una funzione
centrale nell’evoluzione della giurisprudenza
costituzionale, trattandosi di disposizione dalle
indubbie potenzialità espansive.
Per rendersi conto di tutto ciò,
occorre ricostruire esattamente la nozione di giusto
processo fatta propria dalla disposizione in parola.
3. La nozione di giusto processo
nella dottrina.
A tale scopo va osservato, per
cominciare, che “giusto non è qualunque processo che si
limiti ad essere regolare sul piano formale” (20).
Così intesa, per vero, la nuova
nozione divisata dall’art. 111, 1° comma, Cost. si
risolverebbe in una mera tautologia, in una formula
retorica priva di qualsivoglia significato e di ogni
giustificazione.
Infatti, poiché solo nei confronti
di specifici e determinati procedimenti già esauritisi è
possibile stabilire se gli stessi siano stati o meno
regolari sul piano formale, nel significato suindicato
il giusto processo null’altro sarebbe che un inutile
criterio di valutazione di (particolari e concrete)
esperienze processuali già compiute.
E’ innegabile, viceversa, che il
valore della giustezza di cui all’art. 111, 1° comma,
Cost. deve connotare il modello costituzionale (generale
ed astratto) del processo, il quale (data la posizione
primaria occupata dalle norme costituzionali nella
gerarchia delle fonti) è destinato a condizionare la
fisionomia dei singoli procedimenti giurisdizionali
elaborati (sempre in via generale ed astratta) dal
Legislatore ordinario (21).
In secondo luogo, poi, va detto che
non appare condivisibile neppure la tesi, secondo cui il
processo può considerarsi giusto ai sensi dell’art. 111,
1° comma, Cost., “solo in quanto la sua regolamentazione
per legge realizzi pienamente le condizioni previste nel
2° comma, facendo sì che qualsiasi processo si svolga
nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di
parità, davanti a giudice terzo e imparziale, con le
garanzie legali di ragionevole durata” (22).
Ed invero, se presa alla lettera,
codesta nozione di giusto processo (23) si rivela
incompleta perché estrania da sé tutte quelle garanzie
contemplate da altre disposizioni costituzionali: quali
ad esempio della motivazione ex art. 111, 6° comma (24),
quella del ricorso in cassazione ex art. 111, 7° comma
(25), quella del giudice naturale precostituito per
legge ex art. 25, 1° comma (26), il diritto alla prova
(27) e il diritto alle misure cautelari (28) ex art. 24,
1° comma 1, Cost.
Se, di contro, viene intesa
estensivamente quale “formula in cui si compendiano i
principi che la Costituzione detta in ordine tanto ai
caratteri della giurisdizione, sotto il profilo
oggettivo e soggettivo, quanto ai diritti di azione e
difesa in giudizio” (29), questa stessa nozione di
giusto processo si rivela un’inutile superfetazione
priva di ogni contenuto normativo (30), rappresentando
non già un principio costituzionale autonomo, ma una
semplice espressione sintetica del complesso dei valori
costituzionali inerenti all’attività giurisdizionale
(31).
La nozione di giusto processo
enucleabile dal nuovo art. 111, 1° comma, Cost., invece,
secondo noi ha una funzione ben più incisiva e pregante.
4. (Segue) Nostra opinione: la
giustezza del processo quale conformità dello stesso ai
valori di civiltà giuridica espressi o condivisi dalla
collettività.
Per individuare esattamente il
significato della formula de qua bisogna fare una
considerazione preliminare: è “difficile negare che
nell’era moderna la locuzione in discorso ripete le
proprie origini soprattutto dal diritto anglosassone,
prima inglese e poi americano, dove l’espressione due
process, o anche l’espressione due process of law,
risale indietro nei secoli fino all’inizio del presente
millennio e trova particolare sviluppo presso i giuristi
del secolo XIV, mantenendosi peraltro come principio
vivo ed operante fino ai nostri giorni” (32).
Orbene!
Come la clausola del due process of
law integra “un quid di valore positivo e vincolante
superiore alle leggi, tratto o dal diritto naturale o
dai caratteri essenziali ed inalienabili della civiltà
propria di un determinato popolo” (33), così pure il
giusto processo evocato dall’art. 111 Cost. “allude ad
un concetto ideale di Giustizia, preesistente rispetto
alla legge e direttamente collegato a quei diritti
inviolabili di tutte le persone coinvolte nel processo
che lo Stato, in base all’art. 2 Cost., si impegna a
riconoscere” (34).
Alla stregua di tutto ciò si può
senz’altro affermare che l’art. 111 Cost., là dove parla
di giusto processo, ha voluto assegnare a tale formula
il significato pratico di processo coerente con quei
valori di civiltà giuridica, che in un determinato
contesto storico sono espressi o condivisi dalla
collettività (o, se si preferisce, dal Popolo, in nome
del quale la giustizia è amministrata: art. 101, 1°
comma, Cost.) (35).
5. La funzione della clausola del
giusto processo: norma di apertura del sistema delle
garanzie costituzionali della giurisdizione.
Individuato il significato della
clausola del giusto processo, la sua rilevanza pratica
nell’ordinamento emerge con tutta chiarezza mettendosene
in evidenza la funzione.
Con essa, a ben considerare, il
Legislatore ha voluto introdurre una vera e propria
clausola generale destinata a funzionare – per così dire
– come norma di apertura del sistema delle garanzie
costituzionali della giurisdizione: come norma, cioè, in
forza della quale è destinato a trovare ingresso
all’interno di quel sistema qualsiasi principio o potere
processuale ritenuto (secondo l’esperienza e la
coscienza collettiva) necessario per un’effettiva e
completa tutela delle ragioni delle parti (36).
Quale norma di apertura nel senso
anzidetto, dunque, la clausola del giusto processo fa sì
che il sistema delle garanzie costituzionali del
processo non può e non deve essere considerato un hortus
conclusus: non può e non deve, cioè, essere concepito
come un “catologo chiuso” suscettibile tutt’al più di
un’auto-integrazione analogica o estensiva.
Quella clausola, infatti,
rappresenta lo strumento operativo dato alla Corte
costituzionale per arricchire la gamma delle garanzie
processuali e, più esattamente, per aggiungere a quelle
tipiche (enumerate o desumibili dal testo costituzionale
positivo) delle ulteriori componenti garantistiche
(atipiche) enucleabili attraverso un’operazione di
etero-integrazione [o, se si preferisce, di
“giusnaturalismo processuale” (37)], recettiva:
tanto dei principi del processo
equo disegnati dagli artt. 6 e 13 della Convenzione
europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (CEDU) del 1950 (38) e dagli altri
Accordi internazionali in materia (39);
quanto (e soprattutto) di
quegli eventuali nuovi valori di civiltà [o, se si
preferisce, “di natura etico-morale e tecnica, insieme”
(40)] espressi e/o condivisi dalla collettività (41).
E’ ben vero che pure in questo
significato la garanzia del giusto processo e le altre
ex art. 111, 2° comma, Cost. avrebbero potuto erano
desunte in via interpretativa dalle preesistenti norme
della Costituzione (42): in particolare, dalla direttiva
generale di razionalità dell’ordinamento espressa
dall’art. 3 Cost. (43).
Tuttavia, “la loro
cristallizzazione per tabulas, in una sorta di
interpretazione autentica, … consente di identificare in
modo chiaro ed esplicito i canoni ai quali
dichiaratamente intende ispirarsi il nostro ordinamento”
(44).
Tale “interpretazione autentica”,
infatti, è finalizzata proprio ad evitare che in futuro
il riconoscimento delle garanzie de quibus dipenda
esclusivamente ed estemporaneamente (com’è spesso
accaduto in passato) dall’ispirazione di qualche
illuminato giurista o dalla saggezza dell’occasionale
estensore di qualche sentenza della Consulta (45).
Giustamente, pertanto, è stato
osservato che, “senza voler predire il futuro, oggi
sarebbe comunque sbagliato non dare alcuna valenza
all’espressione ‘giusto processo’, come se questa fosse
solo un modo sintetico per richiamare le singole
garanzie esplicitate nell’art. 111 Cost. In realtà la
costruzione della norma impone all’interprete di dare a
quell’espressione il valore di un’autonoma garanzia,
ancorché indeterminata, solo in una certa misura
sostanziata dalle restanti parti dell’art. 111 Cost.”
(46).
6. Esemplificazioni applicative
della clausola del giusto processo: il principio del
doppio grado di giurisdizione.
Per rendere più concreto il
discorso appena fatto, possiamo esemplificativamente
menzionare il principio del doppio grado di
giurisdizione e quello della pubblicità dei giudizi.
Cominciamo dal primo.
Non sono mancati in tempi “antichi
e recenti” scrittori, che si sono sforzati di dimostrare
il rango costituzionale del principio del doppio grado.
In passato, più precisamente,
qualcuno (47) ha basato tale convinzione sull’art. 125,
2° comma, Cost. (48) e sulla situazione di diritto
positivo presupposta dal Costituente.
Sennonché, il primo dei superiori
argomenti si risolve in una distorta lettura dell’art.
125, 2° comma, Cost., il quale “comporta soltanto
l’impossibilità di attribuire al Tar competenza
giurisdizionale in unico grado e la conseguente
necessaria appellabilità di tutte le sue pronunce, e,
quindi, una garanzia del doppio grado riferita alle
controversie che il Legislatore ordinario attribuisce
agli organi locali della giustizia amministrativa” (49).
Ancor più specioso, poi, si rivela
il secondo dei surricordati argomenti: con il quale, a
ben considerare, si opera una inammissibile
interpretazione “alla rovescia” delle norme
costituzionali (interpretazione finalizzata, cioè, ad
adeguare le medesime alla legislazione ordinaria vigente
anziché a rapportare questa al significato intrinseco di
quelle), surrettiziamente subordinandole così alle leggi
ordinarie ed “invertendo il naturale rapporto per cui
sono le prime ad incidere sulle seconde” (50).
Più recentemente la
costituzionalizzazione del principio del doppio grado è
stata postulata da chi (51), prendendo le mosse dalla
nota tesi di Cerino Canova sulla garanzia costituzionale
del giudicato ex art. 111, 2° (oggi 7°) comma, Cost.
(52), ha sostenuto che quest’ultima disposizione deve
essere valutata quale norma postulante un modello
procedimentale articolato in almeno due gradi (“perché
mai?”, chiederemmo noi) e concluso dalla ricorribilità
in Cassazione: ragionamento, codesto, manifestamente
privo di persuasività in quanto mera petizione di
principio, assumendo esso come sua premessa (id est: un
modello costituzionale di processo strutturato in almeno
due gradi) proprio la conclusione che intende dimostrare
(53).
Totalmente contraddittoria si
rivela, infine, la posizione di chi, dopo avere
osservato che il principio del doppio grado di
giurisdizione “non è stato costituzionalizzato, almeno
per quanto riguarda il processo civile”, afferma
nondimeno che “una componente essenziale” del diritto di
difesa ex art. 24, 2° comma, Cost. “è indubbiamente
costituita dalla possibilità di ottenere il riesame
della causa da parte di un giudice diverso da quello che
ha emanato la sentenza” (54).
A nostro avviso, soltanto una
baldanzosa sicumera può indurre a definire “indubbia”
una simile conclusione.
Invero, l’art. 24 Cost.,
“stabilendo che la difesa è diritto inviolabile in ogni
stato e grado del processo, precisa l’implicito
riferimento alla” possibile “esistenza di più di un
grado, ma non ne determina né il numero né la
consistenza e deve leggersi pertanto come diritto alla
difesa in ogni momento in cui sussista il processo,
essendo evidente che non si può ledere tale diritto se
non è previsto il grado in cui la difesa stessa deve
esercitarsi” (55).
Se si prescinde dalle (rare e
singolari) opinioni sopra ricordate (e confutate), il
principio del doppio grado di giurisdizione è quasi
sempre stato considerato privo di “copertura”
costituzionale (56).
Esso, invece, gode di una certa
rilevanza nel sistema della CEDU, ma trattasi di un
riconoscimento incompleto. All’interno di quel sistema,
infatti, la garanzia del doppio grado è esplicitamente
prevista solo in materia penale (art. 2 del Protocollo
addizionale n. 7 del 22 settembre 1984), mentre in
materia civile è contemplata soltanto da una (non
vincolante) Raccomandazione: quella del Comitato dei
Ministri del 7 febbraio 1995.
Orbene!
Proprio attraverso la “mediazione”
della clausola del giusto processo il principio de quo
potrebbe in futuro “transustanziarsi” in una vera e
propria garanzia costituzionale del processo, se la
Consulta lo riterrà rispondente ad un’istanza
eventualmente espressa in tal senso dall’opinione
pubblica e/o da concrete esperienze giudiziarie (57).
I tempi, tuttavia, non sembrano
ancora maturi, se è vero per esempio che il Legislatore,
novellando recentemente l’art. 616 c.p.c. (58), non ha
esitato a prevedere la non impugnabilità (recte: la non
appellabilità, stante sempre l’esperibilità del ricorso
“straordinario” in Cassazione ex art. 111, 7° comma.
Cost.) della sentenza che decide la causa di opposizione
all’esecuzione: innovazione, codesta, che ha bensì
suscitato seri dubbi di costituzionalità, ma per motivi
diversi da quelli inerenti alla garanzia del doppio
grado (59).
7. (Segue) Il principio della
pubblicità dei giudizi.
“Il principio della pubblicità
delle udienze giudiziarie si afferma nei tempi moderni
con la caduta dell’assolutismo e viene proclamato, con
una disposizione di portata generale, per la prima
volta, nell’art. 208 della Costituzione francese del
1795, anno III (non mancarono, prima, disposizioni
particolari: art. 163 Cost. del 1791, in materia di
istruzione criminale; art. 94 e 96 Cost. del 1793,
rispettivamente in materia di deliberazione delle cause
civili e di istruzione criminale), disposizione in cui
viene costituzionalizzato, sempre con carattere di
generalità, l’obbligo di motivazione, ritenuto parimenti
necessario al controllo sugli atti giudiziari. Il
principio è successivamente accolto anche in carte
costituzionali della Restaurazione e trova larga
diffusione, assurgendo presto al ruolo di normale
guarentigia d’una retta amministrazione della giustizia,
anche in ordinamenti non ispirati ai principi di libertà
e di eguaglianza.
In Italia la regola fu recepita
nell’art. 72 dello Statuto albertino (‘le udienze dei
tribunali in materia civile e i dibattimenti in materia
criminale saranno pubblici conformemente alle leggi’) e
in attuazione di questa disposizione statutaria le varie
leggi processuali regolarono la pubblicità delle udienze
(art. 52 c.p.c.; art. 268 c.p.p.; art. 443 c.p. per
l’esercito; art. 490 c.p. militare marittimo; art. 34
della legge sul Consiglio di Stato).
Nell’iter formativo della
Costituzione repubblicana, il principio venne
esplicitamente enunciato nell’art. 101 del progetto
presentato all’assemblea costituente il 31 gennaio 1947
(2° comma: ‘le udienze sono pubbliche, salvo che la
legge per ragioni di ordine pubblico o di moralità
disponga altrimenti’); ma poi, come risulta dai lavori
preparatori, un’espressa enunciazione fu ritenuta
superflua, in quanto si ritenne che la pubblicità delle
udienze fosse implicitamente prescritta dal sistema
costituzionale quale conseguenza necessaria del
fondamento democratico del potere giurisdizionale,
esercitato appunto, come recita l’art. 101, in nome del
popolo.
Coerentemente, tutte le leggi
processuali hanno mantenuto o introdotto la regola (art.
128 c.p.c.; art. 423 c.p.p.; art. 41 t.u. sul Consiglio
di Stato approvato con r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, ora
applicabile anche ai tribunali amministrativi regionali;
art. 72 t.u. 12 luglio 1934, n. 1214, sull’ordinamento
della Corte dei conti; art. 364 c.p. mil. pace; art. 15
legge 11 marzo 1953, n. 87 sul funzionamento della Corte
costituzionale). Nelle varie norme ora indicate è
possibile riscontrare qualche differenza, quanto alle
eccezioni, peraltro molto limitate e largamente
coincidenti, ma queste non scalfiscono affatto
l’essenziale unità del principio, da considerare
indefettibile – ripetesi – in un ordinamento democratico
fondato sulla sovranità popolare, come il nostro, al
quale non può non conformarsi l’amministrazione della
giustizia, che in quella sovranità trova la sua
legittimazione ..., riconoscendosi peraltro il potere
del Legislatore ordinario di introdurre per singole
categorie di procedimenti deroghe determinate da ragioni
obiettive e razionali. Il principio, invero, non può
considerarsi assoluto ma deve cedere in presenza di
particolari circostanze giustificative, ma, ove queste
non si verifichino, è indubitabile che la regola della
pubblicità delle udienze debba trovare piena attuazione.
Vale aggiungere che detta
pubblicità, in quanto espressione di civiltà giuridica,
viene prescritta non soltanto nell’ordinamento italiano,
ma è prevista anche in convenzioni internazionali, quali
la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma
il 4 novembre 1950 (art. 6) e ratificata con la legge 4
agosto 1955 n. 848 (e così anche il nuovo ordinamento
processuale della Corte europea dei diritti dell’uomo,
art. 18), il patto internazionale di New York relativo
ai diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre
1966 e ratificato con legge 25 ottobre 1977 n. 881 (art.
14), i protocolli sullo statuto della Corte di
giustizia, annessi ai trattati CECA, CEE ed EURATOM
(rispettivamente art. 28 e 29)” (60).
Codeste affermazioni della Corte
costituzionale sul principio della pubblicità delle
udienze (e sui suoi limiti) in linea di massima vanno
condivise.
Nel nostro ordinamento, tuttavia,
non è configurabile (in senso tecnico) un controllo
politico-costituzionale (diretto o indiretto) del Popolo
nei confronti della Magistratura (61).
A nostro avviso, pertanto, non è
corretto desumere il principio de quo dall’art. 101, 1°
comma, Cost. (siccome hanno fatto i Giudici
costituzionali), mentre più pertinente ci sembra
l’istituzione di una relazione inferenziale tra esso
(principio) ed il 2° comma dello stesso art. 101 Cost.,
dovendosi ravvisare nella regola della pubblicità delle
udienze una garanzia “deontologica” del valore della
legalità dell’attività giurisdizionale del tutto analoga
a quella fornita dall’obbligo della motivazione ex art.
111, 6° comma, Cost. (62).
Negli ultimi anni, tuttavia, la
Corte costituzionale, nel nome del carattere non
assoluto del principio in questione e della sua
conseguente derogabilità giustificata da esigenze
ragionevoli (quali la moralità, l’ordine pubblico, la
dignità umana, la sicurezza nazionale, l’interesse dei
minori, il rapido funzionamento del processo), ha di
fatto avallato soluzioni legislative comportanti per
determinati procedimenti giurisdizionali la soppressione
di ogni forma di pubblicità delle relative udienze (63).
Ebbene!
Se si considera che l’intenzione di
“perseguire un migliore e più rapido funzionamento del
processo” (64) e quella di tutelare la dignità umana
dell’imputato (65) si prestano ad esser ravvisate (da
sole o congiuntamente) in qualunque intervento
legislativo “mortificante” il principio della pubblicità
delle udienze giudiziarie civili e penali, si ha la
sensazione che la Consulta stia contribuendo a far
degenerare quel principio da garanzia immanente nel
sistema costituzionale a mera formula declamatoria priva
di contenuto sostanziale.
Questa sensazione è avvalorata pure
da alcune sorprendenti affermazioni della Consulta circa
una pretesa funzione succedanea della “pubblicità degli
atti depositati nel fascicolo di causa” e della
pubblicazione di una sentenza “motivata nell’osservanza
del canone di congruità argomentativa” (66).
Sperando che la Corte
costituzionale riesca a recuperare integralmente il
senso della civiltà giuridica ispirante le sue prime
pronunce in subiecta materia, osserviamo che a tale
scopo potrebbe contribuire proprio la clausola del
giusto processo introdotta dall’art. 111, 1° comma,
Cost. (67).
Evidenziamo conclusivamente che
appare equilibrata la soluzione oggi divisata in
argomento dagli artt. 275 e 281 sexies c.p.c per il
processo ordinario di cognizione: tali norme, pur
conservando l’udienza (pubblica ex art. 128 c.p.c.) di
discussione della causa (così rispettando il principio
in parola), ne hanno condizionato lo svolgimento alla
richiesta di una delle parti (in tal modo tutelando
anche l’interesse ad “un migliore e più rapido
funzionamento del processo”) (68).
1 () Su tale garanzia v.
ANDOLINA-VIGNERA, I fondamenti costituzionali della
giustizia civile, Torino, 1997, 191 ss., dove l’obbligo
motivazionale viene configurato quale condizione minima
di effettività del principio di legalità dell’attività
giurisdizionale ex art. 101, 2° comma, Cost.: il tutto,
previo esame critico della c.d. concezione democratica
dell’obbligo costituzionale della motivazione
(ravvisante in esso lo strumento per il controllo
popolare sull’attività giurisdizionale: in questo senso
v. specialmente TARUFFO, La motivazione della sentenza
civile, Padova, 1975, 370 ss., 405 ss.) e della c.d.
concezione istituzionale dell’obbligo stesso
(individuante il profilo funzionale di codesto obbligo
nell’effettività del sindacato di legittimità conferito
alla Corte di cassazione dallo stesso art. 111 Cost.,
sindacato che “non sarebbe possibile se le sentenze ed i
provvedimenti sulla libertà personale non consentissero
di ricostruire l’iter logico-giuridico attraverso il
quale il giudice è pervenuto alla decisione”: DENTI, La
magistratura, IV, in Commentario della Costituzione, a
cura di Branca, art. 111-113, Bologna-Roma, 1987, 8-9).
2 () Sulla funzione di tale mezzo
d’impugnazione (consistente nel garantire pienamente il
valore della legalità ex art. 101, 2° comma, Cost. nei
confronti dei provvedimenti decisori e sulla libertà
personale), sul suo oggetto (rappresentato dalla
sentenza in senso sostanziale, caratterizzata a sua
volta dalla coesistenza dei requisiti della decisorietà
e della definitività) e sui motivi con esso deducibili
v. ANDOLINA-VIGNERA, I fondamenti costituzionali della
giustizia civile, cit., 205 ss.
Sotto quest’ultimo profilo va
ricordato che, dopo Cass. civ., Sez. un., 16 maggio
1992, n. 5888 (in Foro it., 1992, I, 1737), la
giurisprudenza è stata costante nell’affermare che il
vizio di motivazione deducibile col ricorso
“straordinario” è soltanto quello concretantesi
nell’inesistenza, nella contraddittorietà o nella mera
apparenza della motivazione stessa, limitatamente ai
casi in cui tale vizio risulti dal testo del
provvedimento impugnato.
Sennonché, a seguito della sua
sostituzione posta in essere dall’art. 2, d. lgs. 2
febbraio 2006, n. 40, l’art. 360, ultimo comma, c.p.c.,
stabilisce oggi che “le disposizioni di cui al primo
comma” (sui motivi di impugnazione] “e terzo comma”
(sulla necessaria ed automatica riserva di ricorso
contro le sentenze non definitive che “decidono di
questioni insorte”) “si applicano alle sentenze ed ai
provvedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è
ammesso il ricorso per cassazione per violazione di
legge”: ivi compreso, quindi, quello ex art. 111, 7°
comma, Cost.
Orbene!
“Imporre l’applicazione dell’art.
360, 1° comma, c.p.c. allo stesso modo in qualunque
ipotesi di ricorso per cassazione (ordinario o
straordinario che sia) significa assicurare che il vizio
di motivazione sia censurato sempre nei medesimi
termini. Sicché, delle due l’una: o il n. 5 va ristretto
anche per il ricorso ordinario entro i confini di quanto
sino ad oggi valso per quello straordinario, ovvero si
impone l’appiattimento delle differenze in direzione
opposta, estendendo al ricorso straordinario il
controllo sulla motivazione così come la prassi lo vuole
per quello ordinario. La prima ipotesi sarebbe causa di
un eccessivo depauperamento della portata precettiva del
n. 5, a tale disposizione attribuendosi un significato
che da tempo mostra i suoi limiti nel circoscritto orto
del rimedio straordinario. Si avallerebbe peraltro una
lettura che neppure la versione novellata del motivo
sarebbe idonea a sostenere e che probabilmente
risulterebbe troppo stretta per la stessa Corte. La
seconda ipotesi è senz’altro più ragionevole perché
finalizzata a vincere la patologia di cui il rimedio
straordinario era gravato” [così esattamente TISCINI,
Gli effetti della riforma del giudizio di cassazione sul
ricorso straordinario ex art. 111 comma 7 cost., in
www.judicium.it, 2008, par. 4, la quale mette pure in
evidenza che la seconda ipotesi corrisponde all’intentio
del Legislatore desumibile dalla Relazione illustrativa
al decreto delegato. Infatti, “impedire il controllo del
vizio logico della motivazione significa precludere al
giudice di legittimità il sindacato indiretto sul fatto;
è questo però un sindacato che si rivela indispensabile
per soddisfare le aspettative delle parti, le quali
puntano a conseguire attraverso il rimedio straordinario
proprio il controllo sul giudizio di fatto di cui (data
la definitività del provvedimento) sarebbero altrimenti
private”].
3 () Sullo specifico tema v.
BERLATI, “Limiti esterni” della giurisdizione
amministrativa e ricorso in Cassazione contro le
decisioni del Consiglio di Stato, in Arch. civ., 1997,
241 ss.; MARINO, Corte di cassazione e giudici
“speciali”, in Giur. it., 1993, IV, 14 ss.
4 () Le norme attuative di questa
parte della riforma costituzionale sono state date con
la l. 1° marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale
ed al codice di procedura penale in materia di
formazione e valutazione della prova in attuazione della
legge costituzionale di riforma dell’art. 111 Cost.).
5 () Precisiamo subito che nella
nostra esposizione il concetto di procedimento e quello
di processo verranno usati promiscuamente, poiché non ci
sembra fondata su dati normativi positivi la loro
distinzione incentrata sulla mancanza nel primo e sulla
presenza nel secondo del contraddittorio tra le parti
(per tale distinzione v. specialmente FAZZALARI,
Diffusione del processo e compiti della dottrina, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 861 ss.; FAZZALARI,
Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1983, 73
ss.; PICARDI, La dichiarazione di fallimento dal
procedimento al processo, Milano, 1974, 133 ss., 154
ss.).
Codesta distinzione, invero, appare
anzitutto inficiata da un’intrinseca artificiosità,
essendo del tutto nominalistica: ben si potrebbero,
infatti, invertire le definizioni (riconoscendo al
procedimento e negando, invece, al processo la
peculiarità strutturale del contraddittorio inter
partes) senza che ne derivino conseguenze applicative
(per tale saggia obiezione v. GIANNINI, Diritto
amministrativo, Milano, 1970, 822 ss.).
La distinzione stessa, poi, si
rivela assolutamente inutile dal punto di vista pratico,
considerato che nel diritto positivo è possibile
riscontrare (da un lato) procedimenti giurisdizionali
senza contraddittorio (come, per esempio, quello
monitorio in senso stretto); e (dall’altro lato)
procedimenti non giurisdizionali aventi struttura
dialettica (i c.d. procedimenti amministrativi
contenziosi o quasi-contenziosi, sui quali v. ex multis
BENVENUTI, Funzione amministrativa, procedimento,
processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, 126 ss., 138
ss.; GIANNINI, Istituzioni di diritto amministrativo,
Milano, 1981, 379 ss.): anzi, per effetto degli artt.
7-10 l. 7 agosto 1990, n. 241, la dialetticità integra
attualmente un requisito coessenziale alla stessa
nozione giuridica di procedimento amministrativo (v. per
tutti CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, 2,
Milano, 2001, 1291 ss., secondo cui oggi “il principio
del giusto procedimento, e con esso il principio del
contraddittorio, è inderogabile in procedimenti che si
concludono con provvedimenti afflittivi della sfera
giuridica del privato”).
Sulla tendenza ad esaltare
l’utilizzazione del metodo partecipativo pure
nell’ambito del procedimento legislativo v., infine,
PATRONO, “Procedimento legislativo”, in Nov. dig. it.,
Appendice, V, Torino, 1984, 1343 ss.
Conclusivamente, pertanto, appare
corretto affermare che “l’unico dato certo, che abbia
rilievo per l’interprete del diritto positivo, … par
quello che tale diritto non usa la parola ‘processo’ per
definire procedimenti che non siano giudiziari, più
precisamente ove non operi il giudice, e la riserva,
prevalentemente, a quei procedimenti giudiziari, le cui
funzioni sono giurisdizionali necessarie” (MONTESANO, La
tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1985, 7).
6 () COMOGLIO, Il “giusto processo”
civile nella dimensione comparatistica, in Riv. dir.
proc., 2002, 702 ss., 739-740, evidenzia le
“imprecisioni od incertezze semantiche” caratterizzanti
le disposizioni costituzionali del 1999, esattamente
rilevando (tra l’altro) che la giurisdizione “non si
‘attua’, ma semmai ‘si esercita’ o viene ‘esercitata’
dai giudici che ne siano titolari, come è possibile
argomentare dall’art. 1 c.p.c.”.
7 () Sul punto v.
esemplificativamente BOVE, Art. 111 Cost. e “giusto
processo civile”, in Riv. dir. proc., 2002, 479 ss.,
483-484, secondo cui anzi ai canoni del giusto processo
devono attenersi pure “la giurisdizione privata, ossia
l’arbitrato (rituale), e la giurisdizione straniera,
perché esse hanno ormai assunto nel nostro ordinamento
piena ed autonoma rilevanza nel momento in cui il
Legislatore ha statuito l’efficacia del lodo arbitrale e
della sentenza straniera a prescindere da ogni atto di
recezione del giudice pubblico” (v. per l’arbitrato gli
artt. 823, 4° comma, 827, 2° comma e 828, 1° e 2° comma,
c.p.c.; e per le sentenze straniere l’art. 64 della l.
31 maggio1995, n. 218).
8 () Son parole di COSTANTINO, Il
giusto processo di fallimento, in La tutela dei crediti
nel giusto processo di fallimento, a cura di Didone e
Filippi, Milano, 2002, 1 ss., 5-6.
Sulla genesi ideologico-politica e
culturale del ‘nuovo’ art. 111 Cost. v. COMOGLIO, Il
“giusto processo” civile nella dimensione
comparatistica, cit., 710 ss.; TROCKER, Il nuovo
articolo 111 della costituzione e il “giusto processo”
in materia civile: profili generali, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 2001, 381 ss., 383 ss.
9 () Così specialmente CHIARLONI,
Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il processo
civile, in Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il
giusto processo civile, a cura di Civinini e Verardi,
Milano, 2001, 13 ss. passim; conf. DIDONE, La Corte
costituzionale, la ragionevole durata del processo e
l’art. 696 c.p.c., in Giur. it., 2000, 1127 ss.,
1128-1129.
10 () E’ la contrapposta tesi di
COSTANTINO, Il giusto processo di fallimento, cit., 8-9.
11 () Così sostiene, invece,
CHIARLONI, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il
processo civile, cit., 13 ss.
12 () Sulla “effettività” [di cui
“si colgono tracce eloquenti nello stesso linguaggio
costituzionale (artt. 3, comma 2°, 4, comma 1°, 10,
comma 3°, 34, comma 3°)”] quale “componente definitoria
insopprimibile delle garanzie costituzionali attinenti
al processo” e sulla sua funzione nell’interpretazione
delle norme costituzionali (consistente nello svincolare
la loro lettura da criteri formalistici e nel favorire
l’estrinsecazione e lo sviluppo di tutte le potenzialità
garantistiche latenti in esse, consentendo così di
“ascrivere a quelle norme un significato ‘forte’, che
possa avere un’incidenza concreta e diretta sul
progresso evolutivo delle istituzioni processuali”) v.
COMOGLIO, I modelli di garanzia costituzionale del
processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1991, 677 ss.;
COMOGLIO, Giurisdizione e processo nel quadro delle
garanzie costituzionali, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
1994, 1063 ss., spec. 1070 ss. (dove, con specifico
riferimento alla garanzia costituzionale dell’azione, si
distinguono quattro profili di effettività: soggettiva,
tecnica, qualitativa ed oggettiva; a questo autore
appartengono altresì le parole riportate fra
virgolette).
In una prospettiva più generale v.
COMOGLIO-FERRI-TARUFFO, Lezioni sul processo civile,
Bologna, 1995, 28 ss.
Per la giurisprudenza v. tra le più
recenti Corte cost. 12 marzo 2007, n. 77, in Foro it.,
2007, I, 1009.
13 () V. VIGNERA, Il giusto
processo d’ingiunzione, in
BODRITO-FIORENTIN-MARCHESELLI-VIGNERA, Giusto processo e
riti speciali, Milano, 2009, 67 ss., 160 ss.
14 () Su ciò v. VIGNERA, La
garanzia costituzionale della terzietà del giudice
civile, in Informazione prev., 2003, 1445 ss; VIGNERA,
Incompatibilità per “pre-giudizio esecutivo” del giudice
dell’opposizione ex art. 617 c.p.c., in Riv. es. forz.,
2004, 1 ss.
15 () V. VIGNERA, Il giusto
processo regolato dalla legge, in
BODRITO-FIORENTIN-MARCHESELLI-VIGNERA, Giusto processo e
riti speciali, cit., 1 ss., 45 ss.
16 () Queste cose sono state
scritte da CHIARLONI, Il nuovo articolo 111 della
Costituzione e il processo civile, cit., 14-16.
17 () Trattasi dell’opinione di
COSTANTINO, Il giusto processo di fallimento, cit., 6,
9.
18 () In dottrina v.
ANDOLINA-VIGNERA, Il modello costituzionale del processo
civile italiano, Torino, 1990, 167-168; BALLERO, Tutela
sostanziale del diritto di difesa e nuovo corso della
giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost., 1972, 996
ss., 997; BARILE, Istituzioni di diritto pubblico,
Padova, 1982, 360; CAPPELLETTI, Diritto di azione e di
difesa e funzione concretizzatrice della giurisprudenza
costituzionale. (Art. 24 Costituzione e «due process of
law clause»), in Giur. cost., 1961, 1284 ss., 1286 ss.;
MONTESANO, “Dovuto processo” su diritti incisi da
giudizi camerali e sommari, in Riv. dir. proc., 1989,
915, 917 ss.; SCAPARONE, Rapporti civili, in Commentario
della Costituzione, a cura di Branca, art. 24-26,
Bologna-Roma, 1981, 82 ss., 84; SERGES, Il principio del
“doppio grado di giurisdizione” nel sistema
costituzionale italiano, Milano, 1993, 115 ss.
Per la giurisprudenza v. Corte
cost. 26 marzo 1986, n. 66, in Foro it., 1986, I, 1496;
Corte cost. 22 aprile 1986, n. 102, in Foro it, 1986, I,
1762; Corte cost. 30 aprile1986, n. 120, in Foro it.,
1986, I, 1753; Corte cost. 15 settembre 1995, n. 432, in
, Foro it., 1995, I, 3068; Corte cost. 20 maggio 1996,
n. 155, in Foro it., 1996, I, 1898; Corte cost. 31
maggio 1996, n. 177, in Foro it., 1996, I, 2278.
Per un’elencazione più completa
delle decisioni della Consulta richiamanti la nozione di
giusto processo v. CECCHETTI, “Giusto processo (Diritto
costituzionale)”, in Enc. dir., Aggiornamento, V,
Milano, 2001, 595 ss., 597 ss.
19 () Così CHIARLONI, Il nuovo
articolo 111 della Costituzione e il processo civile,
cit., 16.
20 () TROCKER, Il nuovo articolo
111 della costituzione e il “giusto processo” in materia
civile: profili generali, cit., 386, il quale in tal
modo contesta esattamente la nozione divisata da SCOTTI,
Il testo sulla giustizia approvato dalla commissione
bicamerale, in Doc. giust., 1997, 2183 ss., 2184
(nozione che è fatta propria pure da LOZZI, Lezioni di
procedura penale, Torino, 2000, 17).
21 () Sul modello costituzionale
del processo e sui suoi caratteri generali (espansività,
variabilità e perfettibilità) v. ANDOLINA-VIGNERA, I
fondamenti costituzionali della giustizia civile, cit.,
9-11.
22 () Son parole di COMOGLIO, Il
“giusto processo” civile nella dimensione
comparatistica, cit., 740.
23 () Tale nozione è fatta propria
da COSTANTINO, Il giusto processo di fallimento, cit.,
8-9; e da FERRUA, Il “giusto processo” in Costituzione,
in Diritto e giustizia, 2000, f. 1, 1 ss., 5 ss.
24 () V. la nota 1.
25 () V. la nota 2.
26 () V. ANDOLINA-VIGNERA, I
fondamenti costituzionali della giustizia civile, cit.,
21 ss., dove vengono esaminati il profilo sostanziale
della garanzia de qua (rappresentato dalla parte della
norma che impone la precostituzione del giudice) ed il
suo profilo formale (rappresentato dalla parte della
norma che copre la materia della precostituzione stessa
con una riserva di legge).
27 () Sul diritto alla prova, sulla
sua correlazione con la garanzia costituzionale
dell’azione (e non della difesa: come, invece,
usualmente si dice) e sulle sue proiezioni sulla
disciplina positiva delle prove civili v.
ANDOLINA-VIGNERA, I fondamenti costituzionali della
giustizia civile, cit., 97 ss.
Nello stesso senso v.; Corte cost.
19 luglio 1996, n. 257, in Foro it., 1997, I, 1716;
Corte cost. 20 febbraio 1997, n. 46, in Giust. civ.,
1997, I, 880; Corte cost. 16 maggio 2008, n. 144, in
Corriere giur., 2008, 1070.
28 () Sul diritto alla tutela
cautelare quale condizione di effettività della garanzia
costituzionale dell’azione e sulle “oscillazioni”
giurisprudenziali in subiecta materia v.
ANDOLINA-VIGNERA, I fondamenti costituzionali della
giustizia civile, cit., 66 ss.
Nella giurisprudenza più recente,
comunque, tende per fortuna a prevalere la tesi, che
considera la tutela cautelare insita nel diritto ex art.
24, 1° comma Cost. (v. tra le più recenti Corte cost. 16
maggio 2008, n. 144 cit., , nella cui motivazione si
legge: “Con riguardo alla normativa censurata” (id est:
quella sui procedimenti di istruzione preventiva), “si
rileva anzitutto che essa fa parte della tutela
cautelare, della quale condivide la ratio ispiratrice
che è quella di evitare che la durata del processo si
risolva in un pregiudizio della parte che dovrebbe veder
riconosciute le proprie ragioni. Non si può dubitare che
l'impossibilità di sentire in futuro nella sede
ordinaria uno o diversi testimoni, così come
l'alterazione dello stato di luoghi o, in generale, di
ciò che si vuole sottoporre ad accertamento tecnico
possano provocare pregiudizi irreparabili al diritto che
la parte istante intende far valere”.
29 () Così si legge in Corte cost.
24 aprile 1996, n. 131, in Foro it., 1996, I, 1489.
30 () Per analogo rilievo v. pure
BOVE, Art. 111 Cost. e “giusto processo civile”, cit.,
493.
31 () Stupisce non poco, pertanto,
l’entusiasmo manifestato nei confronti di tale nozione
da CECCHETTI, “Giusto processo (Diritto
costituzionale)”, cit., 598, secondo cui la surricordata
formula espressa da Corte cost. 24 aprile 1996, n. 131,
cit., “è divenuta punto di riferimento essenziale per
l’interprete”.
32 () Così VASSALLI, Il giusto
processo: la genesi e la storia, in Il Giusto processo,
2002, 149 ss., 151-152, il quale richiama al riguardo la
Magna Charta Libertatum del 1215, una legge inglese del
1335 ed il 5° emendamento della Costituzione degli Stati
Uniti d’America.
33 () VASSALLI, Il giusto processo:
la genesi e la storia, cit., 152.
34 () Così perspicuamente CONTI,
“Giusto processo (Diritto processuale penale)”, in Enc.
dir., Aggiornamento, V, Milano, 2001, 627 ss., 628.
35 () V. VIGNERA, Le garanzie
costituzionali del processo civile alla luce del “nuovo”
art. 111 Cost., in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003,
1185 ss., 1194.
36 () V. VIGNERA, Le garanzie
costituzionali del processo civile alla luce del “nuovo”
art. 111 Cost., cit., 1193.
Questo profilo funzionale del
giusto processo era stato già da noi intravisto in
ANDOLINA-VIGNERA, Il modello costituzionale del processo
civile italiano, cit., 167-168, anche sulla base delle
considerazioni di MONTESANO, “Dovuto processo” su
diritti incisi da giudizi camerali e sommari, cit., 917
ss.; e soprattutto di SCAPARONE, Rapporti civili, cit.,
84, che a proposito dell’art. 24, 2° comma, Cost. parla
icasticamente di “disposizione generica ed ‘aperta’
cosicchè, qualora l’esperienza dimostrasse e la
coscienza collettiva riconoscesse l’utilità, ai fini di
una più efficace difesa dell’imputato, di un qualsiasi
altro diritto, potere o facoltà, anche questo dovrebbe
immediatamente dirsi compreso nella garanzia offerta
dalla norma in esame”.
Nel senso qui divisato v. oggi
BOVE, Art. 111 Cost. e “giusto processo civile”, cit.,
493 ss. (che parla di “autonoma garanzia, ancorché
indeterminata”, dalla quale la Corte costituzionale può
trarre “la necessità di rispettare garanzie ulteriori
rispetto a quelle esplicitate nel 2° comma dello stesso
articolo” 111 Cost.); COMOGLIO, Il “giusto processo”
civile nella dimensione comparatistica, cit., passim,
spec. 751 ss. [dove si rileva in particolare che la
nozione de qua “si configura quale sintesi superiore (e,
sul piano tecnico, quale ‘categoria ordinante’) di più
valori sottesi ad una ben determinata ideologia di
giustizia – con forti componenti etico-deontologiche,
basate sull’inviolabile rispetto dei diritti
fondamentali della persona – nonché quale risultante di
talune scelte fondamentali di civiltà e di democrazia,
che appartengono per millenaria tradizione alla natural
justice”]; CONTI, “Giusto processo (Diritto processuale
penale)”, cit., 628 (“Preferibile appare la tesi secondo
cui la locuzione allude ad un concetto ideale di
Giustizia, preesistente rispetto alla legge e
direttamente collegato a quei diritti inviolabili di
tutte le persone coinvolte nel processo che lo Stato, in
base all’art. 2 cost., si impegna a riconoscere”);
TROCKER, Il nuovo articolo 111 della costituzione e il
“giusto processo” in materia civile: profili generali,
cit., 386 (“giusto è il processo che si svolge nel
rispetto dei parametri fissati dalle norme
costituzionali e dei valori condivisi dalla
collettività”).
Lo stesso COSTANTINO, Il giusto
processo di fallimento, cit., 7, dopo avere scritto che
“il processo ‘giusto’ è quello che la legge, nel caso di
specie la Costituzione, definisce tale”, riconosce (alla
fine della nota 10) che “la effettiva portata dei nuovi
principi costituzionali è destinata ad essere definita
dalla giurisprudenza”.
Del tutto ambigua si rivela,
invece, la posizione di CECCHETTI, “Giusto processo
(Diritto costituzionale)”, cit., 605 ss., secondo cui
“la corretta ricostruzione della nozione di ‘giusto
processo’, come formula di sintesi, ‘aperta’ e
suscettibile di espansioni e integrazioni rispetto al
testo dell’art. 111, ma pur sempre rigorosamente
nell’ambito di quanto si può ricavare dal sistema del
diritto costituzionale positivo, impone di respingere
non soltanto ogni riferimento a concezioni che in
qualche modo riecheggino il ‘diritto naturale’, ma anche
quelle posizioni (manifestatesi da più parti) tendenti a
‘svalutare’ la portata autenticamente normativa
dell’espressione ‘giusto processo’”: la superiore
puntualizzazione da noi trascritta in corsivo, invero,
non solo mal si concilia con il riconoscimento della
“portata autenticamente normativa dell’espressione
‘giusto processo’”, ma ci sembra pure pericolosamente
idonea a comprimere quelle che abbiamo sopra definito
“potenzialità espansive” della norma de qua.
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