Zafarana Valentina
Le norme di riferimento relative
alle limitazioni statutarie – quindi convenzionali – al
trasferimento delle azioni ed alla loro introduzione, si
trovano nel nostro Codice civile e sono portate dagli
articoli 2355-bis e art. 2437.
L'art. 2355 bis, al comma 1 dispone
che nel caso in cui la società abbia emesso azioni
nominative ovvero abbia optato per la non emissione di
titoli azionari lo Statuto può:
a) sottoporre a particolari
condizioni il trasferimento delle azioni (si pensi ad
esempio alla previsione della prelazione in favore degli
altri soci, ovvero del necessario gradimento dell'organo
amministrativo);
b) vietare il trasferimento delle
azioni, per un periodo non superiore a cinque anni.
Al comma 2 la disposizione
normativa precisa poi che le clausole di mero
gradimento, per non essere inefficaci, devono prevedere
i seguenti correttivi: l'obbligo di acquisto a carico
della società o dei soci, oppure il diritto di recesso
dell'alienante, assumendo quale valore di riferimento
quello determinato con i criteri di cui all'art. 2437
ter del Codice civile. La stessa regola vale per le
clausole che sottopongano a particolari condizioni il
trasferimento mortis causa, salvo che sia previsto il
gradimento e questo sia concesso (comma 3). Infine il
quarto comma 4 prescrive che le limitazioni al
trasferimento debbano risultare dal titolo azionario
(ovviamente nel caso in cui vi sia stata l'emissione di
titoli), quindi dal documento cartaceo che incorpora la
partecipazione, il cui contenuto è determinato dall'art.
2354 Cod. Civ., titolo destinato a circolare tramite
l'utilizzo della girata o del “transfert”.
Anche le azioni prive di valore
nominale (o, meglio, con valore nominale inespresso)
sono incorporate in titoli, e ad esse si applica la
regola sulla pubblicità delle limitazioni al
trasferimento, anche se chiaramente in questo caso il
valore dell'azione non risulterà scritto sul titolo ma
potrà essere determinato con riferimento alla frazione
del capitale che essa rappresenta.
Sempre a tale riguardo, l'art. 2354
comma 5 Cod. Civ. indica che le disposizioni relative al
contenuto del titolo azionario si applicano anche ai
certificati provvisori, che vengono distribuiti dalla
società ai soci prima dell'emissione dei titoli
definitivi, quindi è da ritenersi che la regola della
pubblicità sul titolo sia altresì applicabile a tali
certificati.
Un primo argomento meritevole di
analisi è quello delle cd. clausole di gradimento
"mero", poichè tali clausole statutarie in passato,
soprattutto in giurisprudenza (a partire dalla sentenza
della Corte di Cassazione n. 2365 del 15 maggio 1978),
si ritenevano totalmente inefficaci, anzi illegittime.
Erano colpite da tale giudizio tutte le clausole che
subordinassero gli effetti del trasferimento delle
azioni al mero gradimento, quindi al giudizio puramente
discrezionale ed arbitrario di organi sociali, in quanto
si riteneva che tali clausole fossero sostanzialmente
assimilabili ad un divieto di trasferimento delle
azioni, che al tempo era vietato. Parte della dottrina
assunse una posizione dubitativa che arrivò ad ammettere
le cd. clausole di gradimento “alla francese” (cioè
quelle clausole che prevedevano, per il caso in cui il
gradimento fosse negato, l'obbligo di indicare un altro
acquirente “gradito” alla società), ed il legislatore
del 1985 accolse l'orientamento giurisprudenziale: con
l'art. 22 della Legge 4 giugno 1985 n. 281 sancì infatti
l'illegittimità delle clausole di mero gradimento.
Restava comunque compito dell'interprete stabilire
quando il gradimento fosse da considerarsi “mero” o “non
mero”. In particolare in dottrina si riconoscevano quali
clausole di gradimento non mero quelle che prevedevano
ad esempio:
a) l'indicazione dei requisiti o
parametri oggettivi richiesti nel soggetto acquirente;
b) la necessità di motivazione
dell'eventuale diniego del gradimento;
c) particolari correttivi, come
l'obbligo di indicare un altro acquirente gradito.
Oggi, dopo la riforma del 2003, la
norma di interesse è chiaramente il citato art. 2355 bis
comma 2 del Codice civile, che ha sancito
l'ammissibilità delle clausole di mero gradimento, che
possono essere introdotte dai soci anche a maggioranza,
ma devono tuttavia prevedere una delle seguenti tutele:
a) l'obbligo di acquisto a carico
della società (nei limiti dettati dalla legge) o dei
soci, oppure
b) il diritto di recesso
dell'alienante (al quale quindi è garantita la
possibilità di “exit” a condizioni eque, cioè con
liquidazione del valore patrimoniale delle sue azioni
assumendo quale valore di riferimento quello determinato
con i criteri di cui all'art. 2437 ter del Codice
civile).
Si tratta di una chiara
applicazione di un principio generale che si potrebbe
così enunciare: le clausole di gradimento mero, così
come le altre clausole limitative della circolazione
delle azioni, possono essere inserite nello Statuto
sociale con una delibera dell'assemblea straordinaria
dei soci, presa, non necessariamente all'unanimità, ma a
maggioranza, come tutte le altre modificazioni
statutarie.
La tutela per il socio viene data
quindi:
- in prima battuta dal diritto di
recesso previsto in generale dall'art. 2437 comma 2
lettera b) Cod. Civ., tra le cause di recesso legali ma
derogabili dallo Statuto della S.p.A., in favore del
socio che non abbia concorso all'approvazione della
delibera comportante l'introduzione della clausola (con
diritto peraltro del socio, ai sensi dell'art. 2437 ter
comma 5, di conoscere sin da 15 giorni prima
dell'assemblea la documentazione, predisposta dagli
amministratori, ove risulti determinato il valore delle
azioni per il caso di recesso);
- in seconda battuta dai correttivi
disposti dall'art. 2355 bis Cod. Civ. per consentire
comunque al socio di disinvestire e di uscire dalla
società a condizioni eque.
Nel caso di assenza dei correttivi
previsti dall'art. 2355 bis comma 2, ovvero di altri
correttivi che consentano comunque sempre all'alienante
di realizzare un valore economico corrispondente a
quello di cui all'art. 2437 ter Cod. Civ., la sanzione
sarà l'inefficacia della clausola che preveda il mero
gradimento.
La dottrina notarile sviluppatasi
in materia di condizioni di efficacia delle clausole di
mero gradimento nella S.p.A. ha sostenuto la legittimità
di tutte quelle clausole che prevedano quale correttivo,
in luogo del recesso ovvero dell'obbligo per la società
o per i soci di acquistare le azioni al valore stabilito
per il recesso, anche l'obbligo per la società o per gli
altri soci di acquistare “a parità di condizioni” (cioè
al prezzo concordato dall'alienante con il terzo non
gradito), ovvero l'obbligo per la società di procurare
un altro acquirente gradito, che acquisti al valore
stabilito per il recesso, oppure a parità di condizioni.
Altra particolare clausola
statutaria, invalsa nella prassi, è quella che prevede
in alcuni casi il “diritto di riscatto”, da parte della
stessa società o dei soci, delle azioni del socio
defunto.
Si definiscono in generale azioni
riscattabili (art. 2437 sexies Cod. Civ.) quelle azioni
per le quali lo Statuto sociale prevede, al verificarsi
di particolari eventi specifici, oggettivi e
predeterminati, il diritto in capo alla società, o ai
soci, di “riscattare” le azioni, cioè di acquistarle ad
un prezzo che dovrebbe essere, nei limiti della
compatibilità con tali norme, pari a quello determinato
dalle norme sulla liquidazione delle azioni in caso di
recesso.
Nella prassi sono svariati gli
eventi che vengono assunti dallo Statuto quali momenti
che determinano l'insorgere in capo ai soci o alla
società del potere di riscatto: si pensi ad esempio
all'ipotesi di inadempimento dell'obbligo di eseguire
prestazioni accessorie, al superamento di un limite
prefissato al possesso azionario, ovvero alla morte del
socio.
Recente dottrina notarile ha
affermato che la riscattabilità delle azioni a norma
dell’art. 2437-sexies Cod. Civ., intesa come soggezione
delle stesse al potere di riscatto da parte della
società o dei soci, può essere una delle caratteristiche
ovvero l'unica caratteristica che le differenzia dalle
altre azioni che compongono il capitale, concretandosi
in tal modo una vera e propria “categoria” di azioni, a
norma dell’art. 2348 secondo comma Cod. Civ.. La
riscattabilità può inoltre essere prevista quale
condizione in cui qualsiasi azione potrebbe incorrere,
al verificarsi di particolari eventi. Vengono quindi
enucleate alcune regole:
a) La soggezione di azioni o
categorie di azioni al riscatto può essere stabilita,
oltre che in sede di atto costitutivo, anche con
successiva modifica statutaria, purché consti - ove si
tratti di attribuire tale carattere ad azioni già in
circolazione - il consenso dei titolari di tali azioni.
b) Le azioni riscattabili possono
essere previste con delibera assembleare, adottata con
le maggioranze normalmente richieste per le
modificazioni dello Statuto, qualora la riscattabilità
sia prevista quale condizione in cui qualsiasi azione
può incorrere al verificarsi di particolari situazioni
ed - al momento dell'inserimento - nessuno degli
azionisti si trovi in tali situazioni (ad esempio,
qualora sia previsto che il riscatto possa operare in
caso di superamento di una determinata soglia di
possesso azionaria, e nessuno degli azionisti possieda,
al momento dell’inserimento, quella quota). (tratto da
"Massime in materia societaria elaborate dalla
Commissione Società del Consiglio Notarile di Milano,
Massima n. 99 del 2007").
Seguendo un'opinione ormai
consolidata, quanto all'introduzione del carattere della
riscattabilità rispetto ad azioni già in circolazione,
si aderisce al più prudente indirizzo che esclude che
ciò possa avvenire in mancanza del consenso del soggetto
destinatario, titolare delle azioni che divengono
riscattabili.
Partendo da tale affermazione si
pensi quindi alla particolare ipotesi già sopra citata,
ovvero quella della previsione di un diritto di
“riscatto” in capo ai soci superstiti nel caso di morte
del socio. Entra in tal caso in considerazione il
divieto dei patti successori previsto dall'art. 458 del
nostro Codice civile? Sul punto si contendono il campo
due tesi, una che propugna la legittimità di un simile
tipo di clausola statutaria, ed una che, viceversa, la
nega, proprio per un'assunta violazione del citato
divieto.
Chi sostiene la legittimità della
clausola statutaria che attribuisca ai soci superstiti
il diritto di acquistare, entro un determinato periodo
di tempo, le azioni già appartenute al defunto e
pervenute agli eredi per successione, afferma comunque
che detto riscatto sia da ritenersi lecito soltanto se
la clausola prescriva il pagamento di un prezzo congruo,
e da determinarsi secondo criteri prestabiliti.
In effetti – si osserva – non
sarebbe violato il divieto dei patti successori (art.
458 Cod. Civ.) in quanto la morte del socio
costituirebbe soltanto il momento a decorrere dal quale
può essere esercitata l'opzione per l'acquisto da parte
dei soci superstiti.
A fondamento di tale tesi positiva
viene portata la Sentenza della Corte di Cassazione del
16 aprile 1994, n. 3609 (in Riv. dir. commerciale 1995,
ii, 17 ss. con nota di Ciaffi), conforme peraltro alla
sentenza di primo grado del Trib. Roma in data 30 maggio
1990, secondo la quale “la clausola statutaria che
attribuisce ai soci superstiti di una società di
capitali, in caso di morte di uno di essi, il diritto di
acquistare dagli eredi del de cuius le azioni già
appartenute a quest’ultimo e pervenute iure successionis
agli eredi medesimi, non viola il divieto di patti
successori di cui all’art. 458 c.c., in quanto il
vincolo che ne deriva a carico reciprocamente dei soci è
destinato a produrre effetti solo dopo il verificarsi
della vicenda successoria e dopo il trasferimento (per
legge o per testamento) delle azioni agli eredi, con la
conseguenza che la morte di uno dei soci costituisce
soltanto il momento a decorrere dal quale può essere
esercitata l’opzione per l’acquisto suddetto, senza che
ne risulti incisa la disciplina legale della delazione
ereditaria o che si configurino gli estremi di un patto
di consolidazione delle azioni fra soci,
caratterizzandosi, invece, la clausola come atto inter
vivos”. Per la dottrina e la giurisprudenza non si
tratterebbe comunque propriamente di un vero e proprio
“riscatto” (acquisto di una situazione giuridica attiva
mediante l'esercizio di un diritto potestativo
attribuito dalla legge) quanto piuttosto, più
precisamente, di un'opzione di acquisto in capo ai soci
superstiti.
Per la tesi contraria, sempre nel
giudizio citato, è invece la Sentenza della Corte
d'Appello di Roma del 28 aprile 1992 (in Giur. It. 1993,
448), in cui si sosteneva la nullità della clausola per
contrarietà al divieto dei patti successori ed al
principio della revocabilità delle disposizioni
testamentarie. Tale tesi negativa è stata sostenuta
anche da parte della dottrina, la quale ha argomentato
che tali clausole, senza andare in effetti ad incidere
su quella che è la chiamata ereditaria ex lege ovvero ex
testamento, avrebbero comunque come effetto quello di
creare “ex novo” nel patrimonio degli eredi del socio
defunto l'obbligazione di trasferire le azioni o la
quota di partecipazione di cui saranno titolari a favore
di determinati soggetti, i quali potranno esercitare il
loro diritto di opzione. Tale clausola statutaria, con
effetto meramente obbligatorio, sarebbe comunque,
secondo la tesi di tali autori, da configurarsi come un
negozio mortis causa, dal momento che opererebbe come un
“legato obbligatorio”, o legato di contratto, a favore
dei soci superstiti ed a carico degli eredi o legatari
delle azioni, e pertanto sarebbe da ritenersi in
contrasto con il divieto di patti successori. L'obbligo
di cedere la partecipazione sociale (cui corrisponde il
diritto di opzione o di riscatto in capo ai soci
superstiti) non sorge in capo al socio, sottoscrittore
dello statuto, per poi trasferirsi in capo ai suoi
eredi, ma sorge direttamente e per la prima volta in
capo a questi ultimi in netto contrasto con il principio
“obligatio ab heredis personae incipere non potest”
(“l’obbligazione non può sorgere in capo all'erede”):
tale obbligo infatti che non esisteva in capo al socio
defunto sorgerebbe in via originaria e “mortis causa” in
capo ai suoi eredi, configurandosi così un patto
successorio istitutivo.
In ogni caso è sempre da ritenersi
che – tenuto conto di quanto prevede l’articolo 2437,
ultimo comma del Codice civile – non possano essere
previsti criteri di liquidazione dell’azione, in caso di
riscatto delle azioni, idonei a determinare
l’attribuzione di valori inferiori a quelli derivanti
dall’applicazione delle regole legali in tema di
recesso.
Altra particolarissima tipologia di
clausole, sempre più invalsa nella prassi, è quella
delle cd. Clausole di covendita o di trascinamento
previste negli Statuti delle S.p.A. singolarmente,
ovvero a volte anche combinate tra loro: tali clausole
sono denominate anche, in inglese, clausole di “tag
along” o “drag along”.
Le cd. clausole di covendita, dette
anche di “tag along”, prevedono il diritto del socio di
minoranza di vendere le proprie azioni alle stesse
condizioni pattuite dal socio di maggioranza con il
terzo acquirente per la cessione delle proprie azioni
(ovvero comunque a condizioni economiche
predeterminate): si tratta quindi di uno strumento di
tutela per il socio di minoranza, il quale puo'
avvantaggiarsi della forza contrattuale di cui gode sul
mercato il socio di maggioranza. In questo caso
graverebbe un obbligo sul socio di maggioranza, e sul
terzo acquirente, mentre il socio di minoranza sarebbe
sempre libero, una volta ricevuta l'offerta, di vendere
o meno la propria partecipazione.
Le clausole di “trascinamento”,
dette anche di “drag along”, hanno invece diversa
struttura e diverso funzionamento: esse prevedono
l'obbligo del socio di minoranza di cedere le proprie
azioni, nel momento in cui il socio di maggioranza
decida di trasferire le proprie azioni ad un terzo, alle
stesse condizioni (ovvero comunque a condizioni
economiche predeterminate).
In altre parole in forza della
clausola di “drag along” il socio di maggioranza è
facoltizzato a negoziare e a vendere, insieme con le
proprie azioni, anche quelle del socio di minoranza,
assicurandogli le medesime condizioni contrattuali ed il
medesimo prezzo ottenuto con la contrattazione delle
proprie. Nell'eventuale proposta di vendita fatta dal
socio di maggioranza al terzo acquirente interessato
saranno pertanto ricomprese anche le azioni del socio di
minoranza.
La posizione del socio di minoranza
viene anche definita come “il diritto di essere
trascinato” dal socio di maggioranza, anche se in realtà
qui il socio di minoranza non ha alcun "diritto" nè
alcuna libertà di scelta: quando arriva l'offerta di
acquisto da parte del terzo, egli deve vendere e, di
conseguenza, uscire dalla società: è quindi obbligato a
farlo (per questo la clausola è definita da alcuni
“clausola di vendita forzata”). Spesso in virtù di tale
clausola il socio di minoranza assume anche l'obbligo, a
semplice richiesta del socio di maggioranza, di
depositare le proprie azioni e di sottoscrivere una
procura a vendere l'intero proprio pacchetto azionario.
Va rilevato che inizialmente simili
accordi trovavano spazio soltanto in sede di patti
parasociali (con efficacia obbligatoria limitata tra le
parti contraenti). Oggi entrambe queste tipologie di
pattuizioni – ritenute legittime entro determinati
limiti – possono essere formalmente introdotte nello
Statuto sociale, in sede di costituzione della società,
oppure nell'ambito di successive modifiche statutarie e,
secondo alcuni si tratterebbe di clausole limitative
della circolazione delle azioni. Si discute però tuttora
sulla possibilità di introduzione di tali clausole a
maggioranza (con diritto di recesso per il socio che non
abbia concorso all'approvazione della modifica), oppure
all'unanimità, e sull'esistenza dell'obbligo di far
risultare tali clausole dal titolo ex art. 2355 bis
ultimo comma Cod. Civ..
Andiamo quindi prima di tutto ad
esaminare quali siano i limiti entro i quali tali
clausole possono essere considerate legittime: vi è il
principio secondo cui al forzato venir meno della
qualità di socio deve accompagnarsi sempre
un'importantissima tutela, cioè il riconoscimento del
giusto valore della partecipazione dismessa (cd.
principio della equa valorizzazione della
partecipazione). E' proprio sulla base di tale criterio
che si potrà, caso per caso, riconoscere se la clausola
sia legittima o meno.
Delle clausole statutarie
disciplinanti il diritto e l'obbligo di covendita delle
partecipazioni si è occupata in particolare la
Commissione Società del Consiglio Notarile di Milano,
che nella Massima n. 88 del 2005 ha sostenuto la
legittimità di tali particolari clausole soltanto se e
nella misura in cui esse risultino essere strutturate in
maniera da renderle compatibili con il principio di una
equa valorizzazione della partecipazione
obbligatoriamente dismessa.
In particolare, con riferimento
alle clausole di trascinamento (cd. "drag along") sono
state ritenute valide ed efficaci:
a) le clausole che prevedano
l'obbligo di vendere ad un prezzo non inferiore al
valore che verrebbe liquidato in caso di recesso del
socio;
b) le clausole che non prevedano un
prezzo minimo ma che prevedano per il socio in
alternativa il diritto di recesso per il caso in cui il
prezzo risulti significativamente inferiore al valore
determinato secondo i criteri stabiliti per la
liquidazione delle azioni nel caso di recesso.
Inoltre, secondo quanto osservato
dal Tribunale di Milano, bisogna fare attenzione che la
concreta operatività della clausola non attribuisca in
pratica al socio di maggioranza il potere di escludere
"ad nutum" il socio di minoranza. Si ricordi in
particolare che la previsione statutaria del diritto di
prelazione a parità di condizioni operante in favore del
socio di minoranza (il quale potrebbe in effetti
sentirsi spinto ad esercitare tale diritto proprio per
non doversi trovare costretto a vendere le azioni), non
è considerata assolutamente una sufficiente tutela per
lo stesso: la congruità del prezzo di dismissione della
partecipazione infatti non è così garantita, perchè la
determinazione del prezzo resterebbe comunque
strettamente ancorata alle valutazioni soggettive, e
magari arbitrarie, del socio di maggioranza.
Quanto al problema della
possibilità di introduzione a maggioranza ovvero
all'unanimità di simili clausole in sede di
modificazioni dello Statuto sociale, esiste una
contrapposizione tra la tesi di alcuna dottrina e
l'orientamento giurisprudenziale, specie quello
tradizionale.
Secondo parte della dottrina, in
mancanza di dati normativi testuali diversi, le clausole
in esame rientrerebbero nella categoria di cui si è già
parlato, cioè quella delle clausole che introducono
limiti convenzionali al trasferimento delle azioni, di
cui all'art. 2355-bis Cod. Civ.. Si applicherebbe quindi
il principio generale, ispiratore della riforma
(applicabile peraltro anche alle clausole di mero
gradimento, o persino di intrasferibilità), in virtù del
quale tali clausole potrebbero essere introdotte nello
Statuto con una delibera dell'assemblea straordinaria
dei soci assunta a maggioranza, così come le altre
modificazioni statutarie.
Gli autori che sostengono tale
ricostruzione (avallata anche da una parte della
giurisprudenza onoraria) osservano che comunque deve
prevalere sull'interesse del singolo socio alla libera
trasferibilità delle azioni la volontà della
maggioranza, trattandosi di aspetti organizzativi della
società. Ovviamente – si osserva – resterebbe in ogni
caso la tutela data dal diritto di recesso previsto
dall'art. 2437 comma 2 lettera b) Cod. Civ. (tra le
cause di recesso legali derogabili) in favore del socio
che non avesse concorso all'approvazione della delibera
comportante l'introduzione della clausola limitativa in
oggetto.
La tesi della necessaria unanimità
dei consensi nasce invece da numerose Sentenze della
Suprema Corte che individuano in queste particolari
clausole delle vere e proprie figure negoziali che vanno
ad incidere in maniera decisa e diretta su diritti
individuali del socio, e nella specie su quello
fondamentale di autodeterminarsi sull'alienare o meno le
proprie azioni.
In particolare si argomenta sempre
in giurisprudenza – ma anche in dottrina – prendendo le
mosse dalla struttura negoziale di tali clausole, che
vengono dai più ricondotte alla fattispecie dell'opzione
a favore di terzo, accompagnata poi da una procura a
vendere.
Anche il Tribunale di Milano ha
così precisato: “la clausola di “drag along” può essere
ricostruita come una concessione da parte del socio di
minoranza (promittente) al socio di maggioranza
(stipulante) di una opzione a favore di terzo (colui che
si renderà disponibile ad acquistare l'intero pacchetto
azionario) avente ad oggetto la partecipazione del socio
di minoranza, sospensivamente condizionata al
ricevimento da parte del socio di maggioranza
(stipulante) di un'offerta di acquisto dell'intero
capitale ed al fatto che il socio di minoranza non
intenda comunque esercitare la prelazione”, quindi, a
ben vedere, sottoposta ad una doppia condizione
sospensiva.
Come già osservato da attenta
dottrina, l'originalità della tesi starebbe
nell'indeterminatezza iniziale del terzo beneficiario,
il quale comunque risulterebbe determinabile ex post
sulla base dei criteri determinati dalla clausola
stessa.
Esiste anche un'altra tesi,
avanzata da alcuna dottrina, secondo cui la clausola
configurerebbe invece un contratto per persona da
nominare, in cui il socio di maggioranza (stipulante) si
riserverebbe il potere di nominare il terzo contraente.
L'obiezione forte che si muove a tale ricostruzione è
che il nostro ordinamento prevede la validità soltanto
del contratto "per sè o per persona da nominare", invece
nella clausola di "drag along" non risulta mai prevista
nè configurabile la possibilità che sia lo stesso socio
di maggioranza a divenire contraente in proprio. Dunque
ci si troverebbe di fronte ad un contratto soltanto "per
persona da nominare", ipotesi non possibile ai sensi
dell'art. 1401 del Codice civile e non esistente nel
nostro sistema giuridico.
Ulteriori argomenti e ragionamenti,
che vengono portati a sostegno della tesi che vuole
l'unanimità dei consensi, possono così sintetizzarsi:
a) le clausole di "tag along" e
"drag along" attribuiscono o al socio di minoranza o al
socio di maggioranza un diritto soggettivo nuovo che
prima egli non aveva, ed in sostanza mutano la veste del
socio, che diviene connotata peraltro, non da un momento
“partecipativo sociale”, ma piuttosto, drasticamente, da
un momento “di uscita” dalla compagine sociale, con una
chiara e forte incidenza su un suo diritto individuale;
b) si fa poi in dottrina un
efficace ragionamento “a contrario”, in chiave
economico-finanziaria, ipotizzando che il socio di
minoranza abbia finanziato la società nella fase di
"start-up" proprio per la presenza nello statuto di
clausole di "tag along" o "drag along"; sarebbe assurdo
pensare che queste clausole possano essere eliminate a
maggioranza, e quindi proprio per volontà del socio
detentore del pacchetto di controllo, che indirettamente
si è avvantaggiato dei finanziamenti effettuati dal
socio di minoranza.
Sostenendo la necessaria unanimità
dei consensi si è espresso anche il Notariato del
Triveneto, con l'Orientamento H.I.19, ammettendo la
validità della clausola che imponga ai soci di minoranza
di cedere le proprie azioni ad un giusto prezzo
(comunque non inferiore al valore determinato ai sensi
dell'art. 2437 ter Cod. Civ.) nel caso in cui il socio
di maggioranza decida di alienare le proprie, solo ed
esclusivamente a condizione che detta clausola sia
introdotta con il consenso di tutti i soci. La stessa
dottrina notarile sostiene comunque che una simile
clausola, per poter essere resa opponibile ai terzi,
dovrà essere pubblicizzata ai sensi dell'art. 2355 bis
del Codice civile.
BREVI NOTE BIBLIOGRAFICHE: Marco
Ieva, “Le clausole limitative della circolazione delle
partecipazioni societarie: profili generali e clausole
di predisposizione successoria” in Rivista del Notariato
n. 6/2003 p. 1361 ss.; Sentenza della Corte di
Cassazione del 16 aprile 1994, n. 3609 in Riv. dir.
commerciale 1995, ii, 17 ss. (con nota di Ciaffi);
Sentenza della Corte d'Appello di Roma del 28 aprile
1992, in Giur. It. 1993, 448; Massima n. 99 del 2007 in
"Massime in materia societaria elaborate dalla
Commissione Società del Consiglio Notarile di Milano";
Ordinanza del Tribunale di Milano del 31 marzo 2008, con
commento di Cosimo Di Bitonto, in Le Società IPSOA, n.
11/2008 p. 1373 ss.; Paolo Divizia, "Clausole statutarie
di covendita e di trascinamento" in Notariato IPSOA, n.
2/2009 p. 157 ss; Orientamento H.I.19 in "Orientamenti
del Comitato Triveneto dei Notai in materia di atti
societari"; Massima n. 88 del 2005 in "Massime in
materia societaria elaborate dalla Commissione Società
del Consiglio Notarile di Milano".
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