Il Rapporto annuale 2010 dell'Istat
solleva molti motivi di preoccupazione sullo stato
dell'Italia, ma quello sulla relazione dei giovani con
la sfera lavorativa pare particolarmente grave. Il tasso
di disoccupazione dei giovani italiani è al 20,2 per
cento, superiore di 3,7 punti rispetto alla media Unione
Europea. Ma anche per chi lavora, le prospettive sono
tutt'altro che esaltanti. E cresce la quota di chi
emigra all'estero in cerca di prospettive migliori. Se
la condizione giovanile è lo specchio del futuro del
paese, ci aspettano tempi davvero grami.
Tra i tanti motivi di
preoccupazione sullo stato dell’Italia che la recente
pubblicazione del Rapporto annuale 2010 dell’Istat
solleva, quello riguardante il rapporto dei giovani con
la sfera lavorativa pare particolarmente grave. Lo è sia
per i suoi lineamenti specifici, sia per le sue
possibili implicazioni sul futuro del nostro Paese. Per
meglio illustrare questo secondo punto, oltre al
Rapporto, richiamerò sommariamente qualche risultato di
un’ampia ricerca promossa dalla Fondazione Ermanno
Gorrieri (Feg), citando l’autore delle analisi di volta
in volta utilizzate, insieme a un paio d’altre fonti
bibliografiche.
LA CONDIZIONE GIOVANILE NEI DATI
Cominciamo da qualche dato
congiunturale fornito dal Rapporto. Al 2010, il tasso di
disoccupazione dei giovani italiani in età di 15-29 anni
(20,2 per cento) è risultato superiore di 3,7 punti alla
media Unione Europea e più che doppio rispetto a quello
dei giovani tedeschi (9,2 per cento). Inoltre la quota
complessiva di giovani italiani alla ricerca di un
impiego si è rivelata di oltre due volte maggiore della
corrispondente quota (8,4 per cento) registrata dal
complesso delle persone in età da lavoro. La situazione,
se possibile, peggiora dal lato dell’occupazione. Il
Rapporto mostra che tra il 2008 e il 2010 il tasso di
occupazione dei giovani è declinato con un’intensità
(-13,2 per cento) quasi sei volte superiore a quella
media registrata per il complesso della popolazione in
età di lavoro (-2,3 per cento). E questo fa sì che, in
Italia, l’incidenza dei giovani con un impiego sulla
pertinente popolazione (34,5 per cento) sia stato, nel
2010, di gran lunga inferiore a quella media dell’Unione
(47,8 per cento).
Il problema dei giovani non si
arresta, però, alle difficoltà di trovare un lavoro.
Davanti ai pochi occupati si aprono, infatti,
prospettive tutt’altro che esaltanti. La prima
osservazione da fare in merito è che i giovani d’oggi
stanno conoscendo, rispetto ai loro coetanei di quindici
anni prima, una considerevole riduzione delle
possibilità di raggiungere, al primo impiego, le
posizioni superiori (imprenditoria, libere professioni,
alta e media dirigenza) e medie (ruoli impiegatizi
qualificati) della stratificazione occupazionale. Si
tratta di un fenomeno di vaste dimensioni, dal quale
sono colpiti anche i laureati/e e i figli e le figlie
delle stesse classi superiori e medie. (Marzadro e
Schizzerotto, Feg).
Considerazioni simili valgono per
le relazioni contrattuali. Il Rapporto fa vedere che,
nel 2010, quasi la metà (46,7 per cento) dei giovani di
15-29 anni occupati alle dipendenze era stata assunta
con contratti a termine. In linea di principio,
l’instabilità dei rapporti di lavoro potrebbe non essere
un problema se i trattamenti economici a essi associati
e gli ammortizzatori sociali previsti in caso di
disoccupazione fossero adeguati a garantire un minimo di
sicurezza materiale. Ma le cose non stanno affatto in
questo modo. In un recente contributo riguardante i
disoccupati nel Veneto è stato evidenziato che, tra i
giovani fino ai 30 anni, i due terzi non soddisfano i
requisiti di ammissibilità all’indennità di
disoccupazione ordinaria (Anastasia et al. 2011). E il
Rapporto fa vedere che al 2010 tra gli occupati del
settore industriale che hanno beneficiato della cassa
integrazione guadagni, meno di un decimo (7,9 per cento)
era in età di 15-29 anni. Nel caso dei redditi da
lavoro, poi, alcuni studi hanno mostrato come, a partire
dalle generazioni nate dopo gli anni Sessanta, i salari
di ingresso dei giovani, nonostante la crescita del loro
livello medio di istruzione, si siano progressivamente
abbassati e come questo svantaggio iniziale non sia più
colmato nel prosieguo della loro storia lavorativa
(Rosolia e Torrini 2007; Giorgi et al., Feg; Brandolini
e D’Alessio, Feg).
Come stupirsi, dunque, se quasi un
quarto (22,1 per cento) dei giovani italiani d’oggi si
trova in condizione di Neet, come la definisce il
Rapporto, ossia non lavorino, non ricerchino un impiego
e non studino? Né particolare sorpresa desta il fatto
che, malgrado i consistenti aiuti ricevuti dalle
rispettive famiglie d’origine, i giovani d’oggi si
sposino a età sempre più avanzate e che il lasso di
tempo intercorrente tra l’inizio del primo impiego e la
data del primo matrimonio si sia ormai attestato sui
nove anni, di fronte a un intervallo di circa due anni
registrato dai soggetti che giovani erano vent’anni or
sono (Mencarini e Solera, Feg). E altrettanto
comprensibile è osservare che sta crescendo la quota,
non solo di ricercatori e studiosi, ma soprattutto di
giovani in possesso di normali titoli di studio
universitari che emigrano verso l’estero alla ricerca di
relazioni di impiego, trattamenti economici e
prospettive di carriera più soddisfacenti di quelle
esistenti in Italia (Mocetti e Porello, Feg).
In passato si usava dire che nei
giovani si potevano scorgere i destini futuri di una
società. Se dovessimo prestar fede a questa massima,
guardando i giovani d’oggi dovremmo dire che tempi ancor
più grami dei presenti si stanno prospettando davanti al
nostro povero Paese. |