Giurisprudenza e
legislazione del XXI secolo: la grande sfida della
regolazione e normazione di aspetti essenziali della
vita rimessi in discussione dal progresso tecnologico.
La nascita e
l’evoluzione della tecnoscienza , ovvero di quella
disciplina capace di applicare le scoperte scientifiche
teoriche alla tecnica, è stata in grado di creare
macchinari e procedimenti tesi ad incidere sulla vita di
ognuno di noi, addirittura prolungandola o creandola.
La biotecnologia va
quindi regolata, affinchè il progresso migliori la vita
di tutti senza però rischiare di travolgere gli aspetti
più naturali ed intimi dell’ esistenza umana.
L’aspetto più
interessante (ma stesso tempo più insidioso), nell’
ottica del giurista, è , però, quello relativo all’
incidenza che hanno le biotecnologie sui casi concreti
della vita umana ingenerando nuove posizioni giuridiche
soggettive e facendo sorgere nuove aspettative e nuovi
pretesi biodiritti, rientranti nella galassia dominata
da un simbolico, ma al contempo labile e generico,
“diritto alla felicità”.
Questo diritto è
presente nella Dichiarazione di Indipendenza Americana
del 4 luglio 1776 dove si legge che a tutti gli uomini
vanno riconosciuti il diritto «alla vita, alla libertà e
al perseguimento della felicità».
Il documento
stabilisce, così, che a ciascun individuo va garantita
la possibilità di costruirsi la sua strada verso la
felicità, mentre, le istituzioni pubbliche, si assumono
il compito di tutelare la vita, la libertà e la
sicurezza. Viene dunque recepito un catalogo dei diritti
di matrice giusnaturalistica ed ad esso si aggiunge la
felicità come fine ultimo che ciascun individuo è
chiamato a perseguire liberamente con le sue scelte,
contemperandolo però con il diritto alla vita ed alla
libertà altrui. Nella costruzione dello Stato di matrice
europea, è prevalso, invece, un ordine politico
prevalentemente razionale, che ruota intorno ai
dominanti concetti di libertà e di diritto: la libertà,
che consiste nella possibilità per ciascun individuo di
ricercare la sua felicità per la via che gli sembrerà
migliore deve pertanto non rendere pregiudizio alla
libertà degli altri; il diritto, invece, deve recepire e
codificare questo valore. La libertà del singolo
individuo non è illimitata, ma si connette alla libertà
degli altri individui tramite il concetto di solidarietà
sociale (art. 2 cost. It.).
Descritto il
perimetro esterno nel quale si viene a collocare il
“biodiritto”, si deve adesso evidenziare come esso si
componga delle varie norme incidenti “sulla vita” e
“sulle scelte relative alla vita”, venendosi così ad
incastonare tra i tradizionali settori del diritto di
famiglia e del diritto delle successioni.
Del resto, già il
Santi Romano, aveva preconizzato nella teoria sulla
pluralità degli ordinamenti giuridici, la frammentazione
e la settorializzazione del diritto. Questa, sarebbe
stata inarrestabile proprio in quanto legata alle
continue evoluzioni scientifiche e sociali alle quali il
diritto non avrebbe potuto sottrarsi, per non perdere l’
aspirazione a garantire una completa, ordinata ed
armonica vita civile.
Dunque, se si
cataloga il biodiritto come nuova branca del diritto
civile, non si può non scorgere i suoi portati
essenziali proprio in quelle recentissime ed
attualissime normative e costruzioni pretorie inerenti
alla clonazione, alla fecondazione assistita, al
testamento biologico e al divieto di accanimento
terapeutico, tutti risvolti nati dallo sviluppo, dall’
evoluzione costante e dall’ influsso che le
biotecnologie stanno avendo sui diversi aspetti della
vita umana.
Si può partire dal
caso Welby per vedere chiaramente come il confine tra
eutanasia e rifiuto dei trattamenti medici sia molto
sottile e complicato.
Piergiorgio Welby,
malato di distrofia muscolare progressiva, era nella
fase terminale della sua malattia; egli, a seguito di
ciò, presentò ricorso al Tribunale di Roma per ottenere
l'interruzione delle cure che lo tenevano in vita,
attraverso il distacco del respiratore artificiale sotto
sedazione terminale.
Il caso Welby, in
punto di diritto, non ha a che fare ne' con il
testamento biologico, ne' con la liberta' di scelta
terapeutica. Infatti, Welby, era capace di intendere e
di volere ed in quanto tale, la legge proteggeva il suo
diritto di decidere se e quando rifiutare qualsiasi
intervento esterno sulla propria persona (art. 13 e 32
Cost. It.).
Welby aveva dunque la legittima facoltà di chiedere che
le macchine che lo tenevano in vita gli fossero tolte
integralmente rifiutando il proprio consenso al
trattamento terapeutico.
Chiunque avesse negato tale diritto, si sarebbe posto in
contrasto con le norme di rango costituzionale e penale
che vietano ogni trattamento sanitario su persona capace
di intendere e di volere che non abbia espresso il
proprio consenso agli stessi. Chiunque disattendesse
queste volonta' , continuando a somministrare le terapie
senza aver previamente acquisito il consenso, sia esso
medico o familiare, sarebbe penalmente punibile per
violenza privata o lesioni volontarie e, probabilmente,
incorrerebbe anche nel divieto di trattamento disumano
previsto dall'art. 3 della Convenzione Europea dei
Diritti dell'Uomo.
Come mai dunque
tanto clamore?
Il caso era
giuridicamente abbastanza lineare se non fosse stato per
il fatto che Welby voleva realizzare la propria morte
certamente tramite la legittima sospensione delle cure,
ma, in modo improprio. Egli, infatti, chiedeva che le
forme di abbandono terapeutico connesse al distacco del
ventilatore artificiale si trasformassero nel diritto a
vedersi erogato l’ “aiuto della dolce morte", vietata
dal codice penale come omicidio del consenziente. In
sostanza, Welby, chiedeva una diversa modalita' di
esercizio di un suo diritto fondamentale che, se negata,
lo avrebbe costretto ad una morte più lenta e
prolungata, ma naturale.
Questa pretesa
diversa modalità, non è tollerata dal nostro ordinamento
e costituisce anche una forma di abuso del diritto ,
intentendosi con tale formula, un limite esterno
all’esercizio, potenzialmente pieno ed assoluto del
diritto soggettivo, il cui riconoscimento implica
l’attribuzione al soggetto di una duplice posizione, di
libertà e di forza. Si ha abuso, nel caso di uso
anormale del diritto, che conduca il comportamento del
singolo fuori della sfera del diritto soggettivo
esercitato, per il fatto di porsi in contrasto con gli
scopi etici e sociali per cui il diritto stesso viene
riconosciuto e protetto dall’ordinamento giuridico
positivo. Pretendere una “sedazione terminale”, quindi
una sedazione che “conduce ad una determinata e
premeditata morte” e non che “accompagna verso la morte
naturale”, equivale ad ammettere forme di eutanasia
attiva che contrasterebbero col codice penale ma
soprattutto con i diritti fondamentali ed inviolabili
della persona, alla vita ed alla salute ex art. 2 e 32
Cost. It..
In caso di
malattia, difatti, ogni paziente può legittimamente non
prestare il proprio consenso ai trattamenti terapeutici
proposti. L’ art. 32 Cost. It. Al comma 2 prevede, a tal
proposito, che “nessuno può essere obbligato ad un
determinato trattamento sanitario se non per
disposizione di legge. La legge non può in nessun caso
violare i limiti imposti dal rispetto della persona
umana”.
Questa disposizione
se letta in combinato disposto con le norme sulle cure
palliative (oggi armonizzate nella legge 38/2010),
consente al paziente di non sottoporsi a trattamenti
sanitari invasivi in grado di prolungargli inutilmente
la vita ed al contempo garantisce, allo stesso paziente,
il diritto ad essere accompagnato “verso la morte
naturale” con la minor sofferenza possibile, per il
tramite delle terapie del dolore. Le cure palliative,
difatti, si sostanziano in interventi terapeutici volti
a sopprimere, alleviare e controllare il dolore in
persone affette da malattie caratterizzate da un’
evoluzione inarrestabile verso esiti infausti e sono, su
richiesta del paziente, pienamente somministrate nelle
strutture del servizio sanitario nazionale. Dunque, il
nostro ordinamento ben riconosce il diritto a lasciarsi
morire seguendo il decorso naturale della malattia,
senza doversi sottoporre ad inutili forme di accanimento
terapeutico e, riconosce altresì, il diritto del
paziente a non soffrire, garantendo le terapie del
dolore.
Quanto detto è
frutto della primazia che lo Stato dà al bene vita ed al
bene salute, presupponendo il diritto a morire in modo
naturale; non è consentito al singolo individuo di
scegliersi la morte che più gli aggrada e pretendere che
lo stato gliela somministri.
Si deve adesso
transitare dalla tematica di biodiritto inerente al
divieto di accanimento terapeutico, a quella del
cosiddetto testamento biologico (o meglio D.A.T. come si
vedrà in seguito) , ovvero alle forme di dissenso ai
trattamenti terapeutici manifestate da colui che è
attualmente capace di intendere e di volere, e che
dispone per il caso e per il tempo in cui non lo dovesse
più essere.
Per un’ analisi
completa di tali concetti giuridici, non si può non
partire da un altro caso concreto: il caso Englaro.
Eluana Englaro, a
seguito di un terribile incidente entrò in una
condizione di “stato vegetativo permanente”, o, meglio
ancora, “persistente”.Infatti, secondo la scienza
medica, lo stato vegetativo è una condizione di
possibile evoluzione del coma caratterizzata dalla
ripresa della veglia, senza contenuto di coscienza e
consapevolezza di sé e dell'ambiente circostante.
Lo stato vegetativo
viene definito persistente (stato vegetativo
persistente, SVP) - in inglese Persistent Vegetative
State (PVS) - se protratto nel tempo e, permanente,
quando si presume che sia irreversibile. Esistono oggi
tuttavia ancora molte controversie sia da un punto di
vista medico che legale sul fatto che questa condizione
sia davvero irreversible o meno, ciò è legato al fatto
che in, seppur rarissimi casi, si sono verificati
risvegli da tale stato anche dopo venti anni. Lo stato
vegetativo va distinto sia sul piano clinico che
giuridico, dalle condizioni definite come morte
cerebrale o coma irreversibile. In questi casi è
presente la completa ed irreversibile perdita di
attività dell'encefalo, confermata dalle registrazioni
elettrofisiologiche, e delle funzioni vitali correlate,
fra cui l'attività respiratoria. La morte cerebrale è,
quindi, una condizione completamente diversa dallo stato
vegetativo, che non viene riconosciuto come morte in
nessun sistema legale.
La Englaro, a
seguito di tale situazione patologica, non poteva
alimentarsi ed idratarsi in modo naturale ed autonomo e,
per ovviare a ciò, si procedeva a somministrare i
trattamenti vitali tramite un sondino naso gastrico.
Il tutore della
ragazza (il padre), nella convinzione che tale stato
della figlia fosse ormai irreversibile e che mai la
ragazza, per le sue convinzioni etiche e morali, avrebbe
voluto prolungare inutilmente una vita che tale più non
era, fece ricorso alla magistratura per ottenere la
sospensione dei trattamenti di alimentazione ed
idratazione. Il punto giuridico rilevante di tale
vicenda riguarda due questioni: i poteri del tutore
nell’ esercizio dei diritti personalissimi dell’
incapace e la valenza della volontà presunta dell’
incapace .
La suprema Corte di
Cassazione, con
sentenza 21748/2007 ha risolto le questioni
sollevate enucleando un principio di diritto valevole
per tutte le situazioni simili a quella in cui si
trovava la Englaro. Esso stabilisce che: Ove il malato
giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre
quindici) in stato vegetativo permanente, con
conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo
esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante
un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione
ed idratazione, su richiesta del tutore che lo
rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore
speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione
di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione
delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica
medica nell’interesse del paziente), unicamente in
presenza dei seguenti presupposti:
(a) quando la
condizione di stato vegetativo sia, in base ad un
rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi
sia alcun fondamento medico, secondo gli standard
scientifici riconosciuti a livello internazionale, che
lasci supporre la benché minima possibilità di un
qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di
ritorno ad una percezione del mondo esterno;
e
(b) sempre che tale
istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di
prova chiari, univoci e convincenti, della voce del
paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti
dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo
stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo
al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di
incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove
l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice
deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data
incondizionata prevalenza al diritto alla vita,
indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di
capacità di intendere e di volere del soggetto
interessato e dalla percezione, che altri possano avere,
della qualità della vita stessa.
Riguardo la
legittimazione del tutore ad avanzare tali richieste in
nome e per conto dell’ incapace, la Suprema Corte
argomenta parte dall’art. 357 cod. civ., il quale, viene
letto in connessione con l’art. 424 cod. civ. e prevede
che «Il tutore ha la cura della persona»
dell’interdetto, investendo, così , la figura del
tutore, della legittima posizione di soggetto
interlocutore dei medici nel decidere sui trattamenti
sanitari da praticare in favore dell’incapace. Poteri di
cura del disabile spettano altresì alla persona che sia
stata nominata amministratore di sostegno (artt. 404 e
ss. cod. civ., introdotti dalla legge 9 gennaio 2004, n.
6), dovendo il decreto di nomina contenere l’indicazione
degli atti che questa è legittimata a compiere a tutela
degli interessi di natura anche personale del
beneficiario (art. 405, quarto comma, cod. civ.).
A conferma di tale
lettura delle norme del codice può richiamarsi la
sentenza 18 dicembre 1989, n. 5652, con la quale si è
statuito che, in tema di interdizione, l’incapacità di
provvedere ai propri interessi, di cui all’art. 414 cod.
civ., va riguardata anche sotto il profilo della
protezione degli interessi non patrimoniali, potendosi
avere ipotesi di assoluta necessità di sostituzione
della volontà del soggetto con quella della persona
nominata tutore pure in assenza di patrimoni da
proteggere.
Ad ulteriore
sostegno, la Suprema Corte, richiama alcune disposizioni
sulla rappresentanza legale in ordine alle cure e ai
trattamenti sanitari.
Secondo l’art. 4
del
d.lgs. 24 giugno 2003, n. 211 (Attuazione della
direttiva 2001/20/CE relativa all’applicazione della
buona pratica clinica nell’esecuzione delle
sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico),
la sperimentazione clinica degli adulti incapaci che non
hanno dato o non hanno rifiutato il loro consenso
informato prima che insorgesse l’incapacità, è possibile
a condizione, tra l’altro, che «sia stato ottenuto il
consenso informato del legale rappresentante»: un
consenso – prosegue la norma – che «deve rappresentare
la presunta volontà del soggetto». Ancora, l’art. 13
della legge sulla tutela sociale della maternità e
sull’interruzione volontaria della gravidanza (legge 22
maggio 1978, n. 194), disciplinando il caso della donna
interdetta per infermità di mente, dispone che : la
richiesta di interruzione volontaria della gravidanza,
sia entro i primi novanta giorni, che trascorso tale
periodo, può essere presentata, oltre che dalla donna
personalmente, anche dal tutore; che nel caso di
richiesta avanzata dall’interdetta deve essere sentito
il parere del tutore; che la richiesta formulata dal
tutore deve essere confermata dalla donna.
In tale
argomentare, la Corte di Cassazione, prova a stabilire i
limiti dell’intervento del rappresentante legale.
Tali limiti sono
connaturati al fatto che la salute è un diritto
personalissimo e che come già precisato nell’ordinanza
20 aprile 2005, n. 8291, la libertà di rifiutare le
cure “presuppone il ricorso a valutazioni della vita e
della morte, che trovano il loro fondamento in
concezioni di natura etica o religiosa, e comunque
(anche) extragiuridiche, quindi squisitamente
soggettive”. Ad avviso del Collegio, il carattere
personalissimo del diritto alla salute dell’incapace
comporta che il riferimento all’istituto della
rappresentanza legale non trasferisce sul tutore, il
quale è investito di una funzione di diritto privato, un
potere incondizionato di disporre della salute della
persona in stato di totale e permanente incoscienza. Nel
consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla
prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace,
la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice
ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire
nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca
del best interest, deve decidere non “al posto”
dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace:
quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente
incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato,
tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della
perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà
dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue
inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue
convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche.
L’uno e l’altro vincolo al potere rappresentativo del
tutore hanno, un referente normativo: il primo nell’art.
6 della Convenzione di Oviedo, che impone di correlare
al «bénéfice direct» dell’interessato la scelta
terapeutica effettuata dal rappresentante; l’altro
nell’art. 5 del
d.lgs. n. 211 del 2003, ai cui sensi il consenso del
rappresentante legale alla sperimentazione clinica deve
corrispondere alla presunta volontà dell’adulto
incapace.
Non v’è dubbio che
la scelta del tutore deve essere a garanzia del soggetto
incapace, e quindi rivolta, oggettivamente, a
preservarne e a tutelarne la vita.
Ma, al contempo, il
tutore non può nemmeno trascurare l’idea di dignità
della persona dallo stesso rappresentato manifestata,
prima di cadere in stato di incapacità, dinanzi ai
problemi della vita e della morte.
L’ art. 357 c.c
stabilisce che il tutore ha la cura della persona del
minore o dell’ interdetto in tutti gli atti civili e ne
ne amministra i beni. Dunque, il tutore, pur avendo una
funzione prevalente di gestione degli interessi
patrimoniali dell’ incapace (artt. 378,382 c.c.),
conserva però anche poteri in ordine a tutti gli altri
atti civili e pertanto può ben essere il soggetto
giuridicamente legittimato a promuovere l’ azione per
far valere il diritto al rifiuto delle cure da parte
dell’ incapace. In tali casi ,però, vi è un esercizio
indiretto di un diritto personalissimo dell’ incapace, e
quindi nasce un conflitto tra l’ ipotetico, legittimo
diniego verso i trattamenti sanitari ed il diritto dell’
incapace alla vita, conflitto di interessi che in
assenza di certezze sulla reale volontà dell’ incapace
potrebbe porre quest’ ultimo e il tutore su posizioni
contrapposte; un eventuale curatore speciale si
verrebbe, quasi certamente, a trovare nella stessa
identica situazione. Sarebbe pertanto opportuno
prevedere, in tali casi, in via legislativa, una
decisione del giudice sull’ autorizzazione o meno alla
cessazione dei trattamenti sanitari, solo a seguito di
contraddittorio tra il tutore ed un curatore speciale ad
hoc individuato in un collegio medico costituito da
specialisti; ciò al fine di rendere la decisione su una
questione così difficile e delicata, in quanto afferente
al bene personalissimo vita, il più possibile ponderata
e partecipata, a maggior ragione quando non vi sono
pregresse dichiarazioni scritte dell’ incapace in un
senso o nell’ altro.
L’istituto dell’
amministratore di sostegno, in questi casi, può per un
verso apparire più appropriato rispetto alla figura del
tutore: l’art. 408 c.c. recita infatti: “La scelta dell’
amministratore di sostegno avviene con esclusivo
riguardo alla cura ed agli interessi della persona del
beneficiario” e l’ art 410 c.c. continua: “nello
svolgimento dei suoi compiti l’ amministratore di
sostegno deve tener conto dei bisogni e delle
aspirazioni del beneficiario”. Per altri versi, però,
non risulta essere la figura giuridica più adatta ad
intervenire in tali particolari situazioni,ciò in quanto
la nomina dell’ amministratore di sostegno presuppone
una seppur flebile capacità ad autodeterminarsi:
art.409c.c. “ il beneficiario conserva la capacità di
agire per tutti gli atti che non richiedono la
rappresentanza esclusiva o l’ assistenza necessaria
dell’ amministratore di sostegno. Il beneficiario dell’
amministrazione di sostegno può in ogni caso compiere
gli atti necessari a soddisfare le esigenze della
propria vita quotidiana”, art. 410 c.c.
“L’amministratore di sostegno deve tempestivamente
informare il beneficiario circa gli atti da compiere,
nonché in caso di dissenso con il beneficiario il
giudice tutelare”. Come sarebbe possibile fare ciò
quando vi è una persona in stato vegetativo persistente?
Pertanto se l’
amministratore di sostegno è figura adeguata a
supportare persone affette da disabilità ,ma non
totalmente incapaci come ad esempio nel caso Welby,
sicuramente nei casi simili a quello Englaro la figura
del tutore è giuridicamente la più appropriata a
rappresentare gli interessi dell’ incapace, salva l’
opportunità di novità legislative così come in
precedenza detto, nei casi in cui si debbano prendere
decisioni inerenti ai diritti personalissimi dell’
incapace. Difatti, ammettere un’ unica voce a
rappresentare l’ incapace non appare adeguato, in
quanto, come già visto, sarebbe giusto pensare a
decisioni più partecipate e ponderate attraverso l’
obbligatorio contraddittorio tra un tutore ed un
collegio di curatori speciali ad hoc , esperti della
materia.
Riprendendo il
principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione
nella
sentenza 21748/2007, a detta di chi scrive, si è nel
complesso ben deciso, anche se necessitano alcuni
appunti nella parte di sentenza relativa ai trattamenti
di idratazione ed alimentazione.
La suprema Corte,
ha infatti sancito giustamente la prevalenza del diritto
alla vita come regola generale, subordinando l’
eccezione dell’ autorizzazione alla cessazione dei
trattamenti medici in assenza di una volontà esplicita
del paziente, dovuta ad incapacità, a due presupposti:
condizione di stato vegetativo permanente senza
possibilità di guarigione per i parametri medici
attuali, ed elementi di prova chiari, concordanti e
convincenti sulla volontà del paziente di cessare i
trattamenti medici, tratti dalla sua personalità dal suo
stile di vita e dai suoi convincimenti pregressi.
E’ ovvio che la
prova per presunzioni, data l’ eccezionalità della
stessa rispetto alla regola generale della primazia del
bene vita, non potrà che essere stringente. Il giudice
dovrà concedere il distacco delle apparecchiature
salvavita, in assenza di consenso informato del
paziente, solo se le prove fornite sulla sua presunta
volontà in tal senso, saranno così forti da “andare al
di la di ogni ragionevole dubbio”.
Pertanto, il
principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione,
per la sua buona riuscita, dovrà affidarsi alla
ponderazione e attenta valutazione dei singoli tribunali
che andranno ad applicarlo al caso concreto, prestando
attenzione alla rigidità della prova richiesta, al fine
di non alterare la giusta scala di valori e di equilibri
tra vita, salute ed autodeterminazione del paziente.
In tali casi,
saranno importanti le testimonianze e gli scritti sulle
proprie concezioni di vita e credenze religiose, ma al
fine di raggiungere il corretto operare di tale
valutazione presuntiva, si dovranno anche apprestare i
dovuti accorgimenti procedurali affinchè chiunque
(genitori, parenti, amici), sia in possesso di prove
concrete o sia in grado di testimoniare fatti pregressi
sull’ idea di vita del paziente, venga ammesso a far
valere le stesse dinnanzi al giudice competente,
partendo dal fatto che, ex art. 32 cost., la salute è
anche interesse della collettività oltre che bene
primario dell’ individuo. Si dà quindi atto della bontà
dell’ argomentazione giuridica effettuata della suprema
Corte nel dettare un principio di diritto in grado di
bilanciare i beni vita, salute e libertà ma,
sottolineando, però, anche l’ importanza del ruolo dei
singoli giudici che avranno il delicato compito di
applicare al caso concreto il principio enucleato, in
modo stringente.
Si può ora passare
ad analizzare l’ argomentare dei giudici di legittimità
sui concetti di idratazione ed alimentazione.
La
sentenza 21748/2007 ha esplicitato che: “i
trattamenti di idratazione ed alimentazione artificiali
con sondino nasogastrico, costituiscono un trattamento
sanitario in quanto sottendono ad un sapere scientifico
posto in essere da medici anche se proseguito da non
medici e consistenti nella somministrazione di preparati
chimici”, la stessa Corte ha tuttavia, in modo non
proprio lineare, aggiunto: “non possono essere
considerate forme di accanimento terapeutico ma
costituiscono, invece , un presidio proporzionato
rivolto al mantenimento del soffio vitale, salvo che
nell’ imminenza della morte, l’ organismo non sia più in
grado di assimilare le sostanze fornite o che
sopraggiunga uno stato di intolleranza collegato alla
particolare forma di alimentazione”. Detto ciò, la Corte
di Cassazione, pur sottolineando che il giudice non
possa ordinare il distacco del sondino naso gastrico,
lascia allo stesso giudice del caso concreto il
controllo di ragionevolezza sulla scelta del distacco
compiuta dal tutore. Orbene, l’art. 32 della nostra
costituzione prevede che “Nessuno può essere obbligato
ad un trattamento sanitario se non per disposizione di
legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti
imposti dal rispetto della persona umana”.
Dunque se
alimentazione ed idratazione non sono trattamenti
sanitari, essi devono essere garantiti e non possono
essere sospesi in quanto posti a tutela dei beni vita e
salute che sono interesse della collettività. Diversi
pareri del Comitato Nazionale di Bioetica hanno
evidenziato come idratazione ed alimentazione siano
“atti dovuti” in quanto supporti vitali di base che
consentono all’ individuo di rimanere in vita evitando
allo stesso,per il tramite della loro interruzione, un
processo di sofferenza che possa prolungarsi anche fino
a due settimane per portare, infine, ad una morte di
fame e di sete la cui sofferenza non è eliminabile
attraverso le terapie del dolore. Da ciò si deve dedurre
che alimentazione ed idratazione anche se artificiali,
non possono essere considerati trattamenti sanitari, se
i metodi con i quali essi sono somministrati non
consistono in forme di eccessiva invasività né diano
sofferenze sproporzionate al paziente. Possono diventare
però tali, e trasformarsi in forme di accanimento
terapeutico, in questi specifici casi: a)se nell’
imminenza della morte l’ organismo non sia più in grado
di assimilare le sostanze fornite b) se vi sia uno stato
di intolleranza clinicamente rilevabile collegato all’
alimentazione c)se per i modi artificiali ed invasivi
con cui l’ alimentazione e l’ idratazione vengano
somministrate non vi sia proporzionalità tra le
sofferenze che essi apportano al paziente ed i benefici
in vista di una sua futura guarigione.
Il giudice del caso
concreto pertanto non potrà autorizzare la scelta
compiuta del tutore di sospendere idratazione ed
alimentazione, neanche se vi è stata una ricostruzione
in tal senso della volontà presunta del paziente, salvo
che venga accertata da parte del giudice di merito la
ricorrenza di una delle tre tipologie di eccezioni prima
esaminate, le quali (soltanto) rendono alimentazione ed
idratazione trattamenti sanitari sproporzionati.
Il principio di
diritto sulla “volontà presunta” del malato, in assenza
di consenso informato al trattamento sanitario, è stato
necessitato anche dalla totale assenza di una specifica
normativa al riguardo.
La suprema
Corte,infatti, ha fondato le sue argomentazioni su
diversi parametri legali: art 4 del.
D.lgs. 211/2003 (esecuzione delle sperimentazioni
cliniche di medicinali), l’ art. 6 della Convenzione di
Oviedo per la protezione dei diritti dell'uomo e la
dignità dell'essere umano riguardo alla applicazione
della biologia e della medicina ; gli artt. 2, 13, 32
Cost. It..
Si è pertanto
animato il dibattito sulla necessità di introdurre una
normativa sul testamento biologico che attenui il
principio di matrice pretoria della volontà presunta del
paziente incapace.
Innanzi tutto si
deve sottolineare come a seguito della
sentenza 21748/2007, il parlamento aveva proposto
dinnanzi alla Corte Costituzionale, conflitto di
attribuzione tra poteri dello stato.
La Corte delle
Leggi, con
ordinanza 334/2008, ha dichiarato inammissibile il
ricorso stabilendo che il provvedimento censurato ha
caratteristiche giurisdizionali proprie e non funzioni
di produzione normativa e che non memoma in alcun modo
l’ esercizio del potere legislativo da parte del
parlamento, il quale avrà la libertà di colmare in ogni
momento il vuoto legislativo trovando gli adeguati punti
di equilibrio tra i fondamentali beni costituzionali
coinvolti nella vicenda. Dunque, la sentenza della Corte
di Cassazione non ha creato diritto invadendo la
funzione legislativa, ma ha semplicemente colmato un
vuoto legislativo attraverso un’ interpretazione
costituzionalmente orientata della scarna normativa già
esistente, dando in tal modo giustizia nel caso concreto
senza incorrere in responsabilità per non liquet.
Una legislazione
sul testamento biologico sembra essere oramai imminente.
Difatti, il Senato
ha approvato nel Marzo 2009 il ddl Calabrò contenente “
Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di
consenso informato e di dichiarazioni anticipate di
trattamento”.
Dunque, nel testo
che non appena deliberato dalla camera (si presume a
breve) diventerà legge, si usa il termine “dichiarazioni
anticipate di trattamento” e non quello di testamento
biologico.
Questa è
sicuramente una felice definizione da parte del
legislatore. Infatti, il termine testamento biologico
ovvero testamento di vita (bios = vita), risulta essere
un controsenso sia in termini letterali quanto in
termini sostanziali, potendosi in questo caso
erroneamente immaginare che con un atto avente le forme
del testamento un individuo possa disporre dell’
inviolabile bene della vita. Il termine dichiarazioni
anticipate di trattamento è ,inoltre , sicuramente più
preciso di un'altra espressione proposta, ovvero :
“volontà previe di trattamento”, un siffatto nomen
avrebbe rischiato di far prevalere in sede di eventuale
interpretazione del testo, le presunte volontà del
dichiarante rispetto al contenuto della dichiarazione,
dando adito a forme di incertezza.
Nell’ analizzare le
disposizioni del disegno di legge Calabrò, si possono
cogliere i seguenti punti focali:
A) DIVIETO DI
ACCANIMENTO TERAPEUTICO
Soprattutto in
condizioni di morte prevista come imminente, il medico
deve astenersi da trattamenti sanitari straordinari, non
proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati
rispetto alle condizioni cliniche del paziente o agli
obiettivi di cura e/o di sostegno vitale del medesimo.
Il divieto di accanimento terapeutico non può
legittimare attività che direttamente o indirettamente,
per loro natura o nelle intenzioni di chi li richiede o
li pone in essere, configurino pratiche di carattere
eutanasico o di abbandono terapeutico.
B) CONSENSO
INFORMATO
Salvo i casi
previsti dalla legge, ogni trattamento sanitario è
attivato previo consenso esplicito ed attuale del
paziente prestato in modo libero e consapevole
L'espressione del
consenso è preceduta da accurate informazioni rese in
maniera completa e comprensibile circa diagnosi,
prognosi, scopo e natura del trattamento sanitario
proposto, benefici e rischi prospettabili, eventuali
effetti collaterali, nonché circa le possibili
alternative e le conseguenze del rifiuto del
trattamento.
L'alleanza terapeutica così costituitasi all'interno
della relazione medico paziente è rappresentata da un
documento di consenso, firmato dal paziente, che diventa
parte integrante della cartella clinica.
In caso di
interdizione ai sensi dell'articolo 414 del codice
civile, il consenso è prestato dal tutore che appone la
firma in calce al documento. In caso di inabilitazione,
ai sensi dell'articolo 415 del codice civile, si
applicano le disposizioni di cui all'articolo 349, comma
3 del codice civile relative agli atti eccedenti
l'ordinaria amministrazione. Qualora vi sia un
amministratore di sostegno ai sensi dell'articolo 404
del codice civile e il decreto di nomina preveda
l'assistenza in ordine alle situazioni di carattere
sanitario, il consenso è prestato dall'amministratore di
sostegno. La decisione di tali soggetti è adottata
avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute
dell'incapace e non può pertanto riguardare trattamenti
sanitari in pregiudizio della vita dell'incapace stesso.
C) CONTENUTI E
LIMITI DELLE DICHIARAZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO
Nella Dichiarazione
Anticipata di Trattamento il dichiarante esprime il
proprio orientamento in merito ai trattamenti sanitari e
di fine vita in previsione di un'eventuale futura
perdita della propria capacità di intendere e di volere.
Nella Dichiarazione Anticipata di Trattamento il
soggetto dichiara il proprio orientamento circa
l'attivazione e non attivazione di specifici trattamenti
sanitari, che egli, in stato di piena capacità di
intendere e di volere e in situazione di compiuta
informazione medico-clinica, è legittimato dalla legge e
dal codice di deontologia medica a sottoporre al proprio
medico curante.
Il soggetto può, in stato di piena capacità di intendere
e di volere e in situazione di compiuta informazione
medico-clinica, dichiarare di accettare o meno di essere
sottoposto a trattamenti sanitari sperimentali invasivi
o ad alta rischiosità, che il medico ritenga possano
essergli di giovamento, può altresì dichiarare di
accettare o meno trattamenti sanitari che, anche a
giudizio del medico avessero potenziale, ma non sicuro
carattere di accanimento terapeutico.
Nella dichiarazione anticipata di trattamento può essere
esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad ogni o
ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in
quanto di carattere sproporzionato, futili,
sperimentali, altamente invasive e invalidanti. Possono
essere altresì inserite indicazioni da parte del
redattore favorevoli o contrarie all'assistenza
religiosa e alla donazione post mortem di tutti o di
alcuni suoi organi.
Nella dichiarazione anticipata di trattamento il
soggetto non può inserire indicazioni finalizzate
all'eutanasia attiva o omissiva.
La dichiarazione
anticipata di trattamento assume rilievo nel momento in
cui è accertato che il soggetto in stato vegetativo non
è più in grado di comprendere le informazioni circa il
trattamento sanitario e le sue conseguenze e per questo
motivo non può assumere decisioni che lo riguardano. La
valutazione dello stato clinico va formulata da un
collegio medico formato da medico legale, un
anestesista-rianimatore, ed un neurologo, sentiti il
medico curante e medico specialista della patologia,
designati dalla direzione sanitaria della struttura di
ricovero.
D) ALIMENTAZIONE
ED IDRATAZIONE
Nelle diverse forme
in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al
paziente, sono forme di sostegno vitale e
fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze
e non possono formare oggetto di Dichiarazione
Anticipata di Trattamento.
E) FORMA E
DURATA DELLA DICHIARAZIONE ANTICIPATA DI TRATTAMENTO
Le dichiarazioni
anticipate di trattamento non sono obbligatorie né
vincolanti, sono redatte in forma scritta con atto
avente data certa e firma del soggetto interessato
maggiorenne, in piena capacità di intendere e di volere
dopo una compiuta e puntuale informazione medico
clinica, e sono raccolte esclusivamente dal medico di
medicina generale che contestualmente le sottoscrive.
La dichiarazione
anticipata di trattamento ha validità per cinque anni
che decorrono dalla redazione dell’ atto, termine oltre
il quale perde ogni efficacia. La dichiarazione
anticipata di trattamento può essere revocata o
modificata in ogni momento dal soggetto interessato. La
revoca anche parziale, della dichiarazione deve essere
sottoscritta dal soggetto interessato, la dichiarazione
anticipata di trattamento deve essere inserita in
cartella clinica.
F) FIDUCIARIO
Nella dichiarazione
anticipata di trattamento è possibile la nomina di un
fiduciario, maggiorenne, capace di intendere e di
volere, che opera sempre e solo secondo le intenzioni
legittimamente esplicitate dal soggetto nelle
dichiarazioni anticipate, per farle conoscere e
contribuire a realizzarne le volontà.
Il fiduciario appone la propria firma autografa al testo
contenente le dichiarazioni anticipate.
Il fiduciario si impegna ad agire nell'esclusivo e
migliore interesse del paziente.
Il fiduciario, in stretta collaborazione con il medico
curante con il quale realizza l'alleanza terapeutica, si
impegna a garantire che si tenga conto delle indicazioni
sottoscritte dalla persona nella dichiarazione
anticipata di trattamento.
Il fiduciario si impegna a vigilare perché al paziente
vengano somministrate le migliori terapie palliative
disponibili, evitando che si creino situazioni sia di
accanimento terapeutico, sia di abbandono terapeutico.
Il fiduciario si impegna a verificare attentamente che
il paziente non sia sottoposto a nessuna forma di
eutanasia esplicita o surrettizia.
Il fiduciario può rinunciare per iscritto all'incarico,
comunicandolo direttamente al dichiarante o, ove
quest'ultimo fosse incapace di intendere e di volere, al
medico responsabile del trattamento sanitario.
G) RUOLO DEL
MEDICO
La volontà espressa
dal soggetto nella sua dichiarazione anticipata di
trattamento è attentamente presa in considerazione dal
medico curante che, sentito il fiduciario, annota nella
cartella clinica le motivazioni per le quali ritiene di
seguirle o meno.
Il medico non può prendere in considerazione indicazioni
orientate a cagionare la morte del paziente o comunque
in contrasto con le norme giuridiche o la deontologia
medica.
Le indicazioni sono
valutate dal medico, sentito il fiduciario, in scienza e
coscienza, in applicazione del principio
dell'inviolabilità della vita umana e della tutela della
salute, secondo i principi di precauzione,
proporzionalità e prudenza.
Nel caso di controversia tra fiduciario ed il medico
curante, la questione è sottoposta alla valutazione di
un collegio di medici: medico legale, un
anestesista-rianimatore, ed un neurologo, sentiti il
medico curante e medico specialista della patologia,
designati dalla direzione sanitaria della struttura di
ricovero. Tale parere non è vincolante per il medico
curante, il quale non sarà tenuto a porre in essere
prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere
scientifico e deontologico.
Il testo prevede
quindi la D.A.T. come una dichiarazione non
obbligatoria, revocabile e limitata nel tempo, insomma
uno strumento flessibile e partecipativo tra medico e
paziente , grazie anche alla figura del fiduciario che
deve sempre mirare a tutelare contemporaneamente la
vita, la salute e l’autodeterminazione del malato,
facendo prevalere sempre il best interest dello stesso.
La D.A.T. è dunque un importante strumento di
orientamento nelle cure mediche ma non è strettamente
vincolante per il medico, ciò è dovuto anche al fatto
che la redazione della D.A.T . è si effettuata con l’
ausilio del medico di fiducia, ma è redatta pur sempre
in modo autonomo dai singoli soggetti, spesso non
cultori delle discipline mediche, e potrebbe quindi
presentare un grado di imprecisione nelle terminologie o
di genericità ed astrattezza nelle disposizioni, tale
che una sua vincolatività porterebbe a risultati
talvolta aberranti.
Dal testo della
norma viene in rilievo una nuova figura giuridica: il
fiduciario.
Egli dovrà essere
un soggetto avente la piena fiducia di colui che redige
la D.A.T. e dovrà eseguire come un mandatario le
direttive impartitegli per il caso in cui si verifichi
una situazione di incapacità seguita da trattamento
medico. La disposizione della dichiarazione anticipata
di trattamento che contenga la nomina di un fiduciario,
sarà quindi configurabile come una sorta di mandato
sospensivamente condizionato al verificarsi dell’ evento
incapacità in cui potrebbe incorrere il soggetto
mandante.
Il meccanismo è
simile all'intestazione fiduciaria, quest’ ultima sorge
con un contratto di mandato in base al quale un soggetto
(il fiduciante) trasferisce un diritto ad un altro
soggetto (il fiduciario), con l'obbligo di quest'ultimo
di esercitarlo per il soddisfacimento di determinati
interessi del trasferente o di un terzo o comuni a lui
ed al trasferente od al terzo. Con l'intestazione
fiduciaria, il fiduciario ha il compito di amministrare
in modo professionale, in trasparenza e riservatezza,
per conto del fiduciante, il suo patrimonio. La
proprietà di quest'ultimo rimane del fiduciante mentre
il fiduciario agisce in base alle direttive impartite
dal primo. Ciò che cambia nella figura del fiduciario è
solo il bene che egli è tenuto ad amministrare, non più
quello del patrimonio bensì quello della salute del
soggetto fiduciante, agendo nell’ esclusivo interesse di
quest’ ultimo. Resta da chiedersi se il fiduciante possa
attribuire un compenso al fiduciario per l’ opera che
egli eventualmente presterà nel suo interesse. Esso
potrebbe essere un incentivo per il fiduciario a
svolgere bene e con ancora maggiore riconoscenza e
diligenza il proprio delicato compito, che potrebbe
anche richiedere un notevole dispendio di tempo ed
energie, per cui sembra ben possibile che il fiduciante
decida di attribuire al fiduciario un compenso,
subordinato al verificarsi dell’ eventuale stato di
incapacità del fiduciante connesso ad una situazione di
salute che necessiti di trattamenti medici.
Il fiduciante
potrebbe inoltre ben nominare più fiduciari sia in modo
congiuntivo che in modo sostitutivo laddove uno di essi
dovesse rifiutare o premorire.
Nel testo della
normativa si sarebbe potuta anche prevedere una nullità
parziale per quelle disposizioni inerenti specifici
trattamenti sanitari che a causa del progresso
scientifico riescano a fornire, nel momento in cui si
attualizza l’ evento incapacità-trattamento, un elevato
esito fausto della patologia, prima non preventivabile.
Anche riguardo al
divieto assoluto di effettuare dichiarazioni relative ad
alimentazione ed idratazione si sarebbe potuta prevedere
un’ eccezione espressa per i tre casi prima menzionati
in cui queste cure vitali si possono tradurre in
trattamento medico, ovvero:
a)se nell’
imminenza della morte l’ organismo non sia più in grado
di assimilare le sostanze fornite b) se vi sia uno stato
di intolleranza clinicamente rilevabile collegato all’
alimentazione c)se per i modi artificiali ed invasivi
con cui l’ alimentazione e l’ idratazione vengano
somministrate non vi sia proporzionalità tra le
sofferenze che essi apportano ed i benefici in vista di
una futura guarigione.
Con riguardo alle
normative di “biodiritto” inerenti al fenomeno della
clonazione umana , c’ è da dire che essa è bandita in
tutti i paesi a fini di riproduzione ed in molti altri
anche a fini di ricerca. In Italia vi è un’ordinanza del
Ministro della Sanità del 22 dicembre 1999 che
esplicitamente ne stabilisce il divieto, oltre alla
legge 40/2004 che proibisce gli “interventi di
clonazione mediante trasferimento di nucleo o di
scissione precoce dell'embrione o di ectogenesi sia a
fini procreativi sia di ricerca” ed a ciò si deve
aggiungere anche la ratifica da parte dell’ Italia della
Convenzione di Oviedo del 1997 che ha introdotto un
protocollo addizionale sul divieto di clonazione di
esseri umani il quale vieta ai paesi aderenti la
clonazione a fini riproduttivi e la creazione di
embrioni a scopo di ricerca. All'interno dei singoli
Paesi, tuttavia, tranne pochi casi, non esistono, allo
stato attuale, normative che stabiliscano precise
sanzioni al divieto di clonazione umana e su ciò
bisognerebbe avviare una riflessione. Da registrare
inoltre il fatto che in molti stati si consente la
clonazione vegetale ed animale, attività ultimamente
sospesa nell’ UE per iniziativa della Commissione
Europea che ha bloccato, in Europa, la produzione e
commercializzazione di cibi provenienti da animali
clonati. La Commissione europea ha proposto di
sospendere la clonazione animale a fini alimentari per
cinque anni, così come l'utilizzo di animali
d'allevamento clonati e la commercializzazione di cibi
provenienti da cloni. Bruxelles ha chiesto inoltre di
creare un sistema di tracciabilità per le importazioni
di materiale destinato alla produzione di cloni, come
sperma ed embrioni. Lo ha deciso il Collegio dei
Commissari Ue riunito a Strasburgo nell’ Ottobre 2010,
in concomitanza con la sessione plenaria
dell'Europarlamento.
Si deve adesso
passare ad esaminare l’ultimo profilo, cronologicamente
ma non certo per importanza, relativo alla procreazione
medicalmente assistita.
La
legge 19 febbraio 2004, n. 40 definisce la
procreazione assistita come l'insieme degli artifici
medico-chirurgici finalizzati a favorire la soluzione
dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o
dall'infertilità umana qualora non vi siano altri metodi
efficaci per rimuovere le cause di sterilità o di
infertilità.
Alle tecniche di
procreazione assistita possono accedere "coppie
maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in
età potenzialmente fertile, entrambi viventi". È vietato
il ricorso a tecniche di fecondazione eterologa.
Si parla di
fecondazione omologa quando il seme e l'ovulo utilizzati
nella fecondazione assistita appartengono alla coppia di
genitori del nascituro, il quale presenterà quindi un
patrimonio genetico ereditato da coloro che intendono
allevarlo. La fecondazione eterologa si verifica,
invece, quando il seme oppure l'ovulo (ovodonazione)
provengono da un soggetto esterno alla coppia.
La Corte
costituzionale, con
sentenza n. 151 del 2009 ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2,
della
legge 19 febbraio 2004, n. 40, limitatamente alle
parole “ad un unico e contemporaneo impianto, comunque
non superiore a tre”. La Corte ha altresì dichiarato
l’illegittimità costituzionale del comma 3 del medesimo
articolo nella parte in cui non prevede che il
trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena
possibile, come previsto in tale norma, debba essere
effettuato senza pregiudizio della salute della donna.
Le considerazioni svolte dal redattore della sentenza in
ordine al censurato divieto di creare un numero di
embrioni superiore a quello strettamente necessario ad
“un unico e contemporaneo impianto e comunque non
superiore a tre” sono basate al fatto che la necessità
della moltiplicazione dei cicli di fecondazione poiché
non consente di tenere conto del numero di embrioni
realmente necessario per il buon esito della procedura
di procreazione in relazione alla qualità degli
embrioni, alle condizioni soggettive della donna, con
riguardo all’età; contrasta con il principio della
gradualità e della minore invasività della tecnica di
procreazione assistita espresso all’art. 4, comma 2,
della stessa legge.
Favorisce, inoltre,
l’aumento dei rischi di insorgenza di patologie che
possono conseguire all’iperstimolazione ovarica;
determina, per altro verso,l’incidenza di possibili
gravidanze plurime, con pregiudizio sia della donna che
del feto stante il divieto di riduzione embrionaria
selettiva posto dall’art.14,comma 4; sottrae alla
competenza del medico, caso per caso,la valutazione che
gli spetterebbe sulla base delle più accreditate e
aggiornate conoscenze tecnico-scientifiche riducendo al
minimo ipotizzabile il rischio per la salute della donna
e del feto. Si tratta di considerazioni alle quali
sovrintende un principio più volte affermato dalla
giurisprudenza costituzionale (come si dice in
sentenza), quando ha precisato che “ in materia di
pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la
autonomia e la responsabilità del medico che, con il
consenso del paziente, opera le necessarie scelte
professionali”.
Da quanto precede
discendono le ragioni della censura di
incostituzionalità, per violazione dell’art. 3 sotto il
profilo del principio di uguaglianza e di quello di
ragionevolezza in quanto il legislatore impone il
medesimo trattamento a situazioni dissimili; per
violazione dell’art. 32 per il danno alla salute della
donna ed eventualmente a quella del feto. Resta poco da
dire in ordine ai motivi di incostituzionalità del 3°
comma del’art. 14 poiché, come si è visto più sopra, la
pronunzia al riguardo è diretta conseguenza del percorso
logico-giuridico seguito per censurare il comma
precedente, percorso che per il comma 3 si focalizza
sulla necessità di salvaguardia della salute della
donna.
Inoltre, altra
novità di rilievo, è stata quella relativa all’
aggiornamento delle linee guida della
legge 40/2004, opera effettuata dal Ministero della
Salute nel 2008 e che ha consentito indagini sullo stato
di salute degli embrioni non più soltanto di tipo
osservazionale. Pertanto si è aperta la strada alle
indagini genetiche preimpianto; esse al pari delle altre
diagnosi prenatali, assurge oggi ad essere una normale
forma di monitoraggio con finalità conoscitiva della
salute dell’ embrione alla stregua dei criteri della
buona pratica clinica, la cui mancanza da luogo a
responsabilità medica. Riconoscendosi alla madre il
diritto di abortire il feto malato, non si può non
riconoscerle anche il diritto di prevenire l’ impianto
di un simile feto che poi eventualmente dovrebbe
abortire con grossi rischi per la salute. Inoltre, il
nostro ordinamento, riconosce anche la legittimità nella
diagnosi prenatale, tecnica altrettanto invasiva del
feto, avente funzione di tutela sia verso il feto che
verso la madre.
C’è da aggiungere
che l’ estensione della procreazione assistita omologa
unitamente alla diagnosi preimpianto, anche in favore di
coppie non sterili o infertili ma che rischiano comunque
di procreare concretamente figli affetti da gravi
malattie a causa di patologie geneticamente
trasmissibili , potrebbe permettere a tali coppie di non
correre più questo rischio, il tutto tramite una lettura
costituzionalmente orientata dell’ art. 13 della
legge 40/2004. Ciò viene proposto anche alla luce
dell’ ampliamento dell’ accesso alle tecniche di
procreazione medicalmente assistita operata dalle linee
guida del Ministero della salute del 2008, le quali
hanno parificato alle coppie infertili quelle in cui
almeno un individuo sia portatore di gravi malattie
quali il virus hiv o l’ epatite b e c. Pertanto alla
luce del primario rilievo che assume il benessere
psicofisico della donna nel nostro ordinamento, così
come esplicitato dalla Corte Costituzionale in più
pronunce, e che nel caso di genitori portatori di
malattie geneticamente trasmissibili ben coincide anche
con l’ interesse del nascituro a venire alla luce sano,
si potrebbe, con una lettura costituzionalmente
orientata della norma, estendere la procreazione
medicalmente assistita omologa e l’ analisi preimpianto
anche alle coppie con malattie geneticamente
trasmissibili gravi ed inguaribili, attività questa, che
alcuni tribunali hanno già in via pretoria autorizzato
(vedi trib. Salerno 191/2010).
La trattazione dei
principali aspetti di biodiritto riguardanti la
procreazione medicalmente assistita, non può non
prendere in considerazione il dibattito e le numerose
ordinanze di remissione alla Corte Costituzionale( Trib.
Catania 7305/2010, Trib. Firenze 7618/2010) che si sono
avute in merito al divieto di fecondazione eterologa,
ovvero di quella procreazione in cui seme o ovulo
proviene da un individuo estraneo alla coppia.
I fautori dell’
incostituzionalità della norma che vieta in Italia la
procreazione eterologa (art. 4,
legge 40/2004), richiamano vari assunti.
Anzitutto si
afferma che suddetta norma sarebbe in contrasto con gli
artt. 3 e 31 della nostra costituzione , ovvero con i
principi di non discriminazione e ragionevolezza,
sostenendosi che il legislatore ha effettuato un’
irragionevole discriminazione tra soggetti vertenti in
situazioni uguali (infertilità della coppia), per il
solo fatto che essi abbisognassero di modalità
differenti della stessa terapia ( procreazione
assistita, omologa in un caso eterologa nell’ altro). Si
afferma inoltre che il divieto posto all’eterologa,
sarebbe solo formale e non sostanziale, in quanto
l’art.12 della
L. 40/2004 prevede solo una sanzione amministrativa
per i sanitari ed invece nessuna sanzione per la coppia
che eventualmente decidesse di accedere all’ eterologa
in violazione della norma, si fa inoltre notare come la
stessa
legge 40/2004 all’ art. 9 prevede che l’ eventuale
figlio nato dalla violazione del divieto di
inseminazione eterologa , non possa essere disconosciuto
escludendo inoltre ogni legame giuridico parentale
rispetto ai donatori di gameti.
La norma oltre che
irragionevole e discriminatoria sarebbe, per i fautori
di tale tesi, anche contraddittoria in quanto porrebbe
solo un divieto di facciata, eventualmente aggirabile,
aggravando solo i procedimenti per chi si trovasse nella
infelice situazione di non poter procreare se non
tramite eterologa. Si afferma inoltre che il divieto che
avrebbe come ratio quella di impedire parentele
atipiche, non sarebbe giustificato , in quanto la legge
già prevede una possibile discrepanza tra genitorialità
genetica e genitorialità legittima attraverso le norme
sull’ adozione. Ad ulteriore supporto, si sostiene che
tale divieto contrasterebbe anche con l’ art. 2 Cost.
laddove, esso, impedendo l’uso di tale tecnica alle
coppie totalmente infertili che non dispongono di
alternative alla procreazione eterologa, violerebbe il
diritto alla vita privata e familiare ed il diritto di
autodeterminarsi, compromettendo anche l’ integrità
pscicofisica di tali coppie infertili.
Il divieto di fare
ricorso alla donazione di gameti nell’ambito della
pma, ad avviso dei tribunali rimettenti la questione
alla Corte Costituzionale, pregiudicherebbe anche il
diritto alla salute di alcune coppie sterili almeno
sotto due profili: impone loro di sottoporsi, allorché
sarebbe necessaria la fecondazione assistita eterologa,
a “pratiche mediche meno indicate, dai risultati più
incerti”, in violazione del diritto di ciascuno ,
solennemente affermato dal Giudice delle Leggi, “ad
essere curato efficacemente secondo i canoni della
scienza e dell’arte medica”; inoltre, quel divieto
costringerebbe molte coppie a recarsi all’estero,
affrontando sia il disagio psicologico ed emotivo di
allontanarsi dal luogo degli affetti, sia il rischio di
essere contagiati da malattie trasmesse dal donatore o
dalla donatrice, per carenza di controlli e di
informazioni.
Ulteriore
argomentazione favorevole viene tratta dai sostenitori
dell’incostituzionalità del divieto di eterologa,
attraverso la Convenzione europea dei diritti dell’
uomo, la quale all’art. 7 prevede che “ogni individuo ha
diritto al rispetto della propria vita privata e
familiare” e agli artt 8 e 14 prevede il divieto di
discriminazione . Tali articoli sono stati implementati
nel loro contenuto, da una recente pronuncia della Corte
di giustizia di Strasburgo che, con la sentenza S.H.
contro Austria n. 57813/00, ha dichiarato illegittima
una norma austriaca la quale vietava l’ accesso ad un
determinato tipo di procreazione eterologa.
La sentenza della
Corte EDU ha preso in esame due diversi ricorsi in
materia di PMA riguardanti due situazioni diverse.
Il primo caso si trattava di una coppia in cui la donna
era infertile relativa alle tube di Falloppio e l'uomo
sterile, per cui poteva far ricorso soltanto alla
fecondazione eterologa in vitro, vietata dalla legge
austriaca, che consente invece la fecondazione eterologa
in vivo.
Il secondo riguardava una coppia in cui la donna era
completamente sterile non producendo ovuli, mentre
l'uomo produceva sperma adatto alla procreazione, per
cui poteva far ricorso solo alla donazione di ovuli, non
consentita dalla legge austriaca, a differenza di quella
di gameti maschili consentita, come si è detto, sia pure
solo per la fecondazione in vivo.
La Corte ha ritenuto sussistenti in entrambi i casi la
violazione del combinato disposto dagli artt. 8 e 14
della Convenzione che stabiliscono, rispettivamente, il
diritto al rispetto della vita provata e familiare e il
divieto di discriminazione.
Il rilievo che la decisione sul primo caso - motivata ai
§ 86/94- é basata solo sull'irragionevolezza
dell'esclusione della donazione di gameti in vitro
una volta che sia ammessa quella in vivo,
impedisce dì trarre conseguenze ai fini della sua
applicazione riguardo alla legge italiana posto che essa
vieta la fecondazione eterologa in ogni caso.
La Corte ha deciso il secondo caso (ai § 70/85)
ritenendo l'irragionevolezza dell'ammissibilità, nella
legge austriaca, della donazione di spermatozoi ma non
dì ovuli.
Per arrivare a
questa conclusione, però, (forse significativamente
anteponendolo l'esame di questo caso all'altro) ha
esposto principi di ordine generale che, ad avviso del
giudicante, paiono pertanto applicabili in sede
interpretativa ai fini che qui interessano.
La Corte afferma (§
74) che non vi è un obbligo per gli Stati membri di
adottare una legislazione che consenta la fecondazione
assistita, ma che una volta che essa sia consentita,
nonostante il largo margine di discrezionalità lasciato
agli Stati contraenti, la sua disciplina dovrà essere
coerente in modo da prevedere una adeguata
considerazione dei differenti interessi legittimi
coinvolti in accordo con gli obblighi derivanti dalla
Convenzione
Ricorrono dunque le
condizioni per il rilievo della questione di legittimità
costituzionale dell'art. 4, comma 3 della
legge 19 febbraio 2004, n. 40 per contrasto con
l'art. 117, 1° comma Cost. in relazione al combinato
disposto degli artt. 8 e 14 CEDU come interpretato dalla
sentenza della Corte EDU del 1.4.10 emessa nel caso S.H.
e altri contro Austria.
Rileva poi (§ 81 )
che l'obiettivo di mantenere la certezza in materia di
diritto di famiglia deve tener conto del fatto che in
molti Stati contraenti sono previsti rapporti familiari
atipici che non seguono la relazione genitore -figlio
basata sulla diretta discendenza biologica (a partire
dall'adozione) per cui ritiene che non vi siano ostacoli
insormontabili per condurre le relazioni familiari che
risultassero dall'utilizzare con successo le tecniche di
procreazione assistita in questione nell'ambito del
quadro generale della legislazione in materia di
famiglia e negli altri campi giuridici collegati.
La Corte (§ 84 e
ss.) rileva infine che anche l'argomento relativo al
diritto all'informazione del bambino a conoscere la sua
discendenza effettiva non è un diritto assoluto,
rilevando di aver già ritenuto l'assenza - in un caso
già sottoposto al suo giudìzio - di violazioni all'art.
8 della Convenzione avendo in quel caso lo Stato
raggiunto un giusto equilibrio fra gli interessi
pubblici e privati coinvolti, per cui il legislatore
austriaco poteva anch'esso trovare una soluzione
adeguata ai contrapposti interessi del donatore che
chiede l'anonimato e del bambino ad ottenere
informazioni.
Parte della
dottrina pensa che tale ragionamento possa far ritenere
in contrasto con la Convenzione europea anche il divieto
contenuto nell'art. 4, 3° comma, della
L. 40/2004, essendo del tutto analoghe le
osservazioni spendibili contro le
rationes legis sopra evidenziate, posto che anche in Italia
sono già ammesse le parentele atipiche (come
l'adozione), con conseguente esclusione della
ragionevolezza della disciplina.
Le stesse considerazioni esposte dalla Corte EDU in
ordine alla irragionevolezza della norma in questione
sarebbero pertinenti per il rilievo della questione dì
legittimità costituzionale anche sotto il profilo
dell'art. 3 Cost. sotto il profilo dell'escludere dalla
PMA proprio i soggetti completamente sterili, tanto più
che, ai sensi del 2° comma, dell'art. 1 della legge in
esame "è consentito qualora non vi siano altri metodi
terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilita
o infertilità".
A detta di chi
scrive, tali argomentazioni sono un po’ forzose.
Innanzi tutto si
deve sottolineare come la Corte Costituzionale in varie
circostanze (e da ultimo con sentenza 311/2009) ha
espresso il principio per cui le pronunce della Corte di
Strasburgo non sono incondizionatamente vincolanti ai
fini del controllo di costituzionalità. Difatti, il
suddetto controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole
bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi
internazionali imposto dall’art. 117 Cost. e quello
della tutela degli interessi costituzionalmente
rilevanti contenuti negli altri articoli della
Costituzione e che il rispetto degli obblighi
internazionali non può mai incidere sui principi
fondamentali del nostro ordinamento. Sicuramente l’art.
29 della nostra costituzione nell’ affermare che
“La Repubblica
riconosce i diritti della famiglia come società naturale
fondata sul matrimonio”, ha posto come principio
generale e di ordine pubblico quello per cui i concetti
di famiglia e quello di genitorialità devono
corrispondere ad un idea della famiglia e della
filiazione così come esistenti in natura per cui la
formazione di famiglie artificiose o di figli creati in
modo esterno alla coppia non possono avere eguale tutela
rispetto a una famiglia tradizionale e naturale legata
da vincolo matrimoniale o quanto meno da convivenza e
riguardo ai figli concepiti tra le stesse persone
artefici della medesima relazione affettiva.
L’ unico caso in
cui un’ eccezione può avvenire è prevista con riguardo
all’ adozione, la quale,però, contempera due opposti
interessi: quello della coppia ad avere un figlio e
quindi alla continuazione della stirpe e quello del
figlio adottato, il quale pone fine alla situazione di
abbandono morale e/o materiale non transitorio in cui si
trovava, e che dell’ adozione è il presupposto. Ciò
rileva nell’ adozione del minore; nell’ adozione del
maggiorenne, invece, vi è come presupposto il consenso
di quest’ultimo oltre che della sua famiglia di origine
e di quella adottiva e, se esistono, anche dei figli
naturali di quest’ ultima. Insomma, si può notare la
distanza che risulta esservi tra l’ istituto dell’
adozione che contempera il desiderio ad avere un figlio
da parte della coppia e l’ interesse sociale affinchè il
minore venga posto al riparo da una situazione fisica e
psicologica per lui pregiudizievole e dannosa (o vi sia
il consenso di tutti i soggetti coinvolti nell’
adozione, in caso di adozione del maggiorenne)e, invece,
la presenza della sola pretesa a realizzare il desiderio
genitoriale che risulta esservi nella mera volontà di
accedere alla procreazione eterologa. Quest’ ultima, al
contrario dell’ adozione (che tra l’altro è soggetta
anche al controllo sul buon esito dell’ affidamento
preadottivo nell’ interesse del minore stesso), invece
di favorire una migliore condizione psico-fisica di
quest’ ultimo, rischia di incidere sulla stessa creando
parentele innaturali.
L’adozione è un
istituto remediale ben adatto ai casi in cui, in nessun
modo, una coppia, possa concepire un figlio al suo
interno. Mentre con l’adozione il bambino viene salvato
da uno stato di abbandono evitandogli danni
psico-fisici, con l’eterologa tali danni si rischia di
crearli.
Inoltre, se si
ammettesse l’equiparazione tra adozione e procreazione
eterologa, non si potrebbe non estendere a quest’ultima
anche il limite che viene posto alla prima, ovvero la
presenza nella coppia di un vincolo matrimoniale
esistente da almeno tre anni, all’interno del quale è
possibile conteggiare anche l’eventuale periodo di
convivenza; regola di stabilità quest’ ultima, che
sarebbe precauzionale rispetto ai rischi per la salute
psico-fisica del bambino, legati alle parentele e
condizioni innaturali che si verrebbero a determinare
(vedi il caso plateale in cui il donatore di un gamete
sia di pelle nera e la coppia in eterologa che
usufruisce dello stesso sia invece di pelle bianca). Il
limite prima indicato, non è però previsto dalla
legge 40/2004 per la procreazione omologa, in
quanto, tramite essa, non vi è una percezione di rischio
per la salute psico-fisica del bambino vista la nascita
dello stesso dai gameti interni alla coppia.
Pertanto, nel porre
il divieto di procreazione eterologa il legislatore non
ha preso in considerazione la sola posizione soggettiva
della coppia ed il suo diritto a volere un figlio ed una
famiglia (cosa comunque possibile tramite l’ istituto
dell’adozione), ma ha bilanciato anche il diritto del
nascituro a non avere traumi e disagi psico-fisici che
possano incidere sulla propria salute, evitandogli il
rischio di vedere danneggiata la sua identità genetica e
biologica (artt. 2 e 32 cost.), oltre a prendere in
considerazione anche il modello di famiglia tradizionale
(art. 29 cost.) che la nostra costituzione ha previsto e
che un’ eventuale accesso all’eterologa verrebbe
totalmente a sgretolare.
Inoltre, c’è da
prendere in considerazione che l’ interesse del
nascituro a non subire lesioni della personalità,
dell’identità genetica e della sua salute sotto l’
aspetto psico-fisico, è tutelato costituzionalmente, ma
è anche attualizzato a più riprese anche dal
legislatore.
Ad esempio, con
l'entrata in vigore della Legge 8 febbraio 2006, n. 54
si è prevista la tutela del figlio attraverso l’istituto
dell’ affido condiviso in caso di disgregazione del
rapporto tra i coniugi; si è sancito il diritto del
minore alla bigenitorialità (e non trigenitorialità o
quant’altro), ovvero il diritto dei figli a mantenere
rapporti equilibrati con entrambi i genitori anche dopo
la cessazione della loro convivenza, proprio per
consentirgli una il più possibile tranquilla vita
affettiva e di relazione.
Orbene,per
ribattere alle censure di quella parte della dottrina
che fa leva sulla sentenza della Corte EDU in precedenza
citata, si deve innanzi tutto far notare come l’ art. 8
CEDU sancisce il “diritto al rispetto della vita privata
e familiare”, esso è chiaramente un diritto di matrice
protettiva, teso alla difesa delle scelte compiute all’
interno del nucleo familiare, tutelandolo da illegittime
invasioni di campo altrui, un diritto a vedere protetta
la sfera di autodeterminazione familiare e a vedere
tutelata la privacy affettiva del nucleo stesso.
Sarebbe pertanto
improprio trasformare un diritto alla tutela, un diritto
di protezione, in un diritto alla pretesa, a volere la
creazione e l’ attuazione di una sfera di libertà da
parte dello stato, il quale,come emerge dal dato
testuale della norma deve solo proteggere la vita
familiare esistente all’ interno di quel modello di
famiglia che l’ordinamento tutela, non creare nuovi
modelli o nuove pretese in base ai desideri dei singoli
che emergano in tale ambito.
Non si può inoltre
non sottolineare come, la sentenza del caso austriaco,
abbia ritenuto ingiustificata una disparità di
trattamento solo perché la legge austriaca, che pure
vieta in generale il ricorso a tecniche di procreazione
assistita di tipo eterologo (sia come donazione di
ovuli, sia come fecondazione in vitro del gamete
femminile con spermatozoi di un donatore), riserva,
però, alle coppie, la possibilità di farvi ricorso in
presenza di determinate condizioni (è il caso della
fecondazione in vivo mediante spermatozoi di un
donatore). Dunque la Corte EDU ha ritenuto questa
differenza di trattamento ingiustificata e discriminante
proprio in quanto, in taluni limitatissimi casi, veniva
comunque previsto il ricorso all’ eterologa, vietandola
invece nel di più delle situazioni concrete. A
differenza di ciò, la legge italiana (L.
40/2004), proibisce tutte le tecniche di
procreazione eterologa, senza eccezioni . Ciò fa si che,
il caso austriaco, sia in toto divergente da quello
italiano e, quindi, non è estensibile allo stesso la
declaratoria di illegittimità della normativa prevista
dalla sentenza della Corte EDU per la legge austriaca.
Per di più, bisogna sottolineare come la pronuncia della
Corte di Strasburgo sia solo di primo grado e che, al
momento, non essendo ancora stata confermata dalla
Grande Chambre, non è divenuta definitiva neanche
con riguardo al caso austriaco.
Rimane peraltro salvo il fatto che, a differenza di
quanto accade per le limitazioni di sovranità che
operano con riferimento all’ ordinamento dell’ UE in
virtù dell’ art.11 cost., la CEDU non è invece in grado
di contrapporsi all’ ordinamento costituzionale
italiano, ed a maggior ragione ciò accade nei confronti
dei principi fondamentali del nostro ordinamento tra i
quali può sicuramente rientrare, per la sua valenza
sociale e di ordine pubblico, il modello di famiglia
“naturale” previsto dall’ art. 29 Cost..
Dulcis in fundo,
così come riportato nell’ incipit di questo scritto, non
si può non ribadire come questioni simili a quelle
trattate avranno, nella nostra società, col decorso del
tempo, un impatto ed un incremento di numeri e di
casistica notevole. Ciò in quanto, la tecnoscienza ed il
progresso sono inarrestabili ed il diritto con la sua
funzione regolatoria e risolutoria non potrà non tenersi
al passo con tali evoluzioni, spingendo il giurista ad
indagare nuove aree tematiche e branche del diritto
prima inesplorate.
. Altalex-Articolo
di
Giuseppe Morano)
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