(Senior
Research Fellow Aspen Institute Italia;
Coordinatore
scientifico della rivista Aspenia)
In questi giorni di
eventi tumultuosi lungo le coste del Mediterraneo,
diventa lampante e quasi
tangibile
l’affermazione per cui i confini tra politica interna e
politica estera si sono fatti
labili. I cittadini
europei sono già abituati a vivere in un contesto
politico ed economico
ibrido, in cui si
mescolano costantemente il livello nazionale, quello
dell’Unione europea e
quello internazionale
o globale. Eppure, questi intrecci stanno diventando
così frequenti e
intensi da
costringerci a cambiare prospettiva.
Nel 2010, la coesione
interna all’Unione europea è stata messa seriamente in
dubbio dalla
crisi acuta che ha
colpito alcuni paesi dell’eurozona: su tutti, la Grecia.
Il problema greco, se
visto anche
nell’ottica delle difficoltà del Portogallo e delle
molte aspettative deluse per la
Spagna, ha reso
evidente una questione ben più ampia, cioè quella degli
squilibri tra il
“nucleo” tedesco
dell’euro e la “periferia” mediterranea.
L’Europa – intesa come
gruppo coeso con capacità decisionali forti – è in un
certo senso più
piccola della UE e
perfino dell’eurozona, ma in un altro senso può
considerarsi più grande
poiché è parzialmente
integrata con paesi non-membri, a cominciare dalla
Turchia. In ogni
caso, gli europei
risentono direttamente di processi economici, sociali e
politici che si
svolgono oltre le
frontiere dell’Unione: si pensi ai flussi migratori come
anche ai legami
energetici e dunque
infrastrutturali, cioè ai quei fenomeni che creano
un’interdipendenza di
tipo permanente.
Questo dato di fondo è
drammaticamente confermato dagli eventi in corso. La
storia del
Nordafrica (e forse
dell’intero Medio Oriente) ha subito all’inizio del 2011
una di quelle rare
accelerazioni che
segnano dei punti di svolta – con esiti necessariamente
aperti. Un ricambio
al vertice dello Stato
che sia innescato da rivolte popolari, come in Tunisia e
poi in Egitto,
contraddice vari
assunti consolidati. A fronte di cambiamenti che possono
produrne a loro
volta molti altri,
l’Europa si è trovata non soltanto sorpresa, ma anche
stranamente priva di
idee concrete e
strumenti efficaci per esercitare un’influenza
significativa su eventi a pochi
chilometri dalle sue
coste meridionali.
A onor del vero, siamo
di fronte ad un problema che non è certo esclusivamente
europeo: le
svolte tunisine ed
egiziane, i convulsi e sanguinosi eventi libici, e gli
sviluppi più embrionali
in altri paesi (come
Yemen, Bahrein, Algeria, Marocco), pongono dei complessi
dilemmi
strutturali sia alla
regione sia alle potenze esterne con interessi nella
regione. Lo conferma, tra
l’altro,
l’atteggiamento piuttosto ondivago e a tratti
imbarazzato anche di Washington. Le
scelte di policy
sono difficili in condizioni di incertezza così
marcata.
Il fenomeno a cui
stiamo assistendo sulla sponda Sud non è necessariamente
– quantomeno
non ancora – un’ondata
irresistibile di democratizzazione, ma piuttosto una
contestazione
diffusa che si rivolge
alle molte inefficienze dei regimi al potere. Non
sembrano esservi
modelli politici di
riferimento ben chiari e condivisi da chi è sceso e
continua a scendere in
piazza, né tantomeno
piattaforme di governo dettagliate da parte di movimenti
di opposizione
strutturati. Il
cambiamento in atto è però comunque profondo, visto che
intacca la tenuta
interna di governi che
pur essendo apparsi spesso incapaci di migliorare le
condizioni di vita
della popolazione,
sembravano perfettamente in grado di perpetuarsi. Uno
dei punti fermi
degli assetti della
regione sta quindi venendo meno: la capacità di sistemi
non democratici di
garantire il bene
intangibile eppure prezioso della “stabilità”. Cambia
così l’intera equazione
che ha guidato sia gli
equilibri regionali sia le politiche degli attori
esterni, poiché stanno
cambiando i
protagonisti della vita politica mediorientale.
Mentre le leadership
autoritarie devono in qualche modo rispondere alle
pressioni che
provengono
dall’interno delle rispettive società, le due uniche
democrazie compiute della
regione – Israele e
Turchia – stanno già da tempo muovendosi in un contesto
ben diverso da
quello di appena pochi
anni fa. Israele ha visto cambiare l’asse portante della
coalizione che
ne minaccia gli
interessi: almeno dalla caduta di Saddam Hussein nel
2003, non più una
coalizione a guida
araba bensì a guida iraniana – mentre molti paesi arabi
che anzi sono
altrettanto
preoccupati del peso crescente di Teheran. Intanto, la
Turchia si è riposizionata
rispetto tanto
all’Europa quanto agli Stati Uniti, perseguendo
obiettivi più autonomi e
conquistandosi molte
simpatie nel mondo arabo (mentre si è allentato, sebbene
non in modo
irrimediabile, il suo
vecchio rapporto con Israele). In modi ovviamente
diversi, sia Israele sia
Turchia hanno
registrato, e incorporato nella loro visione
internazionale, alcuni movimenti
tettonici della
geopolitica mediorientale prima che questi diventassero
il terremoto a cui
assistiamo oggi.
Nell’insieme, sono da
tempo numerosi i segnali di una relativa perdita di
controllo (e forse
anche di capacità di
percezione) da parte delle potenze esterne che
tradizionalmente hanno
influito sugli assetti
del Mediterraneo e del Medio Oriente. Se agli sviluppi
appena ricordati
aggiungiamo il ruolo
crescente degli investitori dell’area del Golfo e
l’ingresso della Cina
come possibile
acquirente di titoli del debito pubblico di alcuni paesi
europei, il quadro è
ancora più dinamico.
La UE rimane per i
paesi della sponda Sud un grande vicino, ovviamente
importante
soprattutto in chiave
economica, ma non ha la forza propulsiva per cambiare le
dinamiche
regionali. Gli stessi
Stati Uniti faticano ad esercitare un’influenza diretta
e decisiva, data la
pesante eredità degli
anni di G.W. Bush e la complessità dei problemi da
affrontare –
soprattutto la
costruzione di un nuovo tessuto statuale in Iraq e la
sfida iraniana agli equilibri
regionali.
L’accelerazione del 2011 si è inserita su questo sfondo.
Il prevedibile
imprevisto sulla sponda Sud e i possibili modelli
Anche molto prima del
gennaio 2011, non era necessaria una speciale capacità
analitica per
comprendere che paesi
come Tunisia ed Egitto fossero minati da un profondo
malessere
sociale. E’
sufficiente rileggere i recenti “Arab Human
Development Reports” dell’ONU (che
del resto hanno
suscitato molti commenti) per rendersene conto. La
struttura demografica e lo
scarso dinamismo
economico – soprattutto se rapportato ai tassi di
disoccupazione giovanile –
costituiscono
condizioni di fondo su cui si è innestata la crisi
economica mondiale. La natura
sclerotizzata dei
regimi politici era altrettanto nota, manifestando i
classici problemi di
successione e ricambio
generazionale di molti sistemi autoritari, oltre che di
fortissima
concentrazione della
ricchezza.
Prevedere l’esplosione
di una vera rivolta sociale, e a maggior ragione di un
mutamento
politico (per quanto
parziale), è ovviamente altra questione, visto che
fenomeni del genere
sono di tipo
non-lineare e caotico. In particolare, è impossibile
prevedere con precisione quale
singolo episodio o
situazione farà da molla per uno strappo (compiuto o
almeno tentato)
radicale.
Resta il fatto che
molti dati prospettavano una grave sofferenza per paesi
che non dispongono
di ingenti risorse
naturali su cui basare meccanismi di rendita per le
elites e di redistribuzione
a fini di creazione di
un certo grado di consenso. In tal senso, la situazione
di Tunisia ed
Egitto è diversa
rispetto a quella di paesi come Libia, Algeria, e a
maggior ragione Arabia
Saudita ed Emirati
Arabi.
E’ innegabile però che
vi siano invece alcuni elementi in comune nelle
condizioni di fondo
anche al di là dei due
paesi protagonisti della prima fase (Tunisia ed Egitto):
soprattutto
elementi generazionali
e una complessiva inefficienza dei regimi nell’adattarsi
al XXI secolo
sul piano delle
aspettative economiche, della mobilità sociale e anche
di alcune libertà civili.
Inoltre, c’è una
dimensione trasversale, cioè transfrontaliera: almeno al
livello dei giovani con
un grado di istruzione
più alto, i contatti sono obiettivamente agevolati dagli
odierni mezzi di
comunicazione. E la
velocità potenziale dell’effetto-contagio è elevata,
vista la natura
istantanea dello
scambio di informazioni. Ciò detto, non si devono
d’altra parte sottovalutare
le capacità degli
apparati di sicurezza governativi di adattarsi sul piano
tecnologico e
comunicativo, in una
specie di rincorsa che ovviamente avvantaggia i regimi
in grado di
attivare strumenti
repressivi anche molto violenti in tempi rapidi: il caso
iraniano, dove pure
un vasto movimento di
opposizione esiste da anni ed è relativamente
organizzato, sta a
dimostrarlo.
Siamo allora di fronte
a un fenomeno che quasi certamente non si è affatto
esaurito e che
potrà essere ancora
alimentato proprio da un effetto-contagio, o meglio di
imitazione.
Tuttavia, i rapporti
di forza e gli esiti possibili dipenderanno da fattori
locali, a cominciare
dalla propensione
delle forze militari e paramilitari ad usare la forza
contro la popolazione
civile.
Un dato importante che
emerge dagli eventi di questo inizio di 2011 è che
l’aspirazione dei
movimenti
semi-spontanei di protesta è stata declinata in termini
di “dignità” prima che di
democrazia in senso
stretto. E’ assai probabile che la parola democrazia
abbia ormai assunto
connotati sospetti per
ampie fasce di opinione pubblica araba, ed è
comprensibile la ricerca di
parole-chiave che
diano il senso dell’autonomia e dell’autodeterminazione
proprio rispetto
all’Occidente. Del
resto, il concetto di dignità della persona si riconduce
a un diritto
universale, mentre la
democrazia (soprattutto nella sua variante “liberale di
mercato”) è una
specifica forma
politica. La chiave di volta delle proteste tuttora in
corso sembra essere la
creazione delle
precondizioni indispensabili per un rapporto più
equilibrato tra Stato e
cittadino. Anche per
questo non è facile per i paesi occidentali trovare la
migliore
combinazione di
generico sostegno alle proteste (in nome di principi
universali), e rispetto per
le dinamiche locali
(anche per non farsi accusare di interferenza). La
“promozione della
democrazia” è
chiaramente diventata un concetto assai controverso, ma
il silenzio o una sorta
di agnosticismo non
sono davvero opzioni praticabili per l’Europa e per gli
Stati Uniti.
Se quelli che abbiamo
finora ripercorso in estrema sintesi sono mutamenti
repentini o perfino
sussulti conflittuali,
forme di evoluzione più graduale possono avere
conseguenze altrettanto
profonde: è appunto il
caso della Turchia, che ha acquisito un profilo
internazionale diverso
negli ultimi anni,
sotto la guida del Partito della Giustizia e dello
Sviluppo (AKP), di
ispirazione islamica.
Il paradosso è che la
UE ha perso una parte considerevole della sua influenza
sulle scelte
turche proprio nella
fase in cui Ankara ha sviluppato una linea molto
dinamica di politica
estera ed economica.
La Turchia ha anzi acquisito un ruolo decisamente più
prominente
rispetto al passato
attraverso uno sganciamento – seppur parziale – dalle
tradizionali alleanze,
cioè sia da quella
bilaterale con Washington, sia rispetto alla NATO, sia
infine al legame in
fieri
con la UE.
Va detto però che
Ankara ha beneficiato al tempo stesso degli stretti
rapporti con le economie
europee, in chiave di
modernizzazione interna e di sfruttamento della
posizione geografica per
diventare uno snodo
cruciale nel settore energetico. In sostanza, la
crescita turca non può
vedersi come un
fenomeno separato o perfino contraddittorio rispetto ai
legami europei: al
contrario, sembra
essere il risultato di una capacità di integrarsi
progressivamente nel sistema
globale degli scambi
senza affatto rinunciare alla propria dimensione
europea.
Guardando più
specificamente alla Turchia come vero modello di sistema
politico, è chiaro
l’interesse suscitato
da che partito come l’Akp, attualmente al governo, che
si ispira ad alcune
tradizioni islamiche
dandone un’interpretazione comunque moderata (si discute
semmai su
quanto moderata e
quanto sostenibile).
L’interesse è
ulteriormente cresciuto nel momento in cui si cerca con
un senso di urgenza una
sorta di “terza via”
tra una nuova spinta autoritaria-militarizzata e il
rischio
dell’islamizzazione
radicale. Il limite della possibile trasposizione del
modello turco è però
evidente: se l’Akp può
vedersi come un tentativo (finora piuttosto riuscito) di
superamento sia
del kemalismo sia
dell’islamismo tradizionale, i paesi arabi non hanno in
effetti sperimentato
appieno né l’uno né
l’altro; difficile dunque che passino direttamente a un
sistema “terzo”1. In
sostanza, il sistema
turco di oggi è figlio di un’evoluzione pluridecennale e
peraltro non certo
indolore – anche a
prescindere dalle molte peculiarità di un paese assai
popoloso e
geograficamente
collocato in una zona nevralgica, con un consolidato
rapporto a suo modo
speciale sia con la UE
che con gli Stati Uniti.
In estrema sintesi,
allo stato attuale si può certo prendere ispirazione da
alcuni aspetti del
“modello Turchia”, ma
proprio l’esperienza del paese dimostra l’importanza
delle condizioni
locali e del
fattore-tempo – si pensi allo sviluppo graduale e
tuttora incompiuto di un rapporto
di reciproco rispetto
tra le forze armate e la leadership civile, o al
progressivo emergere di un
ceto medio attivo e
dinamico che si consideri parte integrante dello Stato e
della società.
In estrema sintesi,
nessuno dispone di ricette precostituite per
l’evoluzione organica delle
società arabe e dei
loro sistemi politico-economici. E’ certo però che
quelle società hanno
raggiunto un punto di
svolta, e l’Europa non potrà adottare schemi
tradizionali per situazioni
inedite – pena
l’irrilevanza.
Il dilemma europeo
Molti hanno rilevato
la lentezze della reazione europea agli eventi delle
scorse settimane. Lo
stesso Alto
Rappresentante per gli affari esteri e di sicurezza
della UE, Catherine Ashton, ha
sintetizzato la
posizione comune dell’Unione in un articolo apparso sul
Financial Times: “Our
entire
neighbourhood policy needs a fundamental review and we
are beginning this process
now”2.
Anche scontando una
ricorrente propensione della UE a rilanciare con nuove
formulazioni
linee di azione che
hanno ottenuto modesti risultati, l’annuncio di Lady
Ashton merita
attenzione, non
soltanto per la franchezza. Tale dichiarazione d’intenti
è infatti in certo mondo
inquietante, se si
pensa che il bacino del Mediterraneo è un’area di
influenza naturale per
l’Europa; ed è anche,
ovviamente, una regione in cui si concentrano interessi
europei molto
rilevanti.
1 Sull’evoluzione in
corso dei sistemi politici della regione, compreso il
possibile “modello turco”, si vedano gli
articoli di Renzo
Guolo e Luca Ozzano nel n.52/2011 di Aspenia (in
stampa).
2
Catherine Ashton, “Europe’s downpayment on Arab
democracy”, Financial Times, February 15, 2011,
p.8.
In sostanza, il dato
di fatto è che la UE non ha sviluppato – o quantomeno
non ha saputo
utilizzare – gli
strumenti adatti per esercitare un’influenza
significativa sull’evoluzione dei
regimi del Nordafrica
e del Medio oriente. Questa conclusione, che fino a
pochi mesi fa
sarebbe apparsa
drastica o magari ingiustamente polemica, è oggi
piuttosto difficile da
contestare.
L’Europa si è
dimostrata incapace di sfruttare nel bacino del
Mediterraneo il potenziale
dell’integrazione
regionale basata sulla forza gravitazionale del proprio
sistema economico –
stante che le
difficoltà di un dialogo proficuo sul piano dei “valori”
e della sicurezza sono
enormi. La strada
economica era chiaramente quella più logica da seguire:
i problemi della
sponda Sud sono
anzitutto socio-economici, e innescare un profondo
mutamento politico
richiede un’evoluzione
“a monte” rispetto al possibile mutamento (anche
graduale) dei regimi
politici. In altre
parole, le analisi che hanno sempre insistito sui
fattori di fondo, e dunque sui
tempi lunghi, erano
corrette. Il grave limite delle politiche europee è
sempre stato però nella
concezione pratica dei
rapporti con la sponda Sud e negli strumenti disponibili
per esercitare
un’influenza
costruttiva. Ci si è molto concentrati sulle formule e
sui quadri di riferimento:
prima EuroMed, poi il
versante meridionale della Politica di Vicinato, e più
recentemente la
strana iniziativa nota
come “Unione per il Mediterraneo” – strana soprattutto
perché mai
davvero riempita di
contenuto e neppure chiarita nei contorni rispetto a
quanto l’ha preceduta.
Del resto, è
sintomatico che l’Unione per il Mediterraneo
considerasse proprio l’Egitto di
Mubarak come
paese-perno nella regione.
Si può dunque
concludere che il maggiore rammarico europeo è di non
aver saputo creare
condizioni più
favorevoli per lo sviluppo economico dei paesi
rivieraschi, visto che è questo il
terreno su cui la UE
gioca ovviamente un ruolo da protagonista su scala
mondiale.
Che il dinamismo
economico possa essere la chiave per esercitare
influenza sembra oggi del
tutto evidente se si
guarda al caso, sopra ricordato, della Turchia – paese
che ha ri-orientato la
propria politica
estera in modo deliberatamente autonomo rispetto alla
sua tradizionale
alleanza con
l’Occidente, ma che ha potuto farlo grazie soprattutto a
tassi di crescita da
potenza “emergente”.
E’chiaro che le politiche estere nazionali (come quella
turca) hanno
caratteristiche di
maggiore agilità rispetto alle politiche comuni (o
concordate) a livello
europeo, ma resta la
constatazione che i legami economici possono diventare
un volano
cruciale per lo
sviluppo di un certo grado di influenza politica, se non
altro in funzione di
mediazione. La UE è
sembrata carente anche in questo senso.
Fin dalla prima
edizione della “Strategia di Sicurezza Europea” del 2003
– documento che
oggi è particolarmente
istruttivo rileggere – l’Unione ha disegnato per il
proprio “vicinato”
l’immagine di un
“anello di (paesi) amici”. Questa concezione è spesso
sembrata ottimistica e
alquanto generica, ma
si sta ora dimostrando soprattutto superficiale: come è
diventato
evidente, il quesito
cruciale per una politica estera comune è quanto intimi
si vuole che siano
gli “amici” di cui ci
si circonda – in altre parole, il problema della natura
politica dei regimi
nella sponda Sud. E’
chiaro che un governo che adotti una politica estera
“moderata”, o che ci
rifornisca di energia,
sarà potenzialmente funzionale agli obiettivi europei in
un’area
pericolosa quanto il
Medio oriente. Tuttavia, ignorare totalmente il versante
della politica
interna è miope: il
problema si sposta dunque su quali paletti fissare nel
definire il grado di
amicizia, per così
dire.
Si può in astratto
sostenere – nella migliore tradizione della
Realpolitik – che le questioni
interne siano
irrilevanti, ma perfino una posizione del genere (che
peraltro la UE non ha mai
ufficialmente assunto)
lascerebbe irrisolto il dilemma di come reagire a
eventuali mutamenti
endogeni alla regione.
Non si tratta neppure di come “promuovere la
democrazia”, ma di
come accompagnare
processi di cambiamento che sono in larga misura al di
fuori del nostro
controllo.
Tornando alle recenti
dichiarazioni di Catherine Ashton, troviamo in effetti
anche un’analisi
teoricamente acuta e
precisa dei fattori strutturali sui cui la UE dovrebbe
puntare: “It takes
time,
money and care to build the foundations of lasting, deep
democracy”.
Difficile
dissentire da tale
affermazione, rispetto all’obiettivo di una democrazia
“profonda” e
durevole, cioè
sostanziale e non soltanto elettorale. Con tutto il
rispetto, sembra però di
trovarsi di fronte
alla reinvenzione della ruota – mentre, per restare in
metafora, molti cittadini
dei paesi arabi stanno
già sperimentando alcuni modelli di bicicletta da corsa.
La situazione in cui
versa oggi il bacino del Mediterraneo spinge anche a una
riflessione più
complessiva sul ruolo
internazionale della UE: le stesse pressioni economiche
che hanno fatto
esplodere gli
squilibri interni all’eurozona (con il caso più acuto
relativo alla Grecia) hanno
innescato le prime
rivolte in Nordafrica. Il vento di cambiamento che ci
arriva dal
Mediterraneo, in
realtà, viene da ben più lontano: è una specie di vento
globale, conseguenza
della fase di
transizione che sta attraversando l’economia mondiale. I
massicci spostamenti di
ricchezza e influenza
producono pressioni competitive enormi, attivando
reazioni di protesta
più dure in quelle
società civili che trovano meno conforto nell’azione dei
propri governi.
Queste reazioni, a
loro volta finiscono per indebolire e a volte
destabilizzare gravemente i
sistemi politici meno
adattabili (o, nel breve termine, meno disposti a
reprimere con estrema
brutalità le
contestazioni).
Alla ricerca di
opzioni per l’Europa – e per l’Italia
Il Ministro degli
Esteri, Franco Frattini, ha voluto dare un contributo
diretto a una nuova fase
di dibattito pubblico
sulle politiche comuni europee con un suo intervento sul
Financial
Times3,
in cui due sono le principali direttrici di azione
indicate: politiche di sostegno alla
crescita nel
Mediterraneo, e un rilancio dei rapporti regolari e
istituzionalizzati su vari dossier.
Il pacchetto proposto
da Frattini è presentato espressamente come una sorta di
“Piano
Marshall” europeo per
la stabilità economica, puntando quindi nella medesima
direzione
suggerita da Lady
Ashton, cioè l’attivazione di dinamiche che possano nel
tempo
autosostenersi.
E’ facile tuttavia
identificare i punti deboli di un simile approccio,
partendo anche
dall’esperienza degli
anni passati. L’obiettivo di stimolare direttamente la
crescita economica
è lodevole, ma poco
credibile se proviene da un’area integrata che, come la
UE, soffre di
crescita anemica e
molto diseguale. Quanto alla dimensione dei contatti a
tutto campo (sotto
forma di “associazione
rinforzata”), il problema che si vuole superare non
sembra essere stato
finora decisivo: non
c’è stata carenza di canali diretti per il dialogo o il
coordinamento, ma
piuttosto scarsa
volontà di utilizzarli da una o da entrambi le parti
dell’auspicata “partnership”
euro-mediterranea.
A dispetto di queste
debolezze che non sembrano oggi facilmente superabili,
qualche motivo
di cauto ottimismo si
può forse trovare rispetto alla filosofia di un “Piano
Marshall”: in
quanto tentativo di
innescare dinamiche locali di sviluppo e spingere
soprattutto a una stretta
cooperazione tra gli
stessi beneficiari degli aiuti, questo approccio
potrebbe essere
effettivamente
adeguato alle condizioni attuali della sponda Sud del
Mediterraneo. Si tratta
infatti di incanalare
processi in atto piuttosto che di crearne di nuovi. E’
essenziale, in tale
ottica, che gli
obiettivi restino commensurati alle risorse che la UE
potrò realisticamente
3 Franco Frattini, “A
European plan for Mediterranean stability”, Financial
Times, February 18, 2011, p.8.
mobilitare; ed è
altrettanto essenziale che la “stabilità” non sia intesa
come status quo dei
regimi politici.
Come detto in
precedenza rispetto alla Strategia di Sicurezza Europea
e alle recenti
dichiarazioni di Lady
Ashton, Bruxelles non ha commesso in passato un errore
di analisi o di
impostazione a livello
di principi; non ha semmai trovato il modo per
esercitare un’influenza
concreta, cioè per
rendere rilevanti quei principi. E’ su questo terreno
che è arrivato il
momento di ascoltare
le voci (molteplici e spesso discordanti) che arrivano
dalla regione
mediterranea, tenendo
fermi pochissimi principi fondamentali e ragionando con
modestia
rispetto a quanto la
UE può davvero influenzare gli eventi. Intanto, il
compito principale delle
istituzioni europee, e
ancor più dei governi nazionali, è concordare e attuare
con
determinazione
politiche per la crescita e per il consolidamento
dell’eurozona. Senza una
crescita più sostenuta
e un euro più solido, non ci sarà dinamismo in politica
estera, nè dunque
la capacità di
accompagnare il cambiamento quando questo arriva, magari
sospingendolo in
direzioni favorevoli
agli interessi europei. Qui si intersecano in modo
evidente i problemi
interni all’Unione
europea e quelli lungo i suoi confini meridionali: le
due sponde sono
connesse in modo
inestricabile, che ci piaccia o no.
Per l’Italia, in
particolare, è la Libia a costituire un punto di
riferimento oggettivo, e le ragioni
sono molte: la
prossimità geografica e i flussi migratori, i rapporti
economici, e il delicato
ruolo diplomatico
svolto negli anni da Roma nei confronti di Tripoli.
Siamo attualmente in
una fase caotica ed
emergenziale che andrà gestita con prontezza e
flessibilità, accordando la
priorità agli aspetti
umanitari; arriverà poi una fase in cui servirà
soprattutto immaginazione
politica. Dialogare
con regimi “problematici” è da sempre una dura esigenza
delle relazioni
internazionali, perché
raramente ci si può permettere di scegliere i proprio
vicini o le proprie
controparti – e
l’isolamento diplomatico ha sempre un costo elevato per
tutti. Ma una lezione
di queste settimane è
che non si deve mai dare per ineluttabile la tenuta di
un regime
autoritario,
esagerarne il potere di ricatto, rafforzarne il
prestigio.
Come spesso accade, la
chiave del successo starà ora nel trasformare i grandi
rischi in grandi
opportunità, per
l’Italia come per l’Europa. In ogni caso, la
precondizione per iniziative più
efficaci è una forma
di coesione europea sul piano politico e fattuale –
cioè, perfino a
prescindere dal fatto
che si tratti ufficialmente di politiche “comuni” della
UE: si pensi ad
esempio ai flussi
migratori, a qualunque tipo di sostegno umanitario, a
programmi di
formazione in chiave
di “institution building”. I singoli paesi, come
l’Italia soprattutto rispetto
alla Libia, dovranno
assumersi importanti responsabilità, ma il livello
europeo è necessario
per reagire in modo
costruttivo a sfide così macroscopiche. Ciò che vale per
i problemi
dell’eurozona vale
anche per l’instabilità lungo le nostre frontiere: è la
solidarietà politica,
prima ancora degli
accordi tecnici e istituzionali, che consentirà
all’Europa di essere uno dei
protagonisti nel Mediterraneo e in Medio oriente. |