Avv. Paolo Nesta


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L’EUROPA E IL VENTO DEL MEDITERRANEO di Roberto Menotti

 

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(Senior Research Fellow Aspen Institute Italia;

Coordinatore scientifico della rivista Aspenia)

 

In questi giorni di eventi tumultuosi lungo le coste del Mediterraneo, diventa lampante e quasi

tangibile l’affermazione per cui i confini tra politica interna e politica estera si sono fatti

labili. I cittadini europei sono già abituati a vivere in un contesto politico ed economico

ibrido, in cui si mescolano costantemente il livello nazionale, quello dell’Unione europea e

quello internazionale o globale. Eppure, questi intrecci stanno diventando così frequenti e

intensi da costringerci a cambiare prospettiva.

Nel 2010, la coesione interna all’Unione europea è stata messa seriamente in dubbio dalla

crisi acuta che ha colpito alcuni paesi dell’eurozona: su tutti, la Grecia. Il problema greco, se

visto anche nell’ottica delle difficoltà del Portogallo e delle molte aspettative deluse per la

Spagna, ha reso evidente una questione ben più ampia, cioè quella degli squilibri tra il

“nucleo” tedesco dell’euro e la “periferia” mediterranea.

L’Europa – intesa come gruppo coeso con capacità decisionali forti – è in un certo senso più

piccola della UE e perfino dell’eurozona, ma in un altro senso può considerarsi più grande

poiché è parzialmente integrata con paesi non-membri, a cominciare dalla Turchia. In ogni

caso, gli europei risentono direttamente di processi economici, sociali e politici che si

 

svolgono oltre le frontiere dell’Unione: si pensi ai flussi migratori come anche ai legami

energetici e dunque infrastrutturali, cioè ai quei fenomeni che creano un’interdipendenza di

tipo permanente.

Questo dato di fondo è drammaticamente confermato dagli eventi in corso. La storia del

Nordafrica (e forse dell’intero Medio Oriente) ha subito all’inizio del 2011 una di quelle rare

accelerazioni che segnano dei punti di svolta – con esiti necessariamente aperti. Un ricambio

al vertice dello Stato che sia innescato da rivolte popolari, come in Tunisia e poi in Egitto,

contraddice vari assunti consolidati. A fronte di cambiamenti che possono produrne a loro

volta molti altri, l’Europa si è trovata non soltanto sorpresa, ma anche stranamente priva di

idee concrete e strumenti efficaci per esercitare un’influenza significativa su eventi a pochi

chilometri dalle sue coste meridionali.

A onor del vero, siamo di fronte ad un problema che non è certo esclusivamente europeo: le

svolte tunisine ed egiziane, i convulsi e sanguinosi eventi libici, e gli sviluppi più embrionali

in altri paesi (come Yemen, Bahrein, Algeria, Marocco), pongono dei complessi dilemmi

strutturali sia alla regione sia alle potenze esterne con interessi nella regione. Lo conferma, tra

l’altro, l’atteggiamento piuttosto ondivago e a tratti imbarazzato anche di Washington. Le

scelte di policy sono difficili in condizioni di incertezza così marcata.

Il fenomeno a cui stiamo assistendo sulla sponda Sud non è necessariamente – quantomeno

non ancora – un’ondata irresistibile di democratizzazione, ma piuttosto una contestazione

diffusa che si rivolge alle molte inefficienze dei regimi al potere. Non sembrano esservi

modelli politici di riferimento ben chiari e condivisi da chi è sceso e continua a scendere in

piazza, né tantomeno piattaforme di governo dettagliate da parte di movimenti di opposizione

strutturati. Il cambiamento in atto è però comunque profondo, visto che intacca la tenuta

interna di governi che pur essendo apparsi spesso incapaci di migliorare le condizioni di vita

della popolazione, sembravano perfettamente in grado di perpetuarsi. Uno dei punti fermi

degli assetti della regione sta quindi venendo meno: la capacità di sistemi non democratici di

garantire il bene intangibile eppure prezioso della “stabilità”. Cambia così l’intera equazione

che ha guidato sia gli equilibri regionali sia le politiche degli attori esterni, poiché stanno

cambiando i protagonisti della vita politica mediorientale.

Mentre le leadership autoritarie devono in qualche modo rispondere alle pressioni che

provengono dall’interno delle rispettive società, le due uniche democrazie compiute della

regione – Israele e Turchia – stanno già da tempo muovendosi in un contesto ben diverso da

 

quello di appena pochi anni fa. Israele ha visto cambiare l’asse portante della coalizione che

ne minaccia gli interessi: almeno dalla caduta di Saddam Hussein nel 2003, non più una

coalizione a guida araba bensì a guida iraniana – mentre molti paesi arabi che anzi sono

altrettanto preoccupati del peso crescente di Teheran. Intanto, la Turchia si è riposizionata

rispetto tanto all’Europa quanto agli Stati Uniti, perseguendo obiettivi più autonomi e

conquistandosi molte simpatie nel mondo arabo (mentre si è allentato, sebbene non in modo

irrimediabile, il suo vecchio rapporto con Israele). In modi ovviamente diversi, sia Israele sia

Turchia hanno registrato, e incorporato nella loro visione internazionale, alcuni movimenti

tettonici della geopolitica mediorientale prima che questi diventassero il terremoto a cui

assistiamo oggi.

Nell’insieme, sono da tempo numerosi i segnali di una relativa perdita di controllo (e forse

anche di capacità di percezione) da parte delle potenze esterne che tradizionalmente hanno

influito sugli assetti del Mediterraneo e del Medio Oriente. Se agli sviluppi appena ricordati

aggiungiamo il ruolo crescente degli investitori dell’area del Golfo e l’ingresso della Cina

come possibile acquirente di titoli del debito pubblico di alcuni paesi europei, il quadro è

ancora più dinamico.

La UE rimane per i paesi della sponda Sud un grande vicino, ovviamente importante

soprattutto in chiave economica, ma non ha la forza propulsiva per cambiare le dinamiche

regionali. Gli stessi Stati Uniti faticano ad esercitare un’influenza diretta e decisiva, data la

pesante eredità degli anni di G.W. Bush e la complessità dei problemi da affrontare –

soprattutto la costruzione di un nuovo tessuto statuale in Iraq e la sfida iraniana agli equilibri

regionali. L’accelerazione del 2011 si è inserita su questo sfondo.

Il prevedibile imprevisto sulla sponda Sud e i possibili modelli

Anche molto prima del gennaio 2011, non era necessaria una speciale capacità analitica per

comprendere che paesi come Tunisia ed Egitto fossero minati da un profondo malessere

sociale. E’ sufficiente rileggere i recenti “Arab Human Development Reports” dell’ONU (che

del resto hanno suscitato molti commenti) per rendersene conto. La struttura demografica e lo

scarso dinamismo economico – soprattutto se rapportato ai tassi di disoccupazione giovanile –

costituiscono condizioni di fondo su cui si è innestata la crisi economica mondiale. La natura

sclerotizzata dei regimi politici era altrettanto nota, manifestando i classici problemi di

successione e ricambio generazionale di molti sistemi autoritari, oltre che di fortissima

concentrazione della ricchezza.

 

Prevedere l’esplosione di una vera rivolta sociale, e a maggior ragione di un mutamento

politico (per quanto parziale), è ovviamente altra questione, visto che fenomeni del genere

sono di tipo non-lineare e caotico. In particolare, è impossibile prevedere con precisione quale

singolo episodio o situazione farà da molla per uno strappo (compiuto o almeno tentato)

radicale.

Resta il fatto che molti dati prospettavano una grave sofferenza per paesi che non dispongono

di ingenti risorse naturali su cui basare meccanismi di rendita per le elites e di redistribuzione

a fini di creazione di un certo grado di consenso. In tal senso, la situazione di Tunisia ed

Egitto è diversa rispetto a quella di paesi come Libia, Algeria, e a maggior ragione Arabia

Saudita ed Emirati Arabi.

E’ innegabile però che vi siano invece alcuni elementi in comune nelle condizioni di fondo

anche al di là dei due paesi protagonisti della prima fase (Tunisia ed Egitto): soprattutto

elementi generazionali e una complessiva inefficienza dei regimi nell’adattarsi al XXI secolo

sul piano delle aspettative economiche, della mobilità sociale e anche di alcune libertà civili.

Inoltre, c’è una dimensione trasversale, cioè transfrontaliera: almeno al livello dei giovani con

un grado di istruzione più alto, i contatti sono obiettivamente agevolati dagli odierni mezzi di

comunicazione. E la velocità potenziale dell’effetto-contagio è elevata, vista la natura

istantanea dello scambio di informazioni. Ciò detto, non si devono d’altra parte sottovalutare

le capacità degli apparati di sicurezza governativi di adattarsi sul piano tecnologico e

comunicativo, in una specie di rincorsa che ovviamente avvantaggia i regimi in grado di

attivare strumenti repressivi anche molto violenti in tempi rapidi: il caso iraniano, dove pure

un vasto movimento di opposizione esiste da anni ed è relativamente organizzato, sta a

dimostrarlo.

Siamo allora di fronte a un fenomeno che quasi certamente non si è affatto esaurito e che

potrà essere ancora alimentato proprio da un effetto-contagio, o meglio di imitazione.

Tuttavia, i rapporti di forza e gli esiti possibili dipenderanno da fattori locali, a cominciare

dalla propensione delle forze militari e paramilitari ad usare la forza contro la popolazione

civile.

Un dato importante che emerge dagli eventi di questo inizio di 2011 è che l’aspirazione dei

movimenti semi-spontanei di protesta è stata declinata in termini di “dignità” prima che di

democrazia in senso stretto. E’ assai probabile che la parola democrazia abbia ormai assunto

connotati sospetti per ampie fasce di opinione pubblica araba, ed è comprensibile la ricerca di

parole-chiave che diano il senso dell’autonomia e dell’autodeterminazione proprio rispetto

 

all’Occidente. Del resto, il concetto di dignità della persona si riconduce a un diritto

universale, mentre la democrazia (soprattutto nella sua variante “liberale di mercato”) è una

specifica forma politica. La chiave di volta delle proteste tuttora in corso sembra essere la

creazione delle precondizioni indispensabili per un rapporto più equilibrato tra Stato e

cittadino. Anche per questo non è facile per i paesi occidentali trovare la migliore

combinazione di generico sostegno alle proteste (in nome di principi universali), e rispetto per

le dinamiche locali (anche per non farsi accusare di interferenza). La “promozione della

democrazia” è chiaramente diventata un concetto assai controverso, ma il silenzio o una sorta

di agnosticismo non sono davvero opzioni praticabili per l’Europa e per gli Stati Uniti.

Se quelli che abbiamo finora ripercorso in estrema sintesi sono mutamenti repentini o perfino

sussulti conflittuali, forme di evoluzione più graduale possono avere conseguenze altrettanto

profonde: è appunto il caso della Turchia, che ha acquisito un profilo internazionale diverso

negli ultimi anni, sotto la guida del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), di

ispirazione islamica.

Il paradosso è che la UE ha perso una parte considerevole della sua influenza sulle scelte

turche proprio nella fase in cui Ankara ha sviluppato una linea molto dinamica di politica

estera ed economica. La Turchia ha anzi acquisito un ruolo decisamente più prominente

rispetto al passato attraverso uno sganciamento – seppur parziale – dalle tradizionali alleanze,

cioè sia da quella bilaterale con Washington, sia rispetto alla NATO, sia infine al legame in

fieri con la UE.

Va detto però che Ankara ha beneficiato al tempo stesso degli stretti rapporti con le economie

europee, in chiave di modernizzazione interna e di sfruttamento della posizione geografica per

diventare uno snodo cruciale nel settore energetico. In sostanza, la crescita turca non può

vedersi come un fenomeno separato o perfino contraddittorio rispetto ai legami europei: al

contrario, sembra essere il risultato di una capacità di integrarsi progressivamente nel sistema

globale degli scambi senza affatto rinunciare alla propria dimensione europea.

Guardando più specificamente alla Turchia come vero modello di sistema politico, è chiaro

l’interesse suscitato da che partito come l’Akp, attualmente al governo, che si ispira ad alcune

tradizioni islamiche dandone un’interpretazione comunque moderata (si discute semmai su

quanto moderata e quanto sostenibile).

L’interesse è ulteriormente cresciuto nel momento in cui si cerca con un senso di urgenza una

sorta di “terza via” tra una nuova spinta autoritaria-militarizzata e il rischio

 

dell’islamizzazione radicale. Il limite della possibile trasposizione del modello turco è però

evidente: se l’Akp può vedersi come un tentativo (finora piuttosto riuscito) di superamento sia

del kemalismo sia dell’islamismo tradizionale, i paesi arabi non hanno in effetti sperimentato

appieno né l’uno né l’altro; difficile dunque che passino direttamente a un sistema “terzo”1. In

sostanza, il sistema turco di oggi è figlio di un’evoluzione pluridecennale e peraltro non certo

indolore – anche a prescindere dalle molte peculiarità di un paese assai popoloso e

geograficamente collocato in una zona nevralgica, con un consolidato rapporto a suo modo

speciale sia con la UE che con gli Stati Uniti.

In estrema sintesi, allo stato attuale si può certo prendere ispirazione da alcuni aspetti del

“modello Turchia”, ma proprio l’esperienza del paese dimostra l’importanza delle condizioni

locali e del fattore-tempo – si pensi allo sviluppo graduale e tuttora incompiuto di un rapporto

di reciproco rispetto tra le forze armate e la leadership civile, o al progressivo emergere di un

ceto medio attivo e dinamico che si consideri parte integrante dello Stato e della società.

In estrema sintesi, nessuno dispone di ricette precostituite per l’evoluzione organica delle

società arabe e dei loro sistemi politico-economici. E’ certo però che quelle società hanno

raggiunto un punto di svolta, e l’Europa non potrà adottare schemi tradizionali per situazioni

inedite – pena l’irrilevanza.

Il dilemma europeo

Molti hanno rilevato la lentezze della reazione europea agli eventi delle scorse settimane. Lo

stesso Alto Rappresentante per gli affari esteri e di sicurezza della UE, Catherine Ashton, ha

sintetizzato la posizione comune dell’Unione in un articolo apparso sul Financial Times: “Our

entire neighbourhood policy needs a fundamental review and we are beginning this process

now”2.

Anche scontando una ricorrente propensione della UE a rilanciare con nuove formulazioni

linee di azione che hanno ottenuto modesti risultati, l’annuncio di Lady Ashton merita

attenzione, non soltanto per la franchezza. Tale dichiarazione d’intenti è infatti in certo mondo

inquietante, se si pensa che il bacino del Mediterraneo è un’area di influenza naturale per

l’Europa; ed è anche, ovviamente, una regione in cui si concentrano interessi europei molto

rilevanti.

1 Sull’evoluzione in corso dei sistemi politici della regione, compreso il possibile “modello turco”, si vedano gli

articoli di Renzo Guolo e Luca Ozzano nel n.52/2011 di Aspenia (in stampa).

2 Catherine Ashton, “Europe’s downpayment on Arab democracy”, Financial Times, February 15, 2011, p.8.

 

In sostanza, il dato di fatto è che la UE non ha sviluppato – o quantomeno non ha saputo

utilizzare – gli strumenti adatti per esercitare un’influenza significativa sull’evoluzione dei

regimi del Nordafrica e del Medio oriente. Questa conclusione, che fino a pochi mesi fa

sarebbe apparsa drastica o magari ingiustamente polemica, è oggi piuttosto difficile da

contestare.

L’Europa si è dimostrata incapace di sfruttare nel bacino del Mediterraneo il potenziale

dell’integrazione regionale basata sulla forza gravitazionale del proprio sistema economico –

stante che le difficoltà di un dialogo proficuo sul piano dei “valori” e della sicurezza sono

enormi. La strada economica era chiaramente quella più logica da seguire: i problemi della

sponda Sud sono anzitutto socio-economici, e innescare un profondo mutamento politico

richiede un’evoluzione “a monte” rispetto al possibile mutamento (anche graduale) dei regimi

politici. In altre parole, le analisi che hanno sempre insistito sui fattori di fondo, e dunque sui

tempi lunghi, erano corrette. Il grave limite delle politiche europee è sempre stato però nella

concezione pratica dei rapporti con la sponda Sud e negli strumenti disponibili per esercitare

un’influenza costruttiva. Ci si è molto concentrati sulle formule e sui quadri di riferimento:

prima EuroMed, poi il versante meridionale della Politica di Vicinato, e più recentemente la

strana iniziativa nota come “Unione per il Mediterraneo” – strana soprattutto perché mai

davvero riempita di contenuto e neppure chiarita nei contorni rispetto a quanto l’ha preceduta.

Del resto, è sintomatico che l’Unione per il Mediterraneo considerasse proprio l’Egitto di

Mubarak come paese-perno nella regione.

Si può dunque concludere che il maggiore rammarico europeo è di non aver saputo creare

condizioni più favorevoli per lo sviluppo economico dei paesi rivieraschi, visto che è questo il

terreno su cui la UE gioca ovviamente un ruolo da protagonista su scala mondiale.

Che il dinamismo economico possa essere la chiave per esercitare influenza sembra oggi del

tutto evidente se si guarda al caso, sopra ricordato, della Turchia – paese che ha ri-orientato la

propria politica estera in modo deliberatamente autonomo rispetto alla sua tradizionale

alleanza con l’Occidente, ma che ha potuto farlo grazie soprattutto a tassi di crescita da

potenza “emergente”. E’chiaro che le politiche estere nazionali (come quella turca) hanno

caratteristiche di maggiore agilità rispetto alle politiche comuni (o concordate) a livello

europeo, ma resta la constatazione che i legami economici possono diventare un volano

cruciale per lo sviluppo di un certo grado di influenza politica, se non altro in funzione di

mediazione. La UE è sembrata carente anche in questo senso.

 

Fin dalla prima edizione della “Strategia di Sicurezza Europea” del 2003 – documento che

oggi è particolarmente istruttivo rileggere – l’Unione ha disegnato per il proprio “vicinato”

l’immagine di un “anello di (paesi) amici”. Questa concezione è spesso sembrata ottimistica e

alquanto generica, ma si sta ora dimostrando soprattutto superficiale: come è diventato

evidente, il quesito cruciale per una politica estera comune è quanto intimi si vuole che siano

gli “amici” di cui ci si circonda – in altre parole, il problema della natura politica dei regimi

nella sponda Sud. E’ chiaro che un governo che adotti una politica estera “moderata”, o che ci

rifornisca di energia, sarà potenzialmente funzionale agli obiettivi europei in un’area

pericolosa quanto il Medio oriente. Tuttavia, ignorare totalmente il versante della politica

interna è miope: il problema si sposta dunque su quali paletti fissare nel definire il grado di

amicizia, per così dire.

Si può in astratto sostenere – nella migliore tradizione della Realpolitik – che le questioni

interne siano irrilevanti, ma perfino una posizione del genere (che peraltro la UE non ha mai

ufficialmente assunto) lascerebbe irrisolto il dilemma di come reagire a eventuali mutamenti

endogeni alla regione. Non si tratta neppure di come “promuovere la democrazia”, ma di

come accompagnare processi di cambiamento che sono in larga misura al di fuori del nostro

controllo.

Tornando alle recenti dichiarazioni di Catherine Ashton, troviamo in effetti anche un’analisi

teoricamente acuta e precisa dei fattori strutturali sui cui la UE dovrebbe puntare: “It takes

time, money and care to build the foundations of lasting, deep democracy”. Difficile

dissentire da tale affermazione, rispetto all’obiettivo di una democrazia “profonda” e

durevole, cioè sostanziale e non soltanto elettorale. Con tutto il rispetto, sembra però di

trovarsi di fronte alla reinvenzione della ruota – mentre, per restare in metafora, molti cittadini

dei paesi arabi stanno già sperimentando alcuni modelli di bicicletta da corsa.

La situazione in cui versa oggi il bacino del Mediterraneo spinge anche a una riflessione più

complessiva sul ruolo internazionale della UE: le stesse pressioni economiche che hanno fatto

esplodere gli squilibri interni all’eurozona (con il caso più acuto relativo alla Grecia) hanno

innescato le prime rivolte in Nordafrica. Il vento di cambiamento che ci arriva dal

Mediterraneo, in realtà, viene da ben più lontano: è una specie di vento globale, conseguenza

della fase di transizione che sta attraversando l’economia mondiale. I massicci spostamenti di

ricchezza e influenza producono pressioni competitive enormi, attivando reazioni di protesta

più dure in quelle società civili che trovano meno conforto nell’azione dei propri governi.

 

Queste reazioni, a loro volta finiscono per indebolire e a volte destabilizzare gravemente i

sistemi politici meno adattabili (o, nel breve termine, meno disposti a reprimere con estrema

brutalità le contestazioni).

Alla ricerca di opzioni per l’Europa – e per l’Italia

Il Ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha voluto dare un contributo diretto a una nuova fase

di dibattito pubblico sulle politiche comuni europee con un suo intervento sul Financial

Times3, in cui due sono le principali direttrici di azione indicate: politiche di sostegno alla

crescita nel Mediterraneo, e un rilancio dei rapporti regolari e istituzionalizzati su vari dossier.

Il pacchetto proposto da Frattini è presentato espressamente come una sorta di “Piano

Marshall” europeo per la stabilità economica, puntando quindi nella medesima direzione

suggerita da Lady Ashton, cioè l’attivazione di dinamiche che possano nel tempo

autosostenersi.

E’ facile tuttavia identificare i punti deboli di un simile approccio, partendo anche

dall’esperienza degli anni passati. L’obiettivo di stimolare direttamente la crescita economica

è lodevole, ma poco credibile se proviene da un’area integrata che, come la UE, soffre di

crescita anemica e molto diseguale. Quanto alla dimensione dei contatti a tutto campo (sotto

forma di “associazione rinforzata”), il problema che si vuole superare non sembra essere stato

finora decisivo: non c’è stata carenza di canali diretti per il dialogo o il coordinamento, ma

piuttosto scarsa volontà di utilizzarli da una o da entrambi le parti dell’auspicata “partnership”

euro-mediterranea.

A dispetto di queste debolezze che non sembrano oggi facilmente superabili, qualche motivo

di cauto ottimismo si può forse trovare rispetto alla filosofia di un “Piano Marshall”: in

quanto tentativo di innescare dinamiche locali di sviluppo e spingere soprattutto a una stretta

cooperazione tra gli stessi beneficiari degli aiuti, questo approccio potrebbe essere

effettivamente adeguato alle condizioni attuali della sponda Sud del Mediterraneo. Si tratta

infatti di incanalare processi in atto piuttosto che di crearne di nuovi. E’ essenziale, in tale

ottica, che gli obiettivi restino commensurati alle risorse che la UE potrò realisticamente

3 Franco Frattini, “A European plan for Mediterranean stability”, Financial Times, February 18, 2011, p.8.

 

mobilitare; ed è altrettanto essenziale che la “stabilità” non sia intesa come status quo dei

regimi politici.

Come detto in precedenza rispetto alla Strategia di Sicurezza Europea e alle recenti

dichiarazioni di Lady Ashton, Bruxelles non ha commesso in passato un errore di analisi o di

impostazione a livello di principi; non ha semmai trovato il modo per esercitare un’influenza

concreta, cioè per rendere rilevanti quei principi. E’ su questo terreno che è arrivato il

momento di ascoltare le voci (molteplici e spesso discordanti) che arrivano dalla regione

mediterranea, tenendo fermi pochissimi principi fondamentali e ragionando con modestia

rispetto a quanto la UE può davvero influenzare gli eventi. Intanto, il compito principale delle

istituzioni europee, e ancor più dei governi nazionali, è concordare e attuare con

determinazione politiche per la crescita e per il consolidamento dell’eurozona. Senza una

crescita più sostenuta e un euro più solido, non ci sarà dinamismo in politica estera, nè dunque

la capacità di accompagnare il cambiamento quando questo arriva, magari sospingendolo in

direzioni favorevoli agli interessi europei. Qui si intersecano in modo evidente i problemi

interni all’Unione europea e quelli lungo i suoi confini meridionali: le due sponde sono

connesse in modo inestricabile, che ci piaccia o no.

Per l’Italia, in particolare, è la Libia a costituire un punto di riferimento oggettivo, e le ragioni

sono molte: la prossimità geografica e i flussi migratori, i rapporti economici, e il delicato

ruolo diplomatico svolto negli anni da Roma nei confronti di Tripoli. Siamo attualmente in

una fase caotica ed emergenziale che andrà gestita con prontezza e flessibilità, accordando la

priorità agli aspetti umanitari; arriverà poi una fase in cui servirà soprattutto immaginazione

politica. Dialogare con regimi “problematici” è da sempre una dura esigenza delle relazioni

internazionali, perché raramente ci si può permettere di scegliere i proprio vicini o le proprie

controparti – e l’isolamento diplomatico ha sempre un costo elevato per tutti. Ma una lezione

di queste settimane è che non si deve mai dare per ineluttabile la tenuta di un regime

autoritario, esagerarne il potere di ricatto, rafforzarne il prestigio.

Come spesso accade, la chiave del successo starà ora nel trasformare i grandi rischi in grandi

opportunità, per l’Italia come per l’Europa. In ogni caso, la precondizione per iniziative più

efficaci è una forma di coesione europea sul piano politico e fattuale – cioè, perfino a

prescindere dal fatto che si tratti ufficialmente di politiche “comuni” della UE: si pensi ad

esempio ai flussi migratori, a qualunque tipo di sostegno umanitario, a programmi di

formazione in chiave di “institution building”. I singoli paesi, come l’Italia soprattutto rispetto

alla Libia, dovranno assumersi importanti responsabilità, ma il livello europeo è necessario

per reagire in modo costruttivo a sfide così macroscopiche. Ciò che vale per i problemi

 

dell’eurozona vale anche per l’instabilità lungo le nostre frontiere: è la solidarietà politica,

prima ancora degli accordi tecnici e istituzionali, che consentirà all’Europa di essere uno dei

protagonisti nel Mediterraneo e in Medio oriente.

 

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