(Professore Ordinario di Diritto Costituzionale italiano
e
comparato – Sapienza Università di Roma)
Sommario:
1-Una celebrazione difficile 1.1-
Le origini non controverse di una festa nazionale
1.2-
Il “caso”
di una ricorrenza divenuta problematica
1.3-
Dal “Viva
V.E.R.D.I.” ai
problemi
di bilancio
2-
La
molteplicità di memorie e la carenza di condivisione
delle stesse
3-
L’esperienza pre-unitaria
4-
L’egemonia moderata e l’Unità nazionale
5-
I
primi cinquanta
anni di
vicenda unitaria e l’indebolimento progressivo dello
Stato liberale oligarchico
5.1- Il
periodo
della Destra storica:1861-1876
5.2-
La
Sinistra ,il trasformismo e le opzioni
autoritarie:1876-1899
6-
Il
primo cinquantenario tra espansione interna ed esterna
7- Il
fascismo
tra continuità e nuovi riti
8-
La
Costituzione repubblicana e la memoria divisa
9-
Il
centenario
10- La transizione infinita tra crisi di regime e
crisi di riallineamento
11-
Conclusioni.
1-
Una
celebrazione difficile
1.1-
Le origini
non controverse di una festa nazionale
Il 17
marzo 1861 Vittorio Emanuele II promulgò la legge 4671
del Regno di Sardegna con cui
assumeva
per sé e per i successori il titolo di Re d'Italia1. Il
successivo 21 aprile, con il primo
∗
Testo della Conferenza tenuta il 21 febbraio 2011, Amphi
Ettori, Campus Mariani, Université de Corse,
nell’ambito del ciclo di Seminari dedicati ai «150 ans
de l’Italie ».
atto
legislativo del nuovo Regno, si provvide, invece, a
pubblicizzare la nuova formula di
intitolazione degli atti normativi "per grazia di Dio e
volontà della nazione", che certificava la
natura del
compromesso unitario fondato sullo Statuto Albertino,
concesso dal Sovrano, ma
oramai
aperto all'innovazione incrementale sulla base della
rappresentanza parlamentare2. Il 5
maggio di
quello stesso anno venne promulgata la legge istitutiva
della Festa nazionale per
l’Unità
d’Italia e lo Statuto del Regno
3, che si
riallacciava alla precedente legge n.1187/1851
del Regno
Sardo4.
1.2-
Il “caso”
di una ricorrenza divenuta problematica
La
celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia ha
confermato, proprio in questi giorni ed in
maniera
palese, come il recupero di una simile ricorrenza sia
altamente problematico.
Partiamo
dalle origini recenti della questione, per poi risalire
a quelle più risalenti, che
spiegano
le ragioni delle tensioni e delle ambiguità. Nel 2007 il
Governo di Romano Prodi, in
previsione
dell’anniversario in questione, istituì il Comitato
interministeriale per le
celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia5,
presieduto dal Ministro dei Beni
culturali
e vice-presidente del Consiglio dei Ministri Francesco
Rutelli, nominando anche un
Comitato
dei Garanti, presieduto prima dall’ex-Presidente della
Repubblica Carlo Azeglio
Ciampi e
poi - in seguito alle dimissioni dello stesso- dal
Presidente dell’Istituto
dell’Enciclopedia italiana Giuliano Amato.6
L’esito
delle elezioni del 2008 e la formazione del IV Governo
Berlusconi aveva
obbiettivamente rallentato l’attività del Comitato e
dell’Unità di missione, deputata alla
1 Articolo
unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi
Successori il titolo di Re d'Italia. Ordiniamo
che la
presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita
nella raccolta degli atti del Governo, mandando a
chiunque
spetti di osservarla e di farla osservare come legge
dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861 legge n.
4671 del
Regno di Sardegna.
2 V. Legge
21 aprile 1861, n. 1 (Nuova formula per la
intitolazione degli atti del Governo). Per la
dinamica di
approvazione dello stesso tra le due Camere si v. G.
Urtoller, Lo Statuto fondamentale del Regno d’Italia
annotato,Parte Prima:dello Stato e della Monarchia,Cesena,Gargano,1881,
pp.184 ss.
3 V.
legge 5 maggio 1861 n. 7 (Istituzione Festa
nazionale per l'Unità d'Italia e lo Statuto del Regno);
nel 1882
la
celebrazione venne rinviata con legge al 18 giugno per
la scomparsa di Giuseppe Garibaldi.
4L’art. 1
dichiarava la seconda Domenica del mese di maggio di
ogni anno Festa dello Statuto; l’art. 2 prevedeva
che tutti
i Municipi dello Stato dovessero celebrare “la predetta
festa nazionale, presi gli opportuni concerti colle
Autorità
ecclesiastiche per la funzione religiosa” e che vi
dovessero intervenire “le Autorità civili e militari, la
Guardia
nazionale, i Corpi tutti dell’Armata di terra e di mare,
il Corpo insegnante, e gli Studenti”, mentre i
comuni
avrebbero dovuto stanziare “ le spese occorrenti a tale
Festa nel loro bilancio”.
5 v. G.U.
122 del 28 maggio 2007.
6 V.
ordinanza del PCM n. 3632,in G.U. n. 282 del 4 dicembre
2007 e decr. PCM in G.U. n. 118,22 maggio
2010. Al 9
luglio del 2010 la Composizione del Comitato dei garanti
era la seguente: Giovanni Allevi, Gaetano
Armao,
Maria Lucia Baire, Walter Barberis, Vittorio Bo, Roberto
Bolle, Pietrangelo Buttafuoco, Pierluigi
Ciocca,
Michele Coppola, Piero Craveri, Pasquale De Lise,
Ernesto Galli della Loggia, Andrea Giardina, Louis
Godart,
Stefano Lucchini, Francesco Margiotta Broglio, Claudio
Martelli, Alberto Melloni, Fiorenza Mursia,
Lorenzo
Ornaghi, Francesco Perfetti, Roberto Pertici, Andrea
Riccardi, Elena Aga Rossi, Giovanni Sabatucci,
Giovanni
Tassani, Gianni Toniolo, Marcello Veneziani
preparazione delle celebrazioni, che con ordinanza PCM
n. 3772 del 19 maggio 2009 si era
trasformata in Unità tecnica di missione operante
presso il Segretariato generale della PCM.
Venerdì 28
gennaio 2011, sulla base del terzo comma dell’art. 7
bis, aggiunto in sede di
conversione del decreto legge 30 aprile 2010, n. 64
sulla Fondazioni liriche7, il Consiglio dei
ministri
aveva finalmente annunciato: che il 17 marzo sarebbe
stato, solo per il 2011, festa
nazionale
e che scuole ed uffici sarebbero rimasti chiusi (“il
messaggero”, 28 Gennaio 2011);
che
durante la notte tra il 16 e il 17 le città sarebbero
state aperte alla notte tricolore; che in
quest'occasione in tutt'Italia sarebbe stato celebrato
alle ore 07,00 il rito dell'alzabandiera; che
il Capo
dello Stato avrebbe parlato al Parlamento riunito in
seduta comune e si sarebbe recato
al
Pantheon a rendere omaggio alla tomba del primo Re
d'Italia; che, infine, il 2 giugno
sarebbe
stata, come ogni anno ma in maniera più solenne,
celebrata la festa della Repubblica.
A questo
punto è iniziata una significativa (ma non nuova)
controversia in argomento, che ha
fatto
parlare di senso di debole appartenenza (“Corriere
della sera”, 8 febbraio 2011) per
quanto
riguarda il sentimento di identità nazionale8. In primo
luogo ci si è accorti che,
nonostante
il citato art. 7 bis avesse dichiarato il 17 marzo
festa nazionale, dal testo della
legge di
conversione era stato fatto sparire un esplicito
richiamo alla L. 27 maggio 1949, n.
260, che
ne avrebbe assicurato l’efficacia, facendolo così
derubricare a solennità civile9; che
ciò
sarebbe accaduto a causa di una richiesta fondata su
motivazioni di bilancio del
sottosegretario all’Economia e finanze (Giuseppe Vegas)
e che di questo se ne sarebbero
7 v. Legge
di conversione: 29 giugno 2010, n. 100, G.U. n. 150 del
30 giugno 2010. L’art. 7 bis venne approvato
in
Commissione al Senato come frutto per il primo comma di
un emendamento presentato dal Governo e per il
secondo di
una proposta della Commissione stessa.
8 Sul tema
della festa v. I. Porciani, La festa della nazione.
Rappresentazione dello Stato e spazi sociali
nell’Italia unita,Bologna,
Il Mulino, 1997 e M. Ridolfi, Le feste nazionali,
Bologna, Il Mulino,2003 e Idem ,La
festa del
2 giugno:rituali civili,spazi sociali e territorialità
repubblicane,
www.insmli.it/pubblicazioni/102/RIDOLFI_06_an.pdf
.
9 Per cui
il giorno 2 giugno, data di fondazione della Repubblica,
è dichiarato festa nazionale, mentre sono “
considerati giorni festivi, agli effetti della
osservanza del completo orario festivo e del divieto di
compiere
determinati atti giuridici, oltre al giorno della festa
nazionale, i giorni seguenti:tutte le domeniche;il primo
giorno
dell'anno;il giorno dell'Epifania (Festività soppressa
dall'art. 1, L. 5 marzo 1977, n. 54 e ripristinata ai
sensi
dell'art.
1, D.P.R. 28 dicembre1985, n. 792); il giorno della
festa di San Giuseppe (Festività soppressa dall'art. 1,
L. 5 marzo
1977, n. 54.); il 25 aprile, anniversario della
liberazione;il giorno di lunedì dopo Pasqua;il giorno
dell'Ascensione (Festività soppressa dall'art. 1, L. 5
marzo 1977, n. 54.); il giorno del Corpus Domini
(Festività
soppressa
dall'art. 1, L. 5 marzo 1977, n. 54.);il 1 maggio: festa
del lavoro;il giorno della festa dei Santi Apostoli
Pietro e
Paolo (Festività soppressa dall'art. 1, L. 5 marzo 1977,
n. 54 e ripristinata, solo per il comune di Roma
(quale
festa del Santo Patrono), ai sensi dell'art. 1, D.P.R.
28 dicembre 1985, n. 792); il giorno dell'Assunzione
della B.
V. Maria; il giorno di Ognissanti; il 4 novembre: giorno
dell'unità nazionale (l'art. 1, L. 5 marzo 1977, n.
54, ha
disposto che la celebrazione della festa dell'unità
nazionale abbia luogo la prima domenica di novembre e,
pertanto,
il 4 novembre cessa di essere considerato festivo); il
giorno della festa dell'Immacolata Concezione; il
giorno di
Natale; il giorno 26 dicembre”.
Sono,
invece, considerate solennità civili, agli effetti
dell'orario ridotto negli uffici pubblici e
dell'imbandieramento dei pubblici edifici:l'11 febbraio:
anniversario della stipulazione del Trattato e del
Concordato
con la Santa Sede; il 28 settembre: anniversario della
insurrezione popolare di Napoli
Per l’art.
4 della legge in questione “ Gli edifici pubblici sono
imbandierati nei giorni della festa nazionale, delle
solennità
civili e del 25 aprile, 1 maggio e 4 novembre”.
accorti in
ritardo gli uffici della Camera dei deputati10. Di qui
la ripresa di un contenzioso che
era
rimasto formalmente coperto (ma latente) nel momento
della discussione del già citato e
controverso atto normativo di base dedicato alle
Fondazioni liriche 11 e che nelle ultime
settimane
si è gonfiato oltre ogni misura, divenendo esemplare
dello stato di scollamento in
cui ci si
appresta a commemorare l’evento fondativo
dell’ordinamento statuale italiano.
1.3-
Dal “Viva
V.E.R.D.I.” ai problemi di bilancio
Una
leggenda storica non confermata racconta che, durante
gli anni dell’occupazione
asburgica,
sui muri di Milano sarebbero apparse scritte inneggianti
a Vittorio Emanuele Re
d’Italia
sulla base dell’acronimo del cognome del celebre
compositore Giuseppe Verdi. E’ in
proposito
singolare che proprio la Legge sulle fondazioni liriche
abbia dato stura al grido
alternativo “Viva i Verdi”, indicando la necessità di
lavorare, rispettando le esigenze di
copertura
finanziaria di cui al quarto comma dell’art. 81 Cost..
In questa
linea il presidente della Confindustria Marcegaglia ha,
infatti, sostenuto che il 17
marzo si
farebbe meglio a commemorare l'Unità d’Italia lavorando;
Giuliano Amato,
presidente
del Comitato per le celebrazioni dell'evento unitario ed
ex presidente del Consiglio,
si è detto
d'accordo in un articolo sul Sole 24 ore (6
febbraio 2011); il leghista Roberto
Calderoli,
ministro per la semplificazione, ha espresso un parere
conforme, mentre i principali
sindacati
si sono nuovamente divisi anche su questo argomento,
dopo aver battagliato ancora
recentemente sui temi dei contratti, della
rappresentatività e della riconversione dello Stato
sociale.
Nel corso
di un successivo Consiglio dei ministri (9 febbraio) il
ministro della Pubblica
istruzione
Maria Stella Gelmini (Popolo della Libertà proveniente
da Forza Italia) ha fatto
sapere di
essere sfavorevole alla chiusura delle scuole per la
data indicata, mentre il leader
della Lega
Nord e ministro per le riforme istituzionali Umberto
Bossi ha dichiarato che la
“festa
sarà percepita in modo diverso a seconda dei luoghi”
(eufemismo per dire che al Nord
10 Vegas
aveva sollevato il problema dell’aggravio finanziario
derivante dalle retribuzioni maggiorate nel giorno
festivo su
cui si è soffermata anche la giurisprudenza della Corte
costituzionale (sent. n. 146-2008 sul compenso
aggiuntivo
per festività coincidenti con domenica per i dipendenti
pubblici).
11 V. N.
Cottone,È legge il decreto sulle fondazioni liriche,
in “Il sole 24 ore”,29 giugno,2010; ma la storia
del
decreto e
della sua conversione sono estremamente complesse e
rivelatrici della crisi del sistema poltiico e dei
rapporti
tra le forze presenti in Parlamento. Non soltanto il
decreto aveva sollevato dubbi nel Capo dello Stato
(v. A.
Bandettini, Napolitano non firma il decreto
e chiede
chiarimenti a Bondi
, in ”La
repubblica”,29 aprile 2010 ), ma in sede di
conversione dello stesso alla
Camera dei
deputati le opposizioni avevano prima effettuato
l’ostruzionismo, per poi trattare (unica resistente
l’IDV
mettendo a rischio la visione televisiva dei mondiali di
calcio dei deputati costretti in aula) su alcuni
emendamenti,tra cui l’art. 7 bis(v. R. Masci,
Nell’ostruzionismo Di Pietro resta solo,Pd e UDC
concordano
modifiche
al provvedimento. L’IDV accusa gli alleati:non siete in
buona fede,in “La stampa” 25 giugno 2010.
non verrà
celebrata), contrapponendosi al ministro della Gioventù
Giorgia Meloni e a quello
della
Difesa Ignazio La Russa (entrambi PdL di provenienza
AN). A complicare la situazione,
in un'area
di confine estremamente sensibile ai dati simbolici, il
presidente della provincia di
Bolzano
Durwalder (SVP) ha dichiarato che non celebrerà
alcunché, perché parte di “una
minoranza
austriaca”, mentre lo stesso partito di raccolta della
popolazione altoatesina di
lingua
tedesca ha provveduto trattare i voti dei propri
parlamentari in cambio dello
spostamento o della cancellazione di alcuni simboli
nazionalisti italiani in Alto Adige (v. "La
Stampa"
7 febbraio 2011). Il Capo dello Stato Giorgio Napolitano ha risposto
piccato a
Durwalder
che il Presidente della provincia di Bolzano rappresenta
anche la minoranza
italiana (“La
Repubblica”, 12 febbraio 2011), mentre Calderoli -
ripreso da La Russa sul
federalismo - ha sostenuto che il provvedimento sarebbe
incostituzionale perché – appuntoprivo
della
copertura finanziaria ex art. 81 Cost..
Venerdì 18
febbraio il Consiglio dei ministri ha,finalmente,
approvato un decreto legge, su
proposta
del Presidente del Consiglio, che “assicura la dovuta
solennità e la massima
partecipazione dei cittadini alle celebrazioni del 17
marzo 2011, già dichiarato festa
nazionale,
confermando che la giornata sarà festiva a tutti gli
effetti previsti dalla legge”.12
Come aveva
lasciato trapelare già nei giorni scorsi il Ministro
della difesa La Russa, solo per
quest’anno
“ troveranno applicazione gli effetti economici e gli
istituti giuridici e contrattuali
previsti
per la festività soppressa del 4 novembre (che solo per
quest’anno non esplica i
predetti
effetti) così da compensarne gli oneri”.
La
delibera è stata approvata con l’astensione di Bossi e
Calderoli e con l’assenza di Maroni,
mentre
alcuni rappresentati del PDL (Gelmini e Sacconi) hanno
approvato il provvedimento,
seppur
obtorto collo. Questo è stato, infatti, considerato
da Calderoni una vera e propria follia
dal punto
di vista economico e incostituzionale da quello
giuridico per mancanza di copertura.
D’altro il
Decreto legge in oggetto non soltanto ha evitato
l’imbarazzo di un voto
parlamentare sulla mozione Franceschini, prevista dopo
il cosiddetto “decreto
Milleproroghe”, ma soprattutto sarà fatto decadere “a
celebrazione avvenuta”, facendo in
modo di
neutralizzare i dissensi interni alla maggioranza e la
necessità di ricorrere all’aiuto
dell’opposizione.
Sono
questi solo alcuni scampoli della polemica (non ancora
conclusa) sul terzo
cinquantenario dell'Unità nazionale italiana (su cui è
intervenuto anche in maniera desolata
l’ex
Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, v.
“Corriere della sera”,10 febbraio
12
Comunicato della Presidenza del Consiglio dei
Ministri,18 febbraio
2011(http://www.governo.it/Governo/ConsiglioMinistri/dettaglio.asp?d=62322).
2011), che
hanno riportato in auge la problematica di Ernest
Renan13 relativa alla volontà
dello
stare insieme ed ai ricordi che la giustificano.
Ma non
solo: sono venute alla luce anche tutte le
contraddittorie stranezze di una
commemorazione che una tantum provvede a
rispolverare le radici monarchiche
dell’ordinamento (ma ricordo che lo stesso Statuto
veniva festeggiato la prima domenica di
giugno di
ogni anno soprattutto nelle caserme e nelle scuole14),
perché Repubblica15 e
Resistenza, eventi fondanti per l’attuale regime, non
paiono più sufficienti (o come ha
dichiarato
per il 25 aprile l’esponente della Lega Nord Borghezio,
di parte), mentre all’interno
della
comunità politica, soprattutto parti del ceto politico e
della classe dirigente stanno
divenendo
sempre più centrifughi e pericolosi per la coesione
sociale e della comunità
politica.
La
peculiarità della situazione è confermata dal fatto che
prima si è dimenticato che già esiste
la festa
del 4 novembre (Anniversario della vittoria della prima
guerra mondiale, divenuta
successivamente Festa delle Forze armate e poi Festa
dell'Unità nazionale), che è stata
spostata
alla prima domenica di novembre e, adesso, la stessa
viene utilizzata come
provvisorio ponte finanziario.
In realtà
il ceto politico si sta presentando, come ha ricordato
più volte Giuliano Amato,
ancora una
volta diviso all’appuntamento con i simboli dell’Unità
nazionale. La vera aula
parlamentare rischia di essere quella del palco del
Festival di San Remo, all’interno del quale
Roberto
Benigni ha effettuato una trascinante commemorazione
dell’inno nazionale. Lo
stesso
Presidente della Repubblica, che sta meritoriamente
cesellando con il bulino in una
situazione
difficilissima perché il 17 marzo sia un avvenimento
unitario, attende come
salvifico
il contributo dello stesso Pontefice alla celebrazione
(probabilmente attraverso un
messaggio), in modo da riequilibrare la posizione
fortemente polemica della Lega Nord, che
si
connette con proposte alternative dell’articolazione
centro-periferia.
2-
La
molteplicità di memorie e la carenza di condivisione
delle stesse
13 v. E.Renan,Qu’est-ce qu’une nation?,(1882 ),in
Discours et conferences,Paris,Lévy,1887 per cui
“une nation
est donc une grande solidarité, constituée par le
sentiment des sacrifices qu'on a faits et de ceux qu'on
est disposé
à faire encore.
Elle
suppose un passé ; elle se résume pourtant dans le
présent par un fait tangible : le
consentement, le désir clairement exprimé de continuer
la vie commune. L'existence d'une nation est
(pardonnezmoi
cette
métaphore) un plébiscite de tous les jours, comme
l'existence de l'individu est une affirmation
perpétuelle de vie.”(p.307)
14 E’
significativo che nella bibliografia nazionale le
segnalazioni in merito siano concentrate per la massima
parte nel
periodo precedente il primo conflitto mondiale e che
terminino sostanzialmente nel 1922.
15 La
festa del 2 giugno ,spostata nel 1977 alla prima
domenica di giugno e ripristinata nel 2001,venne
festeggiata “una tantum” in occasione del quarantennale
nel 1986.
Andiamo
però alla radice del problema, al di là delle soluzioni
più o meno raffazzonate che
sono state
recuperate e che, probabilmente, non toglieranno nulla
alla riflessione
sull’avvenimento. L’incertezza italiana contemporanea su
se e come celebrare le proprie
origini
come Stato nazionale unitario nasce dal fatto che i
ricordi sono molti (troppi) e
divaricati; e che la condivisione degli stessi non è
incontroversa (anzi per alcuni impossibile),
mentre la
coesione nazionale si è ridotta nell'ambito delle varie
aree del paese in relazione ai
fenomeni
di globalizzazione, internazionalizzazione e
integrazione che colpiscono in maniera
differenziata l'area europea negli ultimi decenni. Un
simile stato di fatto è aggravato dal
mancato
riallineamento del sistema partitico dopo la crisi di
regime del 1992-93 e dallo
sviluppo
di partiti regionali (soprattutto al nord, ma anche al
sud), che contestano la stessa
comunità
politica o richiedono una articolazione profondamente
differente del tipo di Stato
sulla base
di una ricostruzione del passato alternativa a quella
tradizionale.
Ciò che
sta accadendo costituisce senza alcun dubbio un sintomo
allarmante sul livello di
coesione
nazionale ed una conferma della mancanza di qualsivoglia
egemonia politicoculturale
all’interno dell’ordinamento, su cui costruire la
richiesta identità nazionale. D’altro
canto lo
stesso accanimento a celebrare rischia di indebolire,
più che rafforzare, la coesione
residua.
Al fine di
non essere schiacciati da interpretazioni miopi, c’è
però da chiedersi, seppur in
maniera
sintetica, quali siano le origini di questo fenomeno,
che colpisce, con l’Italia, in
maniera
più pronunciata alcuni ordinamenti rispetto ad altri, e
quali siano prognosi e terapie
in
materia.
A questo
scopo ritengo che sia indispensabile inquadrare
opportunamente un simile problema
nell'onda
lunga della storia costituzionale italiana, inglobando
la stessa storia della
Costituzione repubblicana. Il problema della
legittimazione istituzionale del nostro sistema
politico-costituzionale può essere analizzato sulla base
del classico rapporto tra società civile,
classe
dirigente (di cui il ceto politico costituisce una
parte) ed istituzioni, individuando l'onda
lunga
della storia nelle invarianze e nei problemi che si
pongono praticamente.
Non è
certo una scoperta che l’ordinamento politico
costituzionale italiano sia sempre stato
caratterizzato da una relativa debolezza della comunità
politica, del regime e delle sue
autorità,
se si utilizzano le classiche categorie di David
Easton.16 Il livello della comunità
politica
identifica l’ambito analitico che definisce la volontà
di stare assieme formando una
comunità
riunita attorno a valori ed istituzioni comuni; quello
del regime indica invece le
16 V. D. Easton, A systems Analysis for Political
Life, New York, Waleyand, 1965.
norme,in
valori, le regole del gioco e le strutture d’autorità in
cui agiscono i soggetti
politicamente rilevanti, mentre le autorità individuano
coloro che legittimamente esercitano il
potere
politico all’interno dell’ordinamento.
Emilio
Gentile nel suo recente volume dal titolo impressivo
Né stato,né nazione. Italiani
senza
meta17
ha
evidenziato la crisi del sistema politico costituzionale
complessivo sia per
quanto
riguarda l’identità che le istituzioni politiche.
A mio
avviso, l’aspetto determinante della questione non sta,
tuttavia, tanto se esista una
identità
della comunità politica (al di là del regime che la
caratterizza), perché il tempo ha
dimostrato
che è esistita e tuttora persiste, ma quale sia la forza
e la qualità della stessa,
corroborate dai soggetti che si pongono alla base
dell’ordinamento e che ne costituiscono la
classe
dirigente ed il ceto politico. James Bryce lo aveva già
messo in evidenza all’inizio del
secolo
scorso quando aveva parlato di elementi centripeti ed
elementi centrifughi nell’ambito
degli
ordinamenti18, seguito circa venticinque anni dopo dalla
stessa categorizzazione di Carl
Schmitt
amico-nemico19.
Una simile
questione era, d’altro canto, ben presente, già pochi
anni dopo la proclamazione
del Regno,
anche allo stesso Massimo d'Azeglio, politico e
letterato di prima grandezza, che,
nella
prefazione al volume di Ricordi, databile attorno
al 1866, affermò, com’è noto, che "il
primo
bisogno d'Italia è che si formino Italiani dotati d'alti
e forti caratteri. E pur troppo si
va ogni
giorno verso il polo opposto: pur troppo si è fatta
l'Italia, ma non si fanno gli
italiani"20.
Si badi bene, il giudizio non era che non ci fossero
italiani, ma che la loro identità
come
comunità politica fosse debole e che dovesse essere
rafforzata, sviluppando in maniera
opportuna
gli elementi eminenti della classe dirigente. D'Azeglio,
richiamando in maniera
singolare
la figura di un aristocratico innovatore del “nuovo
mondo” come George
Washington
e la preferenza dello stesso per i gentlemen,
individuava l'esigenza di un ceto
politico
adeguato alla bisogna sulla base del classico apologo
della nave21 e dell'esigenza che
chi sa
deve governare e chi non sa ubbidire, anticipando la
posizione apparentemente
meritocratica di Gaetano Mosca.
Le ragioni
della debolezza dell’identità italiana possono essere
verificate nel rapporto tra
istituzioni, ceto politico nell'ambito della dinamica
classe dirigente e la società civile proprio
in quattro
momenti topici del percorso effettuato dallo Stato
italiano e dal sentimento
17 V. E.
Gentile, Né stato,né nazione.Italiano senza meta.
Roma, Laterza, 2010.
18V. J. Bryce, The Action ff Centripetal and
Centrifugal Forcesv on Political Constitutions,in “Studies
in History
and in Jurisprudence”,cit.,
vol.I, pp. 255 ss.
19 V. C.Schmitt, Der Begriff des Politischen,
Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1933.
20 V.
M.Taparelli D’Azeglio, I miei ricordi, Firenze,
Barbera, 1891, p.5.
21 V. F.
Lanchester, Introduzione a La barra e il timone,
a cura di F. Lanchester, Milano, Giuffrè, 2009.
nazionale.
Il momento iniziale coincide appunto con il 1861 ed in
sostanza con le parole di
D'Azeglio,
che già prefigura il disincanto degli anni Ottanta del
secolo XIX.
Il secondo
con il 1911, data di celebrazione del primo
cinquantennio unitario, anno della
guerra di
Libia, ma soprattutto anno che precede l'allargamento
del suffragio ed apre - con le
convulsioni del primo conflitto mondiale, del dopoguerra
e del fascismo- alla fine dello Stato
liberale
oligarchico ed al fallimento della brevissima esperienza
liberale-democratica. Il terzo
con il
1961, anno di celebrazione del primo centenario, in un
periodo di espansione
economica
e di decisione riformistica che precede il
centro-sinistra. Il quarto, infine, si
connette
con il presente centrifugo dove gli elementi di
formazione della stessa comunità
politica
sembrano contestati all’interno degli accennati processi
di devoluzione, integrazione,
internazionalizzazione e globalizzazione.
Solo su
questa base mi sembra sia possibile fornire un giudizio
un giudizio sul livello del
senso di
identità ed il suo variare nel tempo.
3-
L’esperienza pre-unitaria
Partiamo
proprio da D'Azeglio e dalla sua celeberrima frase,
comparandola con l'affermazione
di un
celebre cultore di government come Lowell, che
nel 1896 sostenne esservi stato in Italia
e in
Germania un ritardo nella formazione dello Stato e non
della Nazione.22 Si tratta di
posizioni
che sembrano solo apparentemente in forte
contraddizione.
A ben
vedere non c’è inconciliabilità tra le due impostazioni.
D'Azeglio nell' Ettore
Fieramosca
o La disfida di Barletta
(1833)23
aveva evidenziato, sul piano letterario ma anche
politico,
la presenza del sentimento di identità nazionale,
idealizzando uno scontro tra italiani
e francesi
del 1503. Ciò che più di trenta anni dopo egli aveva-
invece- voluto sottolineare
come
sincero liberale, fratello di Luigi Taparelli D'Azeglio
uno dei più strenui sostenitori del
potere
temporale della Chiesa e di Pio IX, era invece la
necessità che vi fosse una adeguata
classe
dirigente ed un corrispondente ceto politico all’interno
dell’ordinamento. Nel capitolo
II dei
citati Ricordi, oltre all'idealizzazione
dell’esempio ascetico del padre24, egli evidenziò la
necessità
di un ceto politico appropriato e nello stesso tempo il
timore che il processo di
mutamento
della società tradizionale potesse far pendere la
bilancia o verso il despotismo o
verso
l’anarchia. La critica di D’Azeglio alla Russia di
Alessandro, che aveva eliminato la
22 V. A.L. Lowell, Governments and Parties in
Continental Europe,Bostn-New York, Hougton -Mifflin,
1897, pp.
146 ss.
23 V. M.
Taparelli D’Azeglio, Ettore Fieramosca o La disfida
di Barletta, Torino, Pomba, 1833.
24 Nel
testamento il padre aveva, infatti, invitato la moglie a
non vestire gli abiti del lutto nel caso di una sua
morte in
battaglia perché "ella deve tenere a grandissima fortuna
per essa e per me ch'io abbia potuto dar la vita
pel Re e
pel mio paese".
servitù
della gleba, e agli Usa di Lincon, che avevano iniziato
la guerra civile contro lo
schiavismo, descriveva sia la prospettiva del
liberalismo illuminato, ma prudente che aveva
egemonizzato il processo unitario nel decennio dei
portenti, sia il pericolo di disincanto che la
realtà
unitaria avrebbe comportato di lì a poco. C’era anche da
un lato la consapevolezza,
presente
ugualmente in Tocqueville, dei pericoli cui il modello
europeo poteva essere
soggetto
sulla base degli esempi sopraddetti;dall’altro
l’attenzione per il dato internazionale.
Ma
soprattutto D’Azeglio rimarcava la necessità
dell’assestamento del regime con la
costruzione di un assetto istituzionale in cui classe
dirigente e ceto politico potessero agire
convenientemente.
In una
simile prospettiva l’interpretazione di D’Azeglio non
differiva, dunque, da quella di
Lowell,
influenzata dalla letteratura italiana degli anni
Ottanta e Novanta del secolo XIX sul
cosiddetto
parlamentarismo, e poteva rinviare ai problemi immani
della fondazione di un
nuovo
assetto istituzionale, con la fusione - annessione del
vecchio regime all’interno del
contesto
dello Statuto Albertino .
In questo
quadro lo Statuto fondamentale del Regno di Sardegna
nacque come il frutto del
superamento della monarchia consultiva sardo-piemontese
e come accesso ad una monarchia
costituzionale pura25.
Alle sue spalle si ponevano non tanto le rivoluzioni
inglese (due),
americana
e francese, ma sopratutto il costituzionalismo della
restaurazione (Francia 1814 e
poi 1830;
il Belgio 1831; il costituzionalismo tedesco meridionale
e prussiano) e la stessa
esperienza
costituzionale italiana post-1789.
Ci si
dimentica troppo spesso che nel 1848 si ebbe la prima
esplosione del suffragio
universale
maschile (Francia, Svizzera e, poi, nella Germania
imperiale del 1871) e che la
febbre
invase tutta Europa ed anche l’Italia (dalla Sicilia,
che aveva preceduto il movimento
nel
gennaio, agli altri Stati, tra cui il Regno sabaudo). Ma
alla base del costituzionalismo
statutario
si posero non solo le esperienze internazionali
(preferenza per il gradualismo
equilibrato inglese, rifiuto per il razionalismo
istituzionale francese nella versione giacobina
della
sovranità popolare, avversione per il principio
monarchico della restaurazione), ma
soprattutto quelle italiane, derivanti dalla peculiarità
di una area geografica divisa
territorialmente e, soprattutto, caratterizzata dalla
presenza del potere temporale della Chiesa
cattolica.
Fin quando il Papato non respinse definitivamente le
ipotesi di congiunzione al
movimento
nazionale, la prospettiva moderata si mosse sulle vie
confederali e di
25 V. P.
Colombo, I presupposti dello statuto albertino. dai moti
del 1821 alle riforme del 1847, in Historia
Constitucional (revista electrónica), n. 3, 2002.
(http://hc.rediris.es/03/index.html)
preservazione della legittimità tradizionale, poi
avvenne la svolta, anche per impedire che
soluzioni
più drastiche di rottura potessero avere accesso.
Il
compromesso unitario si basò sulla soluzione
monarchico-rappresentativa disegnata in
maniera
generica dallo Statuto. Le alternative del 1848
furono invero varie. Nell’Europa
continentale (mentre la Gran Bretagna proseguiva il suo
peculiare ed esemplare sviluppo tra
Great
Reform Bill
del 1832
e, poi, Representation Act del 1867, che tanta
influenza avrebbe
avuto sui
benpensanti moderati) accanto all’ipotesi
reazionaria sembrò messa in pericolo
dalla
rivoluzione anche quella borghese di tipo crematista.
L’allontanamento di Metternich
parve aver
chiuso l’epoca della restaurazione, ma anche quella
della monarchia borghese di
Luigi
Filippo e la stagione classica del parlamentarismo26.
Dopo Cavignac la II Repubblica
francese,
che aveva già da tempo superato la questione della
formazione dello Stato e della
Nazione,
affrontò la questione della democratizzazione con
l’estensione del suffragio
universale
maschile e scelse la forma di governo presidenziale,
degenerando rapidamente nel
plebiscitarismo del II Impero di Luigi Napoleone. In
Germania a Francoforte la Costituente
approvò,
invece, la Carta dei diritti fondamentali, poi il
compromesso “piccolo tedesco”.
Questione
nazionale, instaurazione dello Stato di diritto
legislativo e democratizzazione,
dunque,
finirono per sovrapporsi, mentre in Francia le
divergenti posizioni presenti furono il
prodromo
della deriva plebiscitaria e carismatica di Luigi
Napoleone e poi del II Impero.
In Italia
la questione nazionale e quella istituzionale
ondeggiarono invece tra preservazione e
rottura
del principio di legittimità tradizionale, tra tipo di
Stato federale, confederale
accentrato, tra forma di governo
monarchico-costituzionale e forma di governo
parlamentare
su base
fortemente censitaria, per arrivare all’estremo
simbolico della Repubblica romana del
1849 con
l’affermazione della sovranità popolare e del suffragio
universale maschile.
La
soluzione che scaturì dai due lustri del portento
(1848-1859) fu quella monarchicorappresentativa
dello
Statuto, capace di adeguarsi alle contraddizioni di una
scelta derivante
dalle
fratture tra laici e cattolici,tra nord e sud, tra città
e campagna, tra progressisti e
moderati,
tra rivoluzionari e conservatori.
4-
L’egemonia moderata e l’Unità nazionale
Le
alternative esistevano, dunque, formalmente, ma l’unica
realistica fu quella sabauda,
appoggiata
da un ceto politico sufficientemente consapevole. Nel
1848 lo Statuto Albertino
venne
apparentemente concesso come in altri ordinamenti
italiani. L’uso dell’avverbio deriva
26
Sull’origine del concetto v. F. Lanchester, La
rappresentanza in capo politico e le sue trasformazioni,
Milano,
Giuffré,
2006, pp.71 ss.
dal fatto
che la stessa concessione derivava dall’esigenza di non
farsi superare dagli
avvenimenti. Il vecchio ceto politico sardo-piemontese
consigliò, in febbraio, il Sovrano di
provvedere
in correlazione con i tempi e nel marzo si ritirò in
buon ordine. I tempi, si direbbe
anche
oggi, non erano più quelli di una volta27. I liberali
più accorti erano consapevoli dei
pericoli
del momento e, ad es., tutti gli interventi del Cavour
su legge elettorale e Costituente
furono
conseguenti28. Le alternative democratiche erano,
infatti, presenti e differenziate, come
quelle più
retrive. Chi analizzi le posizioni del movimento
rivoluzionario lombardo può infatti
toccare
con mano la divaricazione tra il moderatismo di un
Casati e la radicalità di Cattaneo ,
così come
in Toscana o nell’Emilia. Le vicende della Repubblica
romana ed in suoi
precedenti
con l’assassinio di Pellegrino Rossi e la fuga a Gaeta
di Pio IX costituiscono di
tutto ciò
una ulteriore conferma, al di là della esemplarità del
testo costituzionale in cui si
proclamava, appunto, la sovranità popolare, mentre le
truppe francesi erano già in
Campidoglio.
Lo
Statuto, annunziato nel febbraio e concesso nel marzo
1848, fu immediatamente oggetto di
discussione. Non solo per quanto riguardava la sua
natura intrinseca, ma anche gli istituti. Nel
giugno nel
1848 le Camere del Regno Sardo furono poste di fronte al
plebiscito di
unificazione lombardo29 e misero in conto sia la
Costituente, ovvero la ridiscussione dello
stesso
testo costituzionale, sia le concrete soluzioni che nel
medesimo erano contenute.
Oggetto
del dibattito tra il giugno ed il luglio di quell’anno
furono, da un lato, la legge
elettorale
sia per quanto riguardava l’estensione del suffragio,
sia per quanto atteneva al tema
del
sistema elettorale in senso stretto. La forma di governo
monarchico costituzionale
originaria
assunse convenzionalmente caratteristiche parlamentari
(che nel tempo sono state
considerate da alcuni come pseudo-parlamentari),
mentre si discuteva della modifica del
Senato
vitalizio di nomina regia.
La
questione della natura dello Statuto (stante la mancanza
regole espresse per la sua
modificazione) divenne un tema su cui prima il ceto
politico e l’opinione pubblica e, poi, la
dottrina,
si soffermarono.
Se lo
Statuto era stato concesso dal Sovrano dicevano alcuni,
e non vi era indicazione sulle
procedure
di revisione, allora solo il Sovrano avrebbe potuto
modificarlo. Altri sosteneva che
la
modifica era impossibile vista l’irrevocabilità della
concessione da parte del Monarca,
27 v. G.
Rebuffa, Lo Statuto albertino, Bologna, Il
Mulino, 2003.
28v.
Discorsi parlamentari del conte Camillo di Cavour
raccolti per ordine della Camera dei deputati,
Torino,
Botta, 1863, vol. I; vol. II, 1864.
29 V.
G.Arangio-Ruiz, Storia costituzionale del Regno
d’Italia, Firenze, Civelli,1898; G. Urtoller, Lo
Statuto
fondamentale del Regno d’Italia annotato, Parte
Prima:dello Stato e della Monarchia,cit.
mentre -
al di là di coloro che richiedevano la Costituente-
ovvero la ridiscussione unilaterale
del patto
(il potere costituente è come noto il più libero dal
fine)- la parte più responsabile
individuava nel potere legislativo (ovvero nel
Parlamento) l’istituzione che avrebbe potuto
modificare
la Carta.
Ovviamente
le tradizioni costituzionali in campo avevano del potere
legislativo una differente
concezione: quella di derivazione britannica, che riuscì
ad affermarsi nel processo unitario,
vedeva nel
parlamento un organo complesso in cui convergevano le
due Camere ed il
Sovrano,
mentre quelle di derivazione francese lo vedevano
concentrato tendenzialmente in
modo
esclusivo nelle Camere , se non addirittura solo in
quella di derivazione popolare. La
soluzione,
sponsorizzata dal Cavour, del Parlamento come organo
complesso sulla base della
recezione
della storia costituzionale britannica (penso
all’impulso di vera e propria cultura
costituzionale da parte di Cavour, perché D’Ondes Reggio
traducesse in Italiano l’opera di
Hallam30)
venne sostenuta proprio dal Cavour già nel biennio
(1848-49) e poi da Zanardelli
31. Essa
si consoliderà dopo la duplice sconfitta militare
(Custoza - luglio 1848 e Novara -
marzo
1849). Parte della classe dirigente piemontese
(cavourriani in testa) e la monarchia
(Vittorio
Emanuele II) non solo non retrocessero dalla prospettiva
liberale moderata, ma la
implementarono contrapponendosi al potere temporale
della Chiesa ed alla sua ingerenza nel
governo
civile.
Il
riformismo cavourriano fu in sostanza rivoluzionario e
moderato (bisogna intendersi
ovviamente
sul grado delle due espressioni) allo stesso tempo,
riuscendo a far divenire il
Piemonte
il centro del sistema risorgimentale ed affermandolo sul
piano europeo. Dopo la II
guerra di
indipendenza, la conquista del Regno delle due Sicilie e
le varie annessioni, in realtà
il tema
rappresentato dalla duplice coppia riforma-rivoluzione,
continuità-rinnovamento si
evidenziò
in maniera plastica nella citata legge
sull’intitolazione del Sovrano e degli atti
normativi.
A suo tempo Carl Schmitt mise in evidenza il
compromesso ambiguo della
Reichsverfassung
del
187132, ma è indubbio che Bismarck operò molto più nella
continuità
del
principio di legittimità di quanto non avesse fatto il
Cavour. La legittimità tradizionale con
il Regno
d’Italia venne in effetti schiantata non soltanto con la
conquista-annessione, ma
soprattutto con i plebisciti33, che ammettevano in un
certo senso la volontà popolare nel
30 V. H.
Hallam, Storia costituzionale di Inghilterra : dal
cominciamento del regno di Enrico 7. alla morte di
Giorgio 2.,
prima traduzione italiana dall'originale inglese [di]
Vito D'Ondes Reggio, Torino, Pomba, 4 voll.,
1854-1855.
31 V. G.
Zanardelli, Studi sulla sessione parlamentare 1861-62,
Brescia, Apollonio, 1864.
32 V. C.
Schmitt, Dottrina della Costituzione, Milano,
Giuffrè, 1984, pp. 80 ss.
33 Su cui
v. Urtoller, Lo Statuto fondamentale del Regno
d’Italia annotato, Parte Prima:dello Stato e della
Monarchia,
cit.
momento
fondativo del regime. Come si è già osservato, Vittorio
Emanuele assunse la
denominazione di Re d’Italia (e non di Re degli Italiani
come voleva qualcuno) e conservò la
numerazione ordinale del Regno Sardo, ma
significativamente in Senato si tentò di
aggiungere
immediatamente, durante la discussione sulla legge,
l’articolo sulla formula degli
atti
giuridica, per cui il Sovrano era “per Provvidenza
divina Dio, per voto della nazione “ Re
d’Italia34.
Chi legga
gli atti parlamentari del periodo si rende conto della
tensione che covava dietro
queste
differenti dizioni e potrà trovare conferma della
costanza di alcuni difetti del nostro
ordinamento (ad es. il bicameralismo), pur nella
differenza delle basi originarie degli stessi.
5-
I
primi cinquanta anni di vicenda unitaria e
l’indebolimento progressivo dello Stato
liberale
oligarchico
5.1-
Il periodo
della Destra storica:1861-1876
Fino al
1876 il problema della innovazione istituzionale sui
livelli precedentemente accennati
si pose
sotto l’aspetto della stessa costruzione dello Stato e
di un apparato burocratico
unitario35. Stante il compromesso istituzionale
statutario il problema del tipo di Stato
(regionale, e non certo federale, o accentrato) e quello
della costruzione di un apparato
normativo
unitario venne fortemente condizionato dalle fratture
interne esistenti e dalla realtà
dei
rapporti internazionali. La situazione del deficit
pubblico , la guerra civile endemica in
alcune
aree del sud, le tensioni estreme con la Chiesa
cattolica non potevano non condizionare
un
ordinamento i cui fondamenti rappresentativi erano
estremamente esigui e frantumati in
consorterie
regionali.
Il tema
dei partiti e della stabilità degli esecutivi apparve
già negli anni Sessanta del XIX
secolo,
anche se Giuseppe Maranini ne la sua Storia del
potere in Italia ha visto nel connubio
cavourriano il prodromo dei costanti difetti italiani.36
L’accordo del febbraio 1852 tra
34 V.
Senato del Regno –Sessione del 1861-26 febbraio
-Discussione sul progetto di legge per cui S.M.
il Re
Vittorio Emanuele II assume il titolo di RE
d’Italia-pp.26 ss.
Il Ministro di Grazie e giustizia
propose,invece, di inserire l’articolo nei preliminari
del codice civile o in una legge speciale. Il
Senatore
Matteucci accettò , il Senatore Pareto dichiarò che
avrebbe preferito l’iniziativa del Parlamento
più che
quella del Governo dimodoche il titolo fosse dato più
che assunto, mentre il Senatore Vacca
precisò
che “l’idea significata non esprime(va) punto il vieto
concetto del diritto divino, ma
risponde(va) appuntino ad un sentimento istintivo ,
universale dell’umano genere” (p.31).Cavour
intervenne
per evidenziare che esistevano due sistemi di governo
(rimorchiare o essere rimorchiati) e
che non
v’era alcuna traccia di feudalesimo nella
proposta(p.32),mentre il Senatore Nomis di Pollone
faceva
approvare un o.d.g. per un progetto di legge
sull’intitolazione degli atti. Che venne approvato
(p.33-34).
35 v. R.
Romanelli, Introduzione e Centralismo e
autonomie, in “Storia dello Stato unitario
dall’Unità a
oggi, a cura dello stesso, Roma, Donzelli, 1995, pp. IX ss. e
126 ss..
36 V.
G.Maranini, Storia del potere in Italia,
Firenze,Vallecchi, 1967.
Cavour-Rattazzi, osteggiato dal D’Azeglio, si
concretizzò nel novembre successivo ed aveva
alla sua
base ragioni di politica internazionale (gli effetti del
colpo di Stato di Luigi
Napoleone
Bonaparte del dicembre precedente) e di politica interna
(l’isolamento delle
estreme).
Ma questa
impostazione rischia di precorrere in tempi ed essere di
tipo ideologico. La crisi
del
movimento risorgimentale e del suo ceto politico si
giocò, infatti, dopo la terza guerra di
indipendenza e la conquista di Roma, con la fine del
potere temporale del Pontefice. Il non
expedit
papale
(Vito D’Ondes Reggio costituisce, appunto, un simbolo
interessante del ritiro
sull’Aventino unitario di una parte degli intellettuali
cattolici che avevano cooperato
all’Unificazione) aggravò ancor più la debolezza di una
rappresentanza censitaria
estremamente ristretta.
La
sconfitta della Destra storica, impegnata su molti
fronti ma soprattutto su quello del deficit
pubblico,
ed il passaggio di potere alla Sinistra di Depretis
posero all’ordine del giorno la
questione
elettorale, che costituisce non soltanto un tema che
investe la forma di governo , ma
anche la
stessa forma di Stato.
5.2-
La
Sinistra, il trasformismo e le opzioni
autoritarie:1876-1899
Dal 1876
l’argomento dell’allargamento del suffragio e delle
riforme del meccanismo di voto
divenne
essenziale. Non è un caso che le questioni connesse del
sistema dei partiti, della
qualità
del ceto politico, del funzionamento delle istituzioni
rappresentative e burocratiche
apparvero
in modo paradigmatico proprio in quegli anni. L’opera di
Minghetti37 e le
osservazioni di Crispi 38si connettono con l’attività
critica di molti costituzionalisti (Mosca39 e
Orlando40
tra questi) nei confronti della cosiddetta polemica
contro il parlamentarismo, così
efficacemente rappresentata da Federico De Roberto ne’I
viceré e ne L’imperio41. La critica
dei
difetti di un sistema, che sembrava avere perso lo
smalto delle speranze risorgimentali,
divenne
intensa, anche in relazione al progressivo allargamento
delle disomogeneità sociali e
politiche
dell’ordinamento.
Nel
successivo venticinquennio l’avvento della sinistra legò
l’allargamento della base
elettorale
alla riforma dei sistema di votazione all’incapacità di
costruire maggioranze e partiti
37 V. M.
Minghetti, I partiti politici e la ingerenza loro
nella giustizia e nella pubblica
amministrazione,
Modena, Zannichelli,1881
38 V.
F.Crispi, Scritti e discorsi politici(1849-1890),
Roma, Unione cooperativa editrice, 1890.
39 V. G.
Mosca,Teorica dei governi e governo parlamentare,
Torino, Loescher, 1887.
40 V. V.E.
Orlando,Principi di diritto costituzionale,
Firenze, Barbera, 1889.
41
V.A.Ridolfi,L’antiparlamentarismo e i romanzi di
Federico de Roberto(a proposito del dialogo tra
giuristi e
letteratura),
in
“Nomos”, 2006.
coesi. La
formula ambigua del governo monarchico rappresentativo
(di cui all’art. 2 dello
Statuto),
che aveva dato la possibilità di interpretare la
dinamica della forma di governo in
maniera
profondamente differente nel corso del periodo
preunitario, torse la Carta
fondamentale del Regno verso un assetto di tipo liberale
rappresentativo, che lasciava al
sovrano
poteri di riserva sulla base della prerogativa regia42.
In questo
periodo,dove alla generazione che aveva costituito il
nuovo Regno se ne era
affacciata
una nuova, non soltanto i modelli costituzionali
inglese,francese e tedesco vennero
discussi
per importarne novità tradotte in italiano sulla base
delle esigenze nazionali, ma si
formò la
coscienza della necessità di una nuova ideologia
rispetto a quella precedente.
Di fronte
alle istanze ancora alienate dallo Stato unitario
del movimento cattolico, che si
preparava
con Leone XIII all’ingresso nell’arena politica in
maniera progressiva iniziando dal
basso, e a
quelle del movimento operario che utilizzava il baccello
radicale o repubblicano,
due furono
le ideologie che si proposero all’interno del sistema.
La prima e
più fortunata fu l’ideologia giuridica della personalità
dello Stato orlandiana, che
cercò di
coprire le contraddizioni che venivano evidenziate dal
contrasto tra monarchia e
rappresentanza e che si sostanziarono nei tentativi di
ritorno letterale allo Statuto nell’ultimo
lustro
degli anni Novanta del secolo XIX.
La seconda
fu quella moschiana, che descrisse in maniera lucida le
insufficienze del ceto
politico e
della classe dirigente, proponendo ipotesi di tipo
meritocratico ed efficientistico.
In questa
fase,che abbraccia successivamente gli anni Novanta,con
le ipotesi conservatrici di
Crispi e
di Sonnino, la riforma istituzionale si concentra su sul
tema dell’allargamento del
suffragio
(capacità elettorale attiva e passiva), sul sistema
elettorale in senso stretto (scrutinio
di lista e
voto limitato) e sull’ipotesi di trasformazione del
Senato. Esemplare di un
moderatismo illuminato, incapace di essere compreso
dalle contraddizioni del sistema, risultò
il
progetto di Luigi Palma,che esprimeva l’esigenza di
riequilibrare il rapporto tra i poteri
attivi
attraverso la parziale elezione del Senato da parte
delle rappresentanze locali. Si tratta di
una delle
tante ipotesi di innovazione, cui si affiancarono quelle
più decise della destra
conservatrice di istituzione di un Consiglio della
Corona (un tentativo di ritorno alla
monarchia
consultiva), indice della propensione verso il modello
tedesco.
6-
Il
primo cinquantenario tra espansione interna e esterna
42 V. E.
Rotelli, Costituzione e amministrazione dell'Italia
unita, Bologna, Il mulino, 1981.
La terza
fase della vicenda statutaria è rappresentata dal
periodo giolittiano, che si estende
dagli
inizi del secolo sino all’immediato primo dopoguerra, in
cui si inserisce la celebrazione
del primo
cinquantenario. La struttura del compromesso
monarchico-rappresentativo
incominciava palesemente a cedere sotto i colpi
dell’allargamento del suffragio maschile e
della
formazione dei partiti di massa.
Il primo
cinquantenario fu celebrato al culmine del periodo
giolittiano. Dopo i tentativi di
germanizzazione del sistema effettuati negli anni
Novanta del secolo precedente con il ritorno
allo
Statuto di Sonnino, il Governo Pelloux, le cannonate di
Bava Beccaris e l’utilizzazione
intensa
dello stato d’assedio politico avvenne la svolta.
Mutamento cruento accompagnato dal
regicidio
di Umberto I a Monza da parte dell’anarchico Bresci, ma
simbolico di una profonda
ed
inarrestabile inversione di tendenza. Il nuovo sovrano
si defilò di fronte all’unità delle
forze
politiche, mentre gli innovati regolamenti parlamentari
e lo statuto del Governo (decreto
Zanardelli) definirono i termini ed i limiti della
svolta. L’Esecutivo non interveniva nei
conflitti
di lavoro, si aprivano spiragli di Stato sociale, il
Parlamento interveniva, l’economia
si
espandeva , si pensava concretamente all’allargamento
del suffragio maschile. L’età
giolittiana definì contraddittoriamente la fine dello
Stato liberale oligarchico con la crescita
del
Partito socialista e delle sue correnti massimaliste,
con il crescente e conseguente impegno
dei
cattolici spinti da una gerarchia ecclesiastica
preoccupata e antimodernista, con una destra
insoddisfatta e pronta a lanciarsi nelle acque delle
imprese imperialiste.
Il
1910-1912 furono pieni di avvenimenti significativi.
Nell’aprile 1910 Luigi Luzzatti
successe a
Sonnino e, appoggiato anche dai socialisti che lo
abbandonarono nel dicembre, si
dichiarò a
favore della riforma elettorale, che presenterà
ufficialmente a fine d’anno, della
statalizzazione del sistema scolastico e della
eleggibilità del presidente del Senato. Il 17
marzo 1911
a Torino si ritrovarono i sindaci dei comuni subalpini,
mentre alla Camera le
parole di
celebrazione dell’on. Paniè vennero approvate dai
deputati dell’estrema sinistra,
compresi i
socialisti, avvenimento sottolineato dai quotidiani il
giorno seguente (La Stampa,
18 marzo 1911). D’altro canto proprio il 18 marzo si discusse a
Montecitorio della riforma
elettorale, mentre scoppiò una significativa polemica
per la commemorazione dell’Unità in
Campidoglio, cui non erano stati invitati i deputati.
Fuoco sotto la cenere: a dicembre venne
fondata
l’Associazione Nazionalistica Italiana, mentre l’anno
successivo iniziò il triennio del
IV Governo
Giolitti, che concretizzò il progetto di riforma
elettorale e tentò di allargare la
maggioranza sul polo del socialismo riformista
(Bissolati), rintuzzato dal massimalismo
mussoliniano, che sarà rinvigorito dall’ opposizione
all’impresa libica.
In un
simile contesto le celebrazioni del cinquantenario del
Regno videro il rafforzamento
progressivo di coloro che in origine erano stati esclusi
da quell’avvenimento e il loro ingresso
ufficiale
sulla scena. Sono, appunto, i socialisti e i cattolici,
che nel 1919 saranno gli elementi
determinanti della fase liberal-democratica e del suo
fallimento che rappresentano gli elementi
di chi non
c’era ancora nel 1861 o di chi aveva contrastato
apertamente l’Unità. Tra i
protagonisti di cinquant’anni prima rimanevano i
liberali moderati, i radicali e i repubblicani,
divisi più
di allora, mentre avanzava la destra imperialista
rappresentata dal nazionalismo
social-
darwinista.
Il 1911 si
aprì dunque con le celebrazioni tra Vittoriano e
Pantheon, ma le due questioni
prevalenti
furono da un lato l’allargamento del suffragio e la
guerra di Libia. Come dire che il
problema
della base interna e quello dell’espansione esterna del
sistema si congiunsero
pericolosamente. L’Italietta di Giolitti non poteva che
essere odiata dagli intellettuali e il patto
Gentiloni
del 1913 non poteva supportarla in maniera sufficiente
nel futuro. La guerra
mondiale,
non voluta dal Parlamento, dimostrò che la tutela
monarchica sulla forma di
governo
era sempre presente nei momenti topici e il
radiosomaggismo scosse profondamente
le
fondamenta del sistema.
Il primo
conflitto mondiale forgiò indubbiamente l’identità
nazionale del Paese, ma evidenziò
anche le
sue debolezze. L’ordinamento seppe resistere alle scosse
belliche e subì i fenomeni
di
torsione costituzionale che colpirono altri contendenti
durante il conflitto, ma dimostrò
tutta la
propria debolezza nel processo di riconversione
postbellico. I nodi precedenti vennero
al pettine
e si evidenziò palese l’incapacità della classe
dirigente ed in particolare del ceto
politico
di evitare l’implosione democratica.
7-
Il
fascismo tra continuità e nuovi riti
Con il
1919 e le prime elezioni con lo scrutinio di lista e
formula non maggioritaria iniziò la
brevissima
esperienza liberale e democratica all’interno dello
Statuto. Non è un caso che
proprio in
questo periodo, riprendendo la discussione già
prospettata negli anni Ottanta e
Novanta
del secolo precedente e poi, più seriamente, alle soglie
del primo decennio del
secolo, si
parli di riforme istituzionali. Alle proposte di Crispi
e di Sonnino si erano successe
nel tempo
quelle di Arcoleo e, poi nel 1919, di Tittoni e di
Ruffini, mentre è proprio l’assetto
della
monarchia rappresentativa che venne ridiscusso in una
prospettiva che tendeva a
modificare
non soltanto la rappresentanza fiduciaria, introducendo
elementi di rappresentanza
organica e
di partito, ma aspirava a introdurre modelli alternativi
rispetto al compromesso
risorgimentale43 .
L’impossibilità (o la mancanza di volontà) di
controllare le tendenze centrifughe portarono
alla
politica dei blocchi e all’illusione di utilizzare
temporaneamente il fascismo come
elemento
stabilizzatore del sistema. Di fronte all’impossibilità
di costruire un vero partito
conservatore contrapposto ad uno progressista
legittimato la scelta del fascismo venne
spacciata
come elemento di continuità con il processo
risorgimentale. Si trattava di una
illusione.
La politica di massa poteva essere democratica,
autoritaria o totalitaria, ma
divergeva
profondamente con l’ideale della classe dirigente
ingenua di D’Azeglio e con la
permanenza
delle stesse istituzioni statutarie.
Con il
1922 (ottobre) iniziò, dunque, la quinta fase della
vicenda statutaria con la modifica
plastica
dello stesso Statuto in senso autoritario e con la sua
rottura sostanziale attraverso le
riforme
incrementali del regime. Per l’identificazione del
momento della rottura alcuni
identificano il 1925, altri la legge 9 dicembre 1928, n.
2693, altri ancora le leggi razziali nel
1938.
In questa
prospettiva, se le celebrazioni del 1921 avevano
lasciato da parte il mito
risorgimentale, per rigenerarlo nei riti di ricordo dei
caduti e del sacrificio durante la grande
guerra,
contrapponendo gli stessi alla freddezza se non alla
ripulsa dei settori rivoluzionari,
con il
fascismo venne tralasciata ogni prospettiva liberale,
cosicché su Mosca ed Orlando
vinse
l’impostazione di Rocco, che cercò una costruzione
statolatrica adeguata alla politica di
massa, con
la fine dei conflitti sociali e la presenza di un Capo e
di un partito.
In un
simile contesto sopravvissero la Festa dello Statuto e
del 20 Settembre (invero messa in
seconda
linea dalla convergenza progressiva verso la
Conciliazione44), ma vennero introdotte
altre
significative celebrazioni che si collegavano al nuovo
regime. I nuovi riti del fascismo
evidenziarono - come ha sottolineato Emilio Gentile - il
passaggio dal culto della patria al
culto del
Littorio45. Al 24 maggio ed al 4 novembre celebrativi
della ultima guerra
risorgimentale si affiancarono infatti il 23 marzo
(fondazione dei fasci di combattimento nel
1919), il
21 aprile (fondazione di Roma), il 28 ottobre (marcia su
Roma) e poi il 9 maggio
(proclamazione dell’Impero nel 1936), nell’ambito di un
progressivo indebolimento del
43 V.
F.Lanchester,Pensare lo Stato.I giuspubblicisti
italiani nell’Italia unitaria.Roma,Laterza,2004,passim.
44
Nell’Ottobre del 1930 la celebrazione del XX settembre
venne sostituita con la ricorrenza della
Conciliazione (11 febbraio) .
45 Gentile
Le origini dell'ideologia fascista (1918-1925),
Laterza, 197; La via italiana al totalitarismo. Il
partito e
lo Stato nel regime fascista,
Carocci, 1995; Il culto del Littorio. La
sacralizzazione della politica
nell'Italia fascista
, Laterza
1993; La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX
secolo, Laterza, 2006.
compromesso diarchico tra monarchia e fascismo, che -
proprio alla fine degli anni Trenta -
stava per
collassare.
8.-
La
Costituzione repubblicana e la memoria divisa
Alle
spalle del 25 luglio, dell’armistizio e del Regno del
Sud,il decreto legge lgt. n. 151 del
giugno
1944 costituì una vera e propria costituzione
transitoria dell’ordinamento. Lo Statuto
cessò di
avere vigore con questo atto che interruppe lo stesso
rapporto tra monarca e governo,
il quale
non gli giurò più fedeltà. Si potrebbe sostenere d’altra
parte che questo atto formale
era stato
preceduto in maniera sostanziale dalla pratica
abdicazione del Sovrano il 5 giugno di
quell’anno, in applicazione del compromesso
istituzionale con i partiti del CLN, e dalla
nomina del
principe di Piemonte come luogotenente del Regno e non
più come luogotenente
del Re.
I lavori
della Costituente che furono preceduti dal referendum
istituzionale e dalle elezioni
della
stessa evidenziano la spaccatura tra le forze politiche
esistenti nel paese, ma anche la
tendenza
compromissoria per la costruzione di una casa comune che
sono verificabili nella
cosiddetta
fase di elaborazione 1946-47. Essa è stata la più
studiata per le sue implicazioni
interne ed
esterne. In occasione del XXX anniversario si è teso ad
esaltare il momento interno
del
compromesso, evidenziando l’accordo che aveva portato
all’approvazione del teso
costituzionale da parte delle maggiori formazioni
partitiche di massa. Tra il 1948-1954 venne,
invece,
operato il tentativo di utilizzare lo strumento
elettorale per stabilizzare le maggioranze
attorno al
partito pilone (la DC), ma anche in funzione di una
modifica intensa della
Costituzione.
Dopo il
fallimento della manovra elettorale del 1953 la
prospettiva alternativa fu quella di
utilizzare
la Costituzione e la sua attuazione al fine
dell’integrazione di tutte le forze
all’interno del sistema (prima il PSI, rinsecchimento
del PCI; applicazione del principio
maggioritario-minoritario per superare la conventio
ad excludendum). Il primo decennale
della
liberazione venne significativamente vissuto da alcuni
come secondo Risorgimento, da
altri come
rivoluzione tradita, da altri ancora come rivoluzione
mancata.
9-
Il
centenario
Tuttavia
con il 1955 si riaprì la strada del colloquio
istituzionale anche grazie al disgelo
internazione. In un simile clima che tiene conto della
crisi del centrismo, della progressiva
applicazione della Costituzione e della contraddittoria
apertura verso il centro sinistra si
collocarono le celebrazioni del centenario nel 1961, che
dimostrarono una maggiore
consapevolezza del senso di appartenenza, dimostratosi
diviso in occasione del primo
decennale
della Liberazione.
In misura
maggiore o minore il sistema era agli inizi degli anni
Sessanta strutturato da grandi
partiti
nazionali che si richiamavano al Risorgimento (il Pci
basava la sua ideologia
sull’interpretazione della storia d’Italia e
sull’intervento delle masse popolari), che avevano
contribuito a redigere la Costituzione repubblicana e
che negli anni 50 erano risaliti dal
baratro
della guerra fino a raggiungere l’oscar per la lira.
Dopo lo
sbandamento Tambroni con la rottura della convenzione
che escludeva in partiti non
dell’arco
costituzionale dal Governo, in continuità con il disgelo
costituzionale dal fallimento
della
cosiddetta legge truffa, quei soggetti pensarono di
poter sviluppare l’ordinamento
nell’alveo
dei valori e dei principi della Costituzione
Repubblicana. Cinquanta anni fa le
celebrazioni si fecero in Italia, ma anche a Washington.
Sulla prima pagine de la Stampa del
18 marzo
possono, infatti, trovarsi tre significativi articoli
che danno l’immagine del periodo .
Il primo è
un fondo di Lugi Salvatorelli che sostenne come
“l’'ideale politico unitario [fosse]
già
perfetto nel 1799” cosicché “le tre linee
dell'indipendenza, libertà, unità”-svoltesi
“smussamente durante la Restaurazione” - si sarebbero
intrecciate nel tentativo (fallito) di
unità
confederale nel 1848, per poi stringersi insieme
portando “alla fondazione dello Stato
unitario
italiano”.
Impostazione invero orientata quella di Salvatorelli,
tipicamente azionista, che deve essere
appoggiata
alla cronaca della celebrazione organizzata, non a Roma
ma a Washington,
dall’ambasciatore Manlio Brosio alla presenza del
presidente Kennedy. Il ricordo va a
D’Azeglio
e al fatto che nelle Assemblee parlamentari 1861 si era
fatto riferimento alle
potenze
europee (Gran Bretagna,Francia e Prussia) e nel 1961 la
contrapposizione vedeva la
celebrazione negli Usa.
Il terzo
articolo presente sulla prima pagina de “La Stampa”
riportava, invece, l’aspro
dibattito
interno al Psi sull’apertura alla DC per l’ipotesi di
un’alleanza di centro-sinistra, con
l’opposizione intensa di Vecchietti e Basso
all’autonomismo nenniano. I prodromi della crisi
stanno
proprio qui. Una parte del Psi, quella che esalta l’URSS
e la sua capacità propulsiva, si
accompagna
alla posizione del Pci che teme di essere emarginato,
mentre la classe dirigente e
il ceto
politico moderato temono i risultati dell’apertura a
sinistra46. Il fallimento dell’ipotesi
riformista
alla fine degli anni Sessanta introdusse, con il
completamento della costruzione
costituzionale su basi consociative, alla lunga
estenuante transizione che dal 1969 non porta
46 V. sul
clima v. ora M. Franzinelli, Il piano Solo: i servizi
segreti, il centro-sinistra e il golpe del 1964,
Milano,
Mondadori, 2010.
all’integrazione del maggior partito di opposizione, ma
all’involuzione del sistema, sino alla
crisi del
regime partitocratico senza controlli del 1992-93.
10-
La
transizione infinita tra crisi di regime e crisi di
riallineamento
Il
fallimento dell’opzione di centro-sinistra e la
sostanziale applicazione del modello
costituzionale portarono alla stagione degli equilibri
più avanzati e alla fase definita
consociativa (1970-1978) con l’approvazione dei nuovi
regolamenti parlamentari, degli statuti
regionali,
ma anche di normative fortemente incisive sul piano
sociale (legge sul divorzio da
cui deriva
anche l’applicazione del referendum, Statuto dei
lavoratori), nell’ambito della
maggiore
redistribuzione del reddito che sia mai esistita in
Italia (favorita anche
dall’inflazione derivante dalla crisi
internazionale:dollaro; oil crisis).
Dopo
l’esperienza dei governi di unità nazionale e lo scoppio
del terrorismo, la mancata
inserzione
ufficiale del Pci all’interno del Governo portò, in
correlazione con il modificarsi
della
situazione internazionale (Thatcher, Reagan), al ritorno
ai governi di coalizione di
centro-sinistra (ma vi sono anche episodi di
centro-destra), mentre il problema istituzionale
assurse
come punto centrale del dibattito. Non si fecero le
grandi riforme, ma se ne discusse
(v. la
Commissione Bozzi), si riformarono i regolamenti
parlamentari e si approvò la legge
sulla
Presidenza del Consiglio.
Ma intanto
la crisi stava covando a livello internazionale, europeo
ed interno. Ne venne fuori,
sulla base
di Tangentopoli, ma anche dei referendum abrogativi la
destrutturazione del regime
partitocratico non regolato che aveva caratterizzato il
cinquantennio precedente. Attenzione
quanto
parlo di partitocrazia mi riferisco alla degenerazione
dello Stato dei partiti regolato,
che per
una serie di ragioni derivanti dalla natura delle forze
politiche presenti non aveva
potuto
neppure essere impostato.
Siamo
all’oggi, con il mancato riallineamento del sistema
partitico e con il fallimento
dell’ipotesi di Grande riforma portata avanti dalla
Commissione bicamerale D’Alema (1997).
Le
istituzioni sono divenute oggetto di un contrasto che
vede tutti dichiarare la necessità
dell’innovazione , ma anche la presenza del sospetto
reciproco.
Le riforme
Bassanini a Costituzione vigente (1997) e poi la
revisione del Titolo V della Cost.
(2001)
hanno avuto giustificazioni sistemiche, ma sono anche
state sintomi della paura
reciproca
dei partners. La riforma costituzionale per la
prima volta stata operata a
maggioranza con effetti boomerang per quanto riguarda la
riforma dell’intera parte seconda
della
Cost. (2005) e dello stesso sistema elettorale (2005).
La
reiezione da parte del Corpo elettorale della riforma
costituzionale del 2005 sembra avere
bloccato
il processo innovatore. I partners sono intervenuti
in maniera consensuale nel ridurre
i soggetti
parlamentari (2008) ed hanno modificato in senso
selettivo il meccanismo elettorale
per il
Parlamento europeo, ma la scarsa coesione delle nuove
formazioni di partito ha
comportato
una moltiplicazione dei gruppi parlamentari.
In questa
situazione di perenne incertezza ed attesa tutti i riti
e i simboli unitari vennero
progressivamente contestati. Negli anni Settanta la
festa della Repubblica e il 4 novembre
furono
derubricati, mentre il 25 aprile venne contestato (non
soltanto dalla destra neofascista)
come
rappresentativo non tanto della conclusione del II
Risorgimento, come veniva proposto
dai
governi centristi nel primo decennio, ma come guerra
civile e conflitto di classe, difficili
da
conciliare con la difesa del sistema negli anni della
lotta contro il terrorismo.
Nel 2001,
in connessione con la vittoria del polo moderato
composto da Forza Italia, Alleanza
Nazionale
e Lega, il presidente della Repubblica Carlo Azeglio
Ciampi, di origini azioniste,
ha
proposto un’azione forte sui simboli dell’Unità
nazionale, che ha trovato sponde
trasversali. Ma i fenomeni di devoluzione, integrazione
e globalizzazione hanno trovato
davanti a
sé una classe dirigente ed un ceto politico frammentato
ed incapace di superare la
crisi di
riallineamento post-1993 per cui le tensioni
sull’identità nazionale e sui simboli
politici
dell’ordinamento non scema, ma anzi cova come
infiammazione cronica.
11-
Conclusioni
La tesi
che ho voluto sostenere in queste pagine è che nel
nostro ordinamento la capacità
egemonica
della classe dirigente e del ceto politico di recuperare
un sentimento comune di
appartenenza come elemento essenziale della formula
politica si è abbassata
progressivamente e che oggi è, apparentemente, giunta a
livelli minimi. Il tema simbolico
delle
celebrazioni dell’Unità d’Italia costituisce di questo
una cartina di Tornasole. Nel 1861
gli atti
dei protagonisti furono nonostante le difficoltà del
processo unitario conseguenti:
esistevano
profonde fratture, ma le élites risorgimentali si
mossero coerentemente rispetto ai
valori
dell’ordinamento, rappresentati dal compromesso che
aveva una faccia moderata
perché il
processo condotto da Casa Savoia rassicurava sulla
continuità e, nello stesso tempo,
era
rivoluzionario perché scardinava la legittimità
tradizionale delle altre dinastie. Le leggi nn.
1 e 7 del
nuovo Regno certificarono, come si è visto, una simile
situazione in maniera
plastica.
Dopo vent’anni nel 1881 l’ampliamento del suffragio mise
in pericolo quel
compromesso instabile e la crisi del parlamentarismo
rappresentò le contraddizioni del
sistema,
portando alle tensioni plebiscitario- autoritarie di
tipo crispino, ma anche alle risposte
ideologiche di Orlando e di Mosca. L’alternativa teorica
tra classe politica e teoria della
“personalità dello Stato” costituì in modo differente il
tentativo di stabilizzare il sistema sul
lato dello
Stato liberale oligarchico.
Nel 1911
le tensioni interne - al di là delle celebrazioni -
registrarono la tendenza al
superamento - archiviazione del compromesso del 1861
sulla base dell’inclusione
rappresentata dal suffragio universale. Estensione del
suffragio e tentativi di inglobare i nuovi
protagonisti costituirono il tentativo di formare un
nuovo blocco egemonico. Le aperture ai
socialisti
riformisti (Bissolati) e il patto Gentiloni (1913)
costituirono il difficile tentativo di
formare un
nuovo blocco , che si scontrò con la guerra mondiale e
la consapevole esigenza di
parte
della borghesia italiana di applicare schemi social
darwinisti (Rocco), che trovarono
espressione organica nel fascismo .
Dopo la II
guerra mondiale lo Stato dei partiti di massa risultò
costitutivo della stessa società
civile e
pervasivo delle istituzioni. Nonostante le divisioni su
Costituzione e antifascismo si
riuscì a
trovare un punto di convergenza, che - però- venne
indebolito oltre ogni modo dalla
transizione post-1969, fino a sovrapporre trasformazioni
comuni a tutti gli ordinamenti
europei
con specifici elementi di crisi nazionale.
Ciò che è
stato narrato all’inizio di queste pagine evidenzia le
difficoltà e le debolezze della
situazione
e dei soggetti protagonisti,con ricadute imbarazzanti
sulla stessa tenuta
istituzionale. Nella sua Storia d’Italia 47 Guido
Carocci sostenne che in Italia mancava ogni
capacità
egemonica e che i gruppi contrapposti non riuscivano a
prevalere. Una simile
descrizione a circa trentacinque anni di distanza può
essere ancora sottoscritta ed evidenzia la
sostanziale incapacità di indirizzare società e
istituzioni verso il rinnovamento incisivo sia
all’interno che all’esterno del quadro costituzionale.
A
Monteveglio nel 1994 Giuseppe Dossetti, preoccupato per
lo sgretolarsi dei soggetti
politicamente rilevanti posti a base del testo
costituzionale, aveva suggerito di esternalizzare i
valori
della stessa48. In questa prospettiva si sono mossi
anche costituzionalisti come
Leopoldo
Elia e Valerio Onida cercando di radicare l’ordinamento
democratico e il
compromesso valoriale della Costituzione in Europa e nel
processo di costituzionalizzazione
del
diritto internazionale. Simili tentativi rappresentano
la consapevolezza della gravità di una
situazione
di degrado morale e istituzionale che ha pochi
precedenti. I segnali che vengono
dal
sistema politico-costituzionale e dalla stessa società
civile continuano ad essere non
47 V. G.
Carocci, Storia d’Italia dall’Unità ad oggi,
Milano, Feltrinelli, 1975.
48 V. G.
Dossetti, La Costituzione italiana. Il valore di un
patrimonio, in Aggiornamenti sociali, n. 11
(novembre)
1994, pp. 697 ss.
incoraggianti, ma coerenti con lo sfarinamento
istituzionale, economico e sociale, che fa
paventare
ad alcuni il timore della crisi societaria.
L’analisi
effettuata evidenzia, però, che molte di queste
difficoltà non sono fondate solo su
elementi
reali sebbene su contrapposizioni personali o di gruppi
ed ingigantite dai canali
mediatici.
La migliore medicina sta, forse, nella consapevolezza
dei pericoli che tutti
rischiano
di correre se persiste una tensione autodistruttiva. Lo
Stato nazionale in ambito
europeo è,
infatti, divenuto sempre più parte di una costruzione di
integrazione multilivello.
Vi possono
essere ordinamenti che perdono la capacità di stare
assieme disgregati da forze
centrifughe, ma è opportuno sapere che una simile
debolezza si paga in termini di sviluppo e
di
competitività, con il rischio di essere emarginati dallo
stesso contesto europeo, che oramai
rappresenta l’unico argine allo tsunami della
globalizzazione per l’area in questione.
È per
questo che, di fronte ad una bassa consapevolezza
dell’identità comune, può risultare
errato
accentuare i contrasti come si fa in un contenitore
televisivo. È necessario,invece,
individuare punti semplici ed essenziali di convergenza
per una progressiva e definitiva
normalizzazione dell’ordinamento. Il caso tedesco
insegna che è possibile farlo con successo,
se si
vuole. La Bildungspolitik non si improvvisa e
neanche la classe dirigente e il ceto
politico,
che - con ogni probabilità - continuerà a litigare fino
al prossimo anniversario, perché
l’unità
nazionale nel 2011 non è solo un simbolo, per cui si
deve anche sacrificare la vita
(come
molti hanno fatto in questi 150 anni), ma anche un
obbiettivo interesse di coloro che di
essa fanno
parte. |