(Laureata in Diritto
pubblico comparato,
Università Suor Orsola
Benincasa)
Sommario: 1.Natura
giuridica e limiti dell’elettorato – 2.(segue):
la ratio come criterio distintivo tra
incompatibilità ed
ineleggibilità – 3.L’attività della Corte Costituzionale
tra la discrezionalità legislativa ed un
parametro
costituzionale indeterminato – 4.Il canone della
ragionevolezza e le deroghe alla tendenziale
uniformità, sul
territorio nazionale, della disciplina in materia di
elettorato passivo – 5.Le elezioni quale fulcro
dell’intero sistema
rappresentativo.
1.Natura giuridica e
limiti dell’elettorato.
Il diritto di
elettorato, inteso sia in senso attivo che passivo,
rappresenta uno dei diritti
fondamentali
dell’individuo ed, in quanto tale, qualsiasi sua
restrizione è tenuta a rispettare
dei rigidi canoni,
affinché essa si possa ritenere legittima e
“ragionevole”1. Tale principio
1 In questo senso,
ex multis, L. ELIA, Incertezza di concetti e di
pronunzie in tema di ineleggibilità nella
giurisprudenza più
recente della Corte Costituzionale,
in Giur. cost.,
1972, 1046; C. DE CESARE,
Incompatibilità ed
ineleggibilità parlamentari,
in Enc. giur.,
Roma, 1989, 1.
Minoritaria appare la
tesi di S. FURLANI, Elettorato passivo, in
Noviss. Digesto it., VI, 453, secondo cui
“non esiste un
diritto elettorale passivo corrispondente al diritto
elettorale attivo, ma solo la capacità
giuridica di essere
eletto, per cui al cittadino è riconosciuta la
titolarità individuale del diritto al mero
accesso alla carica
elettiva. L’eleggibilità non può pertanto configurarsi
quale diritto soggettivo
emerge in maniera
evidente dall’esame della sentenza in commento, la quale
offre
innumerevoli spunti
per esaminare gli istituti dell’ineleggibilità e
dell’incompatibilità, con
particolare attenzione
alla ratio sottesa agli stessi ed alla misura in
cui possa dirsi legittima la
limitazione del
diritto di elettorato.
Nel giudizio
conclusosi con la sent. 283/2010 la Corte Costituzionale
è stata chiamata a
pronunciarsi sulla
presunta illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma
1, lettera r) della
legge della Regione
autonoma Valle d’Aosta 7 agosto 2007, n. 20, per
contrasto con gli artt. 3
e 51 della
Costituzione, nella parte in cui la norma in questione
commina “l’ineleggibilità nei
confronti del legale
rappresentante e dei direttori della struttura sanitaria
o socio-sanitaria
privata che
intrattengano rapporti contrattuali con l’Azienda
regionale USL della Valle
d’Aosta, anziché
stabilire una causa di incompatibilità”.
Tale è il quesito che il giudice a quo,
nel caso di specie la
Corte di Cassazione, ha sollevato innanzi alla Corte
Costituzione.
La Consulta ha
ritenuto quindi opportuno, per dirimere la questione,
ricostruire la nozione di
ineleggibilità e di
incompatibilità. Di conseguenza, la prima è stata
definita come “la
situazione idonea a
provocare effetti distorsivi nella parità di condizioni
tra i vari candidati,
nel senso che il
soggetto non eleggibile può variamente influenzare a suo
favore il corpo
dell’individuo, ma
solo quale capacità giuridica di presentare la propria
candidatura elettorale”.
Condivide il medesimo
orientamento G. FERRARI, Elezioni (teoria generale),
in Enc. dir., Milano, 1987,
XIV, 639, il quale
ritiene che non sia possibile parlare genericamente di
un diritto di elettorato, non
essendo né
sovrapponibili né assimilabili le situazioni giuridiche
discendenti dall’elettorato attivo e da
quello passivo.
Infatti, l’elettorato
attivo si configurerebbe, allo stesso tempo, come una
potestà con riferimento al corpo
elettorale; un diritto
soggettivo con riguardo ai singoli elettori; una
funzione, ponendo attenzione allo
svolgimento della
potestà.
Al contrario,
l’elettorato passivo è delineato dall’Autore come
capacità giuridica di accedere alla carica
elettiva, suscettibile
di assumere la natura di diritto soggettivo solo una
volta individuato il risultato
dell’elezione.
Esclusivamente in questo momento il candidato potrebbe
vantare un diritto di elettorato
passivo, inteso come
diritto dell’eletto ad ottenere l’investitura.
Tale tesi non appare,
però, condivisibile in considerazione della confusione
che determina tra capacità
elettorale passiva ed
elettorato passivo, nonché dell’interpretazione
eccessivamente riduttiva dell’ambito
dell’elettorato
passivo.
In giurisprudenza,
riconducono il diritto di elettorato passivo nella sfera
dei diritti inviolabili sanciti
dall’art. 2 Cost.: cfr. Corte Cost., 26 marzo
1969, n. 46, in Giur. cost., 1969, I, 547; Corte
Cost., 2
febbraio 1990, n. 53,
ivi, 1990, I, 215; Corte Cost., 22 dicembre 1989,
n.571, ibidem, 1989, II, 2635.
Singolare, invece, la
tesi sostenuta dalla commissione europea dei diritti
umani, la quale, chiamata a
pronunciarsi sulla
natura del diritto di elettorato inteso in senso lato
e comprensivo del diritto a
partecipare ad
elezioni regolari, ha ritenuto che si trattasse di un
diritto politico per il quale non potessero
essere apprestate le
tutele dell’art. 6 della CEDU. Tale pronuncia della
commissione sembra trovare la
propria
giustificazione nell’intenzione dei redattori della
convenzione di limitare le garanzie dell’art. 6
alle sole situazioni
di diritto privato, escludendo invece quelle di diritto
pubblico. Alla luce di tale
pronuncia sarebbe,
quindi, esclusa la natura di civil right del
diritto di elettorato e con ciò sarebbe esclusa
la possibilità di un
controllo del sistema stabilito in Italia per il
contenzioso elettorale politico. Per un
approfondimento, v. A.
PERTICI, Spunti per una migliore regolamentazione ed
una più completa
trasparenza delle
cause di ineleggibilità e delle situazioni di conflitto
di interessi,
in Foro it., 1998, III,
310.
elettorale”,
mentre la seconda è stata individuata quale “una
situazione che non ha riflessi
nella parità di
condizioni tra i candidati, ma che attiene alla concreta
possibilità di esercitare
pienamente le funzioni
connesse alla carica anche per motivi concernenti il
conflitto di
interessi nel quale il
soggetto verrebbe a trovarsi se fosse eletto”.
Con tali laconiche
definizioni la Corte
ha confermato, ancora una volta, quella che è ormai la
consolidata
distinzione tra i due
istituti operata dalla dottrina e dalla giurisprudenza
maggioritaria;
tuttavia, appare
interessante ricostruire l’evoluzione nel tempo di
questi due concetti giuridici
al fine di comprendere
come qualsiasi definizione data in materia sia
tutt’altro che granitica,
essendo invece
destinata ad evolversi congiuntamente alle modifiche del
sistema
rappresentativo ed
alle forme di governo.
Per lungo tempo i
vocaboli ineleggibilità ed incompatibilità sono stati
usati promiscuamente;
tale confusione emerge
in maniera evidente laddove dagli atti dell’Assemblea
Costituente è
possibile leggere
quanto sostenuto dal Mortati stesso, secondo cui “la
parola ineleggibilità è
impiegata per
esprimere due diverse situazioni: una discendente da
indegnità, per condanne,
un’altra collegata al
possesso di date cariche. Alcune di queste cariche sono
ritenute
preclusive della
possibilità di presentazione della candidatura nelle
elezioni politiche, altre
solo nell’esercizio
della funzione di deputato. Le ultime danno vita alle
incompatibilità in
senso stretto.
Bisognerebbe giungere ad includere nel concetto di
incompatibilità anche le
ineleggibilità del
secondo tipo”2.
Di tale
disorientamento è possibile rinvenire traccia anche
successivamente, laddove dagli
Atti della Camera,
relativi al periodo immediatamente successivo
all’entrata in vigore della
Costituzione, è
possibile evincere che “l’ineleggibilità può
comportare e comporta, talvolta,
l’inconciliabilità che
è una condizione assoluta e radicale di incompatibilità”.
In tale confuso e
caotico contesto la Corte Costituzionale ha assunto un
ruolo fondamentale
nel ricostruire, in
primis, il rapporto tra l’elettorato passivo e le
sue limitazioni; oltre che nel
sistematizzare i
concetti di ineleggibilità ed incompatibilità, che per
tradizione storica e
giuridica sono stati
spesso affrontati e trattati congiuntamente, quasi che
tra i due sussista un
nesso di
inscindibilità, sebbene la Costituzione, agli artt. 65,
66 e 112, li abbia sempre
richiamati
autonomamente e separatamente3.
2 V. ATTI ASSEMBLEA
COSTITUENTE, Commissione per la Costituzione, II
Sottocommissione, Discussione,
18 settembre 1946, 1032,
richiamati anche da G. BUONOMO, La trasformazione
delle cause di
ineleggibilità
sopravvenuta in cause di incompatibilità,
in Nuova rass., 2004, 2632.
3 In questo senso,
l’Onorevole Ruini, quale Presidente della Commissione
per la Costituzione, affermava:
“ineleggibilità ed
incompatibilità è una formula inscindibile e classica
che si completa e suona bene nelle
costituzioni” (v. Atti dell’Assemblea Costituente, 10 ottobre 1947, 1097).
Da un rapido
excursus della giurisprudenza della Corte è
possibile evincere come la stessa,
sin dal principio
degli anni Sessanta, abbia costruito il rapporto tra
diritto di elettorato passivo
e cause di
ineleggibilità ed incompatibilità come un rapporto tra
regola ed eccezione4. Tale
elaborazione giuridica
rinviene il proprio fondamento nell’art. 51 Cost.,
laddove si prevede il
diritto di tutti i
cittadini dell’uno e dell’altro sesso di accedere agli
uffici pubblici ed alle
cariche elettive in
condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti
dalla legge5.
Concordi anche V. DI
CIOLO, Incompatibilità ed ineleggibilità
parlamentari, in Enc. dir., XXI, Milano,
1971, 41; A. POLICE,
Ancora una pronuncia in tema di ineleggibilità ed
incompatibilità alle cariche
elettive degli enti
locali, in
Giur. it., 1994, 1, 527; G. FERRARI, Elezioni
(teoria generale), cit., 645,
secondo il quale,
sebbene incompatibilità ed ineleggibilità siano spesso
state trattate congiuntamente, esse
appartengono a campi
diversi. Le ineleggibilità si collocherebbero, infatti,
nello stato patologico della
materia elettorale. Al
contrario, le incompatibilità non sarebbero inerenti ad
una patologia dell’atto
elettivo, ma ad una
inconciliabilità tra due o più cariche.
L’incompatibilità implicherebbe, dunque, un
concetto di relazione
tra due o più termini, assente nell’ipotesi di
ineleggibilità.
Più recentemente, A.
BIANCO, I limiti dell’elettorato passivo nella
giurisprudenza costituzionale, in Giur.
cost.,
2000, II, 1967,
secondo cui gli “innegabili elementi di omogeneità
teleologica tra i due istituti
suggeriscono una
differenza solo quantitativa, relativamente alla gravità
della sanzione, tra cause di
ineleggibilità ed
incompatibilità”.
Tale affermazione appare non condivisibile in
considerazione del fatto
che, sebbene sia
innegabile il nesso funzionale tra i due istituti, la
stessa Corte Costituzionale e la dottrina
maggioritaria hanno
affermato con insistenza la differenza tra
incompatibilità ed ineleggibilità, come si
avrà modo di osservare
nel prosieguo del presente studio.
4 In dottrina, vi è
chi rileva che la Corte costituzionale, prima delle
sent. n. 46/1969 e n. 166/1972, aveva
evitato di esprimersi
in materia di diritto elettorale in quanto “bloccata
da un certo timore reverenziale
per la politicità
della materia, assai evidente anche in tema di elezioni
amministrative” (così, L. ELIA,
Incertezza di concetti,
cit., 1046).
Ad oggi, il rapporto
di regola ed eccezione delineato con queste prime due
pronunce appare condiviso
all’unanimità ed è
riconfermato dalla Consulta anche nella pronuncia in
esame laddove si afferma che
“costituisce
principio costantemente affermato dalla giurisprudenza
costituzionale quello secondo cui
l’eleggibilità
costituisce la regola, mentre l’ineleggibilità
rappresenta una eccezione; sicché le norme che
disciplinano
quest’ultima sono di stretta interpretazione”.
5 Inoltre, l’art. 51
Cost. prevede che, affinché tutti i cittadini dell’uno e
dell’altro sesso possano accedere
alle cariche elettive
in condizioni di eguaglianza, la Repubblica promuova con
appositi provvedimenti le
pari opportunità tra
uomini e donne. Tale disposizione appare così formulata
a seguito della novella
apportata dalla l.
cost. 1/2003, che ha inteso dare copertura
costituzionale ai provvedimenti che si
intenderà adottare in
tema di cd. democrazia paritaria.
Si tratta di una norma
con portata precettiva e non meramente programmatica,
tesa a risolvere la delicata
problematica della
presenza delle donne negli organi collegiali elettivi,
nonché nelle liste elettorali. La
modifica dell’art. 51
Cost. appare come il punto di arrivo di una lunga serie
di interventi legislativi; il
primo dei quali si è
avuto con la l. 125/1991 avente ad oggetto “Azioni
positive per la realizzazione della
parità uomo-donna nel
lavoro”.
Sulla base di tale legge sono stati adottati una serie
di provvedimenti
normativi che
tutelavano la presenza della componente femminile negli
organi elettivi stabilendo delle
quote di
partecipazione all’interno delle liste elettorali. Sulla
questione è poi intervenuta la Corte
Costituzionale, con
sent. 422/1995, stabilendo l’illegittimità
costituzionale della normativa che pone
limiti di “quote-rosa”
per contrasto con il principio di eguaglianza, di cui
all’art. 3 Cost.
Infatti, in questo
caso il principio di eguaglianza si pone, in primis,
come regola di irrilevanza giuridica
del sesso, regola
ribadita dall’art. 51 Cost. In secondo luogo,
l’appartenenza al genere maschile o
femminile non può mai
essere previsto come requisito di eleggibilità o di
candidabilità. Infine, va
precisato che l’art.
51 Cost. pone un principio di assoluta parità, cosicché
qualsiasi differenziazione in
ragione del sesso
costituisce oggettivamente una discriminazione.
A seguito di tale
pronuncia della Corte, il legislatore è intervento
proprio sull’art. 51 Cost. al fine di
garantire l’impegno da
parte della Repubblica a rendere eguale l’accesso agli
uffici pubblici per i cittadini
di entrambi i sessi.
L’attuazione di tale principio è rimessa anche alle
regioni ed agli enti locali. Questi
ultimi hanno fornito
parziale attuazione al precetto costituzionale mediante
l’art. 6 del D.Lgs. 267/2000,
L’obiettivo, dunque,
del Costituente è stato quello di realizzare l’effettiva
partecipazione di
tutti i lavoratori
all’organizzazione politica della Repubblica,
concretizzando il principio di
eguaglianza
sostanziale di cui all’art. 3, comma 2, Cost6. Alla luce
di tale concezione, le
limitazioni al diritto
di elettorato passivo sono legittime nei termini in cui
siano indispensabili
alla tutela di altro
diritto costituzionalmente garantito. Si pone, quindi,
quello che la Corte
Costituzionale stessa
individua come un problema di bilanciamento tra il
diritto di elettorato e
gli altri diritti che
rinvengono il proprio fondamento in Costituzione7.
2. (segue): la ratio
come criterio distintivo tra incompatibilità ed
ineleggibilità.
L’art. 51 Cost. non
può costituire il fondamento di una protezione
illimitata del diritto del
cittadino ad essere
eletto, anche tale situazione giuridica è destinata ad
incontrare dei limiti: il
punto è, allora,
quello di distinguere le differenti limitazioni che si
possono rinvenire. E’
necessario, infatti,
comprendere quando sia legittimo comprimere l’elettorato
passivo
mediante le differenti
ipotesi di ineleggibilità ed incompatibilità.
Nell’effettuare tale
ricostruzione un
criterio che può essere di aiuto è quello di analizzare
la ratio di simili
situazioni giuridiche.
In relazione a questo
ultimo aspetto, va rilevato come la Corte Costituzionale
non abbia, sin
da subito, delineato
con pienezza la differenza tra i diversi istituti della
ineleggibilità e della
incompatibilità.
laddove si prevede che
gli statuti provinciali e comunali stabiliscano
disposizioni volte a promuove la
presenza di entrambi i
sessi nelle giunte e negli organi collegiali.
Per un
approfondimento, v. E. MAGGIORA, Il rispetto del
principio delle pari opportunità
nell’ordinamento
elettorale,
in Stato civ. it., 2009, XI, 850.
6 La Corte
Costituzionale ha spesso ricordato che la regola
generale dettata dalla Costituzione in materia
di elettorato passivo
è rappresentata dalla più ampia apertura a tutti i
cittadini (v. Corte cost., 30
novembre 1989, n. 510,
in Giur. cost., 1989, I, 2367, secondo cui “
le limitazioni poste dalla legge
ordinaria, avendo
carattere di aperta eccezione ad un principio
costituzionale, non sono consentite se
non trovano precisa
giustificazione in criteri di razionalità”).
7 In dottrina, V. DI
CIOLO, Incompatibilità ed ineleggibilità
parlamentari, cit., 44, il quale ritiene che la
discrezionalità del
legislatore nel limitare l’eleggibilità debba arrestarsi
nel momento in cui essa possa
collidere con il
principio di eguaglianza ovvero non sia posta in
funzione del perseguimento di fini
costituzionali.
Più recentemente, A.
BIANCO, I limiti all’elettorato passivo nella
giurisprudenza costituzionale, cit.,
1959, secondo il quale
bisogna valutare volta per volta se il bilanciamento tra
diritto di elettorato passivo
e gli interessi
costituzionalmente protetti sia ispirato a criteri di
ragionevolezza.
Va, in questa sede,
rilevato che la giurisprudenza costituzionale nel
vagliare la ragionevolezza del
bilanciamento operato
dal legislatore ricorre all’utilizzo del metodo
induttivo, verificando caso per caso
quale sia la ratio
della limitazione dell’eleggibilità (cfr.,
Corte cost., 6 maggio 1994, n. 141, cit., 1395),
fermo restando che la
causa di ineleggibilità deve trovare nel sistema un
fondamento giustificativo e
criteri univoci che
permettano di individuarne la portata con la
desiderabile chiarezza (così, Corte cost.,
166/1972). Concorde
anche la giurisprudenza di merito; v. Trib. Larino, 25
luglio 2006, n. 316, in Giur.
mer.,
2000, 2735, con nota di N. MONFREDA, La legittimità
dei limiti al diritto di elettorato passivo ex
art. 51
D.Lgs. 18 agosto 2000, n.267,
ivi,
2736.
Alla confusione sorta
in sede parlamentare e di Assemblea Costituente è,
infatti, seguito un
periodo di incertezza
dei giudici della Consulta, che hanno più volte
sovrapposto queste due
figure, invece di
marcarne i confini8. Negli anni Sessanta è possibile
imbattersi ancora in
pronunce della
Consulta in cui i giudici usano indifferentemente i
termini ineleggibilità ed
incompatibilità,
ovvero ne confondono la ratio9. Sembrerebbe quasi
che i giudici della Corte
si siano preoccupati,
soprattutto in questa prima fase, di affermare con forza
la non
comprimibilità
dell’elettorato passivo, piuttosto che di operarne una
tutela distinguendone in
maniera chiara le
figure limitative. A conferma di tale supposizione, si
pone la constatazione
che la svolta nella
ricostruzione di questi due istituti si è avuta, in
maniera netta, solo con la l.
23 aprile 1981, n. 154 in
materia di enti locali.
Con tale disciplina
normativa il legislatore ha dimostrato di adeguarsi a
quelle che erano state
le indicazioni fornite
dalla Corte Costituzionale sino ad allora, in
particolare merita di essere
segnalata la
restrizione delle sfera di operatività della
ineleggibilità in favore
dell’incompatibilità.
Il legislatore sembra, dunque, aver recepito le istanze
dei giudici della
Consulta nel
considerare il diritto di elettorato attivo e passivo
come un diritto fondamentale
suscettibile di essere
limitato solo in casi estremi10.
Parallelamente ad una
simile scelta del legislatore, la Corte Costituzionale è
intervenuta
delineando, una volta
per tutte, con certezza i confini dei due istituti;
individuando la ratio
dell’ineleggibilità
nella volontà di prevenire indebite influenze sulla
volontà degli elettori,
nonché identificando
il fine ultimo dell’incompatibilità nell’eliminazione
dei conflitti di
interessi ovvero degli
elementi suscettibili di perturbare l’esercizio della
carica11.
8 In dottrina, V. DI
CIOLO, Incompatibilità ed ineleggibilità
parlamentari, cit., 44; A.C. SORRENTINO, Le
cause di
ineleggibilità ed incompatibilità nelle elezioni
amministrative,
in Giur. mer., 2008, fasc. 3, 888,
la quale, evidenziando
le incertezze del legislatore nel distinguere le varie
figure limitative dell’elettorato
passivo, suggerisce di
guardare alle conseguenze giuridiche, al fine di
pervenire ad una corretta
distinzione; in quanto
l’ineleggibilità rende insanabilmente nulla l’elezione,
mentre l’incompatibilità non
influisce sulla
validità delle operazioni elettorali, ma impone al
candidato di scegliere tra il mandato
elettivo e l’altra
carica incompatibile.
9 Cfr., Corte
cost., 11 luglio 1961, n. 42, in Giur. cost.,
1961, 965; Corte cost., 26 marzo 1969, n. 46, cit.,
547; nonché Corte
cost. 38/1971 in cui la ratio delle cause di
ineleggibilità è individuata nella tutela, da
un lato, della libera
e genuina espressione del voto popolare e, dall’altro,
dell’oggettivo ed imparziale
esercizio delle
funzioni demandate agli amministratori locali.
10 Fermo restando che
la Corte Costituzionale, nell’affermare
un’interpretazione restrittiva delle
limitazioni al diritto
di elettorato passivo, non ha mai inteso annientare le
ipotesi di ineleggibilità. Quando
essa si è pronunciata
sulla disciplina legislativa siciliana, basata quasi
esclusivamente sul sistema delle
incompatibilità, ha
sancito con la sent. n. 84/1994 che la valorizzazione
dell’art. 51 Cost. non può portare
ad una totale
eliminazione dell’istituto della ineleggibilità.
11 Ex multis,
G. BUONOMO, La trasformazione delle cause di
ineleggibilità, cit., 2636.
In dottrina, vi è poi
chi individua il fondamento delle limitazioni del
diritto di elettorato passivo nell’art.
48 Cost., per quanto
concerne la genuinità della competizione elettorale e,
quindi, le cause di
ineleggibilità e
nell’art. 67 Cost. in relazione alla piena applicazione
del principio di rappresentanza della
Esistono, però, in
dottrina delle situazioni che rischiano di mettere in
crisi una simile
distinzione. Il tipico
problema che può verificarsi è quello di un motivo di
ineleggibilità che
sopravvenga rispetto
al momento dell’elezione.
Probabilmente, questo
potrebbe essere considerato un “falso problema” laddove
si utilizzasse
il criterio distintivo
della ratio, giacché, se il motivo della causa di
ineleggibilità prevista dal
legislatore è quello
di evitare turbamenti nella formazione ed esplicazione
della libera volontà
degli elettori, una
volta che le consultazioni elettorali abbiano avuto
luogo il sopraggiungere
di una causa di
ineleggibilità dovrebbe essere irrilevante, in quanto
inidonea a coartare
qualsivoglia volontà
elettorale12. Tuttavia, così non è stato per lungo
tempo13.
Più volte le Giunte
per le elezioni si sono trovate a valutare le
conseguenze del
sopraggiungere di una
causa di ineleggibilità, decidendo di considerare la
stessa come un
motivo di
incompatibilità, anche in assenza di una esplicita
normativa che disponesse in
questo senso14. Parte
della dottrina si è, quindi, interrogata al fine di
rinvenire un fondamento
giuridico ad una
simile prassi. La conclusione a cui sono pervenuti gli
studiosi è quella di
riscontrare un dato
testuale nell’art. 66 Cost., là dove si prevede che “Ciascuna
Camera
giudica dei titoli di
ammissione dei suoi componenti e delle cause
sopraggiunte di
ineleggibilità ed
incompatibilità”.
Stante questo dettato
normativo, si pone il problema di conciliare l’art. 66
Cost. con le ratio
divergenti
dell’incompatibilità ed ineleggibilità. Un problema
ulteriore nel concepire la
trasformazione di un
motivo di ineleggibilità in una causa di incompatibilità
si concretizza,
poi, qualora si
rifletta sulla necessità di prevedere in via legislativa
ogni limitazione del diritto
di elettorato,
sussistendo in materia una riserva di legge.
Nazione (così, A.C.
SORRENTINO, Le cause di ineleggibilità ed
incompatibilità nelle elezioni
amministrative, cit., 888).
12 In dottrina, L.
ELIA, Incertezza di concetti e di pronunzie,
cit., 1054, il quale rileva come l’istituto della
trasformazione delle
cause di ineleggibilità sopravvenuta in ipotesi di
incompatibilità esprima un
contrasto insanabile
con la distinzione dei due istituti giuridici in virtù
della loro ratio. L’Autore rileva la
tendenza tipicamente
parlamentare a considerare l’incompatibilità come un
minus rispetto
all’ineleggibilità,
piuttosto che accettare la natura distinta delle due
figure.
13 V. G. BUONOMO,
La trasformazione, cit., 2639, il quale ricostruisce
l’operatività della trasformazione
delle cause di
ineleggibilità in cause di incompatibilità,
sottolineando che laddove “le Camere sono state
chiamate a
pronunciarsi sull’argomento, hanno sempre votato per
l’incompatibilità tra il mandato di
parlamentare e la
carica di Sindaco o Presidente di amministrazione
provinciale”,
con la sola eccezione
di una deliberazione
della Giunta per le elezioni della Camera che, nel
settembre 2004, ha deliberato in un
caso analogo la
compatibilità della carica, sottolineando l’assenza di
una norma esplicita in materia di
trasformazione.
14 Il Regolamento
della Camera dei deputati si limita, infatti, a
disciplinare la presentazione di dimissioni
dovute all’insorgere
di una causa di ineleggibilità sopravvenuta, prevedendo
che l’Assemblea prenda atto
delle dimissioni,
senza procedere a votazioni. In dottrina, si veda sul
punto F. PADERNO, Un nuovo
tornante
giurisprudenziale in una classica questione: le
dimissioni degli eletti,
in Rass. parl., 2009, III,
942.
In dottrina diverse
sono le tesi che sono state sostenute. I fautori della
teoria della
trasformazione delle
cause di ineleggibilità sopravvenuta in situazioni di
incompatibilità
ritengono che tale
conversione possa avvenire in virtù di un principio
immanente al sistema,
che un tempo era
espressamente sancito per i senatori dall’art. 25, comma
2, l. 6 febbraio
1948 n. 29 e che,
oggi, trova riconoscimento nel D.lgs. 18 agosto 2000, n.
267. Inoltre, questa
dottrina poggia sulla
considerazione che qualora si ritenesse compatibile il
contemporaneo
svolgimento di più
incarichi si verificherebbe una lesione dello spirito
delle norme in tema di
ineleggibilità, non
consentendo un’adeguata rappresentanza.
Per contro, altra
parte della dottrina non ritiene possibile sostenere
alcuna forma di
conversione sulla base
di una pluralità di ragioni. In primo luogo, perché
laddove non sia
espressamente previsto
non sarebbe possibile costruire nuovi casi di
incompatibilità in via
analogica. In secondo
luogo, la ratio delle norme che prevedono
l’ineleggibilità è quella di
evitare indebite
influenze del candidato sull’elettore, se però
l’elezione è già avvenuta questa
finalità indubbiamente
viene meno15.
Ipotesi diversa dalla
trasformazione delle cause di ineleggibilità in
situazioni di
incompatibilità è
quella presa in considerazione dalla risalente ed ormai
abbandonata teoria
dell’ineleggibilità
sanabile. Secondo tale tesi, talune ineleggibilità, che
potrebbero
pregiudicare il buon
funzionamento dell’organo elettivo, possono essere
rimosse nel breve
periodo di tempo
intercorrente tra la proclamazione e la convalida16.
15 Diverse sono le
situazioni patologiche, affini all’ipotesi della
trasformazione delle cause di
ineleggibilità
sopravvenuta, che si possono verificare. La prima
ipotesi da considerare riguarda il caso di
un parlamentare o di
un senatore che assuma, dopo l’elezione, una carica
incompatibile. In questo caso, la
Camera di appartenenza
invita l’interessato ad optare, entro un breve termine,
tra le due cariche
incompatibili. La
seconda ipotesi è quella del parlamentare che abbia
perso la capacità elettorale; in tale
situazione, la Camera
pronuncia la decadenza dal mandato parlamentare.
La terza e più
interessante ipotesi riguarda i senatori a vita che
vengano a trovarsi in una situazione di
incompatibilità. La
considerazione dalla quale occorre partire è quella
secondo cui tutti i senatori,
indipendentemente
dalle modalità di assunzione della carica, godono dello
stesso status ed hanno gli
stessi doveri, anche
in tema di incompatibilità. Si verifica, però, una
diversa operatività delle cause di
incompatibilità per
quanto riguarda i senatori a vita e quelli elettivi. I
primi, infatti, qualora assumano una
carica incompatibile
con quella di senatore restano sospesi dall’esercizio di
funzioni senatoriali per tutto il
periodo in cui
ricoprono l’altra carica, ma conservano la titolarità
dell’ufficio di senatore. Al contrario, i
senatori elettivi sono
invitati dalla Camera di appartenenza ad optare per una
delle due cariche e se optano
per la carica
incompatibile con il mandato parlamentare decadono
irrimediabilmente dallo stesso,
perdendo sia la
titolarità che l’esercizio delle funzioni senatoriali.
Ulteriori ipotesi sono ricostruite da V.
DI CIOLO,
Incompatibilità ed ineleggibilità parlamentari,
cit., 60.
16 Questa è la tesi
avanzata da G. DE SANCTIS MANGELLI, Una svolta
decisiva nella giurisprudenza della
Corte Costituzionale
in tema di ineleggibilità,
in Giur. it., 1973, I, 347.
Contra
la dottrina
maggioritaria, v. L. ELIA, Incertezza di concetti e
di pronunzie, cit., 1046; V. DI CIOLO,
Incompatibilità ed
ineleggibilità parlamentari,
cit., 46.
Ulteriori problemi
sorgono anche laddove si consideri la questione del
conflitto di interessi,
esaminato in questa
sede esclusivamente con riguardo al problema della sua
collocazione
nella sfera
dell’ineleggibilità o dell’incompatibilità17.
La situazione
patologica alla base del conflitto di interessi si pone,
infatti, a metà strada tra le
ragioni che
giustificano l’ineleggibilità e quelle che sono poste a
fondamento delle
incompatibilità. Di
fatto, il conflitto di interessi può determinare uno
scorretto esercizio delle
funzioni che i
candidati, una volta eletti, sono chiamati a svolgere.
Dovrebbe, quindi, trattarsi
di una ipotesi di
incompatibilità; tuttavia, parte della dottrina riporta
tale situazione nell’alveo
dell’ineleggibilità,
in considerazione delle pressioni che possono essere
esercitate
sull’elettorato nel
periodo che precede le elezioni18. Tale ultima tesi
rinviene il fondamento
17 A livello
legislativo, il problema è stato risolto per i titolari
di cariche di governo optando per un
regime di
incompatibilità e per un controllo complesso da parte
dell’Autorità garante della concorrenza e
del mercato. Tale
disciplina è stata introdotta con la l. 20 luglio 2004,
n. 215, la quale sembra prendere
esclusivamente in
considerazione le ipotesi di conflitto di interessi
economico, inteso quale contrasto tra
gli interessi
economici di chi governa ed il contenuto delle politiche
pubbliche, ossia come possibile
subordinazione di
questi a quelli. In dottrina, M. ARGENTATI, La
disciplina italiana del conflitto di
interessi in una
prospettiva di diritto comparato,
in Dir. pubb.,
2009, III, 954, la quale rileva come il
legislatore abbia
inteso dare al conflitto di interessi una duplice
configurazione: la prima statica
prevedendo semplici
ipotesi di incompatibilità; la seconda dinamica
guardando al concreto svolgimento
della potestà di
governo da parte del titolare della carica. Quest’ultima
situazione di vero e proprio
conflitto di interessi
può ricorrere in due ipotesi.
Il primo caso si
verifica quando il titolare di una carica di governo,
che si trovi già in una situazione di
incompatibilità,
adotti o partecipi all’adozione di un atto ovvero ometta
un atto dovuto nell’esercizio della
sua funzione di
governo. La seconda ipotesi riguarda, invece, l’adozione
o la partecipazione all’adozione
di atti o l’omissione
di atti dovuti, attraverso i quali il titolare della
carica favorisca sé stesso, il coniuge o
i suoi parenti entro
il secondo grado, arrecando al contempo un grave danno
all’interesse pubblico (art. 3,
l. 20 luglio 2004, n.
215). Nei confronti di quest’ultima situazione di
conflitto di interessi le sanzioni
previste dal
legislatore appaiono blande, giacché si prevede, a
seguito di un controllo da parte
dell’Autorità garante
della concorrenza e del mercato, la possibilità di
intimare all’impresa che abbia
tratto vantaggio
dall’attività del titolare della funzione di governo di
non avvalersi dell’atto ad essa
favorevole ovvero di
rimuovere la violazione, prevedendo in caso di
inottemperanza sanzioni pecuniarie.
Nei confronti del
titolare della carica di governo si prevede
esclusivamente la segnalazione ai Presidenti
del Senato della
Repubblica e della Camera dei deputati. Sul punto, si
vedano B.G. MATTARELLA,
Conflitto di
interessi. Quello che le norme non dicono,
in Giorn. dir. amm., 2004, n. 12; G. BUSIA,
Incompatibilità a
presidio del sistema,
in Guida al dir.,
2004, 34.
18 Così, R.
SCARCIGLIA, La ratio delle cause di ineleggibilità:
profili ricostruttivi e rilievi critici, in Quad.
cost.,
1997, 353, che individua nel conflitto di interessi una
causa di ineleggibilità, soprattutto con
riguardo alla
detenzione di mezzi radiotelevisivi, giacché in questa
ipotesi potrebbe verificarsi un’indebita
influenza sulla
formazione della volontà degli elettori. Al di là di
tale caso specifico, appare condivisibile
il rilievo secondo cui
la disciplina in tema di ineleggibilità ed
incompatibilità dovrebbe essere aggiornata
alle evoluzioni del
diritto societario, valutando nello specifico le ipotesi
di partecipazione indiretta o a
mezzo di interposta
persona.
Questa tesi che
configura il conflitto di interessi come una fattispecie
di ineleggibilità, ad un’analisi
attenta, sembra essere
risalente ed è condivisa, in dottrina, da V. DI CIOLO,
Incompatibilità ed
ineleggibilità,
cit., 42, nonché espressa in alcune pronunce della Corte Costituzionale
(v. Corte cost., 11
luglio 1961, n. 42,
cit., 965; Corte cost., 26 marzo 1969, n. 46,
cit., 547).
Interessante la tesi
di A. BIANCO, I limiti all’elettorato passivo,
cit., 1973, il quale distingue il piano
dell’eleggibilità da
quello dell’assunzione di incarichi governativi per i
soggetti che siano titolari di
rapporti con la
pubblica amministrazione a carattere concessorio o
autorizzativo, ovvero che siano
responsabili di
società ed imprese sovvenzionate con fondi pubblici.
Secondo l’Autore il problema
verrebbe a porsi, in
maniera effettiva, esclusivamente nel caso in cui il
soggetto, che ricopra uno dei
testuale
dell’ineleggibilità nell’art. 10, comma 1, n.1, del
D.p.r. 30 marzo 1957, n. 361 là dove
si prevede che siano
non eleggibili “coloro che in proprio o in qualità di
rappresentanti legali
di società o di
imprese private risultino vincolati con lo Stato per
contratti di opere o di
somministrazioni,
oppure per concessioni o autorizzazioni amministrative
di notevole entità
economica, che
importino l’obbligo di adempimenti specifici,
l’osservanza di norme generali
o particolari
protettive del pubblico interesse, alle quali la
concessione o l’autorizzazione è
sottoposta”.
Quest’ultima norma, tuttavia, si presta ad
interpretazioni divergenti, tali da
consentire sia di
argomentare a favore dell’ineleggibilità che
dell’incompatibilità19.
Come appare, dunque,
evidente da siffatte rapide esemplificazioni si è ben
lontani da una
pacifica distinzione
tra ineleggibilità ed incompatibilità, trattandosi di
concetti che non si
prestano ad una
definizione risolutiva, ma che serbano in sé
un’intrinseca fluidità al servizio
dell’interprete,
lasciando aperte ulteriori possibilità interpretative
per il futuro20.
suddetti ruoli, assuma
un incarico governativo. In questa ipotesi, le
legislazioni straniere prevedono, come
via di risoluzione del
problema, o la temporanea limitazione dell’esercizio
della proprietà privata da parte
del soggetto che
intende svolgere incarichi governativi o, addirittura,
la definitiva spoliazione della
gestione del
patrimonio. Senza arrivare a quest’ultima eccessiva
ipotesi, più coerente appare la tesi della
limitazione temporanea
della gestione del patrimonio del soggetto che incorra
in conflitto di interessi.
19 Sostiene la tesi
dell’ineleggibilità A. PACE, Ineleggibilità,
incompatibilità e conflitto di interessi dei
parlamentari e dei
titolari di organi di governo,
in Democrazia e
cariche pubbliche, a cura di CASSESE e
MATTARELLA, Bologna,
1996, 54, secondo cui la disposizione di cui all’art. 10
del d.p.r. 30 marzo 1956,
n. 361, alla luce di
un’interpretazione sistematica, sancisce
l’ineleggibilità parlamentare di chi
direttamente, nonché
anche indirettamente eserciti un’impresa a cui sia stata
rilasciata una concessione o
autorizzazione
amministrativa di notevole entità.
In realtà, sempre
sulla base del medesimo art. 10 è possibile argomentare
nel senso di ritenere che l’inciso
“in proprio”,
sul quale si gioca la soluzione del problema, debba
intendersi come “in nome proprio”. Per
un’accurata analisi
sul punto, v. A.PERTICI, Spunti per una migliore
regolamentazione, cit., 312. Per
quanto riguarda la
questione affine del regime di ineleggibilità ed
incompatibilità per gli amministratori di
società a
partecipazione pubblica si veda, invece, M. BASSANI,
La piccola riforma del regime di
ineleggibilità e
incompatibilità degli amministratori di società a
partecipazione pubblica,
in Nuova rass.,
2005, III, 2015.
Ulteriori e diversi
problemi di conflitto di interesse possono sorgere
nell’ipotesi in cui l’eletto sia parte
avversa in un giudizio
nei confronti dell’ente al cui interno svolge le
funzioni di rappresentante: si tratta
del tipico caso di
incompatibilità per lite pendente. In dottrina, A.
PERTICI, La soluzione dei conflitti
d’interessi dei
rappresentanti degli enti locali tra incompatibilità ed
obbligo di astensione, in Foro it.,
1999, II, 2121,
secondo cui tale problematica potrebbe trovare
un’adeguata soluzione mediante l’obbligo
di astensione, sempre
che il conflitto di interessi si realizzi
occasionalmente. In giurisprudenza, v. Corte
cost. n. 162/1985; più
recentemente Corte cost. n. 288/2007.
20 Sussistono,
d’altronde, dei casi in cui per ragioni di opportunità
si è preferito non limitare l’esercizio
del diritto di
elettorato passivo, pur trovandosi il soggetto
successivamente eletto in una posizione tale da
poter esercitare una
captatio benevolentiae nei confronti
dell’elettorato.
In tali ipotesi, a
seguito di un’operazione di bilanciamento, si è ritenuto
prevalente il diritto di elettorato
passivo sulle altre
situazioni giuridiche. Tipico caso è quello del
dipendente regionale, comunale o
provinciale che
intenda partecipare alla competizione elettorale. Questi
in virtù del suo status potrebbe
esercitare
un’influenza sugli elettori, tuttavia apparirebbe
eccessivo imporre a tale funzionario l’obbligo
di presentare le
dimissioni. Di conseguenza, si è pensato di risolvere il
problema ponendo il candidato in
aspettativa e
consentendogli, quindi, di conservare la titolarità
dell’organo o dell’ufficio.
Situazione affine a
quella appena descritta, ma per alcuni tratti lievemente
diversa, è quella che riguarda
l’eleggibilità al
Parlamento del consigliere comunale, provinciale o
regionale. In questa specifica ipotesi,
la Corte Cost. con
sentenza del 28 luglio 1993, n. 344, in Giur.
cost., 1993, 2681, ha dichiarato
costituzionalmente
illegittima la disposizione che prevedeva
l’ineleggibilità per i consiglieri regionale,
3. L’attività della
Corte Costituzionale tra la discrezionalità legislativa
ed un parametro
costituzionale
indeterminato.
Delineate le
difficoltà nel tracciare un netta linea di demarcazione
tra ineleggibilità ed
incompatibilità,
appare opportuno soffermarsi ulteriormente sul vaglio di
ragionevolezza che
la Corte
Costituzionale è chiamata a compiere qualora venga
sollevata innanzi ad essa una
questione di
legittimità costituzionale su una norma che disponga una
causa di ineleggibilità o
di incompatibilità.
Dando per presupposto
che il diritto di elettorato sia un diritto
fondamentale, limitabile solo ai
fini di tutelare altre
situazioni costituzionalmente garantite, bisogna
chiedersi entro quali
limiti tale deroga
trovi giustificazione e come operi il principio di
ragionevolezza in relazione
all’art. 51 Cost.
Bisognerebbe, poi, chiedersi entro quali confini sia
legittimo l’intervento
della Corte, senza che
si verifichi un’invasione delle prerogative del
legislatore.
In questa prospettiva,
la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 283/2010,
rileva come ad essa
sia delegato un
compito di mera verifica della valutazione compiuta dal
legislatore
nell’introdurre una
causa di ineleggibilità o di incompatibilità.
La Corte non entra nel
merito delle scelte del legislatore, si limita a
confrontare la
rispondenza delle
stesse con la ratio sottesa agli istituti
dell’ineleggibilità ed incompatibilità21.
Secondo taluno, una
simile forma di giudizio si concretizza in un’ipotesi di
mera riduzione
dei casi di
ineleggibilità in incompatibilità, giacché la Corte
interverrebbe per riportare il
disposto normativo
alla effettiva finalità del legislatore senza operare un
vero raffronto con un
parametro
costituzionale, ma adeguando semplicemente la norma allo
scopo che avrebbe
dovuto perseguire22.
giacché l’appartenenza
ad un organo collegiale non può implicare di per sé il
rischio che si verifichi una
indebita pressione
sull’elettorato: nessuna captatio benevolentiae
può essere, infatti, esplicata mediante il
mero esercizio
dell’attività normativa consiliare.
21 In questo senso si
è pronunciata la Corte Costituzionale stessa, la quale
in numerose fattispecie ha
riconosciuto
l’illegittimità costituzionale di disposizioni che
avevano previsto come cause di
ineleggibilità
situazioni integranti, invece, vere e proprie cause di
incompatibilità, senza che tali pronunce
possano essere
considerate estranee al potere decisorio della Corte in
quanto sentenze additive di tipo
manipolativo, non
consentite in sede di giudizio di costituzionalità (e v.
Corte Cost., n. 129/1975;
45/1977; 129/1977;
450/2000). Tuttavia, in dottrina F. BERTOLINI,
Eleggibilità, ratio legis e sindacato
della Corte
Costituzionale,
in Giur. cost.,
1993, II, 3141, il quale rileva come, prima di giungere
a tali
interventi, la Corte
Costituzionale abbia adottato per un lungo periodo
un’ottica di self-restraint.
L’Autore giunge
addirittura ad affermare che “mentre la normativa per
le elezioni amministrative ha
subito un penetrante
vaglio dalla Corte sino ad indurre il Parlamento ad un
riordino della materia, per le
elezioni politiche la
disciplina è rimasta pressoché immutata nell’arco
dell’intera esperienza
repubblicana”
22 Così, G. FERRARI,
Discrezionalità legislativa e decisioni additive
della Corte in tema di ineleggibilità
ed incompatibilità,
in Le Regioni, 1987, 730.
Una simile tesi, nella
sua portata più estrema, appare inaccettabile in quanto,
se è vero che la
Corte può operare
“riducendo” l’ipotesi di ineleggibilità, su cui è stata
sollevata questione di
legittimità
costituzionale, in un’ipotesi di incompatibilità, ciò
avviene sempre al fine di
salvaguardare la più
ampia espressione dell’elettorato passivo, ex
art. 51 Cost., e non al mero
fine di correggere una
volontà legislativa espressa in maniera scorretta.
Tuttavia, questa
dottrina presenta il pregio di mettere in rilievo i due
distinti modi di agire di
cui può servirsi la
Consulta, qualora riscontri una limitazione illegittima
dell’elettorato. Il
primo modus agendi
è, infatti, quello appena esaminato di trasformare
le ipotesi di
ineleggibilità in
fattispecie di incompatibilità e viceversa, laddove non
sia stata rispettata la
ratio
a loro propria.
Il secondo modo di
agire dei giudici costituzionali è quello di dichiarare
l’illegittimità
costituzionale della
disposizione limitativa dell’elettorato passivo che
sacrifichi inutilmente
tale diritto, per
diretto contrasto con la disciplina costituzionale23.
Va, poi, evidenziato
come, in materia, il sindacato di legittimità
costituzionale si presenti
difficoltoso in
ragione del pericolo di invadere le scelte politiche del
legislatore, nonché per
l’indeterminatezza del
parametro costituzionale di cui la Corte si serve24.
Alla luce di tali
problematiche la Consulta ha più volte sollecitato il
legislatore ad adottare
disposizioni formulate
in maniera precisa e dettagliata, in maniera tale che
non venga
sacrificato
inutilmente il diritto di cui all’art. 51 Cost25. Tali
inviti non sono caduti nel vuoto,
giacché il legislatore
ha cominciato ad adeguarvisi proprio con le dettagliate
disposizioni della
l. 154/1981.
Sempre per la medesima
ragione, la Corte si è, poi, rivolta all’interprete,
sollecitando
quest’ultimo ad
interpretare in maniera restrittiva le disposizioni
limitative dell’elettorato
passivo. Nel compiere
tali precisazioni, la Consulta ha individuato
l’interesse pubblico quale
23 In tale situazione
la Corte compie un sindacato di ragionevolezza
“esterno”, ovvero verifica la
rispondenza della
limitazione dell’elettorato con la necessità di
salvaguardare altre situazioni
costituzionalmente
protette. Nel caso in cui, invece, la Corte modifichi
una previsione di ineleggibilità in
una di incompatibilità
e viceversa si verificherebbe un controllo di
ragionevolezza interna, ossia di
verifica della logica
del legislatore e del suo operato. Una simile
distinzione è operata, tra i primi, da G.
FERRARI,
Discrezionalità legislativa e decisioni additive,
cit., 730.
24 In dottrina, F.
BERTOLINI, Intrinseche ragioni di ineleggibilità tra
statuizione legislativa ed
interpretazione
giurisprudenziale,
in Giur. cost.,
1992, II, 3193, secondo cui la legge non incontra nella
fonte sovraordinata
alcun limite di natura oggettiva e sostanziale; ciò
significa che “la Corte non ha
nessun elemento per
censurare dall’alto della Costituzione le scelte del
legislatore, bensì può solo
imporre e pretendere
che le ragioni fondanti tali scelte siano evidenziate,
chiarite e rese coerenti, nonché
sia resa omogenea
rispetto ad esse, la disciplina precettiva dettata”.
25 Questo orientamento
della Corte si è manifestato in maniera evidente sin
dalla pronuncia n. 166/1972
con cui è stata
dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 n.
7 della l. 17 febbraio 1968, n. 108, in
materia di elezioni
regionali, per insufficiente determinatezza e
tipizzazione della causa ostativa
dell’eleggibilità.
Successivamente la Corte ha più volte ribadito tale
principio; cfr. Corte cost. 53/1990;
306/2003; 25/2008.
criterio guida
nell’esegesi; solo laddove questo parametro non fosse
sufficiente a trovare una
giustificazione
adeguata della limitazione si dovrebbe adire la Corte
Costituzionale26.
4. Il canone della
ragionevolezza e le deroghe alla tendenziale uniformità,
sul territorio
nazionale, della
disciplina in materia di elettorato passivo.
Per quanto riguarda la
Consulta il ricorso ai poteri di controllo è legittimo
qualora si
riscontrino deviazioni
legislative dall’ordine del sistema che non trovino una
sufficiente
motivazione, nonché
nell’impiego di formule elastiche che siano
manifestamente erronee o
lesive del principio
di eguaglianza27.
Nell’operare tale
verifica la Corte Costituzionale si serve il più delle
volte, come si è avuto
modo di verificare in
questo studio, del principio di ragionevolezza. Tale
criterio può portare
ad una censura della
fattispecie di ineleggibilità o di incompatibilità per
“impertinenza”, ossia
per il difetto di
correlazione logica del meccanismo legislativo rispetto
agli obiettivi da
realizzare, nonché per
“inadeguatezza” qualora l’ineleggibilità o
l’incompatibilità appaiano
uno strumento non
proporzionato rispetto al fine che si intenda
perseguire, in quanto incidano
in maniera eccedente
il necessario su posizioni giuridiche protette28.
Inoltre,
nell’effettuare le proprie valutazioni la Corte è tenuta
a considerare la diversità degli
organi rispetto ai
quali sono previste cause di ineleggibilità ed
incompatibilità, nonché il
diverso territorio in
cui gli stessi sono chiamati ad operare ed in cui sono
radicati.
La stessa Corte
Costituzionale ha, infatti, enunciato il principio di
non raffrontabilità tra le
posizioni dei titolari
di cariche elettive nelle regioni e negli enti locali
rispetto a quella dei
membri del parlamento
e del governo. Tale principio è stato ricavato in via
empirica da “dati
26 Tale orientamento è
risalente nel tempo e si può ricondurre alla sentenza n.
46 del 1969, anche se
successivamente è
stato ribadito più volte (v. Corte cost., 2 febbraio
1990, n. 53, cit., 215; Corte. Cost., 30
novembre 1989, n. 510,
cit., 2367). La Corte in siffatte pronunce ha
avuto modo di rilevare che le cause di
ineleggibilità,
derogando al principio costituzionale della generalità
del diritto elettorale passivo, sono di
stretta di
interpretazione e devono comunque contenersi entro i
limiti di quanto sia ragionevolmente
indispensabile per
garantire le esigenze di pubblico interesse cui sono
preordinate. Se, da un lato, il
legislatore gode di
ampia discrezionalità nell’individuare le ipotesi di
ineleggibilità e di incompatibilità;
dall’altro lato, gli
interventi legislativi devono compiersi entro limiti
razionali e nel pieno rispetto del
principio di
eguaglianza.
27 Tale autorevole
opinione è dovuta a A.M. SANDULLI, Il principio di
ragionevolezza nella
giurisprudenza
costituzionale,
in Dir. Soc.,
1978, 57; nonché è ripresa da A. POLICE, Ancora una
pronuncia in tema di
ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche elettive
degli enti locali,
in Giur. it.,
1994, I, 529.
28 Questa distinzione
si deve a A. POLICE, Ancora una pronuncia in tema di
ineleggibilità, cit., 532, il
quale trova del tutto
irragionevole per “impertinenza” che un soggetto, che
versi in una situazione di
ineleggibilità, possa
permanere nella propria carica fino al momento della
presentazione della candidatura
giacché “non si può
razionalmente pensare che tale divieto sia efficace in
una situazione in cui chi gode
di una posizione di
supremazia all’interno dell’apparato pubblico, che gli
consenta di indirizzare la
scelta degli elettori,
possa permanere in tale posizione fino al momento
dell’apertura della campagna
elettorale”.
dell’esperienza
oggettiva” ed è ripreso anche nella sentenza n.
283/2010, laddove si analizza
la potestà legislativa
regionale ed i relativi limiti, nonché la possibilità di
una disciplina
divergente sul
territorio nazionale29.
La necessità di
considerare le precise condizioni territoriali ha, per
esempio, portato il
legislatore all’inizio
degli anni Novanta ad introdurre una specifica
disciplina volta a
fronteggiare il
fenomeno delle collusioni di stampo mafioso. La l.
55/1990 prevedeva, infatti,
la sospensione dalla
carica dei soggetti sottoposti a procedimento penale per
il delitto di
associazione a
delinquere di stampo mafioso e per i delitti di
favoreggiamento commessi in
relazione ad esso,
nonché la sospensione dei soggetti nei cui confronti
fosse applicata una
misura di prevenzione.
Per coloro che, invece, fossero stati condannati con una
sentenza
passata in giudicato
per i delitti summenzionati era prevista la decadenza
dalla carica.
Tale legge fu,
successivamente, modificata dalla l. 18 gennaio 1992,
n.16, che previde
l’incandidabilità alle
cariche regionali e locali per coloro che fossero
reputati pericolosi per
l’ordine pubblico,
nonché la sospensione dalla carica per il sopravvenire
delle condizioni che
determinano
l’incandidabilità e la decadenza, al momento del
passaggio in giudicato della
sentenza di condanna o
alla data in cui diviene definitivo il provvedimento che
applica la
misura di
prevenzione30.
29 Un simile principio
è stato affermato dalla Corte cost. con la sent. n.
407/1992.
In dottrina, tuttavia,
vi è chi non condivide tale criterio di non
raffrontabilità tra le posizioni dei titolari di
cariche elettive nelle
regioni e negli enti locali rispetto a quella dei membri
del parlamento e del governo.
In argomento, v. A.
BIANCO, I limiti all’elettorato passivo, cit.,
1971, il quale si chiede se i motivi di
ordine pubblico che
suggeriscono l’esclusione di determinate categorie di
soggetti dalle cariche elettive
regionali e locali non
possano valere anche nei confronti dei parlamentari
proprio perché svolgono
funzioni di rango
superiore.
30 Siffatta normativa
è stata fonte di innumerevoli problemi in considerazione
del fatto che una certa
giurisprudenza,
successivamente all’entrata in vigore della legge,
cominciò ad applicarla anche a
situazioni sorte prima
dell’entrata in vigore. Sul punto venne sollevata
questione di legittimità
costituzionale per
violazione dell’art. 25, comma 2, Cost., tuttavia la
Corte Costituzionale la ritenne
infondata con sent. 31
marzo 1994, n. 118, in Giur. cost., 1994, I,
1001, sulla base del motivo che se la
finalità della legge
era quella di assicurare la salvaguardia dell’ordine e
della sicurezza pubblica, non
appariva irragionevole
che la disciplina operasse con effetto immediato, anche
in danno di chi fosse già
stato eletto in
precedenza. La Corte ritenne che non sussistesse alcuna
violazione del principio di
irretroattività,
giacché questo riguarda esclusivamente le sanzioni
comminate dalle leggi penali, non
rinvenibili nel caso
di specie.
Questa pronuncia della
Consulta è stata criticata in dottrina da chi ha
sostenuto che le limitazioni
all’elettorato passivo
possono essere assimilate alle sanzioni penali e,
dunque, anche in questa materia
sarebbe invocabile il
principio di irretroattività (v. A. BIANCO, I limiti
all’elettorato passivo, cit., 1979;
A. PACE, Legittime
le leggi in materia elettorale?!, in Giur. cost.,
1994, I, 1007). Nonostante le critiche,
la Corte ha ribadito
il suo orientamento in materia con la sent. 24 giugno
1993, n. 288, in Le Regioni,
1994, 601, in cui ha
legittimato la mancata distinzione, ai fini
dell’applicazione della sanzione della
decadenza di diritto
dalle cariche elettive, tra delitto tentato e consumato.
Un parziale revirement della
Corte si è avuto solo
con la sent. 6 maggio 1994, n. 141, in Giur. cost.,
1996, II, 1395, in cui si è
dichiarata
l’illegittimità costituzionale delle disposizioni della
l. 55/1990, così come modificata dalla l. 18
gennaio 1992, n.16,
nelle parti in cui comminavano l’incandidabilità o
l’ineleggibilità senza che nei
confronti
dell’interessato fosse intervenuta una sentenza
irrevocabile di condanna.
A seguito di vari
interventi della Corte Costituzionale, il legislatore è
poi intervenuto
ulteriormente a
rimodellare la disciplina del 1990 prevedendo, con la l.
475/1999,
l’equiparazione delle
sentenze di applicazione della pena su richiesta delle
parti alle sentenze
di condanna, nonché
dettando una più puntuale disciplina delle cause di
sospensione.
Tale breve excursus
riguardante la peculiare disciplina dettata per
arginare fenomeni di
ingerenza mafiosa
nell’ambito della politica e del sistema
rappresentativo, consente ora di
comprendere meglio la
questione relativa alla necessità che la disciplina in
materia di
elettorato passivo
sia, da un lato, coerente con le realtà territoriali
dell’ambito in cui va ad
operare e, dall’altro
lato, in armonia con la disciplina nazionale.
La questione viene in
rilievo anche nella sentenza della Corte Costituzionale
n. 283/2010, in
cui il giudizio verte,
per l’appunto, sulla legge regionale che disciplina le
cause di
ineleggibilità e di
incompatibilità con la carica di consigliere regionale.
Nella sentenza dalla
quale trae origine il presente studio, infatti, la Corte
afferma il principio
secondo cui “sussiste
una tendenziale uniformità sul piano nazionale della
disciplina
dell’elettorato
passivo” e
la possibilità di introdurre discipline regionali
differenziate, rispetto
a quella nazionale,
sorge solo in presenza di particolari situazioni
ambientali che giustificano
normative autonome.
Tale affermazione è
avallata, nel caso de quo, dall’analisi della
disciplina legislativa nazionale
e regionale in materia
di ineleggibilità per i vertici delle Aziende sanitarie
locali e delle
strutture sanitarie
private.
All’esito di questa
comparazione, la Corte ha pronunciato il rigetto, per
infondatezza, della
questione di
legittimità costituzionale sulla disposizione che
sancisce l’ineleggibilità del
“legale rappresentante
e dei direttori della struttura sanitaria o
socio-sanitaria privata che
intrattengano rapporti
contrattuali con l’Azienda regionale USL della Valle
d’Aosta”. Tale
sentenza trova le sue
motivazioni proprio in un quadro legislativo coerente
sul punto sia a
livello nazionale, che
a livello regionale e dal quale emerge come principio
generale
dell’ordinamento
giuridico elettorale l’ineleggibilità dei vertici delle
strutture sanitarie, sia
pubbliche che
private31.
31 Al contrario, per
quanto riguarda la disciplina elettorale degli enti
locali la Corte Costituzionale è
intervenuta con la
pronuncia 6 febbraio 2009, n. 28 in cui si è
riconosciuta l’illegittimità costituzionale
dell’art. 60, comma I,
n. 9, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 nella parte in cui
prevedeva l’ineleggibilità dei
direttori sanitari
delle strutture convenzionate per i consigli del Comune
il cui territorio coincidesse con il
territorio
dell’azienda sanitaria locale o ospedaliera con cui
fossero convenzionati. Tale disposizione è
stata censurata dalla
Corte in considerazione del fatto che era già venuta
meno la medesima causa di
ineleggibilità per i
dirigenti degli ospedali non costituiti in azienda e,
dunque, se fosse rimasta in vigore la
norma sulla quale era
stata sollevata questione di legittimità si sarebbe
verificata una lesione dei principi
di ragionevolezza e
proporzionalità.
Dai rilievi sin qui
svolti, si evince come la Corte Costituzionale consideri
una primaria
necessità la vigenza
di un quadro legislativo uniforme a livello nazionale,
salva la possibilità
per le singole
legislazioni regionali di dettare specifiche normative
in ragione di situazioni
territoriali
peculiari32. L’esigenza fondamentale che è possibile
desumere è, dunque, quella
del coordinamento tra
la legislazione nazionale e quella regionale.
Nel caso della Regione
Valle d’Aosta è lo stesso statuto speciale, adottato con
legge
costituzionale 31
gennaio 2001, n. 2, a prevedere che la potestà
legislativa primaria della
Regione, in materia di
ineleggibilità ed incompatibilità alla carica di
consigliere regionale,
debba essere
esercitata in armonia con la Costituzione ed i principi
giuridici dell’ordinamento
giuridico della
Repubblica.
A livello generale,
invece, per le Regioni a statuto ordinario l’art. 122
Cost., così come
modificato dalla l.
cost. 22 novembre 1999, n.1, ha previsto che “i casi
di ineleggibilità ed
incompatibilità del
Presidente e degli altri componenti della Giunta
regionale, nonché dei
consiglieri regionali
sono disciplinati con legge della Regione nei limiti dei
principi
fondamentali stabiliti
con legge della Repubblica, che stabilisce anche la
durata degli organi
elettivi”.
Tale novella
costituzionale è stata attuata con la l. 2 luglio 2004,
n. 165, la quale ha
individuato i principi
fondamentali che le Regioni a statuto ordinario,
nell’esercizio della
propria potestà
legislativa, devono osservare, sancendo altresì che le
Regioni possono
individuare casi di
ineleggibilità legati a peculiari situazioni
regionali33.
32 In questo senso,
un’ampia e consolidata giurisprudenza della Corte
Costituzionale: v. Corte Cost.
171/1984; 20/1985;
235/1988; nonché, da ultimo, la sentenza della Corte
Cost. n. 288/2007, secondo cui
“discipline
legislative differenziate sono ammissibili, ma solo in
presenza di situazioni concernenti
categorie di soggetti,
le quali sono esclusive per le Regioni a statuto
speciale, ovvero si presentino
diverse, messe a
raffronto con quelle proprie delle stesse categorie di
soggetti nel restante territorio
nazionale ed, in ogni
caso, per motivi adeguati e ragionevoli, finalizzati
alla tutela di un interesse
generale”.
33 In particolare,
l’art. 2, comma I, lett. a) della l. 2 luglio 2004, n.
165 ha stabilito che le Regioni a statuto
ordinario possono
prevedere i casi di ineleggibilità “qualora le attività
o le funzioni svolte dal candidato,
anche in relazione a
peculiari situazioni delle Regioni, possano turbare o
condizionare in modo diretto la
libera decisione di
voto degli elettori ovvero possano violare la parità di
accesso alle cariche elettive
rispetto agli altri
candidati”. Tale disposizione va letta in combinato con
la previsione di cui all’art. 2,
comma I, lett. b)
della medesima legge, che sancisce l’inefficacia delle
cause di ineleggibilità qualora gli
interessati cessino
dalle attività o dalle funzioni che determinano
l’ineleggibilità, non oltre il giorno
fissato per la
presentazione delle candidature o altro termine
anteriore altrimenti stabilito.
Per quanto riguarda,
invece, il procedimento elettorale negli enti locali,
esso trova oggi compiuta
disciplina nel D.Lgs.
18 agosto 2000, n. 267, T.U. degli enti locali. Per un
esame della disciplina, con
riguardo ai casi di
ineleggibilità ed incompatibilità previsti per gli
amministratori locali, v. E. MAGGIORA,
L’amministratore
locale, in
Stato civ. it., 2007, II, 771. Va rilevato che
anche nella disciplina del
procedimento
elettorale delle amministrazioni locali e
nell’individuazione dei casi di ineleggibilità ed
incompatibilità è
obbligatorio il rispetto della disciplina costituzionale
e dei principi fondamentali. Su tale
rilievo trova
fondamento anche il parere del Cons. Stato, 24 maggio
2006, Sez. I., in Stato civ. it., 2007,
II, 780, in cui il
Consiglio di Stato riconosce la legittimità
dell’annullamento in via straordinaria da parte
Dal ragionamento
elaborato è possibile evincere la delicatezza della
materia trattata, nonché la
sua duttilità e
malleabilità in relazione alle contingenze
storico-territoriali che vengono a
configurarsi. Il
diritto elettorale e, nel caso di specie, la disciplina
delle ineleggibilità ed
incompatibilità si
prestano per loro natura a rapide e talvolta tortuose
evoluzioni, oltre che ad
una pluralità di
interpretazioni. E proprio tale ultimo rilievo muove la
Corte nel sollecitare
l’interprete a seguire
il canone dell’interesse pubblico nello svolgimento
dell’attività
ermeneutica.
5.Le elezioni quale
fulcro dell’intero sistema rappresentativo.
La ricostruzione sin
qui svolta assume un particolare rilievo qualora si
consideri che la
disciplina
dell’elettorato, sia attivo che passivo, costituisce un
punto cardine nella
ricostruzione
dell’intero sistema rappresentativo, giacché da esso
dipende la scelta dei
soggetti investiti
delle cariche pubbliche34. Nonché considerevoli sono i
condizionamenti
derivanti
dall’indirizzo politico, affermatosi a seguito del
procedimento elettorale, sulla forma
di governo e sui
rapporti tra i supremi organi costituzionali35.
Le elezioni
costituiscono, come precisato, uno strumento
indefettibile nella scelta democratica
dei rappresentanti e
nell’instaurazione del rapporto tra questi ultimi ed i
rappresentati, sebbene
tale legame non possa
mai essere costruito puramente come un vincolo di delega
o di
mandato36. Il
rappresentante, infatti, secondo talune ricostruzioni
agirebbe al servizio di
del Governo, ex
art. 138 T.U. 18 agosto 2000, n. 267, della disposizione
di uno Statuto comunale che
estendeva ai cittadini
stranieri di provenienza extracomunitaria o apolidi
residenti stabilmente nel
territorio nazionale
il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni
amministrative. Infatti, sebbene la
partecipazione degli
stranieri alle elezioni amministrative sia un importante
strumento di integrazione,
non si rinviene nel
nostro ordinamento una fonte di legittimazione idonea,
giacché la Costituzione agli
artt. 48 e 51
espressamente ricollega il diritto di elettorato alla
cittadinanza e dunque, solo il legislatore
potrebbe estendere il
diritto di elettorato a soggetti privi della
cittadinanza italiana.
34 Inquadra le
elezioni come un atto di investitura G. FERRARI,
Elezioni (teoria generale), cit., 618, il
quale elabora la
seguente definizione delle elezioni stesse come “atti
giuridici, consistenti in una scelta o
in una serie di
scelte, attraverso cui il popolo, raccolto
collegialmente nell’universalità dei suoi
componenti, esercita
la sua potestà di investitura a cariche supreme e ad
tempus dell’organizzazione
dello Stato, della
regione, della provincia e del comune”.
35 In questo senso,
T.E. FROSINI, Nuova legge elettorale e vecchio
sistema politico?, in Rass. parl., 2006,
I, 48; più
approfonditamente, ID., Forme di governo e
partecipazione popolare, Torino, 2008, 231.
36 La rappresentanza
alla quale si intende fare riferimento non è, infatti,
la rappresentanza di diritto
privato, bensì la
rappresentanza politica. Tale istituto, a sua volta, è
stata ricostruito in dottrina con
differenti caratteri.
La rappresentanza
autoritaria (sostenuta da JELLINEK, La dottrina
generale del diritto dello Stato, Milano,
1949,139) si
caratterizza per essere una rappresentanza generale e di
interessi, nonché organica e legale in
quanto il rapporto
rappresentativo si instaura tra il governante e la
totalità dei governati sulla base di un
accordo morale,
infatti l’atto di investitura può prescindere dalle
elezioni. A questo modello si
contrappone la
rappresentanza democratica, in cui i soggetti del
rapporto rappresentativo consistono
rispettivamente nel
governante e nella maggior parte dei rappresentati e la
rappresentanza si connota, sul
piano formale, per
essere soggettiva e volontaria (v. KELSEN, Teoria
generale del diritto e dello
Stato,Milano,
1980, 294). A metà strada tra questi due modelli si
colloca la rappresentanza mista, la quale
interessi generali,
intesi come “interessi politici e definiti tali
perché in grado di assicurare
l’unità della polis”37.
Tali interessi generali dovrebbero essere valutati
autonomamente dal
rappresentante, salvo
il riferimento sempre necessario alla sovranità
popolare. Ed è proprio in
tale rapporto
bilaterale tra rappresentante e rappresentati che vanno
inseriti i partiti politici,
considerando anche la
funzione svolta dagli stessi nel corso del procedimento
elettorale38.
Infatti, nonostante
l’attività dei partiti contribuisca alla formazione
delle assemblee elettive ed
a conferire visibilità
alle istanze sociali, è innegabile che gli stessi si
interpongano nel dialogo
tra rappresentanti ed
elettori, rendendo sempre più labile il concetto
tradizionale di
rappresentanza. Al
punto tale da spingere qualcuno in dottrina ad affermare
che “non sono gli
elettori che eleggono
il deputato, ma ordinariamente è il deputato che si fa
eleggere dagli
elettori”39.
Tali osservazioni, probabilmente eccessive, inducono
comunque a ripensare il
ruolo delle elezioni,
anche con riguardo all’attività ed alla funzione assolta
dai partiti politici.
Nell’attuale contesto
politico e giuridico, le elezioni assolvono, invero, un
ruolo fondamentale
di scelta, in
primis, del partito politico e dell’indirizzo
governativo e, solo successivamente, di
individuazione dei
rappresentanti popolari. Il sacrificio del rapporto
diretto tra rappresentanti
e rappresentati è,
però, compensato dalla rappresentanza di interessi
pertinenti a ceti altrimenti
cumula aspetti sia del
primo modello che del secondo. Per una più ampia
ricostruzione dell’istituto, ex
plurimis,
v. C. CERUTTI, L’istituto moderno occidentale della
rappresentanza politica, in Giust. amm.,
2008, II, 192.
37 Sostiene tale tesi
A. BARBERA, La rappresentanza politica: un mito in
declino?, in Quad. cost., 2008, n.
4, il quale ritiene
che la funzione rappresentativa, trattandosi di
rappresentanza politica, sia finalizzata alla
tutela di interessi
differenti rispetto a quelli tipici della rappresentanza
privatistica. La rappresentanza non
può essere concepita
come una delega, tipica della rappresentanza per ceti,
ma deve essere intesa come
un’attività svolta dal
rappresentante in autonomia, al servizio di interessi
generali.
In dottrina, tuttavia,
sono state avanzate anche altre tesi: la rappresentanza
è stata, di volta in volta,
inquadrata come un
mandato conferito dall’elettorato, ovvero come specchio
degli interessi dell’elettore,
nonché come
partecipazione del popolo alle elezioni o, infine,
secondo la teoria consensuale della
rappresentanza come
uno strumento che deve sempre essere assistito dal
consenso dei rappresentati.
38 Sul punto, G.
FERRARI, Elezioni (teoria generale), cit., 623,
il quale approfondisce la tematica del
rapporto elettorale
ricostruendo la natura del corpo elettorale stesso quale
entità collettiva unitaria titolare
di situazioni
giuridiche autonome, mediante la cui attività si esprime
la sovranità popolare. Da tale
concezione sorgono
alcune problematiche in merito alla conciliabilità della
sovranità del corpo elettorale
con la sovranità dello
Stato, giacché l’una negherebbe l’altra. In realtà così
non è, al corpo elettorale,
infatti, può essere
attribuita la natura di organo dello Stato-comunità,
senza che si ledano le prerogative di
sovranità dello
Stato-persona, anche in considerazione del fatto che
l’attività di quest’ultimo sarebbe
paralizzata in assenza
dello svolgimento di periodiche consultazioni
elettorali. D’altronde, la sovranità
popolare, se
correttamente intesa come potestà di iniziativa, di
sindacato e di preposizione, non lede la
sovranità dello Stato.
La sovranità popolare non è, infatti, una potestà
autosufficiente, giacché all’atto di
investitura deve
necessariamente seguire l’attività statale di
proclamazione. Alla luce di ciò, è interessante
il rilievo dell’Autore
secondo cui la sovranità dello Stato e la sovranità
popolare si limitano a vicenda.
39L’affermazione si
deve a MOSCA, Teorica dei governi parlamentari,
Milano, 1968, 246, che sottolinea
come il rapporto tra
rappresentanti e rappresentati sia influenza dal cd. “mercato
politico”.
In senso
diametralmente opposto G. FERRARI, Elezioni (teoria
generale), cit., 631, il quale considera
partiti politici e
corpo elettorale come figure soggettive distinte, ma
appartenenti al medesimo ordine di
realtà. Sarebbe,
infatti, sempre il popolo, distribuito nei partiti
politici, a scegliere e a designare i propri
candidati per poi
procedere a manifestare la propria volontà nella veste
di corpo elettorale.
emarginati e dalla
maggiore possibilità di raggiungere compromessi
necessari per la
sopravvivenza del
pluralismo tra le diverse forse politiche40.
Tale più ampia
rappresentanza di interessi è garantita dal carattere
inclusivo dei partiti stessi,
in virtù del quale
tanto maggiore è l’apertura alle nuove istanze sociali
ed agli interesse
emergenti, tanto più
garantito sarà il sistema della rappresentanza, sebbene
mediato dalla
presenza dei
partiti41.
Si viene, dunque, a
determinare un nesso inscindibile tra elettori, partiti
politici e
rappresentanti; il
funzionamento di tale rapporto può essere garantito solo
attraverso una
buona legge elettorale
che assicuri, al tempo stesso, la governabilità ed
un’adeguata
rappresentanza.
Tenendo, tuttavia, presente che, dalla ricostruzione
compiuta in questo studio,
il diritto di
elettorato, sia attivo che passivo, appare variamente
limitato ed inquadrato. Infatti,
sebbene esso sia
sancito in via generale dalla Costituzione, viene
ristretto e plasmato dalla
disciplina elettorale
a livello statale, regionale e locale, creando un
reticolato di normative e di
competenze in materia
di verifica della correttezza del procedimento
elettorale.
Tale complesso sistema
poggia su un delicatissimo equilibrio tra la portata di
diritto generale
dell’elettorato e la
possibilità di introdurre limitazioni al fine di
tutelare altre situazioni
costituzionalmente
protette. Si tratta, dunque, di un bilanciamento che è
chiamato ad operare
in primo luogo il
detentore del potere normativo e solo in sede di
verifica la Corte
Costituzionale, senza
tralasciare che prima di arrivare innanzi alla Consulta
si pone la
necessaria e delicata
attività dell’interprete.
Infine, anche qualora
la disciplina elettorale risulti legittima, il diritto
di elettorato attivo e
passivo si troverà
incanalato nei binari della rappresentanza, così come
rimodellata e mediata
dall’intervento dei
partiti. Da questa ricostruzione emerge un sistema in
cui la generalità
dell’elettorato appare
variamente strutturata in una serie di ingranaggi
macchinosi, il cui
corretto funzionamento
può essere assicurato solo da un uso ragionevole della
propria
discrezionalità da
parte del legislatore.
40 In questo senso, H.
KELSEN, Il primato del Parlamento, Milano, 1982,
171, che vede nel compromesso
tra le differenti
forze politiche l’unico modo per assicurare una maggiore
aderenza alla volontà generale.
41 Evidenzia
l’importanza dell’inclusività dei partiti politici A.
BARBERA, La rappresentanza politica: un
mito in declino?, cit., il quale ritiene opportuno, al tempo stesso, rendere
maggiormente inclusivi i partiti
politici e mantenere
l’ancoraggio della rappresentanza al concetto di
“cittadino”. Sebbene il riferimento al
cittadino, quale
soggetto titolare del diritto di elettorato, sia oggi in
crisi, l’Autore ritiene che il
riferimento allo
stesso sia indispensabile, giacché solo grazie a tale
concetto è stato possibile superare la
“paralizzante
rappresentanza per ceti”. Qualora, infatti, si
avesse il superamento del concetto neutro di
cittadini, si rischierebbe di ricadere in odiose
distinzioni legate a differenti forme di status. |