Avv. Paolo Nesta


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 Corte costituzionale, dissenting opinion, giudizio dei pari-Massimo Villone

 

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Nelle sue ricorrenti pulsioni di attacco alla Costituzione, il presidente del consiglio ha

di nuovo messo nel mirino la Corte costituzionale. A quanto si legge sulla stampa,

pensa a una riforma volta a richiedere una maggioranza qualificata di due terzi per la

dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge. La “colpa” del giudice di

costituzionalità è quella di avere “abrogato” (sic) leggi giuste, anzi giustissime.

Non serve la sfera di cristallo per capire che Berlusconi ancora una volta vuole una

legge ad personam. Perché le leggi “giustissime” sono con ogni evidenza i lodi, il

legittimo impedimento, e magari domani il processo breve e la legge sulle

intercettazioni. E dunque i giudici di sinistra - che secondo tale autorevole opinione si

annidano nella Corte - hanno già gravemente peccato, e potrebbero persino

perseverare. Meglio stroncare il complotto assicurando un potere di veto alla

pattuglia dei giudici più sensibili e attenti alle sorti berlusconiane. La cruciale

sentenza 262 del 2009 fu assunta – a quanto si sa – nove a sei. Con la riforma

ipotizzata il lodo Alfano sarebbe ancora legge dello Stato, perchè si richiederebbero

almeno dieci giudici a favore della illegittimità.

La incultura giuridica del presidente del consiglio – o forse un errore consapevole e

voluto - lo conduce a dire che la Corte abroga le leggi, come un legislatore

successivo che sovrapponga la propria volontà a quella del parlamento democratico

eletto dal popolo sovrano. Ovviamente, è una rappresentazione del tutto falsa. La

Corte cancella dall’ordinamento la norma costituzionalmente illegittima, che non ha

diritto di cittadinanza nell’ordinamento giuridico, che il legislatore non avrebbe

dovuto adottare, e che il popolo sovrano non potrebbe mai volere fosse adottata.

Una differenza decisiva. Che ci consente di valutare appieno la gravità della proposta

avanzata da Berlusconi.

È convinzione comune tra i costituzionalisti che una delle innovazioni più significative

del costituzionalismo contemporaneo sia non solo la rigidità delle costituzioni, ma la

previsione che la rigidità sia “garantita”. La garanzia è appunto data dalla previsione

del giudizio di costituzionalità delle leggi, finalizzato alla rimozione del vulnus portato

dalla legge lesiva della carta fondamentale. In mancanza di un giudizio di

costituzionalità della legge, accentrato o diffuso che sia, volto alla dichiarazione di

incostituzionalità con efficacia erga omnes o alla disapplicazione caso per caso, la

superiorità della norma costituzionale nella gerarchia delle fonti si dissolve. Poiché –

tra i modelli possibili e utilizzati nel costituzionalismo moderno - la pronuncia di

illegittimità è il solo modo consentito nel nostro ordinamento, la Corte costituzionale

è in prima linea nella garanzia della rigidità.

Introdurre una maggioranza qualificata di due terzi per la sentenza di accoglimento

comporta che l’opinione nel senso della conformità a Costituzione prevalga, anche se

fortemente minoritaria tra i giudici. Che non sarebbero più eguali nello svolgimento

della propria funzione, avendo maggior peso il voto dei pochi contrari alla questione

sollevata, rispetto al voto dei più.

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Tutto questo si tradurrebbe in una presunzione di legittimità della legge difficilmente

superabile. In una procedura di tipo parlamentare, infatti, se manca la maggioranza

prescritta il risultato previsto non si consegue: la legge non si approva, il titolare di

una carica non si elegge. Ma il giudice di costituzionalità è chiamato a decidere su

una domanda di giustizia. Il mancato raggiungimento di una maggioranza qualificata

comporterebbe il rigetto della domanda, e della questione sollevata. Il dubbio di

costituzionalità verrebbe risolto nel senso della conformità alla Costituzione della

legge impugnata. E dunque ne verrebbe fatalmente un affievolimento del connotato

della rigidità.

La gravità della cosa si avverte ancor meglio se si considera che la rigidità è già

costruita debolmente in Costituzione. In passato, c’è chi ha sostenuto che fosse

troppo difficile modificarla. Ma la storia ha ampiamente dimostrato il contrario. La

maggioranza assoluta dei componenti – peraltro richiesta solo nella seconda

deliberazione – in realtà coincide con una maggioranza di governo. La stessa

seconda deliberazione, nella quale non si ammettono emendamenti, è poco più che

una formalità. In concreto, una maggioranza di governo minimamente coesa e

decisa può fare la riforma che vuole, anche in tempi ragionevolmente brevi. I

regolamenti parlamentari vigenti assicurano che non si incontrino ostacoli

insuperabili.

La cosa è stata evidente con la riforma del Titolo V, approvata dalla sola

maggioranza in seconda deliberazione con soli tre voti di margine sulla soglia

richiesta della metà più uno dei componenti. Ed ha trovato conferma con la riforma

del centrodestra nel 2005, imposta senza mediazione alcuna dalla maggioranza di

governo, e fermata solo dal voto popolare. In realtà, è proprio il referendum ex art.

138 l’unico vero deterrente. La mancanza del quorum di validità impedisce di

puntare al non voto, come invece accade con il referendum abrogativo ex art. 75. E

dunque il confronto nel voto popolare è sostanzialmente inevitabile. Potrebbe

venirne una verifica plebiscitaria difficile per i sostenitori della riforma. Ma nemmeno

questo è, tuttavia, un argine insuperabile. E dunque abbiamo una debole rigidità,

che si accompagnerebbe – secondo la riforma ipotizzata – ad un evanescente

giudizio di costituzionalità. Una condizione nella quale si apre la via alla dittatura di

maggioranza.

Comunque, proprio la connessione tra maggioranza richiesta per la decisione e

giudizio di costituzionalità, e tra giudizio e rigidità, ci dice che non basterebbe la

legge ordinaria a introdurre la maggioranza qualificata, rendendosi invece necessaria

la legge costituzionale. Anche rifiutando questa posizione, del resto, non si

consentirebbe l’ingresso al legislatore ordinario. Sul punto, infatti, potrebbe vedersi

una riserva di regolamento a favore della stessa Corte. In tal senso va richiamata la

natura di organo costituzionale, cui si collega necessariamente una autonomia anche

normativa. E va considerato che l’esigenza di autonomia si coglie in specie per il

giudizio di costituzionalità delle leggi, in cui la Corte è chiamata fisiologicamente a

contrapporsi al legislatore. Un elemento importante nel senso indicato si trae dalle

Norme integrative, per cui in caso di parità prevale il voto del presidente. Se così

dispongono, e possono disporre, dobbiamo ritenere che ad altre fonti – ed in specie

al legislatore - sia precluso farlo.

Non a caso, del resto, la legge costituzionale n. 1 del 1953 prevede all’art. 1 che “la

Corte costituzionale esercita le sue funzioni nelle forme, nei limiti ed alle condizioni

di cui alla Carta costituzionale, alla legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, ed alla

legge ordinaria emanata per la prima attuazione delle predette norme costituzionali“

(corsivo aggiunto). Con tale disposto si pone un argine a ogni successivo intervento

del legislatore sugli anzidetti limiti, forme e condizioni. La “prima attuazione” è data

dalla legge n. 87 del 1953, e, specificamente per i giudizi di accusa, dalla legge n. 20

del 1962. E dunque si mostra corretta la scelta che i successivi interventi normativi

siano stati affidati alla potestà regolamentare della Corte (Regolamento generale

della Corte costituzionale, 20 gennaio 1966; Norme integrative per i giudizi davanti

alla Corte costituzionale, 16 marzo 1956 e 7 ottobre 2008). Mentre si può avere

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qualche dubbio sulla legittimità costituzionale dell’art. 9 della legge 131 del 2003,

che ha adattato la legge 87 del 1953 alla riforma del Titolo V del 2001, disciplinando

alcune modalità del giudizio in via principale davanti alla Corte, entrando così in

materia che potrebbe ritenersi riservata alla potestà regolamentare.

L’intervento di riforma prospettato non è dunque banale, o di poco momento. Incide

sugli equilibri di fondo del sistema costituzionale. Ed è solo uno scherzo della storia

che quanto oggi propone e argomenta Berlusconi ricordi da vicino gli argomenti che

in Assemblea Costituente svolgevano le parti politiche da lui tanto spesso esecrate.

Non pochi, tra i socialisti e i comunisti, erano diffidenti o apertamente contrari

all’idea che un giudice non rappresentativo potesse porre nel nulla la volontà del

popolo sovrano rappresentato in Parlamento. Il patto costituzionale era per una

parte molto importante affidato al futuro, all’attuazione di diritti nuovi che

richiedevano profonde innovazioni politiche, economiche, sociali. Un legislatore libero

da lacci e lacciuoli era strumento essenziale di questa visione. Emblematico

l’intervento di Togliatti, nella seduta dell’11 marzo 1947, che legge nel progetto

di Costituzione il timore di una maggioranza espressa dalle classi lavoratrici

e volta al cambiamento: “… di qui la pesantezza e lentezza nella

elaborazione legislativa, e tutto il resto; e di qui anche quella bizzarria della

Corte costituzionale, organo che non si sa cosa sia e grazie alla istituzione

del quale degli illustri cittadini verrebbero ad essere collocati al di sopra di

tutte le assemblee e di tutto il sistema del Parlamento e della democrazia,

per esserne i giudici. Ma chi sono costoro?”.

Berlusconi come Togliatti? Certamente no. Ben diversi gli obiettivi, infimi

per l’uno, nobili – e parte integrante del patto costituzionale - per l’altro. In

ogni caso, un primo ministro costituzionalmente alfabetizzato sarebbe più

consapevole e cauto. Soprattutto se fosse davvero volto a valori liberali,

come quelli che la parte moderata dell’assemblea costituente affermava

sostenendo il giudizio di costituzionalità come elemento primario di difesa

contro la dittatura di maggioranza. Mentre è proprio verso tale forma

degenerativa che scivola il nostro sistema. Va detto, però, che ciò non

accade solo perché esiste Berlusconi. Assistiamo alle ultime perversioni di

un modello fondato sull’elezione diretta del leader con la sua maggioranza.

Modello che non pochi anche nel centrosinistra tuttora ritengono risolutivo

e necessario per l’efficienza della politica, delle istituzioni, e del sistemapaese.

Mentre l’esperienza – anche a livello regionale e locale – dimostra

che su quella premessa i checks and balances sono fatalmente indeboliti, gli

istituti della responsabilità politica azzerati, le assemblee rappresentative

ridotte ad un parco di servitori obbedienti al principe. È questi il vero

titolare della volontà legislativa, e tutto dipende dalla qualità politica e

personale di chi ha il bastone del comando. Se tale qualità è bassa o infima,

ad essa tutto si allinea. E non è certo un caso che il nostro paese stia

scivolando sempre più in basso nelle classifiche internazionali sulla

corruzione.

Vedremo se Berlusconi darà seguito alle proprie minacce. Ma intanto

consideriamo se non ci sono passi da intraprendere utilmente in senso

diverso. A mio avviso, è giunto il momento di introdurre per le decisioni

della Corte costituzionale la dissenting opinion.

L’opinione dissenziente consentirebbe chiarezza nelle posizioni della Corte e

nelle maggioranze a sostegno della decisione. Con il duplice risultato di

rendere evidente l’esistenza di un pregiudizio politico, laddove vi fosse, e di

agevolare la univocità e la chiarezza delle motivazioni. Per contro, non c’è

alcuna sacralità da difendere in una formale unanimità di facciata, che tutti

sanno di fatto inesistente. Meglio può contribuire all’autorevolezza del

giudice anche l’alto profilo degli argomenti di chi dissente, come ben sa chi

conosce la Corte suprema degli Stati Uniti. E nemmeno c’è alcuna

riservatezza da difendere, dal momento che una ristretta cerchia di

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interessati conosce perfettamente voti, opinioni e comportamenti. E dunque

in un falso anonimato non si trova alcuna vera garanzia di autonomia e di

indipendenza del giudice. Ampia prova si trae da una nota e chiacchierata

cena cui parteciparono alcuni giudici della Corte e politici autorevoli prima

della decisione sul lodo Alfano. In un momento di difficile rapporto con il

potere politico, la trasparenza può solo essere un vantaggio e un punto di

forza, perché è strumento per la sottoposizione delle motivazioni e degli

argomenti della Corte al controllo dell’opinione degli studiosi e degli

operatori del diritto. È in questa comunità qualificata che la Corte può e

deve in ultima analisi cercare consenso ed appoggio. Questi sono i pari al

cui giudizio la Corte può e deve assoggettarsi.

Possiamo trovare a sostegno del dissent anche argomenti di ordine

sistematico. L’art. 5 della legge costituzionale n. 1 del 1953 dispone: “I giudici

della Corte costituzionale non sono sindacabili, né possono essere perseguiti per le

opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. Ma se voti e opinioni

dovessero rimanere rigorosamente coperti dal segreto, insuscettibili di essere

svelati, quale senso mai avrebbe la norma? E peraltro, se voti e opinioni possono

essere conosciuti, cosa osta a che siano resi visibili nella forma di un esplicito e

strutturato dissenso, contrapposto ad una opinione di maggioranza?

Nemmeno osta all’introduzione del dissent la disciplina costituzionale, che nulla dice

in senso contrario. Mentre la legge 87 del 1953 dispone all’art. 18 che “le sentenze …

debbono contenere, oltre alla indicazione dei motivi di fatto e di diritto, il dispositivo,

la data della decisione e la sottoscrizione dei giudici e del cancelliere. Le ordinanze

sono succintamente motivate”. Ma l’elencazione posta dalla norma può bene leggersi

nel senso che vengono esplicitati gli elementi minimi strutturalmente necessari per la

sentenza, senza escludere che altri possano aggiungersi, come appunto una o più

opinioni dissenzienti. Gli elementi elencati devono, e le opinioni dissenzienti possono,

esserci.

Infine, come andrebbe introdotta questa innovazione? Ritengo che

basterebbe una norma regolamentare adottata dalla stessa Corte. A questa

conclusione già si perviene in base agli argomenti sulla riserva di

regolamento svolti in precedenza. Si aggiunga che la disciplina delle

modalità della decisione è già dettata dalle norme regolamentari. È infatti

l’art. 17 delle Norme integrative del 2008 che disciplina le forme della

decisione di sentenze e ordinanze: deliberazione in camera di consiglio con voti

espressi in forma palese; ordine delle votazioni; prevalenza del voto del presidente

in caso di parità; redazione; sottoscrizione. E dunque ben si potrebbe integrare la

disciplina con la previsione che alla pronuncia si affianchino opinioni dissenzienti.

Quindi il dissent si può introdurre. Dunque, si deve. Quando “io vedo accordare il

diritto e la facoltà di fare tutto a un qualunque potere, che si chiami popolo o re,

democrazia o aristocrazia, che sia esercitato in una monarchia o una repubblica, io

dico che là è il germe della tirannide, e cerco di andare a vivere sotto altre leggi” (De

Tocqueville, De la démocratie en Amérique, trad. dell’A.).Nel nostro tempo,

dobbiamo fare tutto il possibile per difendere gli organi neutrali e di garanzia, nei

modi appropriati e consoni alla loro natura e funzione. In questo è il senso del

dissent, oggi.

 

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