Nelle sue ricorrenti
pulsioni di attacco alla Costituzione, il presidente del
consiglio ha
di nuovo messo nel
mirino la Corte costituzionale. A quanto si legge sulla
stampa,
pensa a una riforma
volta a richiedere una maggioranza qualificata di due
terzi per la
dichiarazione di
illegittimità costituzionale di una legge. La “colpa”
del giudice di
costituzionalità è
quella di avere “abrogato” (sic) leggi giuste, anzi
giustissime.
Non serve la sfera di
cristallo per capire che Berlusconi ancora una volta
vuole una
legge ad personam.
Perché le leggi “giustissime” sono con ogni evidenza i
lodi, il
legittimo
impedimento, e magari domani il processo breve e la
legge sulle
intercettazioni. E
dunque i giudici di sinistra - che secondo tale
autorevole opinione si
annidano nella Corte
- hanno già gravemente peccato, e potrebbero persino
perseverare. Meglio
stroncare il complotto assicurando un potere di veto
alla
pattuglia dei giudici
più sensibili e attenti alle sorti berlusconiane. La
cruciale
sentenza 262 del 2009
fu assunta – a quanto si sa – nove a sei. Con la riforma
ipotizzata il lodo
Alfano sarebbe ancora legge dello Stato, perchè si
richiederebbero
almeno dieci giudici
a favore della illegittimità.
La incultura
giuridica del presidente del consiglio – o forse un
errore consapevole e
voluto - lo conduce a
dire che la Corte abroga le leggi, come un legislatore
successivo che
sovrapponga la propria volontà a quella del parlamento
democratico
eletto dal popolo
sovrano. Ovviamente, è una rappresentazione del tutto
falsa. La
Corte cancella
dall’ordinamento la norma costituzionalmente
illegittima, che non ha
diritto di
cittadinanza nell’ordinamento giuridico, che il
legislatore non avrebbe
dovuto adottare, e
che il popolo sovrano non potrebbe mai volere fosse
adottata.
Una differenza
decisiva. Che ci consente di valutare appieno la gravità
della proposta
avanzata da
Berlusconi.
È convinzione comune
tra i costituzionalisti che una delle innovazioni più
significative
del costituzionalismo
contemporaneo sia non solo la rigidità delle
costituzioni, ma la
previsione che la
rigidità sia “garantita”. La garanzia è appunto data
dalla previsione
del giudizio di
costituzionalità delle leggi, finalizzato alla rimozione
del vulnus portato
dalla legge lesiva
della carta fondamentale. In mancanza di un giudizio di
costituzionalità
della legge, accentrato o diffuso che sia, volto alla
dichiarazione di
incostituzionalità
con efficacia erga omnes o alla disapplicazione
caso per caso, la
superiorità della
norma costituzionale nella gerarchia delle fonti si
dissolve. Poiché –
tra i modelli
possibili e utilizzati nel costituzionalismo moderno -
la pronuncia di
illegittimità è il
solo modo consentito nel nostro ordinamento, la Corte
costituzionale
è in prima linea
nella garanzia della rigidità.
Introdurre una
maggioranza qualificata di due terzi per la sentenza di
accoglimento
comporta che
l’opinione nel senso della conformità a Costituzione
prevalga, anche se
fortemente
minoritaria tra i giudici. Che non sarebbero più eguali
nello svolgimento
della propria
funzione, avendo maggior peso il voto dei pochi contrari
alla questione
sollevata, rispetto
al voto dei più.
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Tutto questo si
tradurrebbe in una presunzione di legittimità della
legge difficilmente
superabile. In una
procedura di tipo parlamentare, infatti, se manca la
maggioranza
prescritta il
risultato previsto non si consegue: la legge non si
approva, il titolare di
una carica non si
elegge. Ma il giudice di costituzionalità è chiamato a
decidere su
una domanda di
giustizia. Il mancato raggiungimento di una maggioranza
qualificata
comporterebbe il
rigetto della domanda, e della questione sollevata. Il
dubbio di
costituzionalità
verrebbe risolto nel senso della conformità alla
Costituzione della
legge impugnata. E
dunque ne verrebbe fatalmente un affievolimento del
connotato
della rigidità.
La gravità della cosa
si avverte ancor meglio se si considera che la rigidità
è già
costruita debolmente
in Costituzione. In passato, c’è chi ha sostenuto che
fosse
troppo difficile
modificarla. Ma la storia ha ampiamente dimostrato il
contrario. La
maggioranza assoluta
dei componenti – peraltro richiesta solo nella seconda
deliberazione – in
realtà coincide con una maggioranza di governo. La
stessa
seconda
deliberazione, nella quale non si ammettono emendamenti,
è poco più che
una formalità. In
concreto, una maggioranza di governo minimamente coesa e
decisa può fare la
riforma che vuole, anche in tempi ragionevolmente brevi.
I
regolamenti
parlamentari vigenti assicurano che non si incontrino
ostacoli
insuperabili.
La cosa è stata
evidente con la riforma del Titolo V, approvata dalla
sola
maggioranza in
seconda deliberazione con soli tre voti di margine sulla
soglia
richiesta della metà
più uno dei componenti. Ed ha trovato conferma con la
riforma
del centrodestra nel
2005, imposta senza mediazione alcuna dalla maggioranza
di
governo, e fermata
solo dal voto popolare. In realtà, è proprio il
referendum ex art.
138 l’unico vero
deterrente. La mancanza del quorum di validità impedisce
di
puntare al non voto,
come invece accade con il referendum abrogativo ex art.
75. E
dunque il confronto
nel voto popolare è sostanzialmente inevitabile.
Potrebbe
venirne una verifica
plebiscitaria difficile per i sostenitori della riforma.
Ma nemmeno
questo è, tuttavia,
un argine insuperabile. E dunque abbiamo una debole
rigidità,
che si
accompagnerebbe – secondo la riforma ipotizzata – ad un
evanescente
giudizio di
costituzionalità. Una condizione nella quale si apre la
via alla dittatura di
maggioranza.
Comunque, proprio la
connessione tra maggioranza richiesta per la decisione e
giudizio di
costituzionalità, e tra giudizio e rigidità, ci dice che
non basterebbe la
legge ordinaria a
introdurre la maggioranza qualificata, rendendosi invece
necessaria
la legge
costituzionale. Anche rifiutando questa posizione, del
resto, non si
consentirebbe
l’ingresso al legislatore ordinario. Sul punto, infatti,
potrebbe vedersi
una riserva di
regolamento a favore della stessa Corte. In tal senso va
richiamata la
natura di organo
costituzionale, cui si collega necessariamente una
autonomia anche
normativa. E va
considerato che l’esigenza di autonomia si coglie in
specie per il
giudizio di
costituzionalità delle leggi, in cui la Corte è chiamata
fisiologicamente a
contrapporsi al
legislatore. Un elemento importante nel senso indicato
si trae dalle
Norme integrative,
per cui in caso di parità prevale il voto del
presidente. Se così
dispongono, e possono
disporre, dobbiamo ritenere che ad altre fonti – ed in
specie
al legislatore - sia
precluso farlo.
Non a caso, del
resto, la legge costituzionale n. 1 del 1953 prevede
all’art. 1 che “la
Corte costituzionale
esercita le sue funzioni nelle forme, nei limiti ed alle
condizioni
di cui alla Carta
costituzionale, alla legge costituzionale 9 febbraio
1948, n. 1, ed alla
legge ordinaria
emanata per la prima attuazione delle predette
norme costituzionali“
(corsivo aggiunto).
Con tale disposto si pone un argine a ogni successivo
intervento
del legislatore sugli
anzidetti limiti, forme e condizioni. La “prima
attuazione” è data
dalla legge n. 87 del
1953, e, specificamente per i giudizi di accusa, dalla
legge n. 20
del 1962. E dunque si
mostra corretta la scelta che i successivi interventi
normativi
siano stati affidati
alla potestà regolamentare della Corte (Regolamento
generale
della Corte
costituzionale,
20 gennaio 1966; Norme integrative per i giudizi
davanti
alla Corte
costituzionale,
16 marzo 1956 e 7 ottobre 2008). Mentre si può avere
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qualche dubbio sulla
legittimità costituzionale dell’art. 9 della legge 131
del 2003,
che ha adattato la
legge 87 del 1953 alla riforma del Titolo V del 2001,
disciplinando
alcune modalità del
giudizio in via principale davanti alla Corte, entrando
così in
materia che potrebbe
ritenersi riservata alla potestà regolamentare.
L’intervento di
riforma prospettato non è dunque banale, o di poco
momento. Incide
sugli equilibri di
fondo del sistema costituzionale. Ed è solo uno scherzo
della storia
che quanto oggi
propone e argomenta Berlusconi ricordi da vicino gli
argomenti che
in Assemblea
Costituente svolgevano le parti politiche da lui tanto
spesso esecrate.
Non pochi, tra i
socialisti e i comunisti, erano diffidenti o apertamente
contrari
all’idea che un
giudice non rappresentativo potesse porre nel nulla la
volontà del
popolo sovrano
rappresentato in Parlamento. Il patto costituzionale era
per una
parte molto
importante affidato al futuro, all’attuazione di diritti
nuovi che
richiedevano profonde
innovazioni politiche, economiche, sociali. Un
legislatore libero
da lacci e lacciuoli
era strumento essenziale di questa visione. Emblematico
l’intervento di
Togliatti, nella seduta dell’11 marzo 1947, che legge
nel progetto
di Costituzione il
timore di una maggioranza espressa dalle classi
lavoratrici
e volta al
cambiamento: “… di qui la pesantezza e lentezza nella
elaborazione
legislativa, e tutto il resto; e di qui anche quella
bizzarria della
Corte
costituzionale, organo che non si sa cosa sia e grazie
alla istituzione
del quale degli
illustri cittadini verrebbero ad essere collocati al di
sopra di
tutte le assemblee
e di tutto il sistema del Parlamento e della democrazia,
per esserne i
giudici. Ma chi sono costoro?”.
Berlusconi come
Togliatti? Certamente no. Ben diversi gli obiettivi,
infimi
per l’uno, nobili
– e parte integrante del patto costituzionale - per
l’altro. In
ogni caso, un
primo ministro costituzionalmente alfabetizzato sarebbe
più
consapevole e
cauto. Soprattutto se fosse davvero volto a valori
liberali,
come quelli che la
parte moderata dell’assemblea costituente affermava
sostenendo il
giudizio di costituzionalità come elemento primario di
difesa
contro la
dittatura di maggioranza. Mentre è proprio verso tale
forma
degenerativa che
scivola il nostro sistema. Va detto, però, che ciò non
accade solo perché
esiste Berlusconi. Assistiamo alle ultime perversioni di
un modello fondato
sull’elezione diretta del leader con la sua maggioranza.
Modello che non
pochi anche nel centrosinistra tuttora ritengono
risolutivo
e necessario per
l’efficienza della politica, delle istituzioni, e del
sistemapaese.
Mentre
l’esperienza – anche a livello regionale e locale –
dimostra
che su quella
premessa i checks and balances sono fatalmente
indeboliti, gli
istituti della
responsabilità politica azzerati, le assemblee
rappresentative
ridotte ad un
parco di servitori obbedienti al principe. È questi il
vero
titolare della
volontà legislativa, e tutto dipende dalla qualità
politica e
personale di chi
ha il bastone del comando. Se tale qualità è bassa o
infima,
ad essa tutto si
allinea. E non è certo un caso che il nostro paese stia
scivolando sempre
più in basso nelle classifiche internazionali sulla
corruzione.
Vedremo se
Berlusconi darà seguito alle proprie minacce. Ma intanto
consideriamo se
non ci sono passi da intraprendere utilmente in senso
diverso. A mio
avviso, è giunto il momento di introdurre per le
decisioni
della Corte
costituzionale la dissenting opinion.
L’opinione
dissenziente consentirebbe chiarezza nelle posizioni
della Corte e
nelle maggioranze
a sostegno della decisione. Con il duplice risultato di
rendere evidente
l’esistenza di un pregiudizio politico, laddove vi
fosse, e di
agevolare la
univocità e la chiarezza delle motivazioni. Per contro,
non c’è
alcuna sacralità
da difendere in una formale unanimità di facciata, che
tutti
sanno di fatto
inesistente. Meglio può contribuire all’autorevolezza
del
giudice anche
l’alto profilo degli argomenti di chi dissente, come ben
sa chi
conosce la Corte
suprema degli Stati Uniti. E nemmeno c’è alcuna
riservatezza da
difendere, dal momento che una ristretta cerchia di
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interessati
conosce perfettamente voti, opinioni e comportamenti. E
dunque
in un falso
anonimato non si trova alcuna vera garanzia di autonomia
e di
indipendenza del
giudice. Ampia prova si trae da una nota e chiacchierata
cena cui
parteciparono alcuni giudici della Corte e politici
autorevoli prima
della decisione
sul lodo Alfano. In un momento di difficile rapporto con
il
potere politico,
la trasparenza può solo essere un vantaggio e un punto
di
forza, perché è
strumento per la sottoposizione delle motivazioni e
degli
argomenti della
Corte al controllo dell’opinione degli studiosi e degli
operatori del
diritto. È in questa comunità qualificata che la Corte
può e
deve in ultima
analisi cercare consenso ed appoggio. Questi sono i pari
al
cui giudizio la
Corte può e deve assoggettarsi.
Possiamo trovare a
sostegno del dissent anche argomenti di ordine
sistematico.
L’art. 5
della legge costituzionale n. 1 del 1953 dispone: “I
giudici
della Corte
costituzionale non sono sindacabili, né possono essere
perseguiti per le
opinioni espresse e i
voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. Ma se
voti e opinioni
dovessero rimanere
rigorosamente coperti dal segreto, insuscettibili di
essere
svelati, quale senso
mai avrebbe la norma? E peraltro, se voti e opinioni
possono
essere conosciuti,
cosa osta a che siano resi visibili nella forma di un
esplicito e
strutturato dissenso,
contrapposto ad una opinione di maggioranza?
Nemmeno osta
all’introduzione del dissent la disciplina
costituzionale, che nulla dice
in senso contrario.
Mentre la legge 87 del 1953 dispone all’art. 18 che “le
sentenze …
debbono contenere,
oltre alla indicazione dei motivi di fatto e di diritto,
il dispositivo,
la data della
decisione e la sottoscrizione dei giudici e del
cancelliere. Le ordinanze
sono succintamente
motivate”. Ma l’elencazione posta dalla norma può bene
leggersi
nel senso che vengono
esplicitati gli elementi minimi strutturalmente
necessari per la
sentenza, senza
escludere che altri possano aggiungersi, come appunto
una o più
opinioni
dissenzienti. Gli elementi elencati devono, e le
opinioni dissenzienti possono,
esserci.
Infine, come
andrebbe introdotta questa innovazione? Ritengo che
basterebbe una
norma regolamentare adottata dalla stessa Corte. A
questa
conclusione già si
perviene in base agli argomenti sulla riserva di
regolamento svolti
in precedenza. Si aggiunga che la disciplina delle
modalità della
decisione è già dettata dalle norme regolamentari. È
infatti
l’art. 17 delle
Norme integrative del 2008 che disciplina le forme
della
decisione di
sentenze e ordinanze: deliberazione
in camera di consiglio con voti
espressi in forma
palese; ordine delle votazioni; prevalenza del voto del
presidente
in caso di parità;
redazione; sottoscrizione. E dunque ben si potrebbe
integrare la
disciplina con la
previsione che alla pronuncia si affianchino opinioni
dissenzienti.
Quindi il dissent
si può introdurre. Dunque, si deve. Quando “io vedo
accordare il
diritto e la facoltà
di fare tutto a un qualunque potere, che si chiami
popolo o re,
democrazia o
aristocrazia, che sia esercitato in una monarchia o una
repubblica, io
dico che là è il
germe della tirannide, e cerco di andare a vivere sotto
altre leggi” (De
Tocqueville, De la
démocratie en Amérique, trad. dell’A.).Nel nostro
tempo,
dobbiamo fare tutto
il possibile per difendere gli organi neutrali e di
garanzia, nei
modi appropriati e
consoni alla loro natura e funzione. In questo è il
senso del
dissent,
oggi. |