Università di Bologna
Il tema che mi è stato assegnato -
Autoderminazione: prospettiva sociologico-culturale-
è indubbiamente molto intrigante, ma per nulla facile da
trattare.
Dopo aver riflettuto e imprecato non poco sulla
mia dabbenaggine ad accettare relazioni del genere,
confesso però di essermi impegnato parecchio per non
deludere le aspettative di chi mi aveva assegnato questo
titolo, specialmente per quanto riguarda la parte
sociologica. Ho provato a elaborare un disegno di
ricerca empirica, poi un piccolo questionario, finché mi
sono accorto di non avere tempo sufficiente per
sottoporlo a un campione di persone sufficientemente
rappresentativo e avere dati empirici attendibili. A
questo punto avevo due possibilità: non farne nulla,
oppure somministrare comunque il questionario a
qualcuno, magari solo per vedere l’effetto che avrebbe
fatto. Ho deciso per la seconda ipotesi e l’ho
somministrato a un campione rappresentativo di studenti
della mia Facoltà di Scienze politiche di Forlì, 150
studenti per l’esattezza, pescati a caso in corsi
differenti.
I dati che tra poco fornirò riguardano dunque
soltanto gli studenti della mia Facoltà e sono quindi
poco rappresentativi in generale. Ma forse quello che
conta di più, almeno spero, è l’abbozzo di ricerca che
ho cercato di elaborare per raccoglierli, il quale,
volenti o nolenti, mi ha costretto comunque a pensare
sul tema che volevo indagare: l’autoderminazione
appunto, uno dei busillis filosofici più
intricati, sui quali esiste ormai una letteratura
sterminata, ma che, specialmente di questi tempi, viene
maneggiato con disinvolta leggerezza anche in molti
dibattiti pubblici, vedi quelli sull’eutanasia. E’
sufficiente evocare il concetto di autoderminazione per
essere quasi sicuri di una reazione emotiva favorevole.
E questo forse spiega perché venga spesso evocato anche
a sproposito.
Il primo problema che si incontra quando ci si
occupa di autodeterminazione riguarda la determinazione
del significato del concetto. Dire che un soggetto
determina se stesso richiama infatti l’idea di “causa
sui”, la quale, però, specie quando si tratta di
uomini, è tutt’altro che scontata. Friedrich Nietzsche,
tanto per fare un nome certamente significativo,
sosteneva in proposito quanto segue: “La causa sui
è la maggiore autocontraddizione che sia stata concepita
fino a oggi, una specie di stupro e d’ innaturalità
logica: ma lo sfrenato orgoglio dell’uomo l’ha portato
al punto d’irretirsi profondamente e orribilmente
proprio in questa assurdità. Il desiderio del ‘libero
volere’, in quel metafisico intelletto superlativo,
quale purtroppo continua a signoreggiare nelle teste dei
semidotti, il desiderio di portare in se stessi l’intera
e l’ultima responsabilità per le proprie azioni e di
esimere da esse Dio, mondo, progenitori, caso, società
equivale infatti ad essere nientemeno che quella
causa sui e a tirare per i capelli se stessi dalla
palude del nulla dell’esistenza, con una temerarietà più
che alla Muenchausen” (Nietzsche 1968, 25-26).
Solitamente il concetto viene quindi fatto
coincidere con quello di libertà. Un individuo determina
le proprie azioni, e quindi determina se stesso, nel
senso che guida il proprio corso di vita essendone
responsabile. Le sue azioni cominciano da lui – la
libertà è la facoltà di cominciare qualcosa da sé (Kant)
– e non sono causate o determinate da qualcosa che non è
nei suoi poteri – cause esterne, l’educazione che ha
ricevuto, i suoi stati cerebrali ecc. Eppure proprio
Kant, certamente un autore “classico” della libertà e
dell’autodeterminazione, nutriva seri dubbi in ordine al
fatto che l’autodeterminazione potesse spingersi,
poniamo, fino alla disponibilità della vita; considerava
anzi il suicidio come una sorta di violazione della
formula dell’imperativo categorico, secondo la quale
occorre considerare l’umanità di sé e degli altri sempre
come fine e mai come mezzo (il suicida usa la propria
persona come un mezzo per sfuggire all’infelicità). Gli
stessi dubbi, tanto per fare il nome di qualche altro
“classico”, li ritroviamo in Locke e in Hegel.
Nel Secondo trattato sul governo Locke
dichiara, ad esempio, che il corpo è proprietà della
persona, la quale ha su di esso pieni ed esclusivi
diritti, ma tale proprietà del corpo non comporta la
disponibilità della vita. La schiavitù e il suicidio
rappresentano per Locke i limiti invalicabili della
nostra libertà; e questo perché non ci siamo creati da
soli ma siamo creazione di un altro. L’altro a cui
pensava Locke era ovviamente Dio, ma io credo che la
limitazione potrebbe giustificarsi anche se pensiamo
semplicemente agli altri da cui dipende il nostro essere
venuti al mondo e con i quali, anche quando non ce ne
rendiamo conto, restiamo in una profonda relazione; una
relazione che ci costituisce in ciò che siamo e che
diventa anche fonte di obbligatorietà. Non possiamo
pensare di toglierci di mezzo, senza pensare al dolore
di nostra madre o delle persone che ci amano. La
solidarietà è attiva già a questo livello come limite,
come ambito, all’interno del quale siamo liberi di
determinarci.
Pur con argomenti più astratti, anche Hegel
ritiene che non esista per l’uomo un diritto ad
alienarsi la vita (Lineamenti di filosofia del
diritto, § 48, 66,67,69,70). Al pari delle
caratteristiche sostanziali della mia personalità, quali
la mia autocoscienza, la mia libertà, ecc., anche la
vita viene considerata inalienabile. Solo ciò che è
“esteriore” è alienabile, non ciò che ci costituisce in
quanto persone.
Nel mio abbozzo di ricerca empirica, tra le
domande rivolte agli intervistati, ce n’è una che suona
così: “Quale definizione ti sembra più adeguata per
il concetto di libertà?”. L’intervistato poteva
scegliere tra cinque tipi di risposta: a) assenza di
costrizioni; b) diritto all’autodeterminazione; c)
capacità di scelta; d) capacità di perseguire i nostri
modelli di felicità; e) capacità di perseguire il bene.
La gran maggioranza degli intervistati ha optato per
“capacità di scelta” (il 33,7%) e per “diritto
all’autodetrminazione” (28,2%). Assai sorprendentemente
solo un 18,3% ha optato per quella che forse è la
condizione più evidente della libertà, ossia l’”assenza
di costrizioni”. Si potrebbe dunque dire, in un senso
che spiegherò tra breve, che Kant ha la meglio su Hume.
Ma ciò che colpisce è lo sganciamento pressoché totale
della libertà dalla “capacità di perseguire il bene”
(uno sparutissimo 1,5%) e la scarsa connessione che
viene posta tra la libertà e la “capacità di perseguire
i nostri modelli di felicità”(18,3%).
Questi dati sono ancora più significativi, se li
compariamo con quelli relativi ad un’altra domanda del
questionario: “Tra quelli sotto indicati, quale è il
principio che meglio può fare da guida per dirimere le
grandi questioni bioetiche del nostro tempo
(sperimentazione sugli embrioni umani, aborto,
eutanasia, ecc.)?”. Alla “fiducia nella scienza e
negli scienziati” si affida il 20,6% degli intervistati;
alla “inviolabilità della vita umana dall’inizio alla
fine” il 26,7%; al “diritto all’autodeterminazione di
ogni individuo” il 43,6%; al “dibattito pubblico” il
9,1%.
Con buona pace di Locke, Kant, Hegel, Nietzsche e
molti altri, il diritto all’autodeterminazione di ogni
individuo sembra farla dunque da padrone. Possiamo certo
consolarci con la consapevolezza che si tratta di dati
poco attendibili, poiché si tratta di un questionario
sottoposto soltanto agli studenti dei miei corsi presso
l’Universtà di Bologna, Sede di Forlì. Ma temo che il
sentire più diffuso nella nostra cultura sia proprio
questo. Il diritto all’autodeterminazione sta diventando
uno degli slogan più accattivanti del nostro tempo. E
questo nonostante che la riflessione filosofia più
aggiornata di questi ultimi anni mostri in proposito
crescenti perplessità. A questo proposito vorrei
soffermarmi su una in particolare: posto che
l’autodeterminazione ci sia, essa non dice nulla su ciò
che si deve fare, sul valore del comando a cui si
obbedisce. Mi spiego.
Come ha mostrato assai bene Luigi Cimmino (Cfr.
Cimmino 2003, 57-132), alla base del principio di
autodeterminazione c’è un presupposto tutt’altro che
scontato, e cioè che sono io a scegliere, sono io il
padrone delle mie intenzioni; sono io che scelgo quali
perseguire e quali abbandonare. Ma il fatto è che lo
stesso atto dello scegliere è un atto intenzionale, che
quindi ha già necessariamente una sua intenzione (è,
diciamo così, assegnato ad una intenzione). Un esempio.
Mi viene proposto se scegliere un gelato alla frutta o
uno al cioccolato; nessuno mi obbliga alla scelta e
quest’ultima non è causata da nulla. A questo punto due
sono le cose. A) non ho preferenze di gusti: ma allora
propriamente non scelgo, la mia mano si muove
casualmente a prendere uno o l’altro dei due gelati,
indifferentemente. Oppure B) scelgo uno dei due gusti:
ma questo avviene perché ho una preferenza, che quindi
guida la mia scelta. Nel primo caso l’azione è
arbitraria, nel secondo avviene in base ad una
intenzione (quella del gusto) che non scelgo.
Poiché, detto in altro modo, lo scegliere è un’azione,
ed ogni azione implica logicamente l’intenzione che la
guida, non è possibile scegliere una intenzione; è
possibile solo scegliere, all’interno di una
alternativa, in base ad una intenzione che non è
ovviamente scelta. Quindi io non posso essere padrone
delle mie intenzioni, non posso governare i fini delle
mie azioni – se non in base a intenzioni basilari che
“mi trovo” ad avere. A questo pensava forse Nietzsche
quando, nel passo che ho citato, ironizzava ferocemente
sulla “causa sui”, come un modo di tirarsi fuori dal
pantano tirandosi per i capelli. Un po’ come nei quadri
di Escher il meccanismo del nostro volere, delle nostre
scelte, si rivela sorprendentemente come un meccanismo
che non ha un punto di partenza. A questo pensa di
sicuro Galen Strawson, allorché in un saggio del 1986,
intitolato Freedom and Belief, cerca di mostrare
addirittura l’inintelligibilità della “responsabilità
ultima”.
Poniamo ad ogni modo che da tale Cul-de-sac si
riesca ad uscire, che la coscienza eserciti vera e
propria “signoria” sulle sue intenzioni, che quindi gli
esseri umani possano davvero determinare i propri fini
senza presupporne altri e che possano autenticamente
scegliere cosa fare e ne siano responsabili (in effetti,
se delle mie intenzioni di base non posso rispondere, a
cosa mai si riduce la “responsabilità”?), la difficoltà
accennata chiarisce comunque qualcosa di estremamente
importante in ambito morale: l’autodeterminazione non ha
nulla a che fare con il valore di ciò che si fa o della
legge a cui si obbedisce; è la condizione
dell’attribuzione di responsabilità, ma non si pronuncia
e non può pronunciarsi affatto sul valore dell’azione
responsabile. In ambito prescrittivista, come aveva
capito Carl Schmitt contro Kant, il valore della legge
dipende dall’autorità di chi la emana. L’errore di tanta
filosofia contemporanea, di radice illuminista ma non
solo, è quello di cercare di giustificare la libertà
umana, per poi dedurre in qualche modo da tale libertà
il contenuto della legge da perseguire. In realtà la
situazione è quella opposta. Dalla libertà non traggo
alcun contenuto: è perché una legge ha valore, per
l’autorità di chi la emana, che la responsabilità,
l’autodeterminazione assume valore morale. E’ perché un
certo ideale di vita ha per me valore che
l’autodeterminazione assume valore morale (Cfr. Cimmino
2003, 78-90).
Gran parte degli odierni paladini
dell’autoderminazione non sembrano consapevoli di questa
situazione. In altre parole, non si avvedono che il
problema non è tanto l’autoderminazione quanto la legge
e l’ideale di vita che assumiamo come suo criterio. Che
cos’è che distingue il dovere della signora Goebbels,
che decide di uccidere i suoi cinque figli, da quello di
San Francesco, che decide di donarsi totalmente agli
altri?
La domanda è inquietante, ma la risposta forse è
semplice: il fatto che nel caso di San Francesco siamo
certi che si tratta di un dovere che scaturisce da una
volontà buona, che realizza un ideale buono di umanità;
nel caso della signora Goebbels si tratta invece di un
dovere che, per quanto autenticamente “voluto”,
scaturisce da una vera e propria perversione, e questo
anche se siamo disposti a riconoscere che la povera
signora Goebbels sia solo parzialmente responsabile del
delitto che commette. Possiamo agire per un volere che è
realmente voluto, cioè “proprio”, ma che nel contempo è
anche “improprio”, come fanno ad esempio i tossicomani.
Secondo Platone, alla base di tale volere improprio si
trova una percezione deformata della realtà, di ciò che
è desiderabile. Sta di fatto che in realtà con la scelta
della legge che assumiamo come nostra decidiamo anche
chi siamo, che cosa vogliamo che gli altri pensino
di noi. Un aspetto questo sul quale non riflettiamo mai
abbastanza, ma assai significativo. Siamo certo ciò che
la natura ci ha dato e che non dipende da noi, siamo
anche l’educazione, gli usi e i costumi che abbiamo
acquisito dall’ambiente nel quale siamo nati e vissuti e
che nemmeno dipende da noi; ma siamo anche il modello,
il ruolo, la legge che ad un certo punto abbiamo deciso
di fare nostri. La nostra personalità, il nostro
carattere sono in fondo questa sintesi.
“Chi attribuisce all’uomo la libertà del volere
intende con questo affermare che l’uomo è il fondamento
stesso del proprio agire-così-e-non-altrimenti. E
certamente non solo in modo che questo agire sia la
conseguenza necessaria di condizioni antecedenti
sottratte alla sua possibilità, ma in modo che l’uomo
stesso porti una responsabilità per il suo essere così,
nella misura questo essere così è plasmato dalle sue
azioni e nella misura in cui le decisioni su determinate
azioni sono, al tempo stesso, decisioni su ciò che
qualcuno cerca di essere come uomo” (Spaemann 2005,
190). Agere sequitur esse dicevano gli
scolastici. Tuttavia per le persone vale anche il
contrario: il loro agire si ripercuote su ciò che esse
sono.
La libertà umana è sempre “un essere liberi da”
che viene percepito da esseri che tendono per se stessi
verso qualcosa. Libertà è pertanto anche libertà di
sviluppare una tendenza propria, diciamo pure di
svilupparsi in accordo con la propria specie. Una tigre
in gabbia o una rondine nell’acqua non sono libere.
Tuttavia, e qui sta a mio avviso il punto, non
vale per qualsiasi tendenza immanente il fatto che la
sua possibilità di sviluppo significhi libertà. La
soddisfazione del desiderio di bere di un alcolista o
del desiderio di rubare di un cleptomane non sono
espressioni della loro libertà. Ma è esattamente questo
che non viene percepito dalla cultura contemporanea e
che in qualche modo viene confermato anche dai miei
studenti nel momento in cui identificano la libertà con
l’autodeterminazione, ignorando pressoché in toto
che anche la natura può costituire un limite alla
libertà.
“Tra i concetti sotto indicati quale è quello
che rappresenta al meglio il limite della libertà?”:
così suonava una delle domande del mio questionario.
Ebbene il 49,7% degli intervistati ha risposto “la
libertà dell’altro”; il 24,4% ha risposto “la legge”; il
19,1% “la mia coscienza”; e solo il 6,8% ha risposto “la
natura”.
Ma, si obbietterà, posto che esista una natura
umana, questa è troppo plastica per poter stabilire che
cosa è conforme alla sua realizzazione e che cosa no.
Perché dunque insistere ancora sulla natura? Per questa
semplice ragione: perché gli uomini hanno con la propria
natura una relazione che non è uguale a quella che hanno
gli altri animali; perché abbiamo una natura
senza essere questa natura; perché possiamo
rapportarci liberamente ad essa (siamo liberi dalla
nostra propria natura) senza tuttavia poterla ignorare
del tutto; perché possiamo realizzarci come persone solo
insieme agli altri, riconoscendo gli altri e grazie al
riconoscimento da parte degli altri; perché forse la
“libertà da noi stessi” è il compito più difficile, ma
anche il compito principale, che abbiamo in quanto
uomini. (Cfr. Spaemann 2005, 209).
Questa dimensione “comunitaria”, “relazionale” del
nostro essere uomini in genere non viene presa nella
giusta considerazione da coloro che fanno
dell’autodeterminazione il valore fondamentale. Ma è
proprio questa dimensione che, a mio avviso, è decisiva
allorché si tratta di dirimere, come dobbiamo fare oggi,
vere e proprie questioni di vita e di morte. Mi spiego.
E lo faccio a partire da un’altra domanda del
questionario che ho sottoposto ai miei studenti.
La domanda è la seguente: “Sei favorevole o
contrario all’eutanasia?”. Il 15,5% degli
intervistati si è dichiarato contrario; l’84,5%
favorevole. Tra i contrari, il 35% lo è “perché la vita
non è nostra”; il 25% perché “temo che possa essere
utilizzata per togliere di mezzo i più deboli”; il 40%
“perché non posso chiedere a un altro di uccidermi”. Tra
i favorevoli, il 62,3% lo è perché “ne va della dignità
del vivere e del morire”; il 29,3% perché “ne va del
diritto all’autodeterminazione di ognuno”; l’8,2% perché
“in certi momenti la vita non ha più senso”.
A prescindere dall’attendibilità dei dati
riportati, trovo particolarmente significativo il fatto
che, tra i favorevoli all’eutanasia, ben il 29,3% lo sia
perché “ne va del diritto all’autodeterminazione”, come
pure il fatto che il 40% di coloro che si mostrano
contrari all’eutanasia lo sono “perché non posso
chiedere a un altro di uccidermi”. Sebbene questi ultimi
rappresentino una sparuta minoranza rispetto al totale
degli intervistati, mi sembra che, rispetto agli altri,
dimostrino una consapevolezza importante circa
l’autodeterminazione e i suoi limiti.
Non soltanto infatti, come spero di aver mostrato,
l’autodeterminazione, per sé, non dice nulla circa la
bontà delle nostre azioni, ma, e questo è il caso
dell’eutanasia, spesso il principio di
autodeterminazione viene invocato a sproposito. Se la
libertà è sempre un “esser liberi da”, un “liberarsi da”
e quindi un potersi determinare per, allora il
“liberarsi dalla propria vita”, prescindendo dalla
tragicità che evoca, è sempre un gesto “irrazionale”, un
“essere per la morte” del tutto inautentico, direbbe
Heidegger. Di passaggio faccio notare che è proprio per
questa sua essenziale, assoluta “irrazionalità” e
imperscrutabilità che il suicidio, visto che di questo
si tratta, esige sempre l’umana pietà. Sia che ci si
uccida, come facevano gli antichi, “per eroismo, per
illusioni, per passioni violente”, sia che lo si faccia
“stanchi e disperati di questa esistenza”, come fanno i
moderni, il suicidio appare anche a Giacomo Leopardi
come “la cosa più mostruosa in natura”, appunto la più
incomprensibile. Ma allora che cosa significa parlare di
un diritto a morire come e quando ci pare, in nome della
cosiddetto principio di autodeterminazione?
A mio modo di vedere, quando parliamo in questo
modo, cerchiamo in realtà di nascondere quello che
effettivamente chiediamo: non il diritto di ucciderci
(del resto, che senso ha rivendicare come diritto ciò
che chiunque può fare in ogni momento?), bensì il
diritto che altri ci uccidano. Ma ha senso
rivendicare un tale diritto? Anche in questo caso, sia
chiaro, “è la pietà che l’uomo all’uom più deve”. E’
certo però che l’eutanasia aggiunge alla tragicità e
all’irrazionalità del suicidio un ulteriore elemento di
pesantezza: la disumanità della società che la rende
possibile.
Da questo punto di vista, fa bene Francesco
D’Agostino a ricondurre sempre la questione della legge
sulla fine della vita umana al delicato rapporto
medico-paziente, evitando sia la Scilla di chi, in
proposito, vorrebbe riporre tutto nella scienza e
coscienza del medico, sia la Cariddi di chi ritiene
invece che debba contare soltanto la volontà del
paziente, la sua autodeterminazione, appunto. Ma non si
può certo dire che questa sia la posizione oggi
dominante. A questo proposito voglio citare, non i miei
studenti, ma un personaggio di prima grandezza nel
panorama culturale contemporaneo: Umberto Eco. Il quale,
un paio di giorni dopo la morte di Eluana Englaro
pubblicò un articolo su “Repubblica” che non riesco a
dimenticare. Parlava di un personaggio di uno dei suoi
romanzi, il quale, in una condizione di “vita sospesa”,
come la definisce Eco, assai simile a quella in cui si
trovava Eluana Englaro, continua a pensare, ricordare,
desiderare, persino a commuoversi, senza che coloro che
gli stanno intorno ne abbiano la minima idea. Ebbene
dopo aver descritto questa situazione, l’autore prende
una posizione tanto lapidaria quanto sorprendente, viste
le premesse: “Io sono pronto a dichiarare che, nel caso
incorra nell’incidente della vita sospesa, desidero che
non si protraggano le cure per evitare tensioni,
disperazione, false speranze, traumi e (permettetemi)
spese insostenibili ai miei cari…Io ho il diritto di
scegliere la mia morte per il bene degli altri”.
Siamo, come si vede, al testamento biologico e
all’autodeterminazione. Umberto Eco affronta il problema
con indubbia intelligenza e quasi con leggerezza. Ma la
sua argomentazione non convince. Meno che mai convince
il paragone che, nello stesso articolo, egli fa con le
morti eroiche di Pietro Micca o di Salvo D’Acquisto;
eroi che, appunto, “per il bene degli altri”, hanno sì
offerto la loro vita, ma non l’hanno fatto per togliere
il disturbo o per liberarsi di una qualche sofferenza.
Non escludo ovviamente che l’eventualità di trovarsi in
certe condizioni di “vita sospesa” possa anche indurre
il pensiero di non gravare in nessun modo sulle persone
a cui vogliamo bene. Pare oltretutto che sia
un’esperienza assai diffusa. Ma proprio per questo si
dovrebbe fare attenzione a non alimentare un clima
culturale tale per cui, nei momenti in cui siamo più
fragili, in cui abbiamo più bisogno degli altri,
soprattutto di quelli che ci vogliono bene, ci viene
chiesto, per amore, di toglierci di mezzo. Se penso alla
morte dei miei nonni, dei miei genitori e persino a
quella di alcuni amici, vedo quasi sempre lo stesso
sguardo: uno sguardo in cui la consapevolezza struggente
di essere diventati di peso si accompagna a un
altrettanto struggente desiderio di essere amati fino
alla fine. Non so neanche bene perché, ma a questo
sguardo sento di essere affezionato. Ed è soprattutto
questo sguardo che mi viene in mente, quando sento
parlare a sproposito (ovviamente per me) di
autodeterminazione.
Bibliografia
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“responsabilità ultima”, Guida, Napoli 2003.
D. Hume, Trattato sulla natura umana, Laterza, Bari
1971
I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari
1984
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi,
Milano 1968
S. Smilanski, Free Will and Illusion, Clarendon
Press, Oxford 2000.
R. Spaemann, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e
“qualcuno”, Laterza, Bari 2005
G. Strawson, Freedom and Belief, Oxford
University Press, Oford 1986. |