Università di Padova
Sommario
TOC \o "1-3" \h \z \u
1.
PREMESSA...........................................................................................................................
PAGEREF _Toc251346035 \h 1
2.
SULLA GENESI DEL DIRITTO ALL’AUTODETERMINAZIONE................................................
PAGEREF _Toc251346036 \h 1
3.
IL REFERENTE AUTOREVOLE: LA DIMENSIONE DELLA
PRIVACY.......................................
PAGEREF _Toc251346037 \h 4
4.
L’AFFERMAZIONE DEL DIRITTO ALLA PRIVACY NELLA
GIURISPRUDENZA.......................
PAGEREF _Toc251346038 \h 5
5.
LO SVILUPPO DELLE APPLICAZIONI DEL DIRITTO ALLA
PRIVACY: VERSO L’AUTODETERMINAZIONE.
PAGEREF _Toc251346039 \h 6
6.
IL CONTESTO ITALIANO.......................................................................................................
PAGEREF _Toc251346040 \h 7
A)
LE ANALOGIE COL MODELLO AMERICANO: PRIVACY,
AUTODETERMINAZIONE E DIGNITÀ UMANA NELLA GIURISPRUDENZA
ITALIANA..........................................................................................
PAGEREF _Toc251346041 \h 7
B)
LA COSTITUZIONE ITALIANA E LE DIFFERENZE DAL
MODELLO AMERICANO: LA DIMENSIONE SOCIALE, IL LUNGO
CATALOGO DI DIRITTI. LA “COSTITUZIONE PRESA SUL SERIO”..............................
PAGEREF _Toc251346042 \h 9
7.
SINGOLARITÀ E PARADOSSI CHE IMPONGONO UNA
RIFLESSIONE RADICALE.............
PAGEREF _Toc251346043 \h 11
Appare utile premettere
una nota di metodo: il tema merita di essere considerato
secondo un’impostazione che valuti non solo l’evoluzione
della giurisprudenza e la sua compatibilità con il
nostro sistema dei diritti costituzionali, ma anche i
limiti antropologici di alcune impostazioni. Ricordava,
infatti, Giovanni Paolo II che al centro del dibattito
contemporaneo è “la disputa sull’humanum” in
quanto tale.
Da questo punto di vista il percorso che si vuole
proporre approderà su alcuni paradossi e limiti delle
correnti di pensiero che si sviluppano su
un’antropologia negativa; troverà poi conclusione
suggerendo l’opportunità di superare approcci più
tradizionalistici a favore di un’evoluzione in linea con
quella nota di realistica inquietudine che sembra
emergere in alcune dimensioni del pensiero post moderno.
L’autodeterminazione è
andata consolidandosi negli ultimi anni quale
concetto-chiave, attraverso cui interpretare le
Costituzioni e aggiornare il catalogo di diritti
individuali. Si tratta di un’evoluzione riscontrabile in
diversi Paesi e anche sul piano sovranazionale; è
proprio questo concetto che spesso ha condotto alla
creazione di nuovi diritti. Si spiega così la recente e
imponente espansione dei cataloghi dei diritti umani,
scritti nelle carte o più frequentemente elaborati dalle
corti e dai tribunali: le carte dei diritti si sono
oramai ingigantite fino a includere i diritti fino alla
quarta generazione e la giurisprudenza delle Corti,
nazionali ed europee, arricchisce ancor più la lista.
Non è infrequente leggere espressioni come “i diritti
delle generazioni future”, “il diritto a non nascere”,
“i diritti riproduttivi”, “il diritto a morire”, “il
diritto ad avere un figlio”, “il diritto ad ammalarsi” e
la lista potrebbe continuare.
L’esito di questa evoluzione è che ogni distinzione tra
desideri privati e diritti fondamentali si dissolve.
Dall’eutanasia, all’interruzione della gravidanza, al
matrimonio omosessuale, alla procreazione assistita –
per citare solo i casi più ricorrenti e discussi – non
c’è diritto o posizione soggettiva che non veda il tema
dell’autodeterminazione giocare un qualche ruolo.
Occorre chiedersi di
quali diritti si tratta e qual è il fenomeno giuridico
che è alla base di questo processo. Nella coppia, nella
famiglia, nella malattia o nella morte, infatti, si
utilizza in maniera crescente la qualificazione di
“diritto” per descrivere aspetti della vita rispetto ai
quali è discutibile parlare di “diritti”: sono più
semplicemente possibilità, opzioni, facoltà. In questo
contesto, ogni gruppo rivendica il “suo diritto”,
dimenticando che ogni nuovo diritto crea un nuovo e
correlativo dovere per qualcun altro o comunque
un’incisione di altri valori. Soprattutto si tende alla
normativizzazione del desiderio, quasi che il
rivestimento legislativo del desiderio potesse
misticamente assicurarne il compimento. Intrappolati nel
miraggio di questo inganno, i nuovi diritti allora
rischiano solo di creare nuove infelicità; questo sembra
essere spesso il loro tragico destino.
Il processo che si è
sviluppato su queste premesse è stato tutt’altro che
lineare come fenomeno giuridico, si è trattato di un
processo disordinato e spesso incontrollato, che
richiede sempre più urgentemente una riflessione
puntuale, come ha suggerito di recente Francesco
D’Agostino.
E’ su questo piano che
credo sia utile confrontarsi.
Il primo dato
d’interesse è che questi diritti si sono affermati
soprattutto grazie all’intervento delle Corti
costituzionali e supreme, che sono state principali
protagoniste nell’inserimento di tali diritti nel
tessuto costituzionale, prendendo posizione su temi
rispetto ai quali le Costituzioni – anche più recenti,
come ad esempio quella sudafricana – sostanzialmente
tacevano.
Il complesso dei
cosiddetti “nuovi diritti” si è cioè affermato ed
espanso soprattutto grazie a quello che è stato definito
un “dialogo tra le Corti”, cioè attraverso un’intensa
relazione tra le giurisprudenze di diversi Paesi e tra
Paesi e ordinamenti sovranazionali, e grazie al sostegno
di parte della dottrina. Ne è un esempio il recente atto
di remissione del Tribunale civile di Venezia presso la
Corte costituzionale, con il quale il tribunale ha posto
il problema della limitazione del matrimonio alle sole
coppie eterosessuali. Il collegio, nel rimettere la
questione, ha menzionato soprattutto la giurisprudenza
delle Corti supreme statunitensi che avevano argomentato
in favore di un’espansione dell’istituto matrimoniale
alle coppie omosessuali. Peraltro, anche la Corte
suprema americana, nel caso Lawrence,
quando si è espressa a favore di un diritto fondamentale
a esprimere la personalità attraverso atti omosessuali,
ha a sua volta utilizzato la giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo.
Il processo di sviluppo
dei nuovi diritti si fonda quindi su una prassi di
uso/abuso di procedure comparative, che può essere
definita come uno scambio transnazionale di diritti
umani, dove si alimentano pratiche interpretative
discutibili, che spesso assumono una connotazione
parassitaria perché traggono “linfa dall’universalità
dei diritti umani per giustificarsi”, ma in realtà non
ne condividono i presupposti ontologici di dignità e
universalità che ne hanno, a suo tempo, fondato il
valore. E’ quanto ha lucidamente evidenziato Paolo
Carozza: “… si tratta di un mercato affetto da amnesia
storica e culturale. La circolazione dei diritti umani
si svolge senza alcun riferimento reale al modo in cui
la dignità umana e il bene comune sono stati ricostruiti
e realizzati in concreto nelle diverse civiltà nel corso
della storia … Si tratta di un mercato di ideologie, e
non di ideali. Esso allontana l’interpretazione e
l’evoluzione del contenuto dei diritti umani dai fatti
concreti di ciò che è favorevole o meno al benessere
dell’uomo in tempi e territori diversi. Al contrario,
privilegia preferenze culturali e politiche altamente
contingenti rispetto alla genuina esperienza umana. In
secondo luogo, si tratta di un mercato gestito da una
circoscritta elite culturale. Il libero movimento dei
diritti umani senza la dignità e l’universalità quali
reali e concreti punti di riferimento apre il mercato
proprio a ciò che le norme sui diritti umani erano
inizialmente finalizzate a limitare e disciplinare …
Infine, è un mercato di autoritarismo burocratico, a
discapito della ragione pratica e della politica.
Costituisce cioè un esempio di ciò che Pierre Manent
deplora come depoliticizzazione delle nostre società in
quanto il commercio transfrontaliero dei diritti umani
riesce a rimuovere le questioni maggiormente dibattute e
difficili dell’etica politica e sociale dalla sfera
della deliberazione razionale collettiva, ponendole
nelle mani di istituzioni che sono molto più estranee
dal processo, confuso ma imprescindibile, di confronto
reciproco, convincimento e decisione che si svolge negli
ordinamenti democratici”.
Da questo punto di vista
“le istituzioni di diritto internazionale e
costituzionale (molte delle quali sono nettamente e
deliberatamente escluse dal circuito della
responsabilità politica popolare) esercitano un enorme
controllo sul commercio internazionale dei diritti
umani, così come una piccola manciata di soggetti
nongovernativi, che sono diventati attori dello stesso
mercato. Il mondo dei diritti umani quindi, spesso
assomiglia ad un’oligarchia piuttosto ristretta, in cui
il dissenso e la differenziazione sono fortemente
limitate”
Questo è risultato
evidente nel tema del matrimonio omosessuale: la cui
espansione non è, generalmente, avvenuta grazie ad
interventi popolari, ma attraverso interpretazioni
evolutive se non di vera e propria rottura condotte
dalla giurisprudenza. Il caso americano è
particolarmente eloquente e denuncia gli effetti
dirompenti che questo ha sull’equilibrio tra i poteri,
generando talvolta dei veri e propri scontri ideologici
e politici. Non si tratta di una vicenda circoscritta al
famoso episodio californiano, il quale ha visto i
cittadini di quello Stato emendare la Costituzione per
vietare i matrimoni omosessuali a breve distanza dalla
sentenza della loro Corte suprema che li aveva
consentiti. In realtà, in tutti i trentuno Stati che
hanno effettuato delle consultazioni popolari
sull’estensione del matrimonio alle coppie gay, la
popolazione si è sempre espressa per conservare la
tradizionale fisionomia eterosessuale.
Dunque, il matrimonio omosessuale prevale talvolta nelle
aule giudiziarie, ma perde costantemente alle urne.
Si tratta di una lettura del dato costituzionale e del
ruolo popolare quantomeno più prudente e rispettosa del
rapporto tra istituzioni e popolazione.
È dunque in questo
contesto di circolazione di modelli e soluzioni, che
tende ad allargarsi a macchia d’olio da un Paese
all’altro grazie all’opera delle Corti e della dottrina,
che sembra doversi inserire anche l’affermazione della
medesima Corte costituzionale italiana, secondo la quale
la libertà si identifica con l’autodeterminazione,
ai sensi degli artt. 2 e 13 Cost. In effetti, non v’è
alcun appiglio testuale che consenta l’uso del termine
“autodeterminazione” nel quadro del nostro ordinamento
costituzionale, né che legittimi la sua identificazione
con il concetto di “libertà”, che invece la Carta usa in
maniera estensiva. Tale novità lessicale è sicuramente
priva di implicazioni immediate – la Corte in quel
contesto si e’ occupata di una legislazione regionale
che disponeva in tema di consenso informato, violando il
riparto di competenze tra Stato e Regioni. Tuttavia,
potrebbe preludere all’apertura a nuovi diritti, sulla
scorta di quanto accaduto altrove: l’autodeterminazione
potrebbe rappresentare il punto d’appoggio per sostenere
tale espansione.
Si tratta peraltro di un
processo di espansione che da qualche tempo essa trova
spazio anche nella dottrina italiana. Sono ad esempio
evidenti le assonanze tra il concetto di
autodeterminazione e l’auspicio dell’ultimo Leopoldo
Elia, il quale affermava che negli ambiti normativi
eticamente sensibili il criterio da adottare doveva
essere di tipo “facoltizzante”, cioè in grado di
lasciare il massimo spazio per le determinazioni
individuali.
3.
IL
REFERENTE AUTOREVOLE: LA DIMENSIONE DELLA PRIVACY
Sembrano sussistere
davvero pochi dubbi sulla logica che ha presieduto, nel
lungo periodo, a un’espansione dei diritti in nome
dell’autodeterminazione. Se nei decenni passati il
terreno più fertile per lo sviluppo dei nuovi diritti
era di certo quello economico-sociale, oggi i “nuovi
diritti fondamentali” sorgono piuttosto sul tronco della
privacy.
A sua volta, il diritto alla privacy si è
trasformato in un pervasivo diritto all’autoderminazione
e alla libertà individuale, che poco ha in comune con il
suo significato originario: se all’origine tale diritto
intendeva individuare uno spazio privato entro il quale
non potesse fare irruzione il potere pubblico, oggi
invece esso ha un risvolto per così dire “positivo” ed
esige perciò che l’autorità assicuri il soddisfacimento
di desideri e aspirazioni riguardanti anche la sfera più
personale, riservata e intima.
È, infatti, in un
articolo comparso nel 1890 sull’Harvard Law Review, a
firma di due giuristi destinati a segnare la storia dei
diritti negli Stati Uniti e non solo, Warren e Brandeis,
che il diritto alla privacy
viene teorizzato e soprattutto promosso. Si tratta di
una forma di tutela che riprende la tradizione lockeana
e l’illuminismo anglosassone per ricostruire un’area
giuridica nella quale ciascuno ha il diritto ad “essere
lasciato solo”: una sfera d’intangibilità nei confronti
di qualsiasi potere, pubblico o privato.
Il campo al quale
pensavano Warren e Brandeis era sostanzialmente quello
privatistico e atteneva alla riservatezza, alla
rispettabilità, all’onore e all’immagine, che dovevano
garantirsi a ciascuno. La preoccupazione dei due era
rivolta a proteggere chiunque dall’invadenza dei media.
In quegli anni, episodi come l’irruzione di reporter e
fotografi nella sala dov’era conservato il corpo del
cancelliere Bismarck stavano suscitando l’indignazione
di parte della popolazione e la reazione dei giuristi,
che intendevano proteggere ciascuno da mercificazioni e
speculazioni su fatti profondamente intimi e drammatici.
Dopo la sua prima
enucleazione, la privacy ha compiuto un percorso
lunghissimo, soprattutto grazie alla giurisprudenza
americana. Il primo uso significativo di un tale diritto
si rinviene nella famosa sentenza Griswold,
che dichiara illegittime alcune norme che vietavano la
promozione e l’uso di contraccettivi anche tra coppie
sposate. La Corte suprema, in quella circostanza, ha
affermato che lo Stato non doveva occuparsi di aspetti
così privati della vita personale.
Questo è stato però solo
il primo passo della privacy. Nel giro di alcuni
anni, il medesimo principio, nato per tutelare gli
ambiti intimi e riservati della vita, viene esteso oltre
essi, al punto che la sentenza Roe
ha affermato l’esistenza di un diritto all’interruzione
della gravidanza, proprio facendo leva sulla privacy.
Si tratta di una linea mantenuta in seguito, rispetto
alla quale la Corte non ha mai chiaramente avvertito il
cambio di passo, nell’usare per l’aborto il medesimo
principio introdotto nel caso della contraccezione: ha
anzi ritenuto che “per alcuni aspetti decisivi, la
decisione di abortire è dello stesso carattere della
contraccezione”.
Anche l’ultimo
quinquennio ha visto un’estesa applicazione del
principio della privacy, nel contesto soprattutto
del matrimonio omosessuale. In quest’ambito, diverse
Corti supreme statalisono intervenute modificando la tradizionale
fisionomia dell’istituto matrimoniale. In particolare,
quelle di Massachusetts
e California
hanno argomentato in termini di privacy. Si sono,
infatti, concentrate sul diritto individuale al
matrimonio, ritenendo che attenga all’intimità
dell’individuo la scelta del partner, indipendentemente
dal sesso.
Un altro recente fronte
di espansione del diritto alla privacy riguarda
l’eutanasia e la sospensione di idratazione e
alimentazione. In questo ambito, tuttavia,
l’interpretazione costituzionale americana sembra essere
maggiormente articolata. La Corte suprema ha assunto e
mantenuto nel tempo una posizione
che riconosce al soggetto il diritto costituzionale di
decidere la sospensione delle forme di sostegno vitale,
mentre ha sostanzialmente lasciato campo libero agli
Stati, sia nel regolare il modo e le condizioni in cui
questo diritto può essere esercitato, sia eventualmente
nel consentire o vietare forme di suicidio assistito.
In particolare, il primo
caso sull’interruzione di idratazione e alimentazione
giunto alla Corte presenta forti elementi di analogia
con quanto accaduto nella vicenda Englaro. La sentenza
capostipite sul tema,
infatti, è nata dalla vicenda di una famiglia che
chiedeva la sospensione del sostegno vitale per la
propria figlia, la quale, a causa di un incidente
stradale, era caduta in uno stato vegetativo persistente
e verosimilmente senza possibilità di uscita. La Corte
suprema, in quell’occasione, ha ritenuto legittima la
legislazione del Missouri, sulla base della quale era
stata negata l’interruzione del sostegno. La normativa
di quello Stato imponeva rigide condizioni per accertare
la volontà del soggetto in stato vegetativo, che in
quella circostanza mancavano. Si disponeva, infatti,
soltanto di alcune testimonianze di amici, i quali
riportavano il desiderio della donna di non vivere
un’esistenza compromessa dalla malattia o da un grave
incidente. La Corte suprema non ha dato corso alla
richiesta d’interruzione, sebbene sostenuta da un
diritto che pur ha ritenuto di pregio costituzionale,
perché ha ritenuto che una disciplina statale possa
legittimamente introdurre una significativa presunzione
in favore della vita e disciplinare chiaramente le
condizioni alle quali è possibile sospendere idratazione
e alimentazione.
Mary Ann Glendon ha
chiaramente mostrato come la privacy abbia
rappresentato un grimaldello per aprire l’ordinamento
costituzionale americano a nuovi diritti.
La filosofia politica lockeana, il carattere
estremamente liberale dell’ordinamento statunitense e il
suo debito nei confronti di quella ideologia hanno
rappresentato degli snodi essenziali per utilizzare un
valore, teorizzato nell’ambito del diritto civile e
inizialmente sorto a proteggere l’immagine delle
persone, nel campo dei diritti fondamentali.
Ad un certo punto, però,
gran parte della dottrina americana favorevole ai nuovi
diritti ha incominciato a rilevare come il criterio
della privacy si fosse spinto troppo lontano
rispetto alle premesse logiche che lo avevano sostenuto.
Si è pertanto fatta strada la necessità di ricostruire
diversamente tali diritti.
E’ stata così
generalmente proposta una rilettura della privacy,
per concludere che al di sotto dei nuovi diritti si
situerebbe il principio della dignità umana.
Il valore della dignità
effettivamente emerge con cadenza crescente nella
giurisprudenza americana: alcune ricerche hanno
comprovato che l’espressione “dignità umana” (o sue
equivalenti), tra il 1825 e il 1980, sarebbe comparsa in
centottantasette opinioni della Corte suprema, mentre
dal 1981 al 2000 (quindi solo vent’anni) ben novantuno.
Il riferimento alla
dignità, inoltre, non manca in genere nei casi in cui
viene in rilievo la privacy – si tratti di
rapporti omosessuali o matrimonio omosessuale. Anche la
legislazione vi fa ricorso: la dignità addirittura
fornisce la cifra della normativa dell’Oregon che
consente l’eutanasia, infatti intitolata Legge sulla
morte dignitosa.
L’abbandono della
privacy sarebbe dunque rivolto a una migliore
fondazione dei diritti che ne sono scaturiti. La dignità
offrirebbe un appoggio più organico, razionale e
unitario; anzi, darebbe giustificazione dell’espansione
e del catalogo delle nuove fattispecie tutelate
molto meglio di un’evoluzione della privacy, nata
sostanzialmente per tutelare la riservatezza e quindi
non adatta a giustificare ad esempio l’aborto, che
coinvolge medici e infermieri, o il matrimonio
(omosessuale), istituzione dal carattere eminentemente
pubblico.
A sua volta il carattere distintivo della dignità
consisterebbe nell’autodeterminazione
(che peraltro tende a essere riconosciuto come principio
di common law, quindi anche prescindere dalla
legislazione costituzionale e ordinaria, aumentandone la
forza espansiva).
In sintesi, quindi, lo
schema evolutivo potrebbe essere così ricostruito: la
privacy avrebbe storicamente ricavato un nuovo
spazio per i diritti nel costituzionalismo
contemporaneo, spazio poi occupato concettualmente dalla
dignità umana, a sua volta monopolizzata dal tema
dell’autodeterminazione. Al termine di questo percorso,
l’autodeterminazione rappresenterebbe ormai il nucleo
essenziale della dignità umana: l’aspetto davvero
intoccabile del valore umano consisterebbe nella
capacità di decidere le proprie azioni e il proprio
destino.
Il legame logico e
temporale che unisce privacy a dignità e
autodeterminazione si ritrova, del resto, nella
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
o anche, in maniera crescente, nell’ordinamento
italiano.
Si tratta di una logica,
come prima ricordato, affetta da amnesia storica,
sostanzialmente parassitaria dell’originario concetto di
dignità elaborato dai costituenti europei all’alba della
ricostruzione sulle ceneri lasciate dalla II guerra
mondiale. Come ha lucidamente scritto M. A. Glendon “Il
sogno di diritti dell’uomo universali, realizzato grazie
al sangue dei martiri della libertà, rischia di
dissolversi in frammenti di diritti di autonomia
personale. Non sembra fantasioso immaginare che nuove
libertà sessuali potrebbero un giorno diventare premi di
consolazione per la perdita di reali libertà politiche e
civili e per la negazione della giustizia economica e
sociale. Sarebbe veramente ironico se, nella nostra
epoca di comunicazioni rapidissime, la decisione sulle
questioni più importanti – del tipo ‘come dovremmo
vivere insieme?’ – dovesse venire meno. Sarebbe tragico
se, al termine di un secolo violento, gli uomini e le
donne di nazioni diverse dovessero rinnegare l’umanità
che condividono e che rende questa comunicazione
possibile”[26].
Dottrina e
giurisprudenza italiana hanno pescato
nell’individualismo liberale e soprattutto nel vasto
capitale di sentenze delle Corti supreme americane per
affrontare i casi che nell’ultimo decennio sono giunti
alla loro attenzione. A parte il moderato uso che finora
è stato fatto del termine “autodeterminazione”, i
risultati sono stati analoghi o persino superiori a
quelli ottenuti negli Stati Uniti utilizzando un tale
criterio, mentre in altri casi si è di fronte a
questioni ancora aperte, che non mancano o non
mancheranno di essere portate all’attenzione della Corte
costituzionale.
Si può citare il
notissimo caso Englaro, per rileggerlo alla luce delle
categorie viste più sopra. La Corte di Cassazione
ha legittimato la sospensione dell’idratazione e
dell’alimentazione con chiari riferimenti all’esperienza
americana. Ha menzionato la dignità umana quale valore
dal “sicuro fondamento costituzionale” e dato una
lettura dei principi personalista, di libertà personale
e del diritto alla salute tale da aprire la strada a
un’interruzione di idratazione e alimentazione.
Inoltre, non ha distinto tra cure e sostengo vitale,
semplicemente concentrandosi sulla condizione di stato
vegetativo irreversibile, “secondo gli standards
riconosciuti a livello internazionale”, quale premessa
indispensabile alla cessazione della vita.
La Cassazione sembra
essersi spinta persino oltre i precedenti americani
quando ha consentito tale interruzione in mancanza di
una normativa in materia. La giurisprudenza della Corte
suprema ha infatti enunciato il diritto a interrompere
idratazione e alimentazione, ma ha consentito agli Stati
ampi margini nel regolarne l’esercizio, per garantirne
la corrispondenza con la reale volontà del soggetto nei
casi in cui questo non sia in possesso delle facoltà
intellettuali al momento dell’interruzione. Al
contrario, la Cassazione ha dedotto dalla Costituzione,
dalla deontologia medica e da fonti sovranazionali il
diritto a interrompere le forme di sostegno vitale e lo
ha ritenuto immediatamente azionabile, escludendo che
spetti al legislatore un necessario ruolo regolativo.
Nel caso Englaro, si è
inoltre verificata un’attenuazione della tutela del
bene-vita stesso, poiché la Cassazione ha menzionato una
serie di indici estremamente ampia, dai quali dedurre la
volontà del soggetto a proposito del sostegno vitale.
Non a caso, lo Stato del Missouri non ha ritenuto
sufficiente una testimonianza di un conoscente, per
autorizzare la sospensione di alimentazione e
idratazione, e la Corte suprema ha ritenuto ragionevole
quest’orientamento.
La vicenda Englaro ha
infine toccato, implicitamente ma in maniera incisiva,
il tema della privacy, a ulteriore conferma della
profonda connessione che lega questo concetto al tema
dell’autodeterminazione. L’episodio forse più eloquente
è rappresentato dalla sentenza della Cassazione
che ha dichiarato inammissibile l’impugnazione del
Procuratore della Corte d’Appello di Milano contro il
decreto che consentiva l’interruzione del sostegno
vitale. Tra le motivazioni dell’inammissibilità, secondo
la Corte, si situa la mancanza di un interesse pubblico
del P.M. al ricorso. Nel caso Englaro, saremmo di fronte
ad un “diritto personalissimo del soggetto di spessore
costituzionale (come, nella specie, il diritto di
autodeterminazione terapeutica, in tutte le fasi della
vita, anche in quella terminale) – all’esercizio del
quale è coerente che il P.M. non possa contrapporsi fino
al punto della impugnazione.”
In sostanza, il P.M. non potrebbe intervenire poiché non
è in gioco alcun interesse pubblico, come invece accade
nei casi di nomina di un curatore speciale
dell’incapace, o per la sostituzione dell’amministratore
del patrimonio familiare, o semplicemente per
l’apposizione dei sigilli ai beni ereditari, nei quali
l’ordinamento concede, in varia misura, uno spazio al
P.M.. Collocare il caso della sospensione di
alimentazione e idratazione, che conduce alla morte, su
un gradino inferiore a questi ultime ipotesi, echeggia
chiaramente la nota logica della privacy, che
pone un diaframma tra il soggetto e la collettività, a
tutela del primo nei confronti della seconda.
Un caso che merita brevi
cenni, perché ancora aperto ma probabilmente destinato
ad avere una vasta eco, riguarda il matrimonio
omosessuale. Il Tribunale civile di Venezia ha infatti
ricalcato l’esperienza americana, anche citandola
esplicitamente, nell’emettere l’ordinanza di rimessione
attraverso la quale ha investito la Corte costituzionale
del tema. Nell’ordinanza
si individua la logica dell’autodeterminazione. Questa
caratterizzerebbe la struttura stessa del matrimonio,
giacché il Tribunale insiste sul diritto a sposarsi
con
“la persona prescelta”: un diritto non ulteriormente
qualificato dalla differenza sessuale.
L’autodeterminazione del soggetto nel decidere con chi
contrarre matrimonio sarebbe piena, quanto alla scelta
etero oppure omosessuale, perché non avrebbe di fronte
alcun “pericolo di lesione ad interessi pubblici o
privati di rilevanza costituzionale, quali potrebbero
essere la sicurezza o la salute pubblica”, sulla base
dei quali limitare le opzioni disponibili.
Nonostante l’attivismo
giurisdizionale appena accennato, che coglie
esplicitamente o velatamente spunti provenienti
d’Oltreoceano per innestarli nell’ordinamento italiano,
sembrano sussistere diversi ostacoli a una tale
importazione. Molti argomenti militano contro
l’inserimento di tali diritti, per lo meno nella forma
con la quale si presentano altrove. Si tratta di
ostacoli di natura costituzionalistica o di pura
coerenza giuridica, che non attengono neanche al diritto
naturale o all’etica politica.
Prima di mostrare come
l’espansione del catalogo di diritti rischi, almeno in
qualche misura, di tradire parte consistente della
tradizione costituzionale italiana, conviene dare spazio
a due osservazioni di ordine generale, che consentono di
cogliere quanto il costituzionalismo italiano sia
lontano da quello americano. Questo naturalmente non
impedisce la comparazione o persino l’utilizzo dei
risultati raggiunti all’estero, ma impone di considerare
come la loro assimilazione nel nostro contesto debba
passare un vaglio particolarmente attento. Non è
necessario sposare la nota tesi del giudice della Corte
suprema americana Antonin Scalia, il quale si fa
interprete di una lettura particolarmente purista del
testo della Costituzione americana,
per affermare che se la comparazione è ottima per
scrivere una costituzione, non è affatto valida per
interpretarla. L’esperienza estera può aiutare la
comprensione del proprio testo costituzionale, ma magari
proprio per metterne in luce l’irripetibilità e
l’originalità.
In primo luogo, il
contesto americano è segnato da Costituzioni statali e
federale plurisecolari, sorte nell’epoca del
liberalismo, con una moderata o persino scarsa
attenzione alla dimensione sociale e collettiva delle
istituzioni e del diritto. Tale struttura liberale è
andata incontro a non poche oscillazioni – Bruce
Ackerman
ha persino parlato di constitutional moments,
individuandone almeno due nella storia costituzionale
americana – che hanno visto la Corte suprema federale
giocare un ruolo da protagonista, soprattutto in forte
dialettica con il Presidente degli Stati Uniti. Le Corti
americane hanno dunque tradizionalmente un ruolo molto
forte nella produzione giuridica. In questo sono
sostenute sia dalla tradizione di common law, sia
dal macchinoso sistema che rende spesso impraticabili le
riforme costituzionali e le costringe ad un’attività di
supplenza, sia dal fatto che il loro sistema di nomina –
si pensi alla scelta presidenziale e al consenso del
Senato – replica una forma di investitura popolare,
seppure indiretta, che non solo non è nelle corde della
sensibilità italiana, ma non trova che parziale analogia
con la nostra Costituzione.
Dunque, un primo dato da
trattenere sembra il carattere essenzialmente politico e
innovativo che la giurisprudenza delle Corti americane
ha spesso assunto: carattere molto meno comprensibile in
un contesto costituzionale, come quello italiano, che ha
solo sessant’anni di vita ed un catalogo di diritti
molto più nutrito e cadenzato, e che pertanto dovrebbe
consentire minori spazi di manovra alla Corte
costituzionale e alle altre autorità giurisdizionali.
Un secondo dato da
evidenziare con forza è quello dell’evidente carattere
sociale della Costituzione italiana. Debitrice dei
movimenti social-democratici e del pensiero sociale
cattolico, la Costituzione italiana contrappone
all’individualismo liberale il personalismo, che
sancisce all’art. 2 assieme al principio pluralista. In
questo senso, la Cassazione, nel ritenere che il diritto
alla salute abbia una dimensione soltanto individuale e
capace di precludere l’intervento del P.M., sembra
cadere in un errore innanzitutto di interpretazione. La
Costituzione italiana, per usare un’affermazione di
Habermas, è costruita sulla realistica considerazione
che i “progetti di vita individuali non si formano al di
fuori di contesti di vita intersoggettivamente
condivisi”:
opporre individuo a collettività, come fa la Cassazione
è, pertanto, decisamente lontano dal nostro DNA
costituzionale. Questa forte dimensione sociale della
nostra costituzione non sembra proprio consentire
un’ermeneutica che affronti il tema della libertà a
partire dalla logica dell’autonomia e della privacy.
E’ interessante rilevare, come fa Paolo Moro, che la
Corte costituzionale italiana ha in realtà sempre
nettamente distinto i diritti proprietari da quelli
personali, secondo un’impostazione che non è riconducile
a quell’assetto individualistico dove, in fondo, il
diritto alla vita è ricondotto, come ha precisato
Francesco Cavalla nell’ambito di “un libero godimento
di una proprietà esclusiva”.
Sembra quindi piuttosto
pacifico che il ricorso al principio di
autodeterminazione, se isolato dai singoli diritti, non
aiuta affatto una ricostruzione coerente, attuale e
rispettosa del dato costituzionale. Estremamente
influenzato dalla logica individualista estranea alla
Costituzione italiana, esso racchiude una forza
espansiva che non tiene conto di alcuni dati salienti
del nostro contesto costituzionale, tra i quali il
personalismo, il principio democratico e, se si vuole,
quello dell’uguale dignità (v. infra).
Se quindi sul tema della
vita s’intende ricavare al principio di
autodeterminazione una collocazione costituzionale,
bisogna avere il coraggio di affermarne fino in fondo la
portata dirompente rispetto alla nostra tradizione
costituzionale. Esso non è quindi un valore in grado di
orientare, interpretare ed espandere i diritti e i
principi costituzionali.
Non ha una consistenza
autonoma: al più, è in grado di descrivere la facoltà di
ciascuno di esercitare i diritti però
riconosciuti dalla Costituzione.
Alla luce di queste
considerazioni un ulteriore affondo può essere ancora
proposto sulla della Cassazione nel caso Englaro, che
dando corso alla richiesta di cessare i sostegni vitali,
ha in realtà contraddetto il principio di uguale
dignità degli esseri umani. Infatti, non ha distinto
il corpo dagli altri beni di cui si può disporre, ma non
ha neppure enucleato un chiaro diritto a disporre del
bene-vita, in termini generali, per concludere che
chiunque può decidere quando porre termine alla propria
esistenza. In questo modo, la Corte ha evitato di
affermare che un soggetto possa sempre disporre della
propria vita, evitando un chiaro conflitto con le basi
del costituzionalismo, secondo il quale esiste un nucleo
di valori e diritti intangibili e inalienabili, come la
vita, poiché la loro rinuncia coinciderebbe con la loro
violazione. Come in dottrina e’ stato efficacemente
sostenuto, sarebbe una vera e propria “contraddizione in
termini garantire anche un diritto alla morte”.
Secondo la Corte, è invece la circostanza del cd. stato
vegetativo persistente (o permanente) a consentire al
soggetto di rinunciare al bene-vita. Ha delimitato il
principio di disponibilità della vita, sostenendo che
questo opera solo quando un soggetto si trova in “uno
stato di assoluta soggezione all’altrui volere, [in base
ad una serie di] fattori che appaiono nella specie
prevalenti su una necessità di tutela della vita
biologica in sé e per sé considerata.”
La regola generale dell’indisponibilità della vita
subirebbe dunque una deroga in casi come questo. Questa
non sembra una soluzione accettabile. Come la filosofia
politica americana ha ben messo in evidenza,
la formula della “morte dignitosa” poggia su una logica
che attribuisce a certi stati o forme di vita una
dignità inferiore. L’esistenza di soggetti come Eluana
Englaro potrebbe cessare, perché indegna – o meno degna
– di essere vissuta. Quest’argomentazione, confligge
frontalmente con l’uguale dignità degli esseri umani,
proprio perché attribuisce ad alcune esistenze un
livello di dignità inferiore. Più che assicurare una
morte dignitosa, sembra voler evitare certe forme di
vita umana perché le considera indegne.
Il soggetto può disporre della propria vita, perché
questa riveste minor valore di altre. Peraltro, una tale
concezione ha dei confini davvero incerti, perché non
chiarisce affatto quali siano gli stati di vita
che si possono interrompere. Ne è un esempio ancora la
stessa sentenza della Cassazione, che nell’argomentare
parla del diritto a disporre di se per i malati
terminali, sebbene Eluana Englaro non fosse facilmente
qualificabile quale malato, né chiaramente si trovava in
stato terminale.
In conclusione sembra
chiaro, dunque, che anche accedendo alle letture
“dignitarie” della Costituzione italiana, non vi sia
spazio per l’autodeterminazione personale rivolta alla
morte.
Al contrario, la
Costituzione sembra riservare al legislatore il compito
di bilanciare la direttrice costituzionale che vuole
tutelato il bene-vita con il diritto del malato di
decidere in che modo affrontare i processi patologici,
anche nel caso in cui egli sia incosciente.
Un’interessante formula
sembra quindi essere racchiusa nel concetto di “alleanza
terapeutica”, non a caso ripreso nella proposta di legge
che si occupa del testamento biologico e delle
dichiarazioni anticipate di trattamento, passata al
vaglio del Senato e ora alla Camera.
“Alleanza terapeutica” è un’espressione sintetica che,
interpretando la dinamica paziente-familiari-medico
nella sua complessità, sembra riflettere la concezione
personalistica del soggetto, cogliendolo nella trama di
rapporti con i quali affronta la malattia, e non
isolandolo dal contesto.
Ad esempio, nel caso
della legislazione italiana sull’interruzione della
gravidanza, il focus è invece collocato sul
bene-salute: si tratta di un dato essenziale nella
comprensione e nella soluzione dell’attuale controversia
sull’utilizzo della pillola Ru486. Riservatezza, minore
traumaticità dell’evento ecc. sono dati non ininfluenti,
ma che naturalmente non possono mettere a repentaglio il
bene-salute. Se questo risulta meglio garantito col
ricovero, la somministrazione del farmaco deve avvenire
attraverso la permanenza in una struttura ospedaliera, a
meno di non tradire lo spirito e la lettera della l.n.
194/78 che consente l’aborto solo per ragioni di salute.
E’ ora utile cercare di
sviluppare un’ulteriore considerazione, che prende
spunto proprio dal caso italiano, dove in forma più
evidente che altrove si verifica un singolare ma
emblematico paradosso. Mentre si è disposti a teorizzare
a oltranza la libertà di scelta nell’ambito privatistico
delle preferenze individuali (libertà sessuale, libertà
di morire, libertà di abortire, ecc.), riguardo
all’ambito pubblicistico delle preferenze sociali
(libertà di scelta tra servizio pubblico e privato,
scuola pubblica o scuola privata, ecc.) permangono forti
resistenze. Come mai il diritto all’autodeterminazione è
invocato in certi ambiti e, di fatto e di diritto,
negato in altri? E’ un paradosso molto singolare, che
merita di essere approfondito.
E’ utile ricordare che
nel nostro ordinamento è stato storicamente segnato da
una corrente liberale di matrice statalista: per
sintetizzare, si tratta di quella che ha condotto
all’emanazione, sul finire dell’Ottocento, della legge
Crispi che portò alla nazionalizzazione di 22.000 Opere
pie, sul presupposto che l’assistenza sociale doveva
essere solo statale. Si è trattato di una concezione
rispetto alla quale la Costituzione italiana, come ha
lucidamente evidenziato Paolo Grossi, ha segnato,
proprio attraverso i principi personalista e pluralista,
una chiara soluzione di continuità[41].
Nonostante questa svolta
quella concezione ha tuttavia continuato a condizionare
il dibattito, basti pensare alla questione scuola
pubblica/scuola privata, oppure alle resistenze che si
continuano a registrare a livello culturale, giuridico
ed economico su quel tema così caro alla dottrina
sociale della Chiesa cattolica e ora ripreso con forza
nella Caritas in Veritate che è il principio di
sussidiarietà.
Generalmente in Italia
la corrente culturale che è favorevole
all’autodeterminazione nell’ambito individualistico
della vita privata è la stessa che combatte
l’autodeterminazione rispetto al principio di
sussidiarietà e ai suoi presupposti sociali. In essa
continua a dominare l’idea che qualunque intervento del
privato (“autodeterminazione” come possibilità di
concorso al bene comune e come libertà di scelta
dell’utente) nell’assistenza, nella sanità,
nell’educazione, nel tempo libero, sia portatore
d’interessi particolari in contrasto con il bene comune,
misconoscendo che ci sono ideali che muovono le persone
per il beneficio della collettività, come mostra la
realtà, anche storica: Don Bosco salvò centomila ragazzi
dalla strada. Eppure secondo questa corrente Don Bosco
non avrebbe dovuto fare quello che era compito di un
assistente sociale e i genitori dei ragazzi avrebbero
dovuto affidarsi a una struttura pubblica e non a un
prete. Basta leggere il recente e infelice articolo di
Giavazzi recentemente apparso sul Corriere della Sera
per ritrovare il principio di questa impostazione:
s’intitola
Famiglia Le virtù e i costi (alti) del Welfare all'
italiana e
sostanzialmente, attaccando le affermazioni contenute
nel Libro Bianco sul Welfare del Ministro
Maurizio Sacconi,
finisce per definire la famiglia una “palla al piede” e
tesse le lodi del modello individualistico.
Di fronte a questa
impostazione è utile scendere in profondità e
considerare l’antropologia che fonda questi modelli di
pensiero, perché sia il modello individualista sia
quello statalista hanno alla loro base una antropologia
di tipo negativo.
L’ha recentemente
evidenziato Pierpaolo Donati, mettendo in luce come il
Welfare del mondo fordista si sia sviluppato
sulla contrapposizione moderna (hobbesiana) fra pubblico
(Stato) e privato (il mercato dell’homo homini lupus),
dove “pubblico” veniva poi spesso assiomaticamente
associato a “morale” e “privato” a “immorale” proprio
per escluderne la valenza a fini sociali: poiché della
socialità della persona umana non ci si può fidare, si
limita il pluralismo sociale e la rilevanza delle
formazioni sociali intermedie.
In altre parole, la società non è una dimensione
originale, cioè non è legata a quelle esigenze ed
evidenze di verità, giustizia, bellezza che
costituiscono la natura umana, ma è il frutto di un
contratto.
Egualmente avviene nella
dottrina individualistica; apparentemente mossa da una
logica opposta, l’immagine di società tipica del
liberismo di stampo neoclassico è in realtà fondata
sulla stessa antropologia negativa. Alla base
dell’immagine di società tipica di questa ideologia c’è
un’idea d’individuo puramente egoista che risponde
esclusivamente a motivazioni economiche. E' l'idea della
“mano invisibile” che questa scuola di pensiero
economico ha tratto da Adam Smith: una mano invisibile
che guida i singoli interessi egoistici privati al di là
delle loro specifiche intenzioni, componendoli in una
totalità che sfugge allo sguardo parziale dell’individuo.
Francesco Cavalla ha
bene evidenziato questo punto di partenza in suo recente
lavoro, dove mette in evidenza la differenza tra Locke e
Sant’Agostino. In Locke – afferma Cavalla – non viene
riconosciuto un “diritto alla vita”, quanto piuttosto un
“diritto sulla vita”, mentre in Agostino c’è l’idea di
una socialità originaria, di una civitas
primaria, dove “trova fermissimo fondamento il carattere
sacro della vita”.
In effetti, l’ordine
sociale di cui parla Agostino nasce dalla socialità
propria della natura umana; è un ordine che ha una sua
bellezza propria.
Non nasce dal peccato originale l’ordine della società;
è ferito, come ogni dimensione umana, dal peccato, ma
nasce dalla natura umana creata buona da Dio e dalla sua
esigenza di socialità. Si tratta di una radicale
differenza rispetto all’antropologia negativa che è
propria, invece, anche della tradizione luterana.
Non è casuale che le
concezioni costruite su un’antropologia negativa, mentre
affermano un diritto sulla vita, finiscano poi per
delegare allo Stato. L’ha acutamente messo in evidenza
Paolo Moro, in un recente saggio: “richiamando i luoghi
comuni della legislazione e della giurisprudenza
dell’età contemporanea, si può notare che la pretesa
autosufficienza morale e giuridica dell’individuo …
porta al trasferimento dei suoi diritti fondamentali
all’ente pubblico sovrano, attraverso il postulato
concettuale del contratto sociale e della volontà
generale …. L’ordinamento che appare come il più
liberale, proclamando l’individuo padrone del proprio
corpo e del proprio destino, è in realtà il meno
liberale, poiché la tutela della vita e della dignità
umana, che divengono beni soggetti alla libertà di
disposizione del singolo, è delegata allo Stato, che
esercita così paradossalmente il diritto alla
autodeterminazione … i diritti fondamentali come la vita
e la libertà personale, sono soggetti al principio
burocratico del consenso del soggetto che, ritenendosi
emancipato da qualunque condizionamento diverso dal
proprio potere di decidere, è costretto a delegare allo
Stato (al giudice, al legislatore, al burocrate) la
tutela della propria libertà e della propria salute”.
E’ questo l’esito finale
e paradossale di questa cultura fondata su
un’antropologia negativa, individualista o statalista,
che in ultima analisi si dimostra negatrice della
libertà. Questo è il paradosso della modernità: più
incoraggia l’individualismo, più è costretta a
moltiplicare le regole per mettere sotto controllo il
“lupo”che ognuno di noi si rivela potenzialmente essere.
Il clamoroso fallimento di questa impostazione è oggi
davanti a tutti, malgrado i tentativi di nasconderlo.
Non ci saranno mai abbastanza regole per ammaestrare i
lupi.
Un esito analogo era già
stato prefigurato in una splendida pagina di Alexis de
Toqueville: “Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto
che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla
innumerevole di uomini uguali …. Al di sopra di essi si
eleva un potere immenso e tutelare …. Lavora volentieri
al loro benessere, ma vuole esserne l’unico agente e
regolatore … Così ogni giorno esso rende meno necessario
e più raro l’uso del libero arbitrio, restringe l’azione
della volontà in più piccolo spazio, e toglie, a poco a
poco a ogni cittadino, fino l’uso di se stesso. … Il
sovrano estende il suo braccio sull’intera società; ne
copre la superficie con una rete di piccole regole
complicate, minuziose ed uniformi, attraverso le quali
anche gli spiriti più originali e vigorosi non
saprebbero come mettersi in luce e sollevarsi sopra la
folla; esso non sprezza le volontà, ma le infiacchisce,
le piega e le dirige; raramente costringe ad agire, ma
si sforza continuamente di impedire che si agisca, non
distrugge, ma impedisce di creare, non tiranneggia
direttamente, ma ostacola, comprime, snerva, estingue,
riducendo infine la nazione a non essere altro che una
mandria di animali timidi ed industriosi della quale il
governo è pastore. Ho sempre creduto che questa specie
di servitù regolata e tranquilla, che ho descritto,
possa combinarsi meglio di quanto si immagini con
qualcuna delle forme esteriori della libertà e che non
sia impossibile che essa si stabilisca anche all’ombra
della sovranità del popolo”
[51].
La ricerca di una via di
uscita da questi esiti paradossali - la generazione di
diritti insaziabili e la delega dell’autodeterminazione
allo Stato - credo che non possa prescindere dal tornare
a riflettere sulla struttura costitutiva di quella
civitas originaria cui Agostino fa riferimento, cioè
sul rimettere al centro un’antropologia positiva che sia
in grado di smascherare tutta l’ideologia che, più o
meno consapevolmente, inquina il dibattito sulla
autodeterminazione.
Si tratta peraltro di
esiti che non solo rimangono confinati in questo ambito,
ma che hanno prodotto effetti devastanti anche nel
sistema economico: basti pensare a un fenomeno come la
grande crisi finanziaria che stiamo ancora attraversando
come una terra incognita. La radice in fondo è unica:
tutta l’esaltazione della finanziarizzazione
dell’economia aveva come alla base un’antropologia
negativa, fondata sull’avidità e negatrice della
tradizione.
Non a caso oggi, gli spiriti più illuminati - non certo
i Giavazzi che continuano imperterriti e sordi anche di
fronte a quelle grandi lezioni che la storia a volte
impartisce (“i fatti sono ostinati”, fa dire Michail
Bulgakov al personaggio di Il Maestro e Margherita)
– propongono, in alternativa al mercatismo, il modello
dell’economia sociale di mercato. Uno dei suoi
fondatori, Ropcke, evidenziava con chiarezza come il
modello dell’economia sociale di mercato si fondasse su
un’antropologia positiva. Alla domanda “che cosa è il
liberalismo?”, egli rispondeva “Esso è umanistico. Ciò
significa: esso parte dalla premessa che la natura
dell’uomo è capace di bene e che si compie soltanto
nella comunità”[53].
Su questo piano è utile
richiamare anche un altro grande autore, il premio Nobel
Kenneth Arrow, che allo stesso modo, dal suo punto di
vista, in un testo classico dell’economia contemporanea
sul nesso tra utilità individuali e benessere
collettivo, rivoluziona il paradigma hobbesiano. Secondo
Arrow: “L’ordinamento rilevante per il raggiungimento di
un massimo sociale è quello basato sui valori, che
rispecchiano tutti i desideri degli individui, compresi
gli importanti desideri socializzanti”.
Contro le utopie neoclassiche e i paradigmi hobbesiani,
il suo contributo arriva a conclusioni analoghe a quelle
appena ricordate. I “desideri socializzanti” sono lo
strumento per generare aggregazioni dove gli individui,
per consenso ideale e non per coercizione, si accordino
alla ricerca di un bene comune che soddisfi ognuno e
costruiscano iniziative economiche che concilino utilità
individuale e benessere collettivo.
E’ quindi in questa
l’antropologia positiva, riconosciuta capace di
“desideri socializzanti”, che si può ritrovare una
bussola nuova per orientare il dibattito. In questi
desideri se rimanete considerati - parafrasando il
celebre volume di Dworking, I diritti presi sul serio,
si potrebbe dire “i desideri presi sul serio”) - trova
infatti fondamento non solo la legittimazione
sociale/sussidiaria, ma anche, sul piano dei diritti, il
riconoscimento di qualcosa di indisponibile. Occorre
infatti riscoprire, all’interno di questa antropologia
positiva, la vera portata del desiderio socializzante,
che non è né mero istinto di conservazione, né egoismo,
né tanto meno pretesa di autodeterminazione.
Da questo punto di vista
è opportuno rifarsi alla nozione di “esperienza
elementare”, elaborata all’interno del pensiero e
dell’opera di Luigi Giussani, per indicare quel
“complesso di esigenze e di evidenze con cui l’uomo è
proiettato dentro il confronto con tutto ciò che
esiste”. “La natura” - secondo Giussani - “lancia l’uomo
nell’universale paragone, con se stesso, con gli altri,
con le cose, dotandolo - come strumento di tale
universale confronto - di un complesso di evidenze ed
esigenze originali, talmente originali che tutto ciò che
l’uomo dice o fa da esse dipende”.
E’ certo, infatti, che
questa esperienza elementare non erge l’uomo a ultimo
tribunale, non lo lascia nelle nebbie di una
teorizzazione meramente arbitraria, relativista e
soggettiva. Se presa sul serio, essa individua un
quid indisponibile, nel senso anche d’inestirpabile,
che configura quella sproporzione strutturale di
leopardiana memoria in cui si ritrova la voce del
Mistero, che esige un sacro rispetto. È quella che un
credente chiama “scintilla di Infinito” e che anche un
agnostico o un ateo possono definire come
“irriducibilità della persona”.
Si tratta di qualcosa
che attiene a quelle istanze, che, come ha affermato
Benedetto XVI, “trovano il loro fondamento nell'essenza
stessa dell'uomo”, tra cui primaria rilevanza ha
sicuramente quel "senso religioso" in cui si esprime
l'apertura dell'essere umano alla Trascendenza”.
Se presi sul serio,
questi desideri socializzanti possono quindi consentire
perlomeno di identificare un contenuto minimo
indisponibile. Come ha evidenziato Marta Cartabia,
“quando ci interroghiamo su problemi come la pena di
morte, o quanto meno la pena di morte applicata a
persone particolarmente deboli, come i minori o i
minorati mentali; quando ci interroghiamo su pratiche
diffuse in alcune culture passate o presenti, some i
sacrifici umani, il cannibalismo, la schiavitù o la
segregazione razziale; quando ci interroghiamo sulla
persistente discriminazione diretta o indiretta sulla
base del sesso, quando – in una parola - si attinge alle
questioni basilari, fondamentali, elementari dei diritti
umani, il discorso relativista ha una battuta d’arresto
e cede il passo all’imperativo di riconoscere e
riaffermare un patrimonio comune od ogni uomo. Nessun
sostenitore del multiculturalismo sarebbe disposto,
credo, a ritenere che le diversità culturali possono
giustificare il cannibalismo, i sacrifici umani, le
mutilazioni genitali ed altre pratiche evidentemente
lesive della dignità umana. Persino le correnti più
sensibili alle istanze del multiculturalismo e al valore
delle diverse culture non esitano a riconoscere il
patrimonio comune ad ogni essere umano …
emblematicamente, Charles Taylor, afferma che ‘l’eguale
dignità non può non postulare che esistano dei principi
universali ciechi alle differenze. Possiamo non essere
riusciti a definirli, ma esistono’ ”.
Al di là di quanto
sembra sottendere la pretesa relativizzazione ideologica
in nome dell’autodeterminazione, sul piano dei diritti
umani sembra quindi fuori discussione l’esistenza di un
nucleo indefettibile appartenente ad ogni uomo. Il
problema aperto è semmai quello di afferrarne con
sufficiente chiarezza i contenuti: a questo riguardo che
occorre il coraggio di andare avanti, di compiere lo
sforzo per recuperare la necessaria dimensione oggettiva
del soggetto, per riscoprire “ciò che è giusto e
costitutivamente inerente alla natura umana, senza che
lo si possa esorcizzare o svilire, come invece è
accaduto nella lunga parte finale della modernità”.
In altre parole, l’esigenza di individuare “un parametro
comune” da contrapporre all’esaltazione di “tutti i
bisogni e tutti i desideri”.
Questo è comunque il
punto da cui sarebbe interessante partire per
ricostruire una filosofia e una teoria della conoscenza,
dove si riscatti la parola “esperienza”
dall’interpretazione riduttiva data dall’empirismo e dal
soggettivismo[61].
Si apre, in questa
prospettiva, la possibilità di recuperare tutta la
soggettività, propria dell’anelito della modernità,
senza però decadere nel soggettivismo, individuando un
criterio fondamentale di giudizio, che è se è tutto
interno al soggetto e al suo dramma esistenziale, è
altresì oggettivo, sostanzialmente uguale in ogni uomo:
“è solo qui, in questa identità ultima della coscienza,
il superamento dell’anarchia. L’esigenza della bontà,
della giustizia, del vero, della felicità costituiscono
il volto ultimo, l’energia profonda con cui gli uomini
di tutti i tempi e di tutte le razze accostano tutto”[62].
La concezione di uomo
mosso da un impulso positivo in sé e verso altri uomini
viene peraltro documentata costantemente nella dottrina
sociale e da ultimo nell’Enciclica Caritas in
veritate, dove si parla dell’uomo come essere
sociale a immagine della Trinità:
“[…] La creatura umana, in quanto di natura spirituale,
si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive
in modo autentico, più matura anche la propria identità
personale” (N. 53). “Destinatari dell’amore di Dio, gli
uomini sono costituiti soggetti di carità, chiamati a
farsi essi stessi strumenti della grazia, per effondere
la carità di Dio e per tessere reti di carità” (N. 5).
E’ importante però un
nota bene: occorre un’adeguata educazione per prendere
sul serio i desideri; un’educazione e un’appartenenza a
luoghi dove chi vi partecipa sia corretto dalla sempre
possibile caduta e avvenga un’educazione al bello, al
vero, al giusto. Questa è la sintesi rispetto ai modelli
basati su un’antropologia negativa: l’educazione in
un’appartenenza a comunità intermedie, invece che la
delega allo Stato … invece dello “Stato di polizia”.
All’interno di questa
antropologia positiva può inoltre essere ritrovata la
strada per orientare in termini nuovi e più appropriati
il dibattito, senza correre il rischio di una difesa che
possa apparire solamente tradizionalista. Al contrario,
nella riscoperta dell’antropologia positiva può essere
raccolta la sfida di quella scintilla d’inquietudine che
positivamente sembra emergere in certe correnti della
post modernità. In un recente commento a un preciso
passaggio della Caritas in Veritate,
il Cardinale Angelo Scola ha messo in evidenza la
differenza tra il pensiero moderno e quello post
moderno: in quest’ultimo le domande fondamentali
sembrano emergere dentro le stesse scienze
economiche o biologiche, e non sono più mero appannaggio
della sola filosofia o teologia, o di un interesse
indiretto del singolo, ma sorgono all’interno, al cuore
delle stesse scienze.
E’ opportuno raccogliere
la sfida di questa provocazione, anche nel campo dei
diritti umani e del loro fondamento.
La riscoperta della
dimensione oggettiva e positiva della soggettività
umana, recuperata favorendo il metodo di interrogare
l’esperienza elementare piuttosto che quello di
attingere alle ideologie o ai luoghi comuni,
potrebbe permette quindi di approfondire in termini di
valore, sul piano giuridico, la nozione - acutamente
suggerita da Spadaro - di ragionevolezza,
consentendo così di sviluppare ulteriormente la
considerazione che porta a ritenere fondamentali solo i
diritti umani ragionevoli, non altrettanto e allo stesso
modo invece alcuni di quelli che oggi si tenta
indiscriminatamente di inserire nel novero dei nuovi
diritti.
In questa riscoperta può
essere individuato un antidoto efficace al rischio del
parossismo su cui l’accezione individualistica del
principio di auto determinazione - incompatibile, come
si è visto, con la dimensione sociale della nostra
Costituzione - sta favorendo lo sviluppo della selva (e
del traffico) dei “diritti insaziabili”. “Quanti delitti
in nome della libertà”, constatava Madame de Roland.
Lo sforzo della scienza
giuridica può essere quello di cercare di raccogliere in
termini moderni (o meglio post moderni)
l’insopprimibile esigenza della ragione di “riguadagnare
un accesso all’esperienza e alle evidenze che le sono
proprie”[67],
facendo emergere quel background di diritto
naturale che può essere in grado di garantire un ordine
ragionevole fondato sulle dimensioni elementari che
denotano la struttura umana.
Al riguardo mi sia consentito di rimandare a
Antonini L., a cura di, Il traffico dei
diritti insaziabili, Milano, 2007, 5.
Cfr., amplius, Cartabia M., La
Costituzione italiana e l’universalità dei
diritti umani, in
www.astrid.it; IDEM, a cura di, I diritti
in azione. Universalità e pluralismo dei diritti
fondamentali nelle corti europee, Bologna,
2007.
L’individualismo che contraddistingue buona
parte della cultura giuridica americana ha
infatti concentrato l’attenzione della
giurisprudenza e della dottrina sui soggetti
portatori dei diritti e sulla loro volontà, più
che sulle concrete situazioni sulle quali la
Corte doveva intervenire. Ad esempio, nella
sentenza Roe, la Corte suprema ha
ritenuto non necessario stabilire quando la vita
abbia inizio, nonostante sembri un punto
dirimente per cogliere se vi siano altri
soggetti portatori di interessi nel contesto
della gravidanza. Oppure, le Corti di
Massachusetts e California si sono concentrate
sul diritto soggettivo al matrimonio, senza
indagare particolarmente i caratteri
dell’istituzione. Quest’impostazione ha condotto
la Corte californiana alla superficiale e
discutibile conclusione che l’unica differenza
tra le coppie etero e quelle omosessuali
consisterebbe nel fatto che solo le prime
possono avere figli anche “accidentalmente”,
cioè attraverso l’attività sessuale, mentre le
seconde non ne sono in grado. Denominatore
comune di queste evoluzioni della privacy
sembra dunque essere una selettività degli
interessi in gioco: in Roe non si
considera il feto, mentre nel caso del
matrimonio omosessuale si sottovaluta la natura
dell’istituto matrimoniale.
Goodman M.D., Human Dignity in Supreme Court
Constitutional Experience, in Nebraska
Law Review, 2006, p. 756.
Simoncini A. - Carter Snead O., I profili
costituzionali delle decisioni sulle cure di
persone incapaci tra libertà e giusto processo
(con uno sguardo oltreoceano), in corso di
pubblicazione in Quaderni costituzionali,
2009.
Glendon M.A., La visione dignitaria dei diritti
sotto assalto, in in L. Antonini, Il traffico
dei diritti insaziabili, cit. 2007, 59, ss.
La libertà di associazione venne ampiamente
riconosciuta, si proclamarono i diritti
inviolabili dell’uomo, “sia come singolo, sia
nelle formazioni sociali dove si svolge la sua
personalità” (art.2 Cost.) e si richiamarono i
doveri di solidarietà politica, economica e
sociale, visti, come disse Meuccio Ruini, quali
“lati d’una stessa medaglia”. “Grazie ad un
confronto ideologico autenticamente plurale,
nella Costituzione i protagonisti del proscenio
giuridico si infoltiscono: non più solo lo Stato
e non più solo l’individuo economico, ma altresì
la persona e la comunità solidale in cui la
persona si integra; non più soltanto la libertà
individuale astratta che arriva a premiare
unicamente l’abbiente, ma altresì la libertà
collettiva che fornisce al nullatenente una
dignità non declamata e verbale ma effettiva”.
Così Grossi P., Pagina introduttiva (storia e
cronistoria dei ‘Quaderni fiorentini’),
Milano 2001, 12, dell’estr. La centralità della
persona e delle formazioni sociali, assieme al
principio di solidarietà, furono sentiti come la
liquidazione dei rischi del fascismo e delle
debolezze del liberalismo. La nuova prospettiva
del patto costituzionale si ritrovò
efficacemente sintetizzata nelle parole di Aldo
Moro, pronunciate nella seduta del 24 marzo
1947, presentando l’art.2 della Costituzione:
“Lo Stato assicura veramente la sua
democraticità, ponendo a base del suo
ordinamento il rispetto dell'uomo che non è
soltanto individuo, ma che è società nelle sue
varie forme, società che non si esaurisce nello
Stato. La libertà dell'uomo è pienamente
garantita, se l'uomo è libero di formare degli
aggregati sociali e di svilupparsi in essi. Lo
Stato veramente democratico riconosce e
garantisce non soltanto i diritti dell'uomo
isolato, che sarebbe in realtà un’astrazione, ma
i diritti dell'uomo associato secondo una libera
vocazione sociale”.
L’articolo è apparso sul Corriere della Sera del
29.11.2009
In particolare viene contestato il seguente
passaggio: “Esiste un
legame inscindibile tra il benessere della
famiglia e quello della società. Famiglia vuol
dire tessitura di legami verticali, solidarietà
intergenerazionale, relazioni che danno il senso
della continuità temporale; vuol dire rapporti
di prossimità e parentela, che consentono la
coesione comunitaria. La famiglia trasmette ai
figli il patrimonio, ma anche la cultura, la
fede religiosa, le tradizioni, la lingua, e crea
quel senso profondo di appartenenza, di
consapevolezza delle origini così necessario
all' identità di ciascuno. La famiglia è anche
il nucleo primario di qualunque Welfare, in
grado di tutelare i deboli e di scambiare
protezione e cura, perché è un sistema di
relazioni, in cui i soggetti non sono solo
portatori di bisogni, ma anche di soluzioni,
stimoli e innovazioni”.
Donati P., Il welfare in una società
post-hobbesiana, Atlantide, n.2/2006.
Cfr. Vittadini G., Intervento a "La tua opera
è un bene per tutti", in
www.ilsussidiario.net
Cavalla F., Diritto alla vita, diritto sulla
vita: alle origini delle discussioni
sull’eutanasia, in ZANNUSSO F., Il filo
delle Parche, Milano, 2009, 65, ss.
Agostino, De vera religione 26, 48: “…Habet
quippe et ipse modum quemdam pulchritudinis suae”.
Cfr. Cotta G., La nascita dell'individualismo
moderno. Lutero e la politica della modernità,
Il Mulino, Bologna, 2002.
Moro P., Dignità umana e consenso all’atto
medico, in Zannuso F., Op. cit., 142,
ss.
Cfr. Carron J., La
tua opera è un bene per tutti,
in Tracce, n. 12 del 2009, p. 1, ss. Che
precisa: “questo è l’esito tremendo
quando si punta tutto sull’etica invece che
sull’educazione, cioè su un adeguato rapporto
tra l’io e gli altri”.
Toqueville A., La democrazia in America,
Milano, 732, ss.
Cfr. la lucida analisi di Zamagni S., La
lezione e il monito di una crisi annunciata,
in Il Mulino, 2009, 293, ss.
La citazione è in Felice F. , Economia
sociale di mercato, Rubettino, 2008, 70.
Arrow K.J., Scelte sociali e valori
individuali, Etas Libri, Milano 2003, p.21
Giussani L. Il senso religioso, Rizzoli,
Milano, 2003, 8. Cfr., inoltre, Giussani L.,
L’io, il potere, le opere, Marietti, Genova
2000, p.100, dove si afferma: Tutte le forze
umane nascono da questo fenomeno, da questo
dinamismo costitutivo del1‘uomo. Il desiderio
accende il motore dell’uomo. E allora si mette a
cercare il pane e l‘acqua, si mette a cercare il
lavoro, si mette a cercare la donna, si mette a
cercare una poltrona più comoda e un alloggio
più decente, si interessa a come mai taluni
hanno e altri non hanno, si interessa a come mai
certi sono trattati in un modo e lui no, proprio
in forza del1’ingrandirsi, del dilatarsi, del
maturarsi di questi stimoli che ha dentro e che
la Bibbia chiama globalmente "cuore", e che io
chiamerei anche "ragione". [...] Il desiderio,
per natura, spalanca l’uomo sulla realtà per
imparare la mossa, per imparare dove si deve
costruire”.
Cfr. D’Agostino F., Introduzione alla
biopolitica, Voce: Persona, Aracne,
Roma, 2009, 180, ss.
Cartabia M., La Costituzione italiana e
l’universalità dei diritti umani, in
www.astrid.it
Barbera A., Il “fondamento” dei diritti
fondamentali, tra crisi e frontiere della
democrazia, in Il traffico dei diritti
insaziabili, cit.
Vittadini G., Che cos’è la sussidiarietà,
Milano, 2007.
“Questa prospettiva trova un'illuminazione
decisiva nel rapporto tra le Persone della
Trinità nell'unica Sostanza divina. La Trinità è
assoluta unità, in quanto le tre divine Persone
sono relazionalità pura” (N.54)
Si tratta del passaggio che si sofferma sulla
“ragione economica”: “La grande sfida che
abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle
problematiche dello sviluppo in questo tempo di
globalizzazione e resa ancor più esigente dalla
crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a
livello sia di pensiero sia di comportamenti,
che non solo i tradizionali principi dell'etica
sociale, quali la trasparenza, l'onestà e la
responsabilità non possono venire trascurati o
attenuati, ma anche che nei rapporti
mercantili il principio di gratuità e
la logica del dono come espressione della
fraternità possono e devono trovare posto
entro la normale attività economica. Ciò è
un'esigenza dell'uomo nel momento attuale, ma
anche un'esigenza della stessa ragione
economica. Si tratta di una esigenza ad un tempo
della carità e della verità”(N. 36).
Cfr. sul valore dell’esperienza giuridica,
Gentile F., Legalità Giustizia
Giustificazione, ESI, Napoli, 2008.
Cfr. Spataro A., Dall’indisponibilità
(tirannia) alla ragionevolezza (bilanciamento)
dei diritti fondamentali. lo sbocco obbligato:
l’individuazione di doveri altrettanto
fondamentali, in Il traffico dei diritti
insaziabili, cit.
Di Martino C., Le evidenze dell’esperienza,
in Famiglia e Dico: una mutazione
antropologica, Quaderni di Fondazione per
la Sussidiaretà, Milano, 2007, 23, ss.
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