1. Il principio di
autodeterminazione: un problema aperto.
Il principio di
autodeterminazione sembra essere divenuto, nel tempo
attuale, un vero e proprio luogo di scontro, una sorta
di cartina di tornasole delle differenti prospettive
culturali nelle quali si divide la società; basti, per
rendersene conto, pensare a quanto spesso a tale
principio ci si è richiamati, con accenti diversi, in
occasione delle più recenti vicende che hanno animati il
dibattito mediatico.
La vicenda Englaro, e
più in generale il dibattito che si è acceso intorno al
tema dell'eutanasia, ne sono la più forte testimonianza.
Ma in generale la gran parte dei dibattiti bioetici di
questi ultimi anni ha fatto perno su questo tema,
sollevando ogni volta con maggior forza la questione dei
limiti della libertà soggettiva, della possibilità per
l'individuo di determinarsi nelle scelte concernenti la
propria corporeità, la propria salute, la propria
sessualità, e così via.
Né, peraltro, il tema
in oggetto interseca questioni di rilievo esclusivamente
biomedico; anche l'insieme dei problemi legati
all'integrazione culturale, ed al riconoscimento di
pratiche rivendicate per ragioni identitarie etniche o
religiose, ha fatto spesso e volentieri riferimento al
problema dei limiti che il legislatore può porre alla
libertà del soggetto di vivere la propria appartenenza
culturale, ove questa comporti l'attuazione di
comportamenti lesivi della dignità umana.
Da un lato, perciò, la
questione dell'autodeterminazione si pone – e si è posta
– con riguardo al problema del rifiuto che un paziente
consapevole e competente può opporre ai trattamenti
sanitari. Posto che – almeno prima facie – nel
nostro ordinamento costituzionale non sono ammissibili
trattamenti sanitari obbligatori, se non per ragioni di
tutela della salute pubblica (vaccinazioni obbligatorie,
trattamenti imposti per impedire la diffusione di
epidemie...), da molte parti si è cominciato a
tematizzare un dirito assoluto e inderogabile di
autodeterminazione in capo al soggetto; in altre parole,
almeno nei limiti in cui gli effetti della decisione
soggettiva non ricadano su altri che sul soggetto
medesimo, si ritiene che non si possa stabilire alcun
limite alla libertà di determinarsi nelle scelte che
concernono la sua salute. Il soggetto, avendo la piena
disponibilità del suo corpo e della sua salute, dovrebbe
cioè poterne disporre in pienezza, anche ove la
determinazione della sua libertà avesse effetti
negativi, o persino mortali, su di sé.
Analogamente, si è
invocato il principio di autodeterminazione,
ammantandolo di un'aura che si fa quasi sacrale, per
legittimare le scelte procreative dei soggetti,
sostenendo che – ad esempio – non v'è alcuna ragione
perché un singolo non debba ricorre all'inseminazione
eterologa, o perché non debba donare (vendere) i propri
gameti ad una banca del seme, o perché non debba
congelare i propri embrioni (con un linguaggio
proprietario tutto interno alla logica
dell'autodeterminazione) per impiantarli in un secondo
momento e ove necessario, o a fini terapeutici.
Ma ancora, è sempre al
principio dell'autodeterminazione che molti si
richiamano ove si fanno paladini del diritto della donna
islamica, adulta e consenziente, di indossare il
chador o qualsiasi altro indumento tradizionale atto
a nasconderne le fattezze. In fondo, nella medesima
prospetiva liberale, si sostiene che non vi sia ragione
per la quale tale libertà non possa anche negare se
stessa, estrinsecandosi in comportamenti obiettivamente
limitativi della capacità di relazione e interazione
sociale; almeno, va da sé, ove tale scelta sia
effettivamente libera e consapevole, e non frutto di
costrizioni o imposizioni.
Infine, ma l'elenco
potrebbe continuare ancora a lungo, è di
autodeterminazione che si è parlato – magari in modo non
pienamente evidente – quando si è discusso di famiglia,
e di legittimazione di forme familiari non coniugali e
non eterosessuali. E' sempre alla libertà umana di
determinare la propria esistenza, e le forme di essa,
che si fa appello per evocare ogni riconoscimento, e per
stigmatizzare come illegittimo ogni intervento
limitativo da parte del legislatore.
Che la riflessione sul
principio di autodeterminazione sia cruciale, e sia il
segno della radicale diversità di paradigmi culturali
fra i quali la società si divide, è testimoniato anche
dalla giurisprudenza; basti pensare alla diversità di
prospettive nelle quali si sono mosse due sezioni della
Corte di Cassazione, ove si sono dedicate l'una alla
vicenda Englaro,
e l'altra alla legittimità di un intervento salvavita su
un Testimone di Geova, che pure aveva chiaramente
manifestato il suo rifiuto di un intervento
emotrasfusionale;
non è questo il luogo per discutere nel dettaglio tali
pronuncie, ma certamente manifestano una irriducibile
duplicità di prospettive, segno evidente di quanto sul
tema dell'autodeterminazione sia necessario un
approfondimento.
Ora, il principio di
autodeterminazione è, da un punto di vista concettuale,
abbastanza semplice; esso postula infatti che il singolo
individuo, in quanto soggetto titolare di un diritto
fondamentale di libertà, debba potersi determinare in
tutte le scelte che non comportano danni per terzi, e
che lo Stato non possa interferire con tale esercizio di
libertà. In altri termini, la libertà soggettiva è tale
che il singolo debba poter scegliere come e quanto
esercitarla, purché ciò non comporti nocumento per
altri, e che l'ordinamento non possa che porsi - se si
assume una prospettiva liberale e democratica - in una
posizione di rispetto di tale autonomia di scelta.
Terreno di elezione
per tale esercizio di libertà - almeno oggi - è proprio
quell'insieme di scelte che si appuntano sulla
corporeità e la salute soggettiva: in quanto "luogo"
personalissimo e privato, il corpo di ogni individuo è
l'oggetto sul quale, più d'ogni altro, tale libertà di
determinarsi può e deve essere esercitata senza limiti,
ed a maggior ragione protetta contro interventi
limitativi della stessa e perciò idonei a negarla di
principio.
Tale prospettiva
riposa su una serie di argomenti di indubbio buon senso
ed abbastanza intuitivi, che la nostra cultura, figlia
di qualche secolo di liberalismo, ha profondamente
assorbito e fatto propri. Anzitutto, infatti, si suole
distinguere fra la prospettiva morale e la prospettiva
giuridica; si ritiene cioè che se, ove si assuma una
prospettiva morale, è ben possibile osservare una
pluralità di argomentazioni, le une favorevoli e le
altre contrarie al riconoscimento del principio di
autodeterminazione soggettiva, specialmente laddove lo
si voglia applicare alla corporeità e alla sfera
sanitaria, tale legittima disparità di prospettiva non è
plausibile ove ci si ponga in una prospettiva giuridica.
E così, in campo morale è ben possibile ritenere che la
vita non sia integralmente disponibile per il soggetto,
o che il corpo non possa essere fatto oggetto di
disposizione, in nome di un principio (teologico o no)
di non piena titolarità dell'esistenza e della
corporeità da parte del soggetto medesimo;
e per converso, è altrettanto plausibile ritenere
che ciascun soggetto abbia la piena titolarità del
proprio corpo e della propria vita, e che nessun altro,
neppure l'autorità, possa interferire con l'esercizio di
tale titolarità, in qualunque modo esso si manifesti.
Non intendo qui
valutare, sul piano morale, la consistenza intrinseca di
tali prospettive, ed entrare in una logomachia che oltre
ad essere probabilmente superiore alle mie forze, è poco
rilevante nella prospettiva del presente scritto. Mi
interessa di più rilevare tre aspetti dell'argomento
riferito, sui quali è bene concentrare maggiormente
l'attenzione. E così, si deve osservare che:
a) è
indubbiamente, e fattualmente, vero che il dibattito
morale si caratterizza per la presenza di argomenti
plausibili sia a favore che contro il principio di
autodeterminazione, a seconda della prospettiva morale
generale che si assume. Più precisamente, è di fatto
osservabile come esistano argomenti diversi a sostegno
della bontà di diversi livelli di autodeterminazione da
parte del soggetto, in ragione di quanto si ritenga
estesa la titolarità del singolo sulla sua esistenza, e
particolarmente sulla dimensione corporea della stessa;
b) nella
prospettiva del non cognitivismo la questione, pur
rilevante in astratto, è indecidibile: gli argomenti
morali non sono espressivi di verità, ma solo di
preferenze soggettive, e dunque sono tutti egualmente
leciti, anche se più o meno convincenti. Più di tutto,
non è possibile effettuare alcuna comparazione tra le
argomentazioni, allo stesso modo in cui non si possono
paragonare le preferenze soggettive, dovendosi
semplicemente prenderne atto e rispettarle. Ora,
indipendentemente da quanto si condivida il non
cognitivismo
come prospettiva filosofica, non è contestabile che esso
sia di fatto assunto, nella cultura contemporanea, come
una sorta di apriori indiscutibile, e che su di esso
riposi gran parte della teoria (e della retorica) della
tolleranza, a sua volta principio cardine delle società
pluralistiche;
c) anche
se la questione fosse in qualche modo decidibile, non
sarebbe comunque rilevante sul piano giuridico, o meglio
non dovrebbe esserlo. La separazione di diritto e
morale, che nella modernità si costruisce come
indifferenza dell'uno per l'altra,
postula che le convinzioni morali non debbano di per sé
tradursi in regole giuridiche, a maggior ragione ove si
registri (e certamente il caso dell'autodeterminazione è
tale) un dissenso fra le comunità morali presenti nella
società. Si possono elaborare strategie diverse per
giungere ad una decisione e ad una normazione unitaria,
ma le argomentazioni morali restano comunque
irrilevanti, non dovendo perciò entrare nel dibattito
pubblico.
In modo più sottile, e
coerente con tale impostazione, il principio di
autodeterminazione si fonda su una specifica
antropologia che mette al centro della dignità umana
l'ideale dell'autonomia; quell'ideale per il quale
"siamo noi a voler progettare responsabilmente (e
vivere) le nostre vite".
Rovesciando i termini dell'argomentazione, la nostra
vita appare degna di essere vissuta in quanto sia il
frutto di una scelta consapevole, di un progetto del
quale l'autore è esclusivamente il soggetto medesimo:
una vita (ma anche un semplice frammento di vita,
un'esperienza particolare) che sia il frutto di una
scelta altrui, per quanto oggettivamente positiva in
termini utilitaristici, è comunque indegna perché
irriconoscibile come propria, ovvero non
ascrivibile ad un progetto elaborato dal soggetto che la
vive.
Posto allora che una
vita (o un frammento di essa) non totalmente scelta è
una vita indegna (o poco degna), il nesso fra dignità e
autonomia è tale che in un contesto democratico ciascun
soggetto ha eguale diritto a veder riconosciute le sue
scelte particolari, le manifestazioni della sua
autonomia; e per corollario, se tutti hanno tale
identico diritto a poter scegliere in quale modo
orientare la propria esistenza, ogni ostacolo a detta
opera di autoprogettazione implica una violazione della
dignità soggettiva. Una violazione ingiusta perché
immotivata, che nega la dignità dell'individuo nella
misura in cui non lo riconosce come pienamente autonomo.
Ora, in questa
prospettiva i diritti sono precisamente una difesa
dell'autonomia soggettiva; sono un argine contro ogni
indebita intrusione di terzi nell'autodeterminazione
soggettiva, ciò che consente a ciascuno di progettare
autonomamente la sua esistenza. Se io voglio scegliere
me stesso, voglio cioè essere l'autore della mia vita
perché questa è la condizione essenziale per
considerarla pienamente degna, il riconoscimento di una
serie di diritti mi consente di vivere insieme ad altri
soggetti senza temere, da parte loro, un'indebita
intrusione nelle mie scelte esistenziali. L'autonomia è
quindi essenzialmente un riconoscimento della mia
dignità, per come io la comprendo; si può allora
precisare la definizione già data, dicendo che
autodeterminarsi significa descriversi, e agire, in modo
coerente con l'immagine di sé che si è costruita, senza
cedere all'imposizione di descrizioni della vita che non
si riconoscono come proprie. In fondo, è questo
l'argomento che si utilizza nella legittimazione del
rifiuto di trattamenti sanitari, o in vicende
direttamente eutanasiche, ma anche per giustificare
richieste di riconoscimento della propria identità
culturale e delle pratiche ad essa connesse; ad esempio,
chidere di poter indossare il chador è, per una
donna islamica (ammesso che sia davvero una scelta
volontaria), chiedere di veder riconosciuta
pubblicamente l'immagine di sé che si è scelta, chiedere
di descriversi così come si è scelto, senza che altri -
altre culture, altre prospettive etiche - impongano
immagini esistenziali che non si riconoscono come
proprie, e che in quanto tali non consentono una vita
degna.
I diritti, allora, e
specificamente i diritti di libertà, vengono intesi come
una risorsa per minimizzare la sofferenza derivante
dalla difformità fra ciò che si è scelto di essere e ciò
che altri mi chiedono di essere; sono, in altri termini,
una tutela dell'autonomia e del controllo del soggetto
sulla sua vita,
in una prospettiva nella quale ciò che garantisce meglio
la dignità umana è precisamente la massimizzazione
delle scelte esistenziali. Maggiori saranno le
possibilità di scelta offerte al soggetto per
descriversi nel modo più vicino alla sua sensibilità
(alla sua cultura, o alla sua religione, o quant'altro),
maggiore sarà la possibilità che gli si offre di vivere
una vita degna, in una prospettiva che bene è descritta
nel motto: "intransigenti con il male e libertari con il
bene".
Laddove, con tutta evidenza, il male da combattere è
solo quello che il soggetto arreca all'altro, e il bene
da consentire è tutto ciò che il singolo ritiene essere
tale, nella sua personalissima visione dell'esistenza.
In altri termini,
allora, il principio di autodeterminazione può
precisarsi nel modo seguente: il soggetto ha il diritto
a che sia rispettata, sempre e indipendentemente dalle
conseguenze, la sua libertà di determinare la sua
esistenza, e di disporre della sua vita e della sua
corporeità, in perfetta autonomia (si potrebbe dire: in
perfetta solitudine, ovvero considerandosi autori
unici delle decisioni salienti); limiti a tale
libertà possono derivare dal rispetto per simmetriche
situazioni di diritto, ovvero dalla eventuale lesione di
diritti di terzi.
Ma salvo tale ipotesi, non vi sono ragioni che
giustifichino un restringimento di tale autonomia
soggettiva.
2.
Autodeterminazione e libertà formale.
La prospettiva appena
descritta, di matrice tipicamente liberale, per la quale
la libertà soggettiva ha un'estensione praticamente
infinita e limitata unicamente (direi: eccezionalmente)
dalla compresenza di simmetrici diritti di libertà
altrui, riposa su una certa comprensione dei legami fra
la libertà e il diritto soggettivo che è necessario
approfondire. In particolare - ed è questo il tema più
direttamente pertinente alla presente indagine - detta
prospettiva riposa sull'idea che la libertà soggettiva
sia, di per sé, un diritto soggettivo, una
situazione che l'ordinamento deve a qualunque costo
proteggere in quanto meritevole di approvazione. Ancor
più precisamente tale intepretazione postula che la
libertà soggettiva sia una situazione in se stessa
giuridica, che l'ordinamento recepisce e che tutela come
un dato che lo precede, e che esso ha unicamente il
compito di coordinare con situazioni analoche in capo ad
altri soggetti, e di tutelare da indebite aggressioni.
Va sottolineato il
fatto che una concezione del genere determina una
giuridicizzazione integrale della libertà; essa è
sempre, e di per sé, un diritto, molto prima di
specificarsi in singole situazioni giuridiche: i
diritti, al plurale, non sono cioè che una
specificazione, e una concretizzazione puntuale, di un
generale diritto di libertà i cui confini non sono
predeterminabili, ma che di volta in volta si generano
all'incontro con una situazione di libertà analoga in
capo ad altro soggetto. Il singolo pertanto non ha
(primariamente) un corpus di specifici diritti,
che proteggono le realizzazioni altrettanto specifiche
della sua libertà, ma un generale diritto di
determinarsi liberamente; egli ha insomma un generale
diritto di determinare la sua esistenza secondo la sua
volontà, e non semplicemente la possibilità materiale di
farlo: l'ordinamento riconosce che la libertà del
singolo sia di per sé un diritto, una situazione da
proteggere, prima che siano determinate le specifiche
evenienze in cui tale libertà si concretizza nella
prassi.
In questo senso,
allora, il diritto di libertà che l'ordinamento
riconosce al singolo non può che essere compreso in
termini formali. Se la libertà è di per sé un
diritto, ovvero una situazione giuridicamente rilevante
e meritevole, in quanto tale, di tutela, il
riconoscimento che l'ordinamento opera non può che
prescindere dai contenuti di essa; la libertà è già in
sé un diritto, e le determinazioni puntuali della stessa
lo sono per conseguenza. Ciò significa che non vi è
alcun giudizio di meritevolezza in relazione alla
specifica modalità con la quale tale libertà si
concretizza nella prassi, perché l'ordinamento dà per
presupposto il diritto (e non, lo ripeto, la possibilità
materiale) che il soggetto agisca secondo le
determinazioni della sua volontà;
poiché la libertà è giuridica in sé, e precede
l'ordinamento, ogni qual volta essa si specifichi in una
prassi determinata produrrà l'insorgere di un diritto
particolare, una situazione tutelata in quanto derivante
da un generale diritto dato a priori. Il che significa,
in altre parole, che solo il soggetto può essere il
giudice della meritevolezza delle modalità particolari
nelle quali la sua libertà si concretizza; esse non
hanno alcun bisogno di essere valutate e giudicate, per
essere riconosciute e tutelate, poiché la loro
giustificazione sta già tutta nella scelta soggettiva.
Ciascun soggetto, pertanto, dispone di un generale
diritto di libertà che impone agli altri, e
particolarmente al potere sovrano, di "trattarlo in modo
tale che egli possa soddisfare i propri bisogni e
raggiungere i propri fini, primo fra tutti quello della
felicità, che è un fine individuale per eccellenza".
Volendo schematizzare,
si può dire che il generale diritto di libertà, e la
verificabile assenza di lesioni a simmetrici diritti di
terzi, determinano necessariamente l'insorgenza di un
diritto puntuale in capo al soggetto. Ora, è
precisamente questo schema che bisogna verificare, onde
valutare la consistenza del diritto
all'autodeterminazione soggettiva, che su di esso
riposa: detto in modo più diretto, è necessario
comprendere se, e soprattutto in quali limiti, la
libertà soggettiva sia sempre e di per sé un diritto, o
se invece essa lo diventi di volta in volta, in ragione
di un giudizio di meritevolezza che può prescindere,
nella sua oggettività, dalla presenza di eventuali
lesioni alla libertà e ai diritti dei terzi.
Al fine di giungere ad
una risposta, o ad un'ipotesi di risposta, può essere
utile approfondire in quale modo il concetto di libertà,
così come elaborato nella cultura moderna (spesso in
contrapposizione, come è noto, alla libertà degli
antichi),
possa essere compreso in una prospettiva formale, o più
precisamente possa condurre ad una formalizzazione del
diritto di libertà; sarà così possibile valutare anche
la differenza con una visione più classica della libertà
stessa, e la diversa consistenza, in entrambe, del
principio di autodeterminazione. Credo infatti, e sarà
oggetto d'analisi nelle pagine seguenti, che il concetto
negativo di libertà - vero e proprio paradigma
moderno della libertà stessa - conduca quasi
inevitabilmente, soprattutto ove si fondi su una
prospettiva marcatamente individualistica, ad una
formalizzazione del diritto di libertà.
E' frequente infatti,
e indubbiamente corretto, sottolineare la differenza fra
la concezione classica e quella moderna della libertà,
tematizzando tali due prospettive termini di una libertà
positiva di contro ad una libertà negativa; Isaiah
Berlin, che del liberalismo è uno dei più illustri
teorici, ebbe a formulare questa distinzione, davvero
canonica, sottolineando come lo stesso concetto di
libertà potesse essere concepito in due modi
radicalmente diversi tra loro. Da un lato infatti può
parlarsi di libertà come "libertà dalle catene, dalla
prigionia, dalla schiavizzazione da parte di altri",
ovvero come non impedimento o libertà da;
dall'altro, di libertà si può parlare in un senso
positivo come di libertà di, ovvero come
desiderio di "essere strumento dei (propri) atti di
volontà e non di quelli di altri".
In altre parole, se la libertà negativa si configura
come non impedimento, da parte di terzi ed in
particolare dell'autorità, in relazione alle
determinazioni della propria volontà, la libertà
positiva si rivela come possibilità di contribuire alla
determinazione pubblica dei limiti alla libertà stessa.
Da un lato essere liberi significa poter agire senza
essere impediti dalla società, dall'altro significa non
avere limiti che quelli che si riconoscono come propri,
ovvero come derivanti dalla volontà pubblica che si
riconosce a sua volta come propria.
In effetti, più che di
due concetti radicalmente opposti di libertà dovrebbe
parlarsi di distinzione di ambiti
nei quali tale libertà si esercita, o di punti
d'osservazione sulla stessa; la libertà negativa è
allora la libertà che si esercita in ambito privato, e
che deriva dalla possibilità di proteggere tale ambito
dall'interferenza della società e del potere: il
soggetto è libero da, nei termini in cui è
lasciato libero di determinare la sua vita, contro ogni
pretesa pubblica di interferire con essa. In altro
senso, la libertà positiva è quella che si esercita in
ambito pubblico, ovvero la possibilità di partecipare
alla determinazione delle scelte pubbliche, o ancor più
precisamente ciò che consente al singolo di percepire
come propria la volontà pubblica, nella misura in cui
egli può contribuire alla formazione della stessa.
Come detto, tale
distinzione può essere sovrapposta con una certa
facilità a quella - ancor più nota - fra libertà degli
antichi e libertà dei moderni; è lo stesso Berlin che
riconosce come la libertà negativa, quella libertà che
egli peraltro considera come vera e autentica libertà,
"non risale più in là, nella sua forma sviluppata, del
Rinascimento o della Riforma".
Tra libertà dei moderni e libertà negativa vi sarebbe
pertanto una profonda affinità, così come tra libertà
positiva e libertà degli antichi. Nella stessa
prospettiva, del resto, Constant aveva già colto come la
libertà individuale o dei moderni fosse superiore
a quella politica e si collocassero in un rapporto di
mezzo a fine; in particolare, se per gli antichi -
sostiene Constant - il problema fondamentale è quello di
dividere il potere sociale fra i cittadini, per i
moderni è di garantire "la sicurezza dei godimenti
privati". Ma solo quest'ultima, in fondo, è vera
libertà, e la libertà politica non ne è che la garanzia,
e in alcun caso - proprio perciò - si può chiedere ai
cittadini di rinunciare alla loro libertà personale in
nome di quella politica.
Il fatto è che tale
distinzione, come avvertito dallo stesso Berlin, è più
storica che teorica; nel senso che più che indicare una
reale contrapposizione concettuale è utile per
comprendere lo sviluppo del concetto di libertà nella
storia dell'occidente, o per contrapporre la tradizione
democratica a quella liberale, onde valutarne le
possibilità di integrazione e i conflitti. Ma dal punto
di vista puramente concettuale fra libertà negativa e
libertà positiva non v'è poi tanta differenza; ciò è
stato notato, con la consueta precisione, da Norberto
Bobbio, il quale infatti riconduce entrambi i concetti,
pur da prospettive evidentemente diverse, al medesimo
principio di autodeterminazione.
Se infatti è vero che da un punto di vista teorico
generale, o sistematico, i due concetti in esame possono
essere ricondotti ai due termini (contraddittori) del
permesso e dell'obbligatorio - libertà come sfera del
permesso (libertà negativa), libertà come sfera
dell'obbligatorio, prodotta da una auto-obbligazione
(libertà positiva) - non si può non vedere come al fondo
il concetto di libertà richiami sempre la possibilità
per l'individuo di autodeterminarsi. Nella sfera del
permesso il soggetto si autodetermina privo di
restrizioni esterne, nella sfera dell'obbligatorio i
soggetti non riconoscono altri vincoli che quelli che si
sono imposti da sé, determinando essi stessi le
possibilità del loro agire;
ma in ogni caso, come si vede, la libertà implica sempre
la possibilità che la volontà determini la prassi
soggettiva senza che volizioni esterne, o che non si
riconoscono come proprie neppure in modo mediato,
pretendano di porsi come un limite più o meno esteso per
essa.
Ci troviamo in altre
parole di fronte a due concetti di libertà che - in
parte, impropriamente - possono sì essere associati a
epoche differenti, come pure possono costituire il
riferimento per tradizioni parzialmente diverse, ma che
in un certo modo si muovono all'interno del medesimo
orizzonte. Sia che si consideri la libertà in senso
negativo sia che la si consideri in senso positivo, essa
si costruisce infatti sempre come un diritto del singolo
nei confronti della società; in un caso, come diritto a
non essere impediti nell'attuazione delle proprie
volizioni, ove queste si estrinsechino in una sfera non
interferente con quella altrui (es.: la gestione dei
propri beni, la disposizione del proprio corpo),
nell'altro caso come un diritto a partecipare alla
determinazione della volontà pubblica, ovvero
soprattutto alla determinazione di quei limiti della
libertà personale in cui si risolvono le leggi. Tale
orizzonte comune, che determina l'impossibilità di
distinguere radicalmente un concetto di libertà
dall'altro, se non per ragioni di scuola, ha insomma
come suo perno l'individuo, il soggetto la cui volontà è
sempre il riferimento della libertà, in qualunque senso
la si voglia comprendere; è l'individuo che chiede uno
spazio di autodeterminazione privata, o di partecipare
all'autodeterminazione collettiva, ed è l'individuo che
chiede di giuridicizzare l'una e l'altra (con il
riconoscimento dei diritti di libertà e dei diritti
politici) al fine di esser meglio garantito. Se pertanto
si suole affiancare (o contrapporre) la libertà moderna
a quella antica, o la libertà negativa a quella
positiva, dal punto di vista puramente logico "la
libertà che consiste nell'esser padroni di se stessi e
quella che consiste nel non essere ostacolati nelle
proprie scelte da altri possono sembrare ... nient'altro
che due modi, uno positivo e l'altro negativo, di dire
sostanzialmente la stessa cosa", essendo solo la storia
il luogo in cui si sono mostrati gli sviluppi, anche
conflittuali, di tali concetti.
L'idea secondo la
quale, sul piano giuridico, la libertà soggettiva si
traduca necessariamente in un principio di
autodeterminazione, o più precisamente implichi il
riconoscimento di un generale diritto del soggetto ad
autodeterminarsi, salvi i limiti derivanti dalla
necessità di tutelare simmetriche posizioni di altri
soggetti, riposa pertanto su una visione
individualistica dell'ordine politico. La libertà, in
altre parole, è il presupposto individuale dell'ordine
della società, e lo giustifica specificandone le
condizioni di possibilità. La libertà è insomma una
caratteristica saliente del singolo individuo,
precedente alla dimensione politica della coesistenza, e
criterio di giustificazione della stessa; in ogni
interpretazione contrattualistica del vincolo politico,
per quanto possano essere grandi le differenze fra l'una
e l'altra visione particolare (si pensi alla distanza
cui giungono, nella descrizione della struttura politica
complessiva, Hobbes e Locke), l'assunzione che il
soggetto sia titolare di per sé di un generale diritto
di libertà pre-politico è sostanzialmente costante.
L'idea stessa di costruizione artificiale dell'ordine
politico, in effetti, la sua fondamentale innaturalità
che permette di comprenderlo come costruzione razionale,
è "centrata sul riconoscimento della libertà moderna,
intesa come proprietà normativamente rilevante e non
politica di individui che sono concettualizzati come
cooperanti nella costruzione pattizia della comunità
politica".
Ciò che rende
plausibile - e affascinante - l'idea di una costruzione
artificiale dell'ordine politico, è un'antropologia che
riconosca il soggetto come titolare per natura di un
diritto di libertà che si estrinseca su sé e sui propri
beni, e che intenda l'individuo come fonte del valore
delle scelte che coinvolgono la sua esistenza. E' l'idea
che le scelte soggettive siano espressive di un valore
in quanto elaborate autonomamente dal soggetto, e che
per conseguenza le scelte pubbliche trovino la loro
giustificazione unicamente nella corrispondenza, più o
meno mediata, alle volizioni soggettive. Se lo Stato
nasce come prodotto della volontà soggettiva, se esso ha
una natura spiccatamente convenzionale, è perché esso
risponde al bisogno, di principio contingente anche se
storicamente frequente, che la libertà dei singoli venga
tutelata; è un problema di forza, non di
fondazione. La libertà soggettiva, infatti, è un
dato pre-politico; come ho detto, essa precede lo Stato
e rappresenta il criterio di giustificazione del suo
operato, il limite alla sua azione e la ragion d'essere
della sua esistenza. Il compito dello Stato è perciò di
tutelare tale libertà, di mettere al servizio dei
singoli la sua forza onde proteggerli da eventuali
aggressioni, ma non certamente di determinare il valore
giuridico della libertà stessa; la libertà, proprio
perché pre-politica, è già di per sé un diritto del
singolo, che solo ne può determinare l'estensione e le
condizioni di esercizio. Allo Stato, pertanto, non può
che spettare il compito di coordinare le modalità con
cui i singoli decidono di esercitare tale loro diritto
assoluto e naturale, proteggendoli da eventuali abusi,
ma non quello di stabilire i limiti nei quali la libertà
soggettiva sia qualificabile come un diritto: tale
questione, lo ripeto, è pre-politica, un postulato che
lo Stato deve riconoscere, ma non sindacare.
Vale la pena
precisare, onde sgombrare il campo da eventuali
equivoci, che la questione della natura pre-politica
della libertà, ovvero dell'originarietà di un generale
diritto di libertà in capo ai singoli, non è riducibile
al problema, in sé rilevantissimo, della limitazione
della libertà in ragione del perseguimento di altri
valori politici; che la libertà possa essere limitata
per ragioni distributive, o genericamente in nome
dell'uguaglianza, o per tutelare la sicurezza pubblica,
o per consimili ragioni,
è tema interessante ma successivo, logicamente, alla
questione discussa in questa sede. Il principio di
autodeterminazione, in una prospettiva liberale e
contrattualista, si colloca infatti su un piano
generale, ulteriore rispetto alle specifiche e
particolari limitazioni cui la libertà soggettiva possa
essere sottoposta per ragioni di volta in volta diverse;
per meglio dire, se un liberale puro, à la
Nozick, può sostenere che il valore della libertà, ove
assunto come valore fondativo per il vincolo politico,
non possa essere limitato in alcun modo, neppure per
nobili aspirazioni quali il perseguimento
dell'uguaglianza (in una logica del tutto o niente),
è anche possibile ritenere che nella medesima logica di
autodeterminazione un liberal-democratico
ritenga plausibile limitare parzialmente la libertà
soggettiva in nome di altre finalità. Proprio perché,
come detto, il principio di autodeterminazione è interno
anche al paradigma della libertà positiva,
i limiti che la collettività deciderà di auto-imporsi
democraticamente, proprio in quanto percepiti come
autonomi (seppure in via mediata) saranno ritenuti
compatibili di principio con l'affermazione della
libertà soggettiva. Resta però fermo, anche in tal caso,
il paradigma secondo il quale la libertà è un diritto
originario e pre-politico, fondativo di ogni ordine
sociale, e i limiti ad essa, tanto derivanti dalla
tutela di diritti di terzi, quanto derivanti da
un'auto-obbligazione che gli individui accettano in una
logica democratica, si presentano in ogni caso con il
carattere dell'eccezionalità.
La questione che
interessa di più, almeno nella presente indagine, è per
contro se tale qualificazione della libertà come un
generale e pre-politico diritto del soggetto, e la
conseguente interpretazione formale del principio di
autodeterminazione, siano accettabili e compatibili con
il nostro ordinamento. Proviamo, in questa prospettiva,
a compiere un ulteriore passo nella comprensione del
paradigma individualistico dei diritti e del principio
di autodeterminazione.
E' possibile osservare
che se si assolutizza la libertà soggettiva come
fondamento della vita associata (come si fa, in vario
modo e con vari risultati, nel contrattualismo), la
garanzia che l'ordinamento offre - deve offrire -
al soggetto ha il fine essenziale di consentire la sua
autorealizzazione; i diritti, e anzitutto i diritti di
libertà, sono modalità puntuali con le quali
l'ordinamento garantisce che il soggetto possa orientare
la propria vita in quella specifica direzione che,
conformemente alla sua volontà, le conferisce valore. Il
diritto all'autodeterminazione si estende a tutta
l'esistenza soggettiva, e si concretizza di volta in
volta nei diversi diritti di libertà dei quali il
soggetto gode; solo assumendo tale generale
riconoscimento giuridico della libertà soggettiva
l'ordinamento può essere ritenuto, a sua volta,
giustificato, dato che ove non ricorrano le circostanze
eccezionali già menzionate non v'è motivo di
limitare le possibilità per l'individuo di determinare
la sua vita nel modo che ritiene più degno e valido.
Cosa possa poi rendere davvero degna la vita umana è
questione che l'ordinamento non deve porsi; tale
questione sta ancora tutta in quella sfera pre-politica
in cui sorge la libertà soggettiva, e che perciò è
meritevole di essere tutelata a prescindere dai
contenuti materiali di cui si riempie. E' come se, in
altri termini, lo Stato si collocasse a valle delle
scelte esistenziali del soggetto, tutelando una libertà
che trova già strutturata come diritto e i cui contenuti
stanno tutti nella volontà del singolo individuo.
E difatti, come notava già Savigny, i diritti sono la
garanzia della libera volontà umana, ciò che consente
alla volontà di estrinsecarsi senza restrizioni; sono,
insomma, pretese che l'ordinamento riconosce come
diritti e garantisce da indebite interferenze.
Alla base della
prospettiva in esame vi è perciò una concezione
formale della libertà, tale da rendere indeterminato
(si perdoni il gioco di parole) il principio di
autodeterminazione, e per conseguenza le modalità
giuridiche mediante le quali esso viene tutelato. Più
semplicemente, poiché i contenuti della libertà sono
tutti interni alla volontà soggettiva che li sceglie, e
poiché la libertà viene riconosciuta come un diritto
a prescindere da tali contenuti (salvo che essi non
siano lesivi della libertà altrui, o salvo che non sia
il soggetto medesimo ad auto-obbligarsi), i diritti dei
quali il soggetto dovrà godere a tutela della sua
autodeterminazione sono praticamente infiniti. Non
esiste catalogo dei diritti, per quanto esteso, che
possa prevedere tutte le modalità che i soggetti
riterranno di perseguire esercitando il loro generale
diritto di autodeterminarsi: "i diritti in funzione
della libertà, cioè della volontà, - scrive Zagrebelsky
- sono un'esigenza permanente poiché permanente è la
volontà che essi sono chiamati a proteggere... Il tempo
di questi diritti è inesauribile". Dato infatti che i
contenuti materiali della volontà, dei quali si
sostanzia il diritto di libertà di ciascun soggetto,
dipenderanno dalle circostanze di fronte alle quali la
volontà sarà chiamata a determinare la prassi, i diritti
insomma non potranno che emergere
progressivamente e indefinitamente, in ragione di tali
circostanze. Non solo, ma le esigenze della volontà sono
di principio infinite e indefinite; nessuno, fuor che il
soggetto stesso, può escludere che una particolare
esperienza o struttura esistenziale non sia degna di
essere voluta, non possa essere desiderata in quanto
fonte di autenticità, e dunque nessuno può
legittimamente impedire l'esercizio di un diritto idoneo
ad attuarla.
Se si vuole un
esempio, basti guardare alla progressiva
giuridicizzazione delle unioni omosessuali.
Ciò che in altre epoche era ritenuto impossibile,
diviene oggi, e sempre più frequentemente, un diritto,
motivato appunto dalla presenza di una volontà
soggettiva che chiede il riconoscimento - nel nome del
diritto di libertà, in questo caso della libertà
coniugale - di una modalità di vita affettiva che i
soggetti coinvolti ritengono autentica.
Semplificando, il
meccanismo di determinazione progressiva del diritto di
libertà potrebbe essere questo: a) si dà per
riconosciuto, di principio, un generale diritto di
libertà soggettiva; b) i contenuti di tale diritto sono
determinabili solo dal soggetto, in ragione delle sue
scelte esistenziali (principio di autodeterminazione);
c) le circostanze (culturali, temporali, sociali)
determinano l'insorgenza di nuove esigenze, di nuove
possibilità di vivere autenticamente la propria
vita; d) tali possibilità divengono naturalmente
diritti. Poiché non c'è limite alle modalità di
realizzazione della libertà, e poiché ogni
determinazione esistenziale del soggetto è di principio
riconoscibile, i diritti sono illimitati.
3. Libertà formale
e paradigma individualistico dei diritti.
Descrivendo i diritti
di libertà in termini formali ho più volte fatto
riferimento alla concezione individualistica dei diritti
che si accompagna necessariamente a tale paradigma, e
che caratterizza tanto le prospettive più marcatamente
liberali-libertarie, quanto quelle più
liberal-democratiche. Tale concezione individualistica
può infatti ridursi ad un assunto - già discusso a
proposito del concetto di ordine pubblico - secondo il
quale il problema dei diritti è al fondo un problema di
confini, nell'articolazione dei rapporti tra
l'individuo e lo Stato (il potere sovrano, se si vuole
usare un termine più generico). Detta concezione, che
possiamo qualificare come un'impostazione hobbesiana,
nel caso in esame colloca il principio di
autodeterminazione in qull'area dai confini indefiniti
che risulta libera una volta stabilite le spettanze
della società nei confronti dell'individuo.
Si prenda ad esempio
una delle costruzioni più note degli ultimi anni in tema
di diritti, ovvero quella di R. Dworkin. In tale
prospettiva, i diritti possono essere compresi, molto in
generale, come garanzia della sfera di libertà di un
soggetto dalle interferenze della società;
i diritti fondamentali, in particolare, rappresentano le
spettanze del singolo "verso lo Stato, in un significato
forte", ovvero un argine contro l'intrusione del potere
nella libertà di ciascuno, tale da legittimare un
conseguente diritto a trasgredire leggi che tali diritti
violassero oltre ogni ragionevole misura (cioè così
tanto da renderli appena percepibili, pur in presenza di
ragioni giustificative).
L'aspetto più interessante, in quanto rivelativo di tale
paradigma hobbesiano retrostante, è tuttavia un altro,
ed emerge laddove Dworkin si interroga su quali diritti,
concretamente, il soggetto abbia. Perché se un diritto è
un limite all'azione-intrusione del potere nella sfera
di libertà del soggetto, diviene cruciale determinare di
quali diritti in concreto l'individuo goda, onde
tracciare la linea di confine fra la sua libertà e la
possibilità d'azione dello Stato; in questa prospettiva,
Dworkin ritiene che i diritti di libertà derivino
dall'assunzione dell'eguaglianza come postulato
fondamentale della vita civile, e che pertanto l'eguale
considerazione, rispetto e complesso di opportunità cui
di principio sono destinatari i singoli individui
motivi, nei loro confronti, la tutela di tale serie di
libertà. Più in particolare, dal principio di
eguaglianza deriva la protezione di quelle specifiche
libertà che con essa sono in rapporto, libertà il cui
grado di protezione è così forte che né argomenti di
tipo utilitaristico, né argomenti di tipo ideale,
legittimano una loro restrizione nel nome di pretesi
vantaggi (rispettivamente: materiali o ideali-morali)
dell'intera società.
Parlo di libertà al plurale, non per caso: in
effetti, Dworkin ritiene che non si possa sostenere un
generico diritto alla libertà, ovvero che non sia
possibile sostenere un diritto alla libertà in senso
neutrale (formale), quale sostenuto da Berlin nei
termini della libertà negativa;
e ciò perché, se si assumesse un tale concetto di
libertà astratto, non sarebbe comprensibile il motivo
per il quale la violazione di certe libertà (libertà di
parola, di religione...) appaia intollerabile e non
giustificabile, mentre per altre (libertà di
circolazione, libertà economica...), siano ammesse
limitazioni in nome dell'utilità generale o simili
argomenti.
E tuttavia, anche se
l'accento è - condivisibilmente - spostato dalla libertà
in generale alle libertà in particolare, il paradigma di
fondo resta comunque centrato sull'individuo: i diritti
sono spettanze del soggetto contro lo Stato,
della minoranza contro la maggioranza, in un
rapporto verticale che lega i singoli al potere, e che
li vede dotati, in misura variabile, di un bagaglio di
diritti da far valere verso chi (o coloro che) esercita
(o esercitano) il potere. Alcuni diritti possono essere
ritenuti fondamentali, ovvero garantire alcune libertà
che solo in casi eccezionali possono essere coartate, e
con motivazioni forti, altri sono per contro soggetti a
composizione e bilanciamento con gli interessi della
comunità nel complesso; ma tanto gli uni quanto gli
altri sono possibilità d'azione garantite dal diritto,
delle quali il soggetto dispone e che esercita entro
quei limiti (amplissimi e solidi, nel caso delle libertà
fondamentali, più mobili e ridotti, negli altri) che
l'ordinamento pone.
Quest'impostazione
individualistica dei diritti, e del diritto di libertà
in particolare, si fonda sul presupposto epistemologico
- per dirlo in modo sintetico - che solo l'individuo
sia reale;
più precisamente, si fonda sull'idea che l'individuo sia
l'unica realtà originaria, che il diritto e lo
Stato siano enti artificiali e derivati, e che i
singoli diritti siano un modo di sancire tale rapporto
di derivazione dei secondi dal primo. I diritti sono
pertanto, a loro volta, la giuridicizzazione, o meglio
il riconoscimento giuridico-positivo, di una serie di
poteri del singolo indipendenti dal suo carattere
sociale o, se si preferisce, coesistenziale.
Tale prospettiva,
nella quale la libertà è, come ogni altro diritto, la
giuridicizzazione di un potere del singolo, di principio
inesteso e disponibile, ed i cui limiti di esercizio
rivestono il carattere dell'eccezionalità, ha una genesi
risalente ben oltre il liberalismo; genesi che, secondo
una teoria sostenuta da molti studiosi, è stata fatta
risalire fino alle origini del nominalismo.
E' con il nominalismo in effetti - e particolarmente con
la filosofia di Guglielmo di Ockham
- che prende corpo l'idea secondo la quale non esiste
nulla nella realtà al di sopra e al di là degli
individui; solo i singoli enti sono reali, solo gli
individui sono conoscibili, solo le sostanze individuali
esistono in modo autentico. Ciò che non è sostanza
individuale, e perciò le categorie universali (il
cittadino, l'uomo, la società, e così via), non è reale,
ma solo uno strumento linguistico, un segno per
costruire categorie di enti individuali, mettendo
insieme singoli fenomeni di realtà sulla base di
somiglianze o caratteri comuni. Detto in modo sintetico,
l'essere è predicabile solo dei singoli enti, e non
degli insiemi di essi o delle loro relazioni (é
in senso autentico solo Tizio, o Caio, non l'essere
umano, che è solo un nome con cui connoto una serie
di enti); l'essere non appartiene agli universali, nel
senso che non è predicabile di essi.
Tutto ciò ha, sul
diritto, una ricaduta enormemente significativa, oltre
che un'evidente rilevo teologico e filosofico; il
nominalismo - a parere di Villey - comporta infatti un
abbandono di prospettive tipicamente giusnaturalistiche,
ovvero di paradigmi che, in vario modo, costruiscono la
riflessione giuridica a partire "dall'osservazione della
natura e dell'ordine che in essa si manifesta. Il
nominalismo, al contrario, induce a pensare tutte le
cose a partire dall'individuo".
Ciò produce uno spostamento dell'interesse della
scienza giuridica verso la determinazione delle facoltà
dell'individuo, dei suoi poteri e, particolarmente, dei
suoi diritti. Tutta la struttura del diritto, in altre
parole, viene ricostruita a partire dal soggetto;
sia postulando una serie di diritti individuali, ovvero
l'esistenza di una dimensione entro la quale la volontà
soggettiva assume il carattere della giuridicità, sia
riconducendo l'intero assetto normativo alla volontà dei
singoli, siano essi visti come destinatari o come
produttori delle norme positive.
In modo più netto, e restando all'interno di tale
prospettiva, i diritti derivano da una sovrapposizione
fra il potere individuale e il riconoscimento giuridico
di esso, sono insomma una giuridicizzazione dei poteri
del soggetto.
Per Villey, come è
noto, tale idea è estranea tanto al mondo classico - e
al mondo romano in particolare - quanto alla tradizione
del pensiero giusnatualistico, almeno fino alla
rivoluzione operata per l'appunto con l'affermazione
del nominalismo di Ockham.
Nella prospettiva del giusnaturalismo classico infatti,
lo jus non è in alcun modo un potere del singolo
riconosciuto come giuridico, ma un rapporto
oggettivo (ciò che si indica con l'espressione id
quod justum est), un determinato assetto nelle
relazioni e nei rapporti, all'interno del quale si
possono individuare le spettanze soggettive. Lo jus
sarebbe insomma, molto più che un ambito nel quale la
volontà soggettiva può esercitarsi liberamente, l'ordine
oggettivo riscontrabile in un dato rapporto, e dunque il
criterio di ripartizione, fra tutti i soggetti
coinvolti, delle spettanze di ciascuno. Se perciò si può
parlare dello jus di un determinato soggetto, è
perché con tale espressione si vuole indicare la
parte che spetta a quel soggetto all'interno di un
rapporto cui è riconosciuto valore giuridico; non è il
potere del singolo, in definitiva, ad avere valore
giuridico, ma il rapporto all'interno del quale il
soggetto è inserito, nel quale è coinvolto. Solo
secondariamente, e per corollario, ciò che gli spetta ha
valore giuridico ed è tutelato giuridicamente, solo come
conseguenza della giuridicità dell'intera relazione.
Non si tratta, come si
vede, di attribuire valore giuridico a qualità o
capacità soggettive, determinandone i limiti di
estensione in ragione della necessaria integrazione
nella collettività, ma di comprendere l'oggettivo - ed
eventuale - rilevo giuridico dei rapporti fra i
soggetti, attribuendo a ciascuno, in ragione di esso,
precise spettanze; il diritto del singolo, dunque, non è
che il riflesso, e la conseguenza, della giuridicità
della relazione nella quale il singolo è coinvolto. Ciò
significa altresì che, a differenza di quanto avviene
ove si prenda come punto d'avvio la posizione del
singolo individuo, l'ambito entro il quale il potere del
singolo si esercita secondo diritto è originariamente
limitato, proprio perché nasce da una ripartizione
fra più soggetti di una serie di spettanze interne a
quel particolare tipo di rapporto nel quale sono
coinvolti.
E', se si vuole,
l'esatto opposto di quanto avviene nel paradigma
individualistico; come ho già mostrato, in esso il
potere del singolo, che l'ordinamento riconosce e
qualifica come giuridico, è di principio illimitato, e
solo in ragione del necessario coordinamento con
l'analogo diritto del terzo, o delle generali esigenze
della comunità, si può determinare la misura del suo
esercizio lecito: la determinazione dei confini del
diritto del singolo è operazione successiva e
logicamente secondaria al riconoscimento di questo
stesso diritto. Ove invece ciò cui si riconosce rilievo
giuridico è anzitutto la relazione, e la
determinazione dei diritti dei singoli soggetti è solo
la conseguenza della giuridicità di essa, l'ambito di
esercizio del diritto del singolo è di principio
limitato; non già in ragione di un pur necessario
coordinamento, ma proprio come conseguenza
dell'originaria ripartizione delle spettanze di ciascuno
fra i soggetti coinvolti in un rapporto giuridico.
In un certo modo,
questa teoria si costruisce sulla contrapposizione tra
un giusnaturalismo classico, che intende lo jus
come norma naturale oggettiva, e che considera i
soggetti titolari di spettanze che derivano dall'esser
inseriti in strutture di ordine (dell'ordine cosmico,
anzitutto, ma allo stesso modo dell'ordine della
polis, della famiglia, della specifica situazione
relazionale, quale ad esempio un rapporto creditizio), e
un soggettivismo individualistico che, se pure può
continuare a presentarsi nelle forme tipiche del
giusnaturalismo, postula la priorità dell'individuo e
dei suoi diritti innati su quel medesimo ordine naturale
e sociale.
Un'impostazione del
genere è certamente, come ogni tentativo di ridurre la
complessità del reale ad uno schema, eccessivamente
semplificante,
e tale è stata ritenuta da molti, che l'hanno accusata
di essere per l'appunto "schematica..., logicamente
inconsistente e, in effetti, senza rispondenza nei testi
degli scrittori dell'epoca";
e tuttavia ha il pregio, distinguendo una teoria dei
diritti innati da una teoria del diritto oggettivo, di
dare da un lato una rappresentazione efficace della
sensibilità etica e politica diffusa tra i teorici
medievali
(ovvero nell'epoca della prima fioritura del diritto
soggettivo), e dall'altra di mettere in luce una
effettiva differenza di prospettive. Differenza che si
ritrova tal quale, pur se con accenti del tutto diversi,
nella contrapposizione fra la concezione restaurativa e
quella instaurativa dei diritti, o se si preferisce tra
la l'idea dei diritti in funzione della giustizia, e
l'idea dei diritti in ragione della libertà, unica
garanzia per la costruzione della giustizia.
Credo insomma che il
merito della ricostruzione operata da Villey vada ben
oltre la sua maggiore o minore correttezza
storico-filologica, e sia da trovare proprio nella
fecondità del paradigma da lui utilizzato, per
comprendere il significato dei diritti soggettivi; in
altri termini, se pure lo sviluppo del diritto
soggettivo deve o può essere ricostruito in modo
diverso, l'idea che alla base della concezione liberale
dei diritti vi sia un'impostazione fondamentalmente
individualistica, e che questa impostazione renda di
principio illimitato l'ambito entro il quale il singolo
può esercitare la sua libertà, mi sembra sostanzialmente
accettabile. In particolare, se l'orizzonte del diritto
viene costruito assegnando una priorità al diritto
soggettivo, e al rilievo direttamente giuridico di
alcune qualità eminenti del singolo individuo (la
libertà personale, la libertà di pensiero, il dominio
sul proprio corpo e i propri beni, e così via), questa
sfera tende a dilatarsi e a porsi come, di principio,
illimitata. Le relazioni divengono infatti una
conseguenza dell'attuazione, da parte dei singoli, del
loro potere (ad es.: il potere di disporre di una cosa
alienandola, ed instaurando un rapporto tipico con il
soggetto che l'acquista), ed assumono il carattere della
giuridicità in virtù dell'esercizio, da parte dei
singoli, dei poteri di cui dispongono; ciò fa sì che il
contenuto di tali relazioni, e più in particolare il
contenuto che ogni soggetto coinvolto in una data
relazione potrà dare al diritto di cui è titolare,
dipenderà primariamente dalla volontà di questi stessi
soggetti (principio di autodeterminazione), e solo
secondariamente dalla presenza di eventuali interessi
della comunità, in contrasto con la volontà soggettiva
(ad esempio, le finalità di utilità pubblica che possono
giustificare, mediante l'esproprio, una compressione del
diritto di proprietà). In modo sintetico, l'affermazione
di una originarietà dei diritti soggettivi, ovvero di
una naturale giuridicità della libertà individuale, e
soprattutto la precedenza (logica, ma anche assiologica)
del singolo individuo e dei suoi diritti sull'ordine
complessivo delle relazioni, hanno come diretta
conseguenza l'impossibilità di postulare limiti
intriseci alla libertà soggettiva, al di fuori
dell'autodeterminazione del medesimo individuo, della
presenza di simmetrici diritti in capo a terzi, o di
esigenze particolari - e particolarmente rilevanti -
della comunità (le quali peraltro, in una prospettiva
democratica, sono sempre, come ho chiarito, il frutto di
un'autolimitazione soggettiva).
4. I confini della
libertà formale.
Si tratta ora di
verificare quanto tale paradigma, secondo il quale il
principio di autodeterminazione si costruisce a partire
da una concezione formale della libertà, e più
precisamente su una concezione individualista e
proprietaria dei diritti, oltre che su una antecedenza
del singolo individuo sul complesso delle relazioni
entro le quali si estrinseca la sua esistenza, sia
compatibile con il nostro ordinamento (ma il discorso
può valere anche per altri contesti istituzionali).
Ora, è opinione
diffusa che nel nostro ordinamento si dia un corpus di
diritti qualificabili come indisponibili;
in particolare, si può ritenere che i diritti
fondamentali della persona, tutelati a livello
costituzionale anzitutto dall'art. 2 e ivi qualificati
come "inviolabili", abbiano le necessarie
caratteristiche dell'inalienabilità, imprescrittibilità
e indisponibilità,
intendendosi generalmente con ciò che il titolare del
diritto non possa compiere validamente atti di
alienazione dello stesso, nè incidere sul suo contenuto
così radicalmente da negarlo, né a maggior ragione
sopprimerlo. Tale indisponibilità, a livello di
legislazione ordinaria, si traduce in una serie di
previsioni specifiche, tra le quali acquisisce rilievo
peculiare la norma contenuta nell'art. 50 c.p., che come
è noto stabilisce che "non è punibile chi lede o pone in
pericolo un diritto col consenso della persona che può
validamente disporne"; con tutta evidenza, è facile
desumere a contrario da tale norma l'esistenza di
diritti sottratti alla disponibilità soggettiva, la cui
lesione pertanto non è scriminata dalla preventiva
manifestazione del consenso.
E tuttavia, se pure
generalmente condivisa, l'affermazione dell'esistenza di
diritti indisponibili, o anche della caratteristica
indisponibilità dei diritti fondamentali, lascia del
tutto impregiudicata tanto la questione di quali
diritti, in concreto, siano qualificabili in questi
termini, quanto la definizione precisa dei confini
dell'indisponibilità. Non solo infatti non esiste alcun
elenco preciso dei diritti fondamentali,
ma la stessa nozione di indisponibilità può far
riferimento a criteri diversi fra loro, se non
incompatibili, per essere definita. Si è anzi sostenuto,
di recente, che i diritti indisponibili sarebbero per
principio indeterminabili, ovvero mai integralmente
positivizzabili; tale affermazione - condivisibile -
riposa sull'idea che, da un lato, "l'indisponibile si
sottrae al dominio della conoscenza e della volontà di
chiunque... in quanto appare contraddittorio assegnare
una sfera illimitata al potere di disposizione della
volontà soggettiva", e dall'altro che "l'indisponibilità
segna l'originaria essenza del diritto a causa della
natura di principio che... è in grado soltanto di
orientare l'esperienza etico-sociale e non di
determinarla puntualmente".
Nella classificazione
dei diritti, al fine di tracciare un confine fra diritti
disponibili e diritti indisponibili, e ricostruire
quindi in modo induttivo la categori
dell'indisponibilità, possono essere individuati
alcuni criteri generali. In primo luogo, allora, si
suole distinguere l'ambito privato dall'ambito pubblico,
nel senso che si ritengono generalmente disponibili i
diritti patrimoniali di cui siano titolari i singoli
individui, e altrettanto generalmente indisponibili (per
i privati) quelli che appartengono allo Stato, agli enti
pubblici, o in alcuni casi a persone giuridiche: tale
questione, di grande rilievo giuridico, non ha però
attinenza con i profili che qui interessano, e dunque
può essere trascurata.
In secondo luogo, e
maggiormente interessante, è la possibilità di
ricostruire la categoria dell'indisponibilità a partire
dal concetto di ordine pubblico, inteso però in
un'accezione ristretta; esso va identificato infatti, da
un lato, con la sicurezza materiale e la tranquillità
pubblica, e dall'altro con "un insieme di precetti
generali posti a tutela di interessi latamente indicati
come pubblici",
e rinvenibili nell'ordinamento costituzionale. E
tuttavia, anche in questo orizzonte il concetto di
indisponibilità non si precisa fino in fondo: se il
limite all'esercizio della libertà soggettiva, e alla
determinazione dei contenuti e delle modalità di
esercizio dei propri diritti, è la presenza di
qualificati interessi pubblici (che vanno dalla
sicurezza sociale a finalità di natura più generale,
quali la ricerca dell'uguaglianza o della stabilità
economica, o altro ancora), l'indisponibilità non è
altro che quel confine che, in contesti democratici, la
libera volontà soggettiva pone a se stessa
auto-obbligandosi. Si tratta, insomma, di una visione
perfettamente integrabile con la visione
liberal-democratica dei diritti, secondo la quale - come
già detto - i soli limiti alla libertà soggettiva sono
quelli che essa, nella sua dimensione positiva,
pone a se medesima; la sicurezza è per l'appunto uno di
questi limiti (almeno a partire da Hobbes), ma possono
esserlo ad ugual titolo tutti quei principi
costituzionali (di eguaglianza, di promozione sociale,
ecc...) che la comunità ha scelto in modo autonomo.
Tuttavia, in quest'ottica la categoria
dell'indisponibilità perde gran parte della sua
significatività; essa non è un principio autonomo, un
contraltare del principio di autodeterminazione, ma si
riduce ad un carattere dell'efficacia dei diritti
medesimi.
Infine, il carattere
dell'indisponibilità viene predicato di specifici
diritti o valori "che vengono considerati fondamentali
nella struttura dell'ordinamento"
a prescindere dalla ricorrenza di interessi pubblici
confliggenti con l'esercizio dei diritti medesimi; essi
vengono invece definiti indisponibili nella misura in
cui fanno riferimento alla sfera personale e
all'identità soggettiva. Si tratta pertanto di quei beni
"che costituiscono l'essenza stessa dell'essere umano,
come la vita, l'integrità fisica (intesa anche come
diritto alla salute), la libertà morale e sessuale, il
nome, l'onore".
Questo orientamento ha indubbiamente profili di
interesse che meritano di essere approfonditi; in
particolare, è degno di nota il fatto che il carattere
dell'indisponibilità venga fatto risalire, per alcuni
diritti, a caratteristiche inerenti la persona umana,
ovvero a ciò che potremmo chiamare la struttura
dell'umano: caratteristiche, insomma, che da un lato
qualificano in modo eminente l'essere umano, e che
dall'altro - proprio per questo - qualificano la
coesistenza rendendola compatibile con una vita ritenuta
degna per il soggetto. Eppure, anche questa prospettiva
non sfugge ad una certa vaghezza, che lascia irrisolte -
almeno in una certa misura - le domande di fondo circa
l'estensione e l'effettività del principio di
autodeterminazione.
Il problema di un
orientamento siffatto è che giunge, paradossalmente, a
esiti contraddittori fra loro ed egualmente inidonei a
garantire una comprensione effettiva delle ragioni
dell'indisponibilità; se infatti si assume che tale
carattere derivi, per alcuni diritti, dalla loro
pertinenza alla struttura più intima e autentica
dell'essere umano, la conseguenza è semplicemente quella
di aver spostato la questione su un piano ulteriore, ma
non meno irto di difficoltà. In altri termini, la
questione ha semplicemente mutato veste, da problema
eminentemente giuridico (cosa determini
l'indisponibilità di alcuni diritti, e quali siano tali
diritti) a problema antropologico (cosa rappresenti la
dimensione più autentica dell'uomo, quali
caratteristiche siano per essa qualificanti), ma non per
questo è divenuta meno oscura, o più facilmente
risolubile.
Si badi, non intendo
dire che tale spostamento di piani sia illegittimo, o
che non possa fornire una via per una migliore
comprensione del problema; è plausibile infatti
ricondurre la pretesa disponibilità piena della propria
esistenza e dei propri diritti all'antropologia
prometeica tipica della modernità, per la quale
l'uomo ha una fondamentale signorìa sul reale che
esercita prioettando su di esso la sua volontà libera e
autonoma.
E' questa, in fondo, la realizzazione della dottrina
nietzscheiana del superuomo, come dottrina
dell'incondizionata preminenza dell'uomo nell'ente e
sull'ente, e per l'appunto come dottrina della volontà.
La quale, intesa come volontà di potenza, non è altro
che volontà di volontà, continua affermazione della
propria libertà e attività,
potenza incondizionata. Il posto che in altre epoche era
occupato dall'idea di un ordine inerente al reale è ora
presidiato da una volontà soggettiva ipertrofica che
riconosce in sé l'unica origine del valore, che vale
proprio in quanto voluto.
E' questo un esito
tipico del riduzionismo contemporaneo
l'affermazione di un soggetto che proietta la propria
volontà desiderante sulla realtà e su di sé, in modo
direttamente proporzionale alla spoliazione di ogni
normatività interna della realtà medesima; non solo
infatti la natura esterna (il reale-oggetto) ma la
stessa natura interna dell'uomo cessa di essere qualcosa
di normativo, e la volontà soggettiva non trova alcun
limite, né in sé né fuori di sé: “io non sono ciò che la
mia umanità esige/comanda che io sia, io sono ciò che ho
la voglia o la volontà di essere”.
Se il principio fondamentale della prassi umana nella
realtà era, nella tradizione giusnaturalistica,
individuabile nel verso di Pindaro “diventa ciò che sei”,
nella contemporaneità esso si trasforma nel suo esatto
contrario: volo, ergo sum.
Se tale nesso è
sostenibile, ripeto, è ben plausibile anche che una
differente prospettiva antropologica si riveli idonea a
garantire una migliore comprensione del tema
dell'indisponibilità, che grazie ad essa si riesca a
dimostrare l'inconsistenza di un preteso e generico
principio di autodeterminazione. In fondo, da Aristotele
a Gehlen,
di antropologie alternative al superomismo, le quali
mettano al centro della condizione umana la sua
fragilità
e il suo costitutivo bisogno dell'altro, ve n'è più
d'una, e tutte meritevoli di accurate riflessioni.
Non è dunque né
impossibile, né poco plausibile, che la strada di una
migliore comprensione dell'indisponibilità dei diritti,
e dei limiti all'autodeterminazione, passi per una vera
e propria rivoluzione antropologica, ovvero per
l'affermazione di un differente modo di pensare l'uomo e
- con le parole di Gehlen - il suo posto nel mondo.
Dubito semplicemente, tuttavia, che questa sia una
strada che si possa suggerire alle corti, e che possa
trovare solidi riferimenti nel nostro ordinamento,
almeno nel nostro ordinamento presente; è insomma una
via tanto affascinante quanto scarsamente operativa,
più suscettibile di sollevare conflitti culturali che in
grado di orientare decisioni.
In fondo, il fatto che
oggi si discuta dei confini del principio di
autodeterminazione in materia sanitaria, ad esempio, e
che si metta in discussione, con sempre maggiore
decisione, l'indisponibilità del diritto alla vita e
alla salute, ritenendo che il soggetto possa ad entrambi
rinunciare, esercitando il suo diritto in modo tale da
sopprimere i beni (la vita, la salute) che di esso sono
oggetto, è un segnale di quanto diverse siano le
antropologie in campo, e di quanto condizionino le
scelte giudiziarie e l'evoluzione dell'ordinamento.
Più promettente -
anche se non meno equivoca - è la prospettiva secondo la
quale la determinazione dei confini della libertà
soggettiva possa essere effettuata facendo ricorso alla
figura dell'abuso del diritto.
Abuso che può verificarsi laddove l'ordinamento, pur
attribuendo in via generale al soggetto un potere, una
facoltà, un diritto, consideri per qualche ragione
antigiuridiche alcune delle condotte attraverso le quali
il soggetto esercita il suo potere, il suo diritto, la
sua facoltà. In altre parole, se un diritto può in
astratto attuarsi mediante una serie di condotte, alcune
di esse possono essere ritenute antigiuridiche perché
nocive, o contrastanti con valori ritenuti primari
dall'ordinamento, anche se l'azione è posta in
conformità apparente ad una regola giuridica. L'ipotesi
dell'abuso allora serve a mostrare quello che è stato
definito il lato oscuro dei diritti, la loro
deriva autoreferenziale che nasce dal pensarli come
prerogative assolute,
e consente di pensarli in chiave anti-individualistica
mettendoli in relazione agli interessi generali e alla
logica della responsabilità pubblica.
Più in particolare, la
dottrina italiana ha costruito la figura dell'abuso -
che in altri ordinamenti, ad esempio quello spagnolo,
è stata disciplinata e definita positivamente - a
partire da una prospettiva genericamente
anti-individualista e anti-formalista, nella quale si è
cercato di dimostrare l'inammissibilità di un esercizio
del diritto da parte del titolare, che piegandolo a
finalità meramente egoistiche finisse per snaturarlo,
rendendolo incompatibile con l'impianto generale della
costituzione e dei principi in essa sanciti. Così, la
titolarità di un diritto non garantirebbe al soggetto
una sfera di assoluta discrezionalità, ma imporrebbe un
esercizio del medesimo diritto orientato al complesso
dei fini e degli interessi considerati primari dalla
comunità di riferimento, e sottesi all'ordinamento
costituzionale.
L'orizzonte teorico
nel quale si costruisce la figura dell'abuso del diritto
è - come è stato sottolineato
- la teoria del diritto soggettivo come interesse
protetto; è in questo quadro, in effetti, che il diritto
viene visto non come un fine in sé, ma come modalità per
la realizzazione di interessi che l'ordinamento ritiene
meritevoli, e che pertanto non possono non armonizzarsi
con gli interessi generali che la comunità persegue. Il
diritto del singolo, proprio perciò, deve realizzarsi
mediante condotte che siano da un lato conformi a tale
interesse specifico in nome del quale è stato
riconosciuto, e dall'altro al complesso armonico di
finalità che l'ordinamento assume come essenziali.
Ovviamente, tanto
maggiore sarà il margine di discrezionalità del quale il
soggetto dispone nella concreta attuazione del suo
diritto, tanto maggiori saranno le possibilità che esse
concretino un abuso dello stesso. Ciò significa, in
particolare, che i diritti di libertà, il cui contenuto
è per definizione assai ampio e indeterminato, sono più
suscettibili di altri di estrinsecarsi in condotte
abusive, ovvero in condotte non conformi agli
interessi generali che la comunità ha riconosciuto come
propri, e che sono alla base dello stesso riconoscimento
in capo al singolo di quello specifico diritto; è
questa, infatti, una "caratteristica quasi connaturale
ai diritti costituzionali, che inevitabilmente portano
con sé la necessità di operare complesse e controverse
operazioni di ponderazione e specificazione".
V'è insomma, in questi diritti, un margine molto ampio
di condotte disponibili, ed una conseguente possibilità,
altrettanto ampia, che quella particolare modalità di
estrinsecazione del diritto mediante la quale il
soggetto determina la sua libertà si riveli, ad un
giudizio a posteriori, inadeguata a realizzare gli
interessi che costituiscono la ratio di tale diritto, e
incompatibile con le finalità generali che l'ordinamento
persegue.
Se si accoglie tale
impostazione, diviene essenziale comprendere quali siano
le finalità in nome delle quali un diritto viene
riconosciuto, e ancor più quali possano essere quelle
che la comunità considera primarie, il contrasto con le
quali concreta una condotta abusiva da parte del
titolare del diritto; è evidente infatti che se si
assume che un diritto, per essere esercitato in modo non
abusivo, debba conformarsi ad una serie di finalità
generali, l'individuazione di queste diviene il compito
primario per l'interprete che voglia valutare la
condotta soggettiva.
In questo senso, si è
proposto di considerare come indicatore l'intenzionalità
del danno recata dal soggetto ad una controparte,
intendendo però tale criterio in senso non meramente
psicologico, come animus nocendi, ma come
valutazione oggettiva degli effetti dell'atto compiuto;
la condotta sarebbe pertanto abusiva ove comportasse
oggettivamente, indipendentemente cioè dalle intenzioni
psicologiche del soggetto, un danno a terzi, pur se
compiuta nell'esercizio del diritto di cui il soggetto è
titolare.
Ancora, sono stati invocati criteri economici, nel senso
di ricondurre l'abuso alla realizzazione di una
situazione inefficente sul piano economico, una
situazione nella quale gli interessi complessivi del
titolare del diritto e degli altri soggetti coinvolti
risultano minimizzati a seguito della condotta in
oggetto; ciò si verificherebbe, ad esempio, ove la
misura della disutilità cagionata a terzi fosse
superiore a quella dell'utilità conseguita dal soggetto
che ha posto in essere la condotta, consentendo perciò
di valutarla come abusiva.
E' questo un criterio, tuttavia, che accresce i margini
di oscurità della nozione di abuso anziché ridurli,
posto che l'apprezzamento dell'utilità complessiva
realizzata dall'assetto degli interessi coinvolti è
suscettibile di valutazioni così ampie e personali da
risultare privo di autentica incisività.
Ancor più complesso e
fonte di problemi è il ricorso a criteri morali, sia che
si intenda ciò in senso personale (l'etica
dell'interprete), sia che lo si intenda in senso sociale
(la morale condivisa nella società), sia infine che lo
si intenda in senso ordinamentale (la morale che permea
l'ordinamento). Sul piano personale la valutazione non
potrebbe infatti che risultare talmente soggettiva e
opinabile da essere contrastante con le esigenze di
certezza e prevedibilità tipiche di uno stato di
diritto; per quanto grandi siano i margini di
discrezionalità che vanno riconosciuti all'interprete,
essi non possono mai essere tali da sovrapporre
all'oggettività del diritto la personale visione del
mondo di chi è chiamato ad applicarlo. Sul piano
sociale, del resto, non sembra si possano individuare
criteri più precisi; non solo perché la società è al suo
interno frammentata in una pluralità di prospettive
etiche,
ma perché proprio sulla determinazione dei contenuti
delle libertà fondamentali si può esservare una
divergenza di opinioni. L'esempio della libertà di
determinazione delle scelte in materia sanitaria è
quanto mai significativo: non si dà effettivamente una
coincidenza di opinioni sui contenuti di tale libertà,
tanto che si ritiene conforme ad essa tanto la
possibilità di rinunciare ad ogni terapia, quanto
l'impossibilità di rinunciare a trattamenti di sostegno
vitale.
Non del tutto
convincente risulta, a parere di molti studiosi,
l'accezione ordinamentale del criterio morale; essa può
infatti intendersi in un senso più ristretto, come
funzione propria del diritto di cui si ipotizza un
abuso, o in senso più lato, come bilanciamento tra
esercizio del diritto e principi generali
dell'ordinamento. Nel primo caso, l'abuso si realizza
ove il soggetto eserciti il suo diritto in modo tale da
sviarlo dalla sua funzione più tipica e normale, ovvero
da quello scopo oggettivo che ne rappresenta la ratio;
nel secondo caso, l'abuso si dà laddove le concrete
modalità di realizzazione del diritto contrastino di
fatto con i principi generali dell'ordinamento,
espressivi per l'appunto di una sorta di morale
fondamentale della comunità. Tuttavia, come detto, anche
questa prospettiva non è esente da critiche; ove si
volesse infatti far riferimento alla funzione tipica
del diritto, al suo senso oggettivo, si dovrebbe
comunque consentire che al diritto in oggetto si possa
attribuire più di uno scopo, onde non ridurlo ad una
mera funzione sociale.
Certo, al diritto non dovrebbe poter esser assegnato uno
scopo assurdo, ma questa stessa esigenza di razionalità
non è meno vaga e sfuggente. E anche ove si volesse
imporre una valutazione di congruità fra lo scopo cui il
soggetto sceglie di piegare il diritto di cui è titolare
e i principi generali dell'ordinamento si dovrebbe pur
sempre riconoscere la possibilità di riscontrare la
presenza di principi concorrenti e non univocamente
orientati. In altre parole, il criterio morale, per
quanto inteso in prospettiva ordinamentale, rischia di
lasciare l'interprete in una situzione di incertezza
difficilmente superabile; e ciò non tanto perché vi
siano margini più o meno ampi di apprezzamento e di
valutazione della condotta presunta abusiva - l'ampiezza
dei confini entro i quali si muove l'interprete è sempre
di difficilissima precisazione, non solo in questo caso
- quanto per la presenza nell'ordinamento di principi
non univoci, egualmente fondamentali ed egualmente
suscettibili di essere richiamati per giustificare la
condotta soggettiva o considerarla, di contro, abusiva.
Risulta da tutto ciò
che il concetto di abuso del diritto è, probabilmente,
semplicemente riassuntivo di tutta quella serie di
criteri di valutazione delle prassi attuative dei
diritti che vanno dal divieto di atti emulativi (art.
833 c.c.) alla responsabilità per lite temeraria (art.
96 c.p.c.) all'esigenza di bilanciamento fra ambiti di
applicazione dei diritti che la Corte costituzionale ha
spesso richiamato; ma se tale concetto si riduce a
questo, si rischia di "inserire una formula poco
trasparente e poco concettualizzata accanto o sopra
altre formule che a loro volta possono talvolta essere
poco trasparenti o poco concettualizzate, con ben pochi
vantaggi sul piano della chiarezza e della trasparenza
dell'argomentazione giurisprudenziale".
Non solo, ma la figura
dell'abuso risulta infeconda proprio in relazione a quei
problemi che costituiscono il nucleo della presente
ricerca. L'abuso infatti viene richiamato laddove
l'esercizio legittimo di un diritto danneggi in qualche
modo i terzi, o contrasti con gli interessi generali
della società:
il che evidentemente rende la dinamica dell'abuso tutta
interna alla logica liberale e individualista dei
diritti descritta nelle pagine precedenti, nella quale
il soggetto ha il diritto di determinare le modalità di
esercizio della sua libertà, salvo che queste non
contrastino con simmetriche posizioni di terzi o con
interessi ritenuti rilevanti dalla società; interessi
che, nella prospettiva democratica, sono comunque
riconducibili in via mediata alle determinazioni della
volontà soggettiva. Ciò significa, in altri termini, che
nei casi in cui non vi siano lesioni percepibili ad
interessi di terzi, e non vi sia un'esplicita menzione
di interesi sociali contrastanti, la libertà del
soggetti può determinarsi senza limiti. E' il caso,
ancora una volta, del diritto di autodeterminazione in
materia sanitaria. Data l'assenza di lesioni a diritti
di terzi, oltre che di interessi sociali contrastanti,
il diritto del soggetto non potrebbe, di principio,
concretarsi in condotte abusive.
5.
Autodeterminazione soggettiva e ordine pubblico.
Bisogna dunque
chiedersi se, data la difficoltà del ricorso alla
categoria dell'indisponibilità, e la sostanziale
inutilità del concetto di abuso, si possa ritenere che
in assenza di lesioni a terzi o di contrastanti principi
di rango costituzionale la libertà soggettiva possa
determinarsi senza alcuna restrizione; bisogna
domandarsi cioè se nello spazio che residua da altri
vincoli (fatti cioè salvi gli interessi generali della
comunità, e quelli particolari degli altri individui),
la libertà materiale del soggetto possa determinarsi in
qualsiasi tipo di condotta, e soprattutto se tale
determinazione debba assurgere al rango di vero e
proprio diritto, trovando nell'ordinamento una tutela
contro ogni interferenza esterna. Il singolo ha pertanto
il diritto (con tutto ciò che questo implica in termini
di tutela pubblica) di determinare la sua libertà in
modo assoluto, indipendentemente dai contenuti materiali
dei quali la sostanzia, almeno nello spazio in cui tale
prassi non cagioni danni a terzi, né si ponga in
contrasto con principi fondamentali dell'ordinamento
costituzionale? Il problema, come si vede, è ancora
quello del valore giuridico che l'ordinamento riconosce
alla libertà, e dell'interpretazione in chiave
formalistica o sostanzialistica dei diritti di libertà.
Si tratta pertanto non già di proporre una metafisica
della libertà (di per sé preziosissima, ma eccedente le
mie competenze e i confini della presente ricerca),
quanto di verificare se nel nostro ordinamento esistano
criteri limite, o indicatori dai quali
argomentare pro o contro
un'interpretazione formalista del diritto di libertà,
non solo - ma certo specialmente - in materia sanitaria.
Credo che un criterio
del genere, e particolarmente un criterio idoneo a
confutare un'interpretazione formalistica del principio
di autodeterminazione, sia quello dell'ordine pubblico;
ordine pubblico, tuttavia, qualificato non in senso
puramente materiale né in senso genericamente
costituzionale, ma come ordine dei valori sottesi alle
pratiche sociali.
La tesi che sostengo è
che l'ordine pubblico,
nulla avendo a che
fare con un assetto valoriale imposto politicamente, si
debba identificare con un particolare assetto
relazionale; specificamente, esso si può far
coincidere con il senso che le varie pratiche sociali
manifestano e precisano nella storia, e che dunque
emerge come conseguenza delle relazioni stesse e del
modo in cui si strutturano. Le pratiche sociali[85],
intendendo con tale espressione quelle relazioni fra i
soggetti non meramente casuali ma tipizzate e
riconoscibili come tali (es.: il matrimonio, la
relazione di cura medico-paziente, la relazione
contrattuale di compravendita, ecc...), sono insomma il
prodotto dell'insieme delle relazioni soggettive nel
corso del tempo, e determinano un particolare
orientamento della prassi umana affinché possano
fiorire, ovvero affinché possano realizzarsi appieno
i valori ad esse interni. Ciò significa, per l'appunto,
sia che l'insieme delle caratteristiche necessarie
affinché le pratiche sociali possano essere sviluppate
in pienezza non è l'oggetto di un atto decisionale - se
non in minima parte - ma il risultato del modo in cui le
relazioni fra i soggetti si sono strutturate nella
storia; e dall'altro, che ciascuna di esse manifesta un
senso proprio, un complesso di valori che la rende
percepibile e identificabile, oltre che valutabile come
buona.
Non solo, ma il
significato delle pratiche, ovvero precisamente tale
complesso di valori che si considerano intriseci alla
pratica stessa consentendone la fioritura (nel
matrimonio, per esempio, la fedeltà o la monogamia), è
oggetto di continua discussione pubblica, ovvero di
un'opera autoriflessiva che la comunità compie nella
storia, e che ha la finalità di mettere continuamente in
discussione, e verificarne l'attualità, il senso delle
pratiche medesime. Ciò che ho indicato come il senso
di una pratica, allora, non può essere compreso come un
assoluto a-temporale, in una prospettiva che non tenga
in debita considerazione la temporalità costitutiva
dell'esistenza umana. Né le pratiche nel loro
complesso, né i valori possono essere intesi come se
fossero sottratti allo scorrere del tempo; pur non
essendo meramente contingenti, ovvero risolte e
comprensibili totalmente all'interno di una prospettiva
storica, non possono essere neppure concepite come degli
assoluti immodificabili. Il che significa, in breve, che
ciascuna pratica è il luogo dell'emersione progressiva
di un residuo
che ne rappresenta il senso più proprio, e che è
precisamente l'oggetto dell'opera di autoriflessione
sociale.
Insomma, l'evoluzione
diacronica delle pratiche, che certamente si osserva in
ogni contesto sociale, è possibile e concepibile solo
perché esse manifestano una struttura propria e
specifica, che nella storia si rende più o meno
palese; la storia, come luogo dell'autoriflessione
pubblica, è l'arena entro la quale le pratiche vengono
attuate in modi più o meno corrispondenti alla loro
struttura[87].
Il fine della discussione pubblica che su di esse si
compie è insomma quello di rendere evidente il legame
fra la struttura oggettiva di una pratica e le modalità
particolari attraverso le quali si attua; è quello di
far emergere e di comprendere sempre più pienamente quel
residuo che si manifesta nella storia in forme
nuove e diverse, il complesso dei valori interni di ogni
pratica e delle virtù necessarie a realizzarsi.
Ora,
l'ordine che si
costruisce grazie all'emersione nel tempo di pratiche
sociali, e che costituisce l'oggetto
dell'autoriflessione pubblica, è pertanto un ordine con
un marcato rilievo assiologico, proprio nel far
riferimento ai valori pubblici necessari affinché le
pratiche possano attuarsi nella pienezza del loro senso.
Il fatto poi che tale ordine sia il prodotto
dell'impegno cooperativo di discussione su ciò che
costituisce il dato caratterizzante le varie pratiche
sociali, e soprattutto su ciò che consente di farle
fiorire, realizzandone gli aspetti più autentici, fa
sì che ciascun soggetto possa percepirlo non come un
dato che gli viene imposto e che subisce, ma come
qualcosa che - almeno nella misura in cui partecipi al
dialogo pubblico - gli appartiene, del quale è in grado
di intravedere l'oggettività.
Per fare un esempio
più volte richiamato nel corso dell'analisi, la pratica
sociale identificabile nel matrimonio, nella storia del
nostro specifico contesto relazionale, fa riferimento ad
una particolare struttura dei rapporti fra i soggetti
coinvolti, caratterizzata, ad esempio, dalla monogamia e
dalla stabilità del vincolo. Il modo in cui la pratica
matrimoniale viene intesa nel nostro contesto è tale
insomma da far riferimento, tra l'altro, a queste due
caratteristiche strutturali, e ciò non per decisione
autoritativa, ma perché detta struttura si è
progressivamente consolidata nella storia; e proprio in
ragione di tale struttura della relazione matrimoniale i
valori della fedeltà coniugale e della generatività - ad
esempio - si manifestano come ad essa pertinenti, come
intrinseci alla stessa, come ciò che le consente una
piena fioritura. Tali valori, pertanto, ove
intesi in prospettiva non meramente sessuale ma come
precipitato del vincolo di alleanza esistenziale fra i
coniugi[88],
possono rappresentare il senso della pratica
matrimoniale, ciò che resta fermo nella pur notevole
varietà di forme in cui il matrimonio e il legame
familiare si sono presentati nella storia; ma
soprattutto, sono ciò che è costantemente oggetto di
autoriflessione pubblica, ciò che viene ad esempio messo
in discussione ove si propongano come equi-valenti (e
dunque meritevoli di riconoscimento) strutture
relazionali che difettano dell'uno o dell'altro o di
entrambi tali valori. L'ordine pubblico, perciò, si
identifica in tal caso con questi valori, in quanto
espressivi del senso della pratica matrimoniale, ed è
pertanto idoneo a limitare l'autodeterminazione
soggettiva ove pretenda di rivestire di giuridicità una
prassi che con esso contrasti.
Mi rendo conto -
soprattutto per l'esempio scelto - che il discorso può
prestarsi a fraintendimenti e malintesi; e dunque,
l'affermazione fatta non deve essere intesa nel senso di
ritenere illecite le pratiche contrastanti con
quello che, nella prospettiva storico-relazionale
adottata, appare il senso della pratica matrimoniale. Il
limite dell'ordine pubblico vale in modo più limitato, e
allo stesso tempo più generale, come criterio per il
riconoscimento giuridico di pratiche determinate, come
snodo per rivestire della giuridicità specifici
orientamenti che il singolo dà alla propria prassi. In
altri termini, una prassi contrastante con l'ordine
pubblico non sarà da considerarsi illecita se non nella
misura in cui manifesti una concreta lesività di
diritti e interessi altrui, cosa che evidentemente non
succede - ad esempio - nel caso di relazioni non
coniugali; tale prassi, tuttavia, deve essere
considerata semplicemente attuativa della libertà
materiale del singolo, qualcosa che l'ordinamento non
tutela se non in via mediata (ad esempio, ogni tentativo
di impedire coattivamente tali prassi sarebbe illecito
non perché lesivo di un diritto specifico a porle in
essere, del quale il singolo sarebbe titolare, ma perché
lesivo del più generale diritto di libertà personale di
cui all'art. 13 della Costituzione), ma non espressiva
di un diritto in senso pieno. E così, nessuno può essere
impedito nell'attuazione di una prassi poligamica o
costitutivamente non-generativa (ad esempio una
relazione omosessuale), ma tali prassi si collocano al
livello della libertà materiale di cui il soggetto gode,
non potendo rivendicare per sé alcun riconoscimento
giuridico.
Perché una prassi sia
di diritto, e non solo di fatto, è insomma
necessario che la relazione all'interno della quale si
colloca sia in generale considerata positiva
dall'ordinamento, e che detta prassi sia conforme al
senso generale della pratica, per come tematizzato in
quel contesto storico-sociale.
Si possono pertanto
individuare tre ipotesi, derivanti dal modo in cui si
combinano gli elementi evidenziati (l'ordinamento, la
prassi sociale in oggetto, il senso della prassi
individuale). In primo luogo, può darsi che la prassi
soggettiva sia conforme al senso di una pratica, e che
tale pratica sia considerata meritevole di approvazione
da parte dell'ordinamento; è il caso più tipico, che si
verifica ad esempio in una normale dinamica negoziale,
nella quale la prassi dei singoli sia conforme al senso
della pratica (che può essere individuato tra l'altro
nell'equilibrio sinallagmatico che ordina il rapporto),
pratica valutata positivamente dall'ordinamento: in tal
caso, dall'attuazione di una prassi siffatta nascono, in
capo ai soggetti che agiscono, dei diritti in senso
forte.
In secondo luogo, può
darsi che la prassi soggettiva sia conforme al senso di
una pratica, ma che tale pratica sia considerata
negativamente dall'ordinamento; in tal caso la prassi
soggettiva sarà antigiuridica, proprio in ragione di
tale generale giudizio negativo sulla dinamica
relazionale complessiva nella quale si inserisce. E' ciò
che avviene, evidentemente, in tutti i casi in cui
l'azione soggettiva assume un rilievo penale, nei quali
perciò la conformità al senso della pratica implica sì
il rilievo giuridico della prassi individuale, ma nel
senso dell'antigiuridicità.
In terzo luogo, la
prassi soggettiva può rivelarsi difforme dal senso di
una pratica considerata, di per sé, positivamente da
parte dell'ordinamento. E' questa l'ipotesi cui si può
ricondurre l'esempio fatto poco sopra delle relazioni
non coniugali, nel quale per l'appunto la difformità in
oggetto fra la prassi individuale e il senso della
pratica nel suo complesso determina la mancata
insorgenza, in capo al singolo, di specifici diritti, e
la collocazione della sua azione nel campo,
extragiuridico, della libertà materiale.
A tale ipotesi, io
credo, si può ricondurre anche la scelta - oggi
particolarmente discussa[89]
e origine di numerose vicende giudiziarie - di rifiutare
consapevolmente terapie salvavita da parte di un
soggetto adulto e informato. La questione ha in verità
aspetti di grande complicazione, sia dal punto di vista
epistemologico che più direttamente tecnico; ad
esempio, è tutt'altro che evidente cosa si debba
considerare come trattamento sanitario, se ogni
intervento clinico vada considerato tale o se solo
alcuni lo siano autenticamente in ragione di una
particolare complessità, e così via. Allo stesso modo, è
questione sommamente complessa se un paziente terminale
sia, di principio, pienamente capace di intendere e
volere, o se la sua razionalità, e dunque il suo
eventuale consenso, non siano viziati proprio dalla
presenza di una particolarissima situazione esistenziale[90].
Sono problemi immensi, evidentemente, che però esulano
dai confini della presente ricerca, la quale non si
colloca in una prospettiva strettamente bioetica ma
teorico generale; pertanto, indipendentemente da quanto
ciò possa essere realistico, tali questioni possono non
essere prese qui in considerazione, ipotizzando che un
soggetto sia in effetti pienamente consapevole, che la
sua volontà non sia viziata dalla malattia, che il
trattamento che rifiuta sia pacificamente un trattamento
sanitario, e così via. E' una situazione parzialmente
irreale, certamente, o persino del tutto irreale, ma
utile nella sua purezza per verificare i confini teorici
del principio di autodeterminazione.
Ora, qual è il
senso della prassi medica, in conformità del quale
la prassi dei soggetti coinvolti (medici e pazienti)
acquisisce rilievo giuridico? Se adottiamo la
prospettiva storica, secondo la quale le strutture
relazionali si modificano e chiariscono progressivamente
il loro senso in una dimensione diacronica, grazie anche
ad un'opera di autoriflessione comunitaria, credo che
tale senso posa essere individuato almeno nel
principio di beneficenza e nell'alleanza
paziente-medico; il primo è, non a caso, proprio del
Giuramento di Ippocrate, tanto nella sua versione
originaria ("in qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per
il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e
danno volontario, e fra l'altro da ogni azione
corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi
e schiavi")[91],
quanto in quella contemporanea ( giuro "di perseguire la
difesa della vita, la tutela della salute fisica e
psichica dell'uomo e il sollievo della sofferenza, cui
ispirerò con responsabilità e costante impegno
scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto
professionale)[92].
Il secondo, succeduto ad una visione più
tradizionalmente paternalistica della professione
medica, implica che vadano "respinti sia il paradigma,
ormai desueto, del
paternalismo medico
– in cui
il paziente è confinato in posizione passiva e
subalterna – sia i modelli incentrati sulla
volontà
del paziente come
principio astratto rispetto al suo concreto costituirsi
nel contesto di vita della persona (e sulla conseguente
retrocessione del medico al ruolo di mero esecutore).
Ciò consente di apprezzare a fondo la centralità del
principio di affidamento nell’ambito della relazione fra
paziente e medico, nonché il carattere necessariamente
fiduciario di tale relazione".
Ora, la decisione di
un paziente di non sottoporsi alle terapie, nel caso
queste siano indispensabili per la propria
sopravvivenza, contrasta - in misura differente - con
entrambi tali dimensioni. Contrasta con la dimensione
dell'alleanza terapeutica, perché nella decisione di
sottrarsi alle terapie la volontà del singolo si
assolutizza, tanto da rendere il medico una figura del
tutto marginale nella dinamica in oggetto; e contrasta
con il principio di beneficenza, almeno nella misura in
cui tale principio sia inteso in un'accezione oggettiva
e non meramente soggettiva. Che così debba essere, io
credo, non è negato neppure ove si voglia identificare
la salute, come fa la giurisprudenza ormai da tempo, con
un generale stato di benessere personale[94];
il benessere, logicamente, implica l'essere, l'esserci
del soggetto, e contraddice ogni pulsione
autodistruttiva. Per quanto insomma si voglia dare del
diritto alla salute un'accezione ampia, e parzialmente
soggettiva, resta in esso un nucleo di oggettività che
impedisce di considerare la scelta della morte come una
scelta di benessere, e dunque come un'attuazione del
diritto alla salute.
Ciò non implica,
però, che i trattamenti salvavita possano essere
imposti, o che il paziente possa essere obbligato,
contro la sua volontà, a subirli; anche in questo caso
la prassi si orienterebbe in una direzione incoerente
con il senso (per come chiarito) della pratica medica,
determinando infatti una situazione di sopraffazione (o
di paternalismo), e non di alleanza, a danno del
soggetto. Il rapporto sarebbe insomma sbilanciato tutto
a favore del medico, arbitro ed esecutore dell'intera
vicenda clinica, ed il paziente finirebbe per essere
considerato il semplice riferimento materiale della
volontà altrui; è per questo che la giurisprudenza
consolidata ritiene che “la legittimità di per sé
dell’attività medica richiede per la sua validità e
concreta liceità, in principio, la manifestazione del
consenso del paziente, il quale costituisce un
presupposto di liceità del trattamento”[95],
e che il trattamento sanitario, eseguito contro tale
manifestazione di volontà del paziente, e nella misura
in cui il medico riconosca in tale volontà una
determinazione “autentica e genuina” dell’interessato,
sia pertanto configurabile come violazione di un dovere
di astensione e persino come reato[96].
La considerazione
della difformità tra la prassi del singolo e il senso
della pratica entro la quale si colloca implica, più
modestamente, che tale prassi non possa considerarsi
espressiva di un diritto, meno che mai di un diritto
fondamentale, ma che debba essere considerata come
l'attuazione, incoercibile e giuridicamente non
sanzionabile, di una semplice libertà materiale del
singolo.
Al singolo va
pertanto riconosciuta la possibilità materiale di
determinarsi conformemente ai suoi desideri, anche ove
ciò possa comportare un esito mortale o altamente lesivo
per la persona; ma la contrarietà all'ordine pubblico
nel senso chiarito, ovvero la contrarietà alla struttura
della pratica medica per come essa è stata elaborata nel
tempo, determinano l'impossibilità che tale prassi
venga considerata espressiva di un diritto di libertà
del soggetto, idoneo ad essere tutelato e garantito da
parte dell'ordinamento contro indebite intromissioni. La
prassi del soggetto si colloca insomma in un'area che il
diritto non copre, entro una sfera che possiamo
considerare giuridicamente irrilevante; non vi sono
spettanze oggettive che l'ordinamento sceglie di
tutelare, né meno che mai vi è un giudizio di
meritevolezza sulla prassi del singolo idoneo a renderla
giuridicamente protetta.
La prassi del
singolo, ove si configuri nei termini ipotizzati, potrà
attuarsi solo nella misura in cui lo consentono le
possibilità materiali del soggetto; egli non potrà
chiedere che altri, in nome di un suo preteso diritto,
la pongano in essere, né che altri ad essa si
conformino. Certo, un paziente non può, per le ragioni
dette, essere obbligato contro la sua volontà a
sottoporsi ad un determinato trattamento, ma ciò solo
perché la prassi medica è - per la sua struttura, e per
il senso di affidamento che sottende - incoercibile;
ma l'incoercibilità non implica la meritevolezza della
prassi resa possibile, né la sua qualificazione in
termini di diritto soggettivo: implica semplicemente,
per l'appunto, che la prassi sia possibile,
ovvero che il singolo possa, ove lo voglia, attuarla, in
assenza di ragioni per imporgli un comportamento
difforme.
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