1.
L/g/b/t: distinguere senza discriminare?
Le mie riflessioni si
muovono tra due interrogativi. E’ legittimo discriminare
in base agli orientamenti sessuali? Quando sussiste una
discriminazione? Nel primo caso è in discussione il
rispetto della libertà personale, ma anche della dignità
personale nella misura in cui ogni diversità di
trattamento, se non ha una fondata giustificazione,
nasconde un implicito giudizio negativo, costituisce
un’evidente manifestazione di riprovazione morale. Nel
secondo caso emerge il problema del principio di
uguaglianza in quel delicato rapporto tra “la convivenza
e la libertà” che impone di trovare un equilibrio tra la
pluralità dei valori costituzionali, perché spesso la
diversità di trattamento è espressione dell’esigenza di
giustizia, della necessità di distinguere e separare
situazioni che non sono tra loro assimilabili.
Rispettare il principio di uguaglianza significa,
quindi, trovare il “giusto” spazio della differenza. Ed
è questo che rende estremamente delicato e sofferto
l’intervento normativo in quegli àmbiti che toccano le
sfere più intime della persona e incidono sugli aspetti
più intensi della vita di relazione. Tra questi rientra
certamente la sessualità, essendo
“uno degli essenziali modi di espressione della persona
umana, il diritto di disporne liberamente è senza dubbio
un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra le
posizioni soggettive direttamente tutelate dalla
Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili
della persona umana che l'art. 2 Cost. impone di
garantire”.
Per quanto
sia un aspetto fondamentale dell’autonomia personale, la
libertà sessuale incide radicalmente anche sulla tutela
di istituzioni, come la famiglia, e convinzioni, come la
“naturale” differenza tra uomo e donna, profondamente
radicate nella società. Non è possibile esercitare l’una
senza condizionare il modo di intendere le altre. Il
problema dell’identità sessuale può assumere, quindi,
spesso una valenza chiaramente ideologica di rifiuto di
certi valori tradizionali, se non addirittura di
aggresione polemica nei confronti dell’insegnamento
religioso, quale principale custode di tali valori. Ma
non c’è solo questo: l’identità sessuale costituisce il
frammentato orizzonte giuridico di una pluralità di
situazioni, espressione più della sofferenza che
dell’orgoglio, alimentate più dall’emarginazione che
dalla volontà di rivendicazioni politiche. Quest’
orizzonte è il frutto di una copiosa elaborazione
giurisprudenziale che ha cercato invano in questi anni
di mettere ordine all’accumularsi eterogeneo di istanze,
ora incerte e marginali, ora nette e radicali.
E’ una discriminazione
negare agli omosessuali il diritto al riconoscimento
giuridico del rapporto di convivenza, il diritto di
adottare, l’accesso alle tecniche di fecondazione
assistita? E’ una discriminazione distinguere tra unioni
civili e matrimonio? E’ una discriminazione non
accettare, o pretendere che non siano accettati, nelle
televisioni pubbliche film o spettacoli in cui si faccia
pubblicità alla convivenza omosessuale? E licenziare due
militari perché omosessuali? Rifiutare l’assunzione in
un posto di lavoro o negare l’affidamento del figlio
solo a causa dell’orientamento omosessuale? E non
riconoscere al convivente omosessuale il diritto alla
continuazione del contratto di locazione, quella stessa
continuazione che la legge impone per il coniuge o il
convivente eterosessuale? E negare gli assegni
familiari? E vietare in una scuola pubblica di
indossare magliette con su scritto
“Homosexuality is Shameful”
oppure “Be Happy, Not Gay”?
Sorge poi il dubbio se
già l’interrogarsi su queste cose non costituisca una
forma di discriminazione Come se qualcuno continuasse
ancora a domandare se sia legittimo vietare i matrimoni
tra bianchi e neri o impedire agli ebrei l’accesso ai
pubblici uffici o limitare il diritto di voto delle
donne. Tutti interrogativi, sia detto per inciso, che ci
siamo messi dietro le spalle solo da qualche decennio e
che ancora riaffiorano, qua e là, a ricordarci che si
tratta di un passato poi non troppo remoto.
Non ho neppure
iniziato a scrivere queste righe che mi sono accorto di
essere precipitato nel “politicamente scorretto”.
Innanzitutto perché ho parlato di “omosessuali” e invece
avrei dovuto scrivere “persone omosessuali”. La
scorrettezza rimane, anche se non mi è mai passato per
la mente che non fossero “persone”; anche se
l’imposizione di una determinata ortografia insinua il
sospetto che la qualifica di persona possa essere
assunta o negata per decreto e non sia già instrinseca a
ogni essere umano, quali che siano i suoi orientamenti
sessuali. Poi ho scoperto che neppure “persone
omosessuali” è considerato politicamente corretto,
nell’Unione europea dovremmo usare l’acronimo Lgbt, per
ricomprendere tutte le possibili sfumature: persone
lesbiche, gay, bisessuali e transessuali,
lesbian/gay/bisexual/transgender people (l/g/b/t).
Tutto questo ci fa
capire quanta diffidenza e quanta esasperazione si sia
venuta acculando su questi temi. Da una parte, secoli di
discriminazioni, e purtroppo anche di violenze, non
possono essere cancellati in pochi anni. Dall’altra,
eliminare la discriminazione significa non poter
riflettere sul problema della differenza? Il fatto che,
come si usa dire facendo il verso a Foucault, dietro la
differenza vi siano due “narrazioni”, la narrazione
della “naturalità” della famiglia e la narrazione
“ebraico-cristiana” della differenza di genere,
impedisce di riflettere sul rilievo antropologico di
queste narrazioni? Ammesso che siano “narrazioni”, nel
senso di condizioni storiche di osservazione della
società, nel senso di particolari interpretazioni
dell’identità umana, questo basta per metterle da parte?
Per eliminare ogni discriminazione, dobbiamo cancellare
le narrazioni?
Non credo. Ogni
narrazione ha la sua trama ed è la trama semmai che va
messa in discussione e non la narrazione in quanto tale.
La trama della famiglia è molto più articolata e
complessa del suo fondamento naturale e del suo
collegamento con l’insegnamento religioso. A livello
esistenziale il “proprium” della sessualità non è la
sessualità, la sessualità in quanto tale, ma una
pluralità di modi di sentire e di agire che muovono
dalla sessualità, ma vanno ben oltre il rapporto
sessuale. La sessualità come singolo atto si perde nella
brutalità della lotta per la sopravvivenza, sembra quasi
ricordare il cannibalismo: “forse il desiderio sessuale
non è altro che un desiderio mascherato di carne umana”[4].
Sono tutti quegli ulteriori elementi che fanno capo al
matrimonio e alla famiglia a rendere quest’atto un
aspetto costitutivo dell’identità: l’ espressione cioè
non soltanto di qualcosa che si fa, ma di qualcosa che
si è. Per questo la famiglia svolge una “funzione
pedagogico-esistenziale”[5].
Il termine esistenziale esprime qualcosa che deriva
dall’identità umana, ma non è naturale solo nel senso
biologico. E’ il frutto del rimodularsi della
“naturalità” del comportamento in relazione ad alcune
esigenze ineludibili (la sessualità, la procreazione,
l’affetto, l’assistenza, l’educazione…) che si sono
affinate moralmente e consolidate storicamente proprio
all’interno della famiglia, determinando particolari
equilibri nelle relazioni intersoggettive. Questi
equilibri esprimono dei valori indispensabili non solo
per la sussistenza della società, ma anche per capire
ciò che è proprio di ogni essere umano.
Il rilievo non
meramento ideologico del valore e della struttura della
famiglia, nella forma che si è andata consolidando nel
tempo, non ci consente di ignorare il problema della
discri-minazione. Lo avvertiamo in quanto cittadini di
uno Stato di diritto, ma anche, e aggiungerei
soprattutto, in quanto cristiani. Sia come cittadini che
come cristiani dobbiamo interrogarci anche su tutti
coloro che sono o si sentono emarginati o esclusi,
cercando di prestare ascolto alla loro sofferenza.
L/g/b/t non è soltanto una formula stucchevole e
retoricamente aggressiva, è anche il simbolo
dell’esistenza dell’altro, addirittura dell’altro
dell’altro. Può un cristiano chiudere la
porta all’alterità, limitandosi a condannarla? Se
avvertiamo con tanta intensità questi problemi, se i
giudici tornono e ritornano sulle proprie decisioni, non
credo che sia solo il frutto di una deriva libertaria,
che certamente esiste e tende a diffondersi con sempre
maggior virulenza. E’ anche l’ennesima manifestazione
“di una cultura del riconoscimento degli altri in quanto
altri e della scoperta della ‘traccia di Dio’ nella
scoperta della loro alterità”.
Proverò ad affrontare
questo problema in conclusione. Prima vorrei esaminare
il modo in cui il rapporto tra differenza e
discriminazione abbia finito, nelle linee di tendenza
sia giuridiche che legislative, per modellarsi su un
altro rapporto, altrettanto significativo della
percezione dell’identità umana nel nostro tempo, quello
tra libertà e diritti soggettivi.
2.
Libertà negativa: la sfera di non ingerenza
Lo sviluppo dello Stato di diritto è segnato dall’emergere di due forme
di libertà.
La libertà negativa come non interferenza e la libertà
positiva come completo inserimento del soggetto nella
società. La prima accentua la condizione interiore
relativa al diritto di costruire la propria identità
senza subire costrizioni. La seconda riguarda la
condizione esterna relativa al diritto di rimuovere gli
ostacoli che impediscono la piena espressione della
personalità. Nella “genealogia dei diritti” la libertà
negativa corrisponde ai diritti di prima generazione, a
quelle rivendicazioni della Rivoluzione francese che si
sono tradotte nel diritto ad essere liberi dallo
Stato (libertà di pensiero, di associazione, da ogni
ingiusta detenzione), mentre la libertà positiva
corrisponde alla fase successiva delle grandi tensioni
sociali che, a partire dall’ottocento, hanno rivendicato
tutta una serie di diritti economici e politici (al
lavoro, alla partecipazione politica, all’istruzione)
che esigono un intervento diretto dello Stato.
Un’ulteriore evoluzione dei diritti sociali è il
riconoscimento di un trattamento differenziato in
particolari condizioni di inferiorità per motivi
culturali o fisici: le donne, i bambini, le minoranze
etniche, persone con handicap… E le persone omosessuali?
Dove si colloca la
sessualità in questo quadro variegato e in continua
evoluzione? E’ solo un aspetto della libertà negativa,
uno dei tenti risvolti della privacy, oppure
costituisce l’ultima frontiera della libertà positiva,
rivendicando dallo Stato la rimozione di tutta una serie
di ostacoli che sembrano contrapporre l’eterosessuale
all’omosessuale, ad esempio il ricoscimento del diritto
al matrimonio, all’adozione, alla riproduzione
assistita? A differenza delle rivendicazioni relative
alla libertà positiva che, come vedremo, incidono su
tanti aspetti della vita di relazione, la tutela della
della libertà negativa è sempre meno controversa.
Appare
difficile immaginare una società democratica che non si
fondi su un generale diritto di “non intrusione”,
diritto che ricomprende “the right to intimate
association: what people did consesually and in
seclusion, without inflicting anything to outsiders,
without even the knowledge of outsiders”.
Nel nostro
ordinamento, ad esempio, l’assenza di una repressione
penale dell’omosessualità ha consentito, per effetto del
rapporto tra gli art. 2 e 3 della Costituzione,
l’inquadramento dell’identità sessuale entro la sfera
dei diritti alla libertà personale. Il problema è emerso
con la L. 14.04.1982 n. 164 sul transessualismo che ha
permesso, anche attraverso interventi chirurgici
altamente demolitori, di “adeguare” i caratteri somatici
alla realtà psicologica, riconoscendo che la sessualità
è un aspetto fondamentale della persona. La successiva
decisione della Corte costituzionale (n. 161 del 1985)
ha confermato che l’orientamento transessuale rientra
tra i “naturali modi di essere”. Questa legge, unita
alla legittimazione dell’aborto, ha determinato
un’interpretazione estremamente ampia del concetto di
pianificazione familiare come diritto ad esercitare la
propria sessualità senza restrizioni. E’ quanto ha
sostenuto la Corte di cassazione
(sez. V, 18 marzo 1987)
nel dichiarare penalmente legittima la sterilizzazione
irreversibile per motivi meramente edonistici, perché il
desiderio di “una maggiore distensione o serenità nei
rapporti con il coniuge e con il partner” è un aspetto
dell’intangibilità delle scelte personali. Ho già
ricordato
come la Corte costituzionale, seppure nell’esame del
caso particolare del diritto alla pensione dopo un grave
atto di stupro, parli di un diritto soggettivo assoluto
a disporre della libertà sessuale.
Gli sviluppi giuridici non sono andati oltre. Non hanno
inserito tra i “naturali modi di essere” il diritto di
sposarsi con qualsiasi partner. La Corte costituzionale
ha, infatti, rigettato più volte
la questione di legittimità costituzionale relativa
all’assenza di una disciplina delle unioni omosessuali,
affermando tuttavia che due persone dello stesso sesso
hanno il diritto fondamentale di vivere liberamente una
condizione di coppia “nei tempi, nei modi e nei limiti
stabiliti dalla legge”.
All’interno dell’Unione europea un modello analogo pare
affermarsi definitivamente dopo la sentenza della
Corte europea dei diritti dell'uomo del 1981,
Dudgeon
v. U.K., che dichiara costiture una
violazione della vita privata proibire i rapporti
omosessuali. L’art. 21 della Carta europea dei diritti
dell’uomo sembra voler ribadire e rafforzare questa
tendenza quando vieta “qualsiasi forma di
discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la
razza, il colore della pelle o l'origine etnica o
sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la
religione o le convinzioni personali, le opinioni
politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad
una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la
disabilità, l'età o l'orientamento sessuale”.
L’orientamento sessuale trova uno specifico
riconoscimento e viene affiancato, se non contrapposto,
al sesso quasi a voler sottolineare che una cosa è
l’identità di genere altra la varietà dei modi in cui si
può esprimere.
Quanto
questi sviluppi siano tutt’altro che scontati si evince
dai ripetuti interventi giudiziali che si sono succeduti
negli Stati Uniti, il paese occidentale che è rimasto
più attaccato alla repressione penale dell’omosessualità
e della sodomia, anche se con un’estrema varietà di
sfumature che vanno dalla previsione di ammende
meramente simboliche a rilevanti ipotesi detentive.
La Suprema Corte aveva
preso una posizione netta con il caso Bowers v.
Hardwick, in cui aveva dichiarato
costituzionalmente legittima la repressione penale della
sodomia consensuale, perché le libertà fondamentali sono
pensabili solo in un "concetto di libertà ordinata". Il
punto centrale, per la Corte, è proprio questo: non
esiste un diritto incondizionato e indifferenziato alla
libertà sessuale né sussiste alcuna “stringente”
analogia "tra l'attività omosessuale e la famiglia, il
matrimonio o la procreazione”. Il fatto che il
legislatore attribuisca tutela costituzionale a queste
istituzioni non implica la legittimazione “di ogni
genere di condotta sessuale privata tra adulti
consenzienti e che, peraltro, ogni limitazione statale
sia costituzionalmente invalida".
La sessualità non è un bene in sé (come la famiglia, il
matrimonio o la procreazione) e le scelte sessuali non
rientrano nella sfera della libertà personale protetta
dalla privacy.
Malgrado le numerose
critiche questa linea interpretativa ha resistito per
più di trent’anni finché, con il caso Lawrence vs.
Texas, la Corte ha allargato le maglie della
privacy, sostenendo che “lo Stato non può avvilire
la loro esistenza o controllare il loro destino,
trasformando in un crimine la loro condotta sessuale
privata”
. La libertà negativa, e quindi
l’orizzonte di non interferenza che Bowers aveva
ristretto all’ordine oggettivamente definito dalla
differenza di genere e dalla famiglia, viene esteso fino
a ricomprendere qualsiasi manifestazione della vita
sessuale privata (“to respect for their private lives”).
La Due Process Clause impone di riconioscere
l’esistenza di un diritto assoluto (full right)
“to engage in their conduct without intervention of the
government”. La “promessa”, ma anche la premessa, di
ogni Costituzione è che “che ci debba essere un regno di
libertà personale in cui il governo non può entrare”.
Non è possibile impedire agli adulti “di avere una
relazione nei confini delle loro case e delle loro vite
private e mantenere la loro dignità di persone libere”.
Significativamente la sentenza dichiara espressamente di
rifarsi all’esperienza europea e cita la decisione della
CEDU sul caso Dudgeon. Dopo Lawrence,
osserva Martha Nussbaum, “gay e lesbiche prendono il
loro posto, nella mente del giudice, come cittadini
uguali agli altri e come ‘persone adulte’, con interessi
simili a tutte le altre persone ‘nel decidere come
condurre la propria vita privata nelle materie relative
al sesso’ ”
Come si vede la Corte
si muove chiaramente entro il solco della libertà
negativa. In analogia con il caso Roe v. Wade, in
cui si afferma che l’aborto è giuridicamente tollerabile
anche se in un quadro pubblico complessivo di forte
perplessità morale, “l’omossessualità è considerata una
variabile accettabile ma non necessariamente positiva
dell’individuo”.
Proprio per questo emerge, nella stessa decisione, il
netto dissenso del giudice Kennedy, motivato dal fatto
che la Corte non si è spinta fino a riconoscere
l’esistenza di un “fundamental right to engage in
homosexual sodomy”.
Il rispetto della
libertà negativa consente di erigere una zona
costituzionalmente protetta di non ingerenza che
definisce l’orizzonte di legittimità delle condotte
individuali, senza entrare nel merito del giudizio
morale sul singolo atto. E’ la stessa zona che abbiamo
visto lentamente definirsi, all’interno delle questioni
di fine vita, attorno alla pretesa insindacabilità del
paziente a rifiutare le cure. La giurisprudenza di
common law, e di riflesso poi anche quella della
CEDU sul caso Pretty e la nostra sul caso Welby e sul
caso Englaro, ha ritenuto che fosse possibile mantenere
un giudizio morale negativo sull’eutanasia senza
limitare la libertà di determinazione personale del
paziente, distinguendo il legittimo rispetto della
volontà di rifiutare l’atto esterno di imposizione di un
trattamento sanitario, avvertito come intollerabile e
indebito, dal riconoscimento di un diritto a morire, che
avrebbe messo radicalmente in discussione il dovere
fondamentale di ogni ordinamento di tutelare la vita. La
Corte suprema americana non ha dubbi nel riconoscere
una “reale distinzione tra l’atto di chi si infligge un
danno mortale e l’atto di chi si autodetermina
rifiutando un trattamento artificiale”[19].
Non possiamo chiedere a un giudice “treat to die”, ma
“allow the life to come to an end peacefully and with
dignity”[20].
Sul piano
degli effetti la distinzione potrebbe sembrare ipocrita[21].
Tuttavia è parso importante giuridicamente riaffermare
la differenza tra la sfera positiva della rivendicazione
del diritto a morire e la sfera negativa del rispetto
della scelta individuale sulla terapia da seguire.
Ritroviamo un
assestamento analogo, con lo stesso rischio di una
velata ipocrisia, in ordine ai problemi altrettanto
delicati delle scelte procreative. Anche qui si è
cercato di tenere separato l’esercizio della libertà
negativa a non trasmettere la vita dalla pretesa
positiva di avere un figlio con qualsiasi mezzo
(naturale o artificiale) e in qualsiasi modo
(fecondazione omologa o eterologa). La maggior parte
della giurisprudenza ha negato che la legittimazione
legislativa della contraccezione e dell’aborto determini
il diritto all’insindacabilità di qualsiasi scelta
procreativa e quindi il diritto all’accesso a qualsiasi
tecnica riproduttiva, perché solo nel primo caso vi è
l’esigenza di preservare il corpo della donna da una
costrizione esterna. La decisione sull’inizio o sulla
prosecuzione di una gravidanza rientra nella sfera di
libertà negativa protetta dalla privacy e non va
confusa con la rivendicazione di un diritto
incondizionato a procreare. Il legislatore può tutelare
entrambe queste ipotesi, ma non deve legittimare l’una
solo perché riconosce l’altra.
E’ chiaro che nessuna
di queste scelte sull’inizio e sulla fine della vita si
esaurisce in se stessa. Ognuna presenta un
coinvolgimento più (aborto e rifiuto delle cure) o meno
(contraccezione) esteso di altri soggetti, per cui la
costruzione di una sfera privata tendenzialmente
intangibile pone non poche perplessità morali. Quelle
preplessità che gravano sull’aborto, sull’eutanasia e,
più genericamente, sull’idea della privacy come
una nebulosa astratta e onnicomprensiva affidata
esclusivamente “all’autodeterminanazione del soggetto”:
un self che diventa selfish, un’autonomia
che alle volte rasenta l’autoreferenza narcisticia,
edonistica, ottusamente distante da ogni effettiva
sensibilità relazionale. Tuttavia credo che, pur con
tutti questi limiti, sia l’unica via possibile per
mantenere la linea di demarcazione tra peccato e reato,
propria del principio di laicità dello Stato. Linea che
non è solo una società democratica e pluralistica a
tracciare, ma anche la convinzione, sempre più diffusa,
che sia illusorio pensare che la repressione penale
possa supplire alle carenze morali e che un’ammenda o
qualche giorno di carcere servano a colmare i vuoti
spirituali. Credo si facciano interpreti anche di
questi sentimenti le Considerazioni circa i progetti
di riconoscimento legale delle unioni tra persone
omosessuali della Congregazione per la dottrina
della fede, quando osservano: “la coscienza morale esige
di essere, in ogni occasione, testimoni della verità
morale integrale, alla quale si oppongono sia
l'approvazione delle relazioni omosessuali sia
l'ingiusta discriminazione nei confronti delle persone
omosessuali”.
Riprovare senza discriminare. Ma è possibile? Ogni
riprovazione, quando si esprime solo attraverso la
limitazione al godimento di determinati diritti o
all’accesso a determinati servizi, non costituisce una
forma di discriminazione? E’ il problerma che pone la
libertà positiva.
3.
Libertà positiva: discriminazioni e diritti
Anche accettando
incondizionatamente la differenza tra libertà negativa e
libertà positiva, resta estremamente difficile
individuare fino a che punto l’effettiva tutela di una
sfera di non intrusione non imponga un intervento
sistematico e costante dello Stato, per rimuovere
ostacoli fino a determinare una radicale trasformazione
di stili e modelli di vita.
“…the
uncertain terrain that lies ahead and the pressing need
for a more lateral and considered approach to the
complexity of rights, particularly if we are to see
rights as transformative rather than simply remedial.
The various arenas for the exercise of sexual rights
considered in this Comment suggest that we are merely at
the start of a transformative moment, with much of the
narrative of sexual rights still to come”.
Come
“rimediare” senza “trasformare”? Tutta la costruzione
dello Stato sociale mette in luce quanto stretti siano i
rapporti tra autonomia ed emancipazione: che senso ha la
libertà di pensiero senza il diritto all’istruzione, la
libertà di cura senza il diritto all’assistenza
sanitaria, la libertà di promozione della propria
persona senza il diritto al lavoro? Non possiamo quindi
meravigliarci se gli stessi interrogativi si
ripropongono all’interno del problema dell’identità
sessuale. La tolleranza appare ben poca cosa senza la
rimozione degli ostacoli posti dalla differenza di
genere. E tutti questi ostacoli sembrano portare al
matrimonio e alla famiglia come istituzioni da rimuovere
e, nello stesso, come obiettivi da raggiungere. Il
matrimonio e la famiglia vanno rimossi come presidio
della differenza di genere, ma vanno raggiunti come
ideale di quello che non si è e che si vorrebbe. Il
raggiungimento del modello-famiglia serve a rassicurare
la coppia omosessuale di essere una coppia come tutte le
altre, tuttavia la rassicurazione funziona proprio nei
limiti in cui la famiglia appare un luogo indistinto di
legami e rapporti. Insomma una famiglia
“non-più-famiglia”.
Analoga e
contraddittoria parabola concettuale rinveniamo nel
rapporto tra procreazione e sessualità. Le
rivendicazioni femministe vedevano la “condanna” a
procreare come il primo ostacolo alla liberazione
sessuale della donna: la procreazione e con essa la
famiglia e, con la famiglia, i legami e i doveri, la
cucina e i bambini. Contraccezione e aborto diventano,
così, i simboli della lotta per la riappropriazione
integrale del proprio corpo e della proppria sessualità,
malgrado le leggi di natura, contro le stigmatizzazioni
sociali. Margaret Sanger, la fondatrice dell’International
Planned Parenthood, vagheggia già nel 1917 un
contraccettivo perfetto: sicuro, semplice, economico che
possa “essere inghiottico come un’aspirina”. In nome di
questo ideale comincia una lotta politica aspra, ma
anche una sperimentazione spesso selvaggia,
incontrollata e nascosta fatta, per amore delle donne, a
rischio della salute di tante singole donne ignare.
Ora sono gli “ostacoli” alla procreazione ad essere
denunciati dagli omosessuali che vedono nelle
restrizioni all’accesso alle tecniche di riproduzione
assistita o al diritto di adottare una limitazione alla
pienezza della propia sessualità, malgrado le leggi di
natura, contro le stigmatizzazioni sociali. La
procreazione che in un caso condanna alla differenza,
nell’altro libera dalla differenza.
Se è la differenza in
quanto tale ad esse presentata come una
discriminazione, si alimenta un processo di
rivendicazioni politiche che ritiene insignificante il
riconoscimento di sfere astratte di libertà alle quali
non sia correlata un’ integrale equiparazione nel
godimento dei diritti. La famiglia e il matrimonio sono
considerati un’opportunità e un vantaggio. Perché
concederli solo ad alcuni? Perché negarli a chiunque
altro? E’ l’ideologia che ispira la Risoluzione,
adottata, l'8 febbraio 1994, dal parlamento della
Comunità europea Sulla parità di diritti per gli
omosessuali nella Comunità, vanno garantiti
“pienamente diritti e vantaggi del matrimonio”,
consentendo la registrazione delle unioni ed eliminando
qualsiasi limitazione “di essere genitori ovvero di
adottare o avere in affidamento dei bambini”.
Non mi sembra, invece,
che vi sia un’esaperazione ideologica in tanti
interventi della Comunità europea per correggere
distorsioni e pregiudizi contro le discriminazioni nei
posti di lavoro, le limitazioni all’acceso ai pubblici
uffici, le restrizioni alla libertà circolazione per
raggiungere il “convivente”[26].
C’è ancora una zona grigia costituita da tante
particolari storie di esclusione ed emarginazione che
non può essere confusa con le eclatanti, e spesso
artefatte, rivendicazioni di cambiamento dei modelli
sociali. Andiamo a guardare, ad esempio, due decisioni
sull’affidamento dei figli minori, una dell’Alabama e
l’altra della Virginia, emanate alla luce di
disposizioni legislative molto simili.
Il padre ha una storia
documentata di alcolismo e abusi domestici. La madre
vive da tempo con un’altra donna. Entrambe le donne sono
molto attive nella comunità omosessuale, discutono
apertamente dei loro problemi e conducono i bambini
nella chiesa o negli altri luoghi di riunione
frequentati da omosessuali. In privato, osserva la Corte
dell’Alabama, anche se si scambiano gesti di affetto e
mostrano la loro intimità, “they do not engage in
intimate sexual contact in front of the children, they
openly display affection in the children's presence”. In ogni caso, continua la sentenza, l’omosessualità è considerata un
reato per cui, “esporre i bambini a un tale stile di
vita, illegale per le leggi dello Stato e immorale agli
occhi della comunità potrebbe traumatizzarli in maniera
estremamente grave”. I giudici non hanno neppure dubbi
sul fatto che siano riconducibili alla condotta della
madre gli squilibri psichici che manifestano i minori,
attraverso un linguaggio talvolta scurrile, attraverso
situazioni di angoscia e improvvisi scatti di violenza.
Per questi motivi i figli vengono affidati al padre,
senza tener conto della sua condotta, senza valutare
fino a che punto l’alcolismo e la tendenza alla violenza
e agli abusi possano incidere negativamente sullo
sviluppo di un minore.
Anche per le leggi
della Virginia l’omosessualità è un reato, ma i giudici
affermano chiaramente che "a lesbian mother is not
per se an unfit parent”.
Non si può negare l’affidamento alla madre “per sé”,
senza prove specifiche dell’influeza negativa che la sua
condotta ha sulla maturazione dei figli.
Quale delle due
decisioni ci convince maggiormente? La risposta si trova
nel “per sé”, su cui richiama la nostra attenzione la
sentenza della Virginia. La capacità di educare i figli
va considerata alla luce delle capacità che la donna
esprime in quanto tale: l’identità personale non può
essere ricondotta esclusivamene agli orientamenti
sessuali. Come in quest’ultima sentenza anche in
numerose altre decisioni i giudici non intendono
sovvertire le basi morali della società né esprimere
giudizi positivi sulla singola condotta sessuale, ma
intervenire su evidenti manifestazioni di gravi
pregiudizi:
la perdita del posto di lavoro, la possibilità di
decidere il trattamento sanitario per il convivente
incapace, la continuazione del contratto di locazione
dopo la sua morte. In tutti questi casi la repressione
penale, anche se inapplicata, costituisce una barriera
all’effettivo godimento, a pieno titolo, di alcuni
diritti fondamentali.
Altrettanto singolare
è la vicenda americana dei provvedimenti legislativi
denominati “Don’t Ask, Don’t Tell, Don’t Pursue”, sul
servizio nelle forze armate degli omosessuali.
Provvedimenti che Obama ha recentemente abrogato proprio
per la loro carica discrimintaria, ma che erano stati
presentati, e proprio da Bill Clinton altro presidente
“liberal”, come un’apertura alla diversità degli
orientamenti sessuali e alla tutela della privacy.
Tuttavia la struttura di queste disposizioni finiva,
nella concreta applicazione, per ottenere l’effetto
opposto: “le possibilità per questi soggetti di prestare
servizio nell'esercito sono effettivamente ridotte: è
difficile districarsi in quel dedalo di obblighi di fare
e non fare, di dire e non dire senza incorrere in
violazioni tali da comportare l'allontanamento: la mera
presenza di ‘credible evidence’ di omosessualità
permette al comandante di iniziare un'investigazione che
può portare al congedo dell'indagato”.
Era, insomma, nei fatti, se non nelle intenzioni e nel
tenore letterale, l'unica legge negli Stati Uniti che
consentiva il licenziamento per il proprio orientamento
sessuale.
4.
Il rischio dell’indistinzione
Non credo che cercare
di eliminare queste forme di discriminazione
contribuisca ad alterare gli equilibri sociali e a
mettere in crisi la famiglia. Per rubare una battuta a
John
Grisham, “
… come
possono gli omosessuali mettere in pericolo la santità
del matrimonio più degli eterosessuali?”.
Merita invece una riflessione particolare la pretesa
assimilazione del rapporto di coppia in generale e del
rapporto di coppia omosessuale in particolare con la
famiglia. La via di un doppio regime che garantisca
certi diritti, sottolineando la differenza tra
matrimonio e unione registrata
(Danimarca, Olanda), coabitazione legale confermata
(Svezia, Finlandia, Norvegia, Islanda), convivenza
legale, patto civile di solidarietà (Francia, Spagna,
Portogallo),
associazione civile (Inghilterra),
anche se appena imboccata dalla
maggior parte delle legislazioni, sembra già in crisi,
perché è il matrimonio che rivendicano gli omosessauli e
non un suo surrogato a tutela di determinate situazioni
soggettive.
Ancora una volta
alcune decisioni americane sembrano precorrere i tempi.
La volontà politica di difendere la specificità del
matrimonio eterosessuale è ancora molto forte, sia a
livello federale (il
Defence of Marriage
Act del
1996, per evitare la deriva verso le unioni omosessuali,
definisce il matrimonio come “l’unione tra un uomo e una
donna”) sia a livello della
legislazione dei singoli stati, e tanti giudici
assecondano questa visione.
Tuttavia, mi sembrano significativa alcune decisioni che
seguono la linea opposta, asserendo l’ incostituzionale
di qualsiasi differenziazione. o. Secondo la Corte
suprema del Massachusetts la disciplina sul rilascio
delle licenze matrimoniali sarebbe illegittima se
escludesse le coppie dello stesso sesso. La nozione di
matrimonio va, quindi, interpretata in maniera estensiva
come
“voluntary union of two persons as spouses to the exclusion of all
others”.
Anche la Corte suprema del New Jersey afferma che lo
Stato deve garantire alle coppie dello stesso sesso la
totalità dei diritti e dei benefici (“the full rights
and benefits”) delle coppie eterosessuali e può farlo in
due modi, allargando la nozione di matrimonio oppure
inserendo una disciplina parallela in cui anche gli
oneri siano gli stessi del matrimonio civile (“bear the
burdens of civil marriage”).
Altrettanto netta la linea seguita dalle Corti supreme
del Connecticut
e della California
che affermano il principio che la stessa differenza tra
unioni civili e matrimonio è inammissibile perché tutte
le relazioni devono aver accordato uguale dignità e
rispetto (dignity and respect).
Quello che
colpisce nelle decisioni che ho ricordato non è tanto la
presa d’atto di una condizione di disuguaglianza, ma lo
sforzo di contrastarla ricostruendo, caso per caso, una
“propria” logica del matrimonio: è ora “unione”, ora
“unione con esclusione di tutti gli altri”, ora
“diritti, benefici e oneri”. Per assimilare situazioni
estremamente eterogenee, i giudici devono svuotare
l’essenza dell’istituto, ma poi non riescono a
ricostruirne una caratterizzazione giuridicamente
credibile. E’ quanto emerge anche da altre sentenze che
toccano aspetti marginali del rapporto di convivenza.
Ad esempio
l’evoluzione giurisprudenziale inglese, anteriore al
Civil Partnership Act del 2004.
Nel 1999 la House of Lords
aveva negato l’esistenza
di un diritto soggettivo, da parte del same sex
partner, di succedere nella locazione (tenancy)
di un appartamento, ritenendo che l’espressione usata
nel paragrafo 2 (2) del Rent Act “living togheter
as husband and wife” si potesse applicare, dato
l’evidente tenore letterale, solamente alle relazioni
eterosessuali. Qualche anno dopo cambia indirizzo
e sostiene che il combinato disposto degli articoli 14
(Divieto di discriminazioni) e 8 (Diritto al rispetto
della vita privata e familiare) della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo configuri come
discriminatorio il differente trattamento riservato alla
convivenza omosessuale perché, anche se i termini
husband e wife sono “in their natural
meaning genderspecific”, essi vanno intesi in senso lato
come “living if they were his or her wife or husband”,
considerando non la situazione legale e materiale, ma la
dimensione esistenziale. Questo aspetto esistenziale
viene riaffermato e chiarito in un successivo caso
dove si sottolinea come non sia la mera convivenza ad
assumere rilevanza giuridica, ma il fatto che possa
essere considerata “equivalent to that of
marriage” e quindi non sia “volatile”, casuale,
sporadica ma “if it is un emotional one of mutual
lifetime commitment which has been presented to the
outside world openly and unequivocally”.
Vorrei ricordare,
passando a un’altra vicenda totalmente diversa e
particolarmente drammatica, una decisione della Corte d'appello del Minnesota che ha riconosciuto alla partner di una
donna, Sharon Kowalski, rimasta gravemente ferita in un
incidente d'auto, il diritto di assisterla in ospedale e
di prendere tutte le decisioni che spettano al tutore (guardian)
sulla prosecuzione o interruzione delle cure, nonostante
l'opposizione del padre della malata. L’opposizione si
basava sostanzialmente su due argomenti: non vi era
nessun legame giuridicamente rilevante tra le due donne
e la donna che rivendicava la “guardian” aveva avuto
altre relazioni sessuali dopo l’incidente occorso alla
sua convivente. I giudici hanno disatteso entrambe le
eccezioni, riconoscendo, in positivo, che tra le due
donne si era creata una “family of affinity” e, in
negativo, che "is not uncommon for spouses to make
changes in their personal lives while maintaining their
commitment to the injured person".
E’ proprio della famiglia affezionarsi l’un l’altro. E’
proprio della famiglia tradirsi l’un l’altro. Affetti e
tradimenti stanno assieme nello stesso indistinto
coacervo di… di che cosa? In un altro contesto anche
Martha Nussbaum afferma che “il fatto è che il
matrimonio, come istituzione, ha sempre accolto al suo
interno sia amore sia violenza, sia l’educazione dei
bambinisia sia l’abuso o la degradazione dei bambini”.
Questa spinta verso
l’indistinzione si riscontra pure nella giurisprudenza
della CEDU relativa alla legislazione inglese, anteriore
al già ricordato Civil Partnership Act, che
consentiva il cambiamento anatomico di sesso, ma non la
relativa annotazione nei registri dello stato civile con
il conseguente diritto di contrarre matrimonio in
corrispondenza con il nuovo sesso assunto.
Nella Sentenza 30
luglio 1998, sul caso Sheffield e Horsham
c. Regno Unito,
la Corte, seguendo quanto già sostenuto nelle sentenze
Rees e Cossey, osserva che la
transessualità continua a “sollevare questioni complesse
di natura scientifica, giuridica, morale e sociale che
non fanno oggetto di un approccio generalmente seguito
negli stati contraenti” (§ 58). A fronte di
questi dubbi l’art. 12 della Convenzione, affermando che
“Uomini e donne, in età matrimoniale, hanno il diritto
di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi
nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”, si
riferisce chiaramente al matrimonio tradizionale tra due
persone di sesso diverso: “...ne risulta che lo scopo
perseguito consiste essenzialmente nel proteggere il
matrimonio come fondamento della famiglia”. La Corte
ritiene, quindi, che l’attaccamento normativo al
concetto tradizionale di matrimonio sia ancora un motivo
sufficiente per continuare ad applicare criteri
biologici per determinare il sesso di una persona a fini
matrimoniali, poiché tale materia attiene al potere di
cui godono gli Stati contraenti di disciplinare con
legge l’esercizio del diritto di sposarsi.
Passano appena quattro
anni e la Corte, nella Sentenza 11 luglio 2002 nel caso
Christine Goodwin c. Regno Unito
, cambia radicalmente indirizzo.
Anche in questo caso le premesse argomentative sono
piene di incertezze. “Bisogna prendere atto che nessuna
scoperta determinante è intervenuta in merito alle cause
del transessualismo” ( § 81). Questo non significa che
vi sia qualcosa di arbitrario o di inconsulto nelle
decisioni di una persona di sottoporsi al mutamento di
sesso. Anzi, proprio l’opinabilità dell’elemento
cromosomico, rafforza la rilevanza delle scelte
soggettive. La Corte dichiara di non essere più convinta
che si possa continuare ad ammettere che le parole usate
nell’art. 12 della Convenzione “implichino che il sesso
debba essere determinato secondo criteri strettamente
biologici”. Il vincolo di genere sembra definitivamente
superato per effetto della formulazione dell’art. 9
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
che, usando la dizione “Il diritto di sposarsi e il
diritto di costituire una famiglia sono garantiti...”,
omette volutamente qualsiasi riferimento all’uomo e alla
donna.
L’indistinzione si
coglie proprio nella difficoltà di rinvenire la soglia
di rilevanza giuridica di un determinato atto: cosa
rende il matrimonio matrimonio e lo distingue da
qualsiasi sporadica relazione sessuale? La legge tedesca
del 16 febbraio 2001 (Gazzetta ufficiale federale 2001,
I, 266) “sulla cessazione della discriminazione delle
unioni omosessuali: convivenze” prova a rispondere in
questo modo: “Due persone dello stesso sesso
costituiscono una convivenza quando dichiarano
reciprocamente, personalmente, e in contemporanea
presenza di volere condurre una convivenza a vita” (§
1). E’ l’ennesimo esempio dell’ affannoso arrampicarsi
dei giuristi attorno a qualche schema classificatorio.
C’è chi suggerisce di parlare di “famiglia degli
affetti”, un nuovo modello di rapporto di convivenza
basato su vincoli d'affetto e interessi comuni,
caratterizzato dalla libertà e dall’autonomia, regolato
dalla protezione dei diritti dell'uomo.
J. Derrida, in una delle ultime interviste rilasciate
prima della morte, osservava che, se fosse stato il
legislatore, avrebbe eliminato il concetto di
“matrimonio” in un codice civile e laico. L’avrebbe
sostituito con una “unione civile” a carattere
esclusivamente contrattuale: “una sorta di patto di
solidarietà generalizzato, migliorato, flessibile,
regolato tra i partner di sesso e numero non imposto”
[49]. Marta Nussbaum sostiene, in
nome del rispetto delle libertà fondamentali e del
principio di pari dignità di tutti i cittadini, che in
futuro si dovrebbero lasciare le unioni civili allo
Stato e il matrimonio alle religioni. L’unione civile
dovrebbe essere un contratto privato con misure di
protezione governativa per i bambini e gli anziani,
mentre sarebbe opportuno disaggregare l’attuale
“pacchetto di benefici” a favore del matrimonio,
legandolo alle particolari esigenze dei singoli rapporti.
Non troviamo, quindi,
un quadro unitario, ma tanti frammenti eterogenei che
aspirano ora al raggiungimento di un diverso assetto
istituzionale ora alla riproposizione dello stesso
assetto, ma in altre forme, con altri partner. Nuove
figure soggettive per i diritti tradizionalmente
riconosciuti. Nuovi diritti per ripensare le
tradizionali figure soggettive. Figure soggettive e
diritti che si aggregano o disgregano alla luce degli
interessi che emergono. Come abbiamo visto, l’accento è
stato posto su:
a)
l’
unione volontaria di due persone per vivere come sposi
con l’esclusione di tutte le altre (Corte
suprema del Massachusetts);
b)
il legame emotivo frutto di una vita in comune
che si presenta come tale apertamente e inequicabilmente
(Fitzpatrick
v.
Sterling Housing Association Ltd);
c)
la
convivenza a vita (legge tedesca);
d)
la familiarità delle affinità (In
re Guardianship of Kowalski);
e)
la familiarità degli affetti;
f)
la solidarietà che deriva da un patto aperto,
flessibile, indeterminato (Derrida);
g)
un contratto privato con qualche forma di tutela
governativa (Nussbaum).
Passiamo dalla ricerca
di una “specificità” emotiva ed esistenziale
all’esigenza di una struttura generica e
onnicomprensiva, indifferentemente “l/g/b/t”. Il modello
del vincolo aperto dovrebbe portare ad accettare
integralmente la logica contrattuale. Tuttavia è proprio
questa logica che smentiscono la maggior parte delle
rivendicazioni omosessuali: non vogliono un’unione quale
che sia, un contratto tra i tanti, ma quel particolare
rapporto esistenziale che si realizza con il matrimonio.
In questo modo finiscono, in fondo, per confermare
quella lunga tradizione filosofica e quella complessa
ridefinizione giuridica che nega l’identificazione tra
matrimonio e contratto. Come ha scritto benissimo
Piovani, “qui davvero non può esserci un contratto
perché non si contratta l’unione di due vite: se si
contratta, essa non è se stessa, è meno di se stessa, si
snatura, si avvilisce. La pienezza di una simile unione
implica la sua indissolubile assolutezza, o meglio si
realizza solo se è indissolubilmente assoluta: o è così
o non è un’unione piena. Se il matrimonio è unione di
tutta una vita con un’altra vita: l’indissolubilità è
nella sua stessa totalità”.
Il matrimonio non è un
contratto proprio per la sua “differenza” da un
qualsiasi rapporto sessuale o patrimoniale, da un
qualsiasi legame affettivo o economico. Si pensa come
idealmente indissolubile perché va oltre la casualità e
sporadicità di un atto sessuale o di un incontro
emotivo, ma si prolunga nei sentimenti, nei figli, nei
beni… Più questi elementi si avvertono come particolari
e propri del matrimonio, più vanno relativizzati e
mistificati per renderlo indifferentamente accessibile a
qualsiasi esperienza. Più avanza questo processo di
adattamento e più il matrimonio diventa un simulacro.
Più il simulacro non appaga, più va cancellato il
modello originale: tutto deve diventare uno schema vuoto
da riempire come si vuole senza modelli e senza vincoli.
Nel sollevare la questione di legittimità costituzionale
la Corte d’appello di Firenze sostiene che la tutela
della famiglia supposta “naturale” potrebbe
tranquillamente estendersi ad una famiglia “meno
naturale” o “diversamente naturale” senza per questo
rinnegare se stessa.
La libertà positiva,
conducendo fino alle estreme conseguenze la rimozione
della differenza, ottunde la libertà di scelta di chi in
questa differenza crede e si identifica. La
rivendicazione di spazi di libertà corre il rischio di
diventare una forma subdola di oppressione. L’idea che
tutti possono fare tutto e che il diritto si deve
piegare a queste esigenze è altrettanto intrusiva
dell’idea di sindacare le singole scelte sessuali. Non
stupisce, quindi, che una legge del Vermont (An Act
to Protect Religious Freedom and Recognize Equality in
Civil Marriage) si preoccupi di tutelare, insieme
alla libertà sessuale, la libertà di coscienza
religiosa, prevedendo espressamente che i sacerdoti
possano rifiutarsi di celebrare un matrimonio religioso
per persone dello stesso sesso senza incorrere in alcuna
responsabilità civile (“refusal to do so shall not
create any civil claim or cause of action”). Se tutto è
equivalente anche la differenza tra rito civile e rito
religioso viene meno, anche la pretesa di una religione
di costruire un proprio modello morale può apparire
discriminatoria.
Per questo motivo
credo che sia importante lasciare il problema
dell’identità sessuale all’interno della libertà
negativa.
La libertà negativa preserva l’autonomia degli
orientamenti sessuali con la stessa intensità con cui
consente di garantire la particolarità del matrimonio.
Rappresenta quel giusto equilibrio dei valori
costituzionali che deve ricercare una società
pluralistica. Nagel osserva che la differenza tra
tolleranza e approvazione è uno dei cardini della
società liberale.
Quindi,
a suo avviso, “…the right direction of development is
not to expand marriage, but to extend the informal
protection of intimacy without the need for secrecy to
a broader range of sexual relations”.
Chiunque, come
Nagel, si renda conto di quanto siano delicati i
rapporti all’interno di una società democratica, deve
impegnarsi perché la tutela del pluralismo non diventi
l’equivalenza di tutto a tutto. Il pluralismo non è
costituito solo dal rifiuto di ogni manistazione di
intolleranzae di ogni discriminazione, ma anche dal
rispetto delle differenze, compresa quella “particolare
differenza” attorno a cui il diritto ha definituto
l’istituto del matrimonio e della famiglia. Ma anche il
cristiano, come ricorda Wolfang Böckenförde[55],
non deve perdere l’opportunità che sgli viene offerta
dal principio democratico, ponendosi “lealmente
all’interno del suo ethos, e quindi reclami per
sé solo quanto è disposto a concedere lealmente a chi la
pensa diversamente. Così facendo egli non diventa forse
più credibile e inattaccabile nelle sue richieste?”
5.
Il ricatto del “disgusto” e l’attenzione per la
sofferenza
Per accettare fino in
fondo questa visione, dobbiamo superare quello che
potrei chiamare il “ricatto” del disgusto. E’ un tema
che ricorre spesso nel dibattito sui riflessi giuridici
della differenza di genere. Il mantenimento dell’attuale
regime giuridico del caratte privilegiato attribuito al
matrimonio eterosessuale avrebbe solo un valore
espressivo, servirebbe a indicare il disgusto e a
ostentare la riprovazione nei confronti delle relazioni
omosessuali. Sarebbe una forma celata di intolleranza,
perché dietro un’apparente benevola indifferenza,
avallerebbe e perpetuerebbe un continuo processo di
discriminazione. Queste considerazioni si legano, nella
maggior parte dei casi, a una visione negativa del
matrimonio, considerato, in quanto tale, privo di
qualsiasi rilevante funzione sociale.
E’ quello che emerge
emblematicamente dalle riflessioni di Martha Nussbaum
che al tema del disgusto ha dedicato due libri:
Hiding from Humanity
e From Disgust to Humanity. Il disgusto è
collegato dalla Nussbaum al timore ancestrale e quasi
animale della “contaminazione”. Difendere la specificità
del matrimonio e della famiglia significa, allora,
tacciare come ripugnanti e impuri tutti quelli che
vivono in maniera diversa la propria sessualità. Questa
prospettiva è legata alla convinzione che il rilievo e
la particolare dignità giuridica conferita al matrimonio
abbiano solo la funzione di “stigmatizing and degrading”
gay e lesbiche, perché si tratta
di un’istituzione che “ospita e supporta molti distinti
aspetti dell’esistenza: relazioni sessuali, amicizia e
solidarietà, conversazione, amore, procreazione ed
educazione dei figli e mutua responsabilità” (p. 128).
Nessuno di questi elementi si ritrova necessariamente
nel matrimonio e ciascuno di questi elementi può
realizzarsi anche attraverso qualsiasi altro rapporto di
coppia o di organizzazione sociale della convivenza.
Per questi motivi
possiamo parlare di una sorta di “ricatto” del disgusto:
un ricatto del “o tutto o niente”, “o l’assimilazione
integrale o la riprovazione sociale”. La tolleranza non
è sufficiente, perché non cancellando altri modelli di
condotta, condanna chi la pensa diversamente a cambiare
vita o a nascondere i propri orientamenti: un peso
estremamente gravoso da sopportare (“a very crippling
burden”). Dovremmo, allora, ampliare il processo di
“umanizzazione” del diritto: la logica del “disgusto”
dovrebbe essere categoricamente bandita dall’esperienza
giuridica e sostituita con una politica ispirata alla
“simpatia, all’immaginazione e al rispetto”. Ma il
rispetto indica ancora il distacco e la diffidenza, è
necessario “something else, something closer to love
must also be involved”.
L’esperienza giuridica
ci mostra molte più sfumature della ridida
contrapposizione indicata da Martha Nussbaum. Per essere
aderenti alla realtà, dovremmo distinguere tra
comportamento tipico, comportamento legittimo,
comportamento irrilevante, comportamento illegittimo. Ma
che senso avrebbe? Il disgusto può colpire ciascuno di
questi comportamenti a prescindere dalle previsioni
legislative. Non è corretto, quindi, brandire il
disgusto come un’arma morale per imporre la logica
dell’assimilazione forzata. Un’uguaglianza indistinta e
indifferentemente aperta a tutto ha un’evidente valenza
antidemocratica. Un aspetto fondamentale della libertà,
come bo già osservato, è anche il diritto ad esprimere
la “propria” differenza. Non vi è quindi nulla di
indebito nel fatto che il diritto, tenendo conto delle
singole “specificità”, indichi modelli di condotta e
tenda a privilegiare determinati comportamenti.
Martha Nussbaum ha,
però, ragione nel sottolineare come non possiamo
semplicemente mettere da parte la diversità degli
orientamenti sessuali e le relative rivendicazioni come
qualcosa di abnorme o estraneo al processo di
“umanizzazione” del diritto che caratterizza la nostra
cultura. Se la logica laica del reato non ci può far
dimenticare il dovere morale di ricordare l’esistenza
del peccato, la logica cristiana del peccato non ci può
far dimenticare il dovere morale di cercare di capire,
comprendere e amare (something closer to love) il
peccatore. Fino a che punto va spinto il dovere di
condannare? Fino a che punto va spinto il dovere di
amare? La nostra esperienza cristiana si muove tra
questi due interrogativi. Più avvertiamo il richiamo
dell’uno, più siamo siamo turbati dall’altro. In mezzo
sta quel processo di umanizzazione che deriva dal
sentimento di attenzione per le vittime che collega,
seguendo l’insegnamento di René Girard[59],
il Cristianesimo all’invenzione dei diritti umani e agli
sviluppi dello Stato sociale. Nel Cristianesimo la
responsabilità interiore verso Dio, e quindi la lotta
contro il peccato, non appare scindibile dalla
responsabilità materiale verso tutte le forme di
emarginazione e quindi persino dall’amore per il
peccatore. I Fratelli Karamazov di Dostoevskij
sono forse l’espressione estrema della convinzione che
“non bisogna temere di amare il peccatore perché solo
amandolo, e quindi perdonandolo, lo si redime: anzi, non
si deve temere di amare il peccato stesso, perché solo
dall’amore e dal perdono il male è sconfitto e negato”.
E nell’Adolescente
troviamo uno dei più toccanti inviti che sia mai nato
dall’esperienza religiosa. “Noi dobbiamo pregare
incessantemente per tale peccatore: ogni volta che senti
di un simile peccato, coricandoti, prega commosso per
quel peccatore; magari fai anche solo un sospiro per lui
a Dio; anche se non lo conoscevi affatto, tanto più sarà
utile la tua preghiera per lui”.
Tutto questo non ci
dice come segnare i confini della famiglia e dove
collocare il divieto di discriminazione. Mi torna in
mente un delicato quadro delineato da Muriel Spark:
“Io credo che Dio direbbe ‘Non
disprezzate questo Mio infelice figlio, non disprezzate
l’omosessuale’ “
Helena aveva risposto: ‘Certo. Ma se
ci sembra contro natura rispettare queste persone... Oh,
l’amore è così difficile’ ”.
Muriel Spark è una
straordinaria costruttrice di dialoghi, più che di
trame. Dialoghi dove il sentimento religioso e
l’adesione al Cattolicesimo hanno, per lei convertita,
un ruolo centrale. Perché il Cattolicesimo è la
dimensione su cui ha scelto di radicare la propria
esistenza e perché il Cattolicesimo in Inghilterra può
apparire ancora il credo di una “minoranza”, degli
“altri”, con tutto il “disgusto” che reca in sé
quest’idea. E’ così difficile amare… è più facile
condannare.
Durante l'Angelus
di domenica 22
febbraio Giovanni Paolo II ha criticato aspramente la
già ricordata Risoluzione dell'8 febbraio 1994 per la
parità dei diritti degli omosessuali e delle lesbiche
nella Comunità europea. Osserva che si tratta di una di
quelle iniziative che, proprio nell'anno dedicato
dall'ONU alla famiglia, “nella sostanza si rivelano
‘antifamiliari’…Sono iniziative che danno la priorità a
ciò che decide della decomposizione delle famiglie e
della sconfitta dell'essere umano: uomo o donna o figli.
Vi si chiama, infatti, bene ciò che in realtà è male…In
essa [nella Risoluzione] non si sono semplicemente prese
le difese di persone con tendenze omosessuali,
rifiutando ingiuste discriminazioni nei loro confronti.
Su questo anche la Chiesa è d'accordo, anzi lo approva,
lo fa suo, giacché ogni persona umana è degna di
rispetto. Ciò che non è moralmente ammissibile è
l'approvazione giuridica della pratica omosessuale.
Essere comprensivi verso chi pecca, verso chi non è in
grado di liberarsi da questa tendenza, non equivale,
infatti, a sminuire le esigenze della norma morale.
Cristo ha perdonato la donna adultera, salvandola dalla
lapidazione, ma le ha detto al tempo stesso: ‘Va' e
d'ora in poi non peccare più’ ”.
Che sia più difficile
amare che condannare non è soltanto una constatazione
esistenziale, ma un ammonimento morale. L’umanità non ha
bisogno di Dio per condannare e non trova Dio, lapidando
l’adultera. Trova Dio, quando abbassa le braccia e posa
la pietra. Ricordare questa parabola non ci dice
“come”, come articolare le norme e definire gli
orizzonti istituzionali. Ci dice “perché”, perché siamo
qui a interrogarci su questi problemi e non possiamo
tranquillamente metterli da parte
.
Timothy E. Lin, Social Norms and Judicial
Decisionmaking: Examinig the Role of
Narratives in Same-Sex Adoption Cases, in
“Columbia Law Review”, April, 1999, p. 739 e
ss.
1981, Ser. A, n. 451. Il Regno Unito è
stato condannato per violazione dell'art. 8
Conv. eur. sui diritti umani a causa delle
perquisizioni ordinate dalla polizia in una
città dell'Irlanda del Nord nella casa di un
noto omosessuale. Questa sentenza è stata
confermata da diverse decisioni successive
Norris v. Ireland (1988), Ser. A, n.
142; Modinos v. Cyprus (1993),
Ser. A, n. 259. SL v Austria (2003) n.
45330/99. In generale si vedano le
considerazioni di G. Ferrando, Il Contributo
della Corte europea dei diritti dell’uomo
all’evoluzione del diritto di famiglia, in
“Nuova Giurisprudenza Civile Commentata”,
2005-II, p. 267 e ss.
539 U.S. 558 (2003) (No. 02- 102) Argued March
26, 2003.Decided June 26, 2003.
Una prima sintesi
critica si trova in M. Cerase, Gli atti
omosessuali innanzi alla Corte Suprema degli
Stati Uniti in “Diritto penale e processo”
2004/6, p. 776 e ss.
Re
C (A Minor) (Wardship:
Medica1 Treatment) 1989 3 WLR 240 citata da
D.
Robertson,
The
Withdrawal of Medical Treatment from Patients:
Fundamental Legal Issues,
in “ Australian Law Journal” 1996, p. 725.
O.
Phillips,
A
Brief Introduction to the Relation between
Sexuality and Rights,
in “Georgia Journal of International and
Comparative Law”, 2005-33, p. 466.
Courtney G. Joslin, Recent Development: Equal
Protection And Anti-Gay Legislation: Dismantling
The Legacy Of Bowers V. Hardwick -- Romer v.
Evans, 116 S. Ct. 1620 (1996) in “Harvard
Civil Rights-Civil Liberties Law Review”,
1997-32, p. 225 e ss.
Una sintetica rassegna delle diverse esperienze
legislative si trova in S. Melis, Il regime
giuridico delle coppie omosessuali in europa
in “Rassegna parlamentare”, 2005, p. 267 e ss.
Emblematiche le due decisioni delle Corti
supreme di New York (Hernandez v. Robles,
2006 N.Y. LEXIS 1836; 2006 NY Slip Op.5239) e
Washington (Andersen v. King County, 138
P. 3d 963; 2006 Wash LEXIS 598) che hanno negato
che escludere dall'istituto matrimoniale le
persone dello stesso sesso rappresenti una
violazione dei principi di libertà e uguaglianza
previsti dalle rispettive Costituzioni
Goodridge v. Department of
Public Health 798
N.E. 2d.941 (Mass. 2003).
Rinvio al saggio
di V. Barsotti, Le unioni tra persone dello
stesso sesso negli Stati Uniti. Questioni di
diritti e di federalismo, in “Rivista
critica del diritto privato”, 2009-4, pp. 574-5.
Kerrigan v. Commissioner
of Public Health,
SC 17716, Argued May 14, 2007, Officially
released October 28, 2008
Fitzpatrick v.
Sterling Housing Association Ltd.
3 WRL 1 I 13 (H.L. 1999).
Nutting v Southern
Housing Group Ltd
[2004] EWHC 2982, Chancen
Division. 2 1 December 2004.
In re Guardianship of
Kowalski, 478
N.W.2d 790, 796 Minn. Ct. App. 1991. La
decisione è stata indicata come un precedente
rilevante nella controversia sul caso Schiavo,
sul diritto del marito, che si asseriva avesse
intrattenuto altre relazioni sessuali, di
chiedere l’interruzione del trattamento: M.
Coombs, Schiavo: The Road Not Taken, in
“University of Miami Law Rieview”, 2007-61, p.
539 e ss.
Ricorso n. 28957/95, in “Rivista internazionale
dei diritti dell’uomo”, 2002, pp. 561 ss.
P. Piovani, Linee di una filosofia del
diritto, Padiva, CEDAM, 1968, p. 308
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