A
norma dell’articolo 416 bis Codice Penale comma terzo,
“L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne
fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione
del vincolo associativo e de
lla condizione di assoggettamento e di omertà che ne
deriva per commettere delitti, per acquisire in modo
diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo
di attività economiche, di concessioni, di
autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per
realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per
altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il
libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad
altri in occasione di consultazioni elettorali.”
Con tali parole il legislatore enuncia il c.d. metodo
mafioso, il quale si fonda su tre elementi fondamentali:
la forza di intimidazione del vincolo associativo e la
condizione di assoggettamento ed omertà che da esso
deriva.
Tutti e tre gli elementi sopra menzionati sono necessari
ed essenziali perché possa configurarsi il reato di
associazione di stampo mafioso. Ciò si desume dalla
congiunzione “e” impiegata dal legislatore.
La forza di intimidazione può essere definita come la
capacità che ha uno Stato o un suo apparato,
un’organizzazione o un singolo individuo di incutere
timore in base all’opinione diffusa della sua forza e
della sua predisposizione ad usarla. In altre parole può
essere definita come la quantità di paura che una
persona (fisica o giuridica) è in grado di suscitare nei
terzi in considerazione della sua predisposizione ad
esercitare sanzioni o rappresaglie.
Tale forza di intimidazione deve derivare dal vincolo
associativo. Ne consegue che l’associazione deve essere
dotata di particolare capacità di intimidire a
prescindere dal compimento di nuovi atti di violenza e
di minaccia; deve possedere, per la ferocia o per
l’efficienza dimostrata dai suoi affiliati, una “fama”
tale da porre i terzi in una condizione di
assoggettamento e di omertà nei confronti di chi, agendo
per conto dell’associazione, viene temuto e
“accontentato” indipendentemente dagli atti di
intimidazione da lui eventualmente posti in essere.
Una parte della dottrina parla di alone diffuso,
penetrante, avvertibile di presenza intimidatoria e
sopraffattrice che sia anche il frutto di uno stile di
vita consolidato nel tempo.
Per un’altra parte della dottrina, invece, parlare di
“alone di intimidazione diffusa” è di per sé vago in
quanto la matrice sociologica della nozione, da un lato,
recherebbe il rischio di introdurre nell’applicazione
della fattispecie soluzioni riecheggianti il modello del
“tipo di autore”, muovendo dalla presupposta “mafiosità”
di una certa associazione; dall’altro lato, indurrebbe
ad escludere la sussistenza del reato in ambiti
regionali nei quali, benché il controllo del territorio
da parte delle associazioni di stampo mafioso non sia
totale, tuttavia operino associazioni dotate di
un’autonoma carica intimidatrice.
Secondo Ingroia il concetto, di “carica intimidatoria
autonoma” appare più univoco di quello evocato
dall’espressione “alone di intimidazione diffusa”,
costituendo quest’ultima espressione un “indizio” della
esistenza della “carica intimidatoria autonoma”.
Il ricorso alla forza di intimidazione non costituisce
una modalità di realizzazione delle condotte tipiche del
reato poste in essere dai singoli associati, ma
costituisce l’elemento strumentale tipico di cui “si
avvalgono” gli associati in vista della realizzazione
degli scopi propri dell’associazione.
Con un parallelismo forse un po’ ardito Giuliano Turone
afferma in “Il delitto di associazione mafiosa”, che la
forza intimidatrice fa parte del “patrimonio aziendale”
dell’associazione di tipo mafioso, così come
l’avviamento commerciale fa parte dell’azienda.
Se è vero che in una situazione statica un’associazione
di stampo mafioso di tipo “ottimale” non dovrebbe aver
bisogno di far ricorso ad esplicite minacce e ad atti di
violenza, è pur vero che atti di intimidazione e di
concreto esercizio della violenza possono essere e sono,
di regola, necessari, almeno saltuariamente, per
rinvigorirne la fama e rafforzare il terrore.
La Corte di Assise di Caltanissetta (Sent. 24 luglio
1984, in Foro Italiano, 1985, II, p. 10) chiarisce, ad
esempio, come l’attentato di via Pipitone del 29 luglio
1983, in cui perse la vita il giudice Rocco Chinnici, fu
voluto non solo per rafforzare la forza di intimidazione
del vincolo associativo, ma più specificamente per
diffondere il terrore all’interno delle strutture
giudiziarie di Palermo.
Allo stesso modo sono state concepite le stragi del 1992
(Capaci e via Mariano D’Amelio) e quelle del 1993
(Firenze e Roma), con le quali Cosa Nostra ha inteso
mostrare la sua forza e la sua potenza.
Due esempi mi vengono in mente a questo proposito,
esempi emergenti dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca.
Uno riguarda l’omicidio del giudice Costa nel 1980.
Si tratta di un delitto “eclatante”, un delitto
“eccellente” voluto per dimostrare che i membri
dell’organizzazione criminale chiamata Cosa Nostra
“possono fare quello che vogliono”.
È evidente che Cosa Nostra uccise Gaetano Costa “anche
perché aveva ricevuto colpi giudiziari durissimi”, ma
soprattutto per dimostrare dentro e fuori
l’organizzazione che i membri di Cosa Nostra godono di
una certa impunità e, quando questa viene loro negata,
reagiscono di conseguenza per ristabilire il proprio
“ordine” e il potere.
L’altro esempio, a mio avviso significativo, riguarda
gli omicidi Mattarella e La Torre, entrambi politici,
presidente della Regione Siciliana il primo, segretario
del Pci il secondo.
In tali delitti si ravvisa l’intento di ammonire la
classe dirigente, instaurando un clima di terrore al
loro interno.
Dice, infatti, Brusca che gli altri politici che si
vedevano uccisi i colleghi si preoccupavano e si
mettevano sull’attenti di fronte a Cosa Nostra.
L’assoggettamento e l’omertà costituiscono i risvolti
naturali e consequenziali della forza intimidatrice, la
quale si configura come tale proprio in funzione di
questi due ulteriori parametri.
Si tratta di due elementi tra loro difficilmente
scindibili in quanto il primo costituisce la premessa
immediata della seconda: l’omertà si manifesta, infatti,
come un particolare atteggiamento, che viene assunto dal
soggetto passivo di un assoggettamento di tipo mafioso.
Si tratta di due facce della stessa medaglia che si
differenziano per il riferimento specifico
dell’assoggettamento allo stato di sottomissione o
succubanza psicologica che si manifesta nelle vittime
dell’intimidazione; mentre nell’omertà è presente il
rifiuto generalizzato a collaborare con la giustizia.
L’espressione “assoggettamento”, da un lato, ha un
significato atto a ricomprendere anche la posizione di
sottomissione, di succubanza, di vassallaggio, che
all’interno di un contesto associativo criminoso può
caratterizzare l’associato meno autorevole rispetto a
quello più autorevole e rispetto al gruppo; dall’altro
lato, la particolare forza intimidatoria promanante dal
sodalizio può ben riflettersi anche sugli associati, la
qual cosa, del resto, capita normalmente nei fenomeni di
“mafia storica”, in virtù del timore suscitato dalla
ferocia con cui vengono notoriamente puniti tradimento
ed insubordinazione.
Nonostante le dispute dottrinarie, è da ritenere che la
presenza dei c.d. “riflessi esterni” della forza di
intimidazione, le condizioni esterne di assoggettamento
ed omertà, sono necessarie ai fini della configurabilità
del reato. Ma nulla esclude che eventuali risultanze
relative ai c.d. “riflessi interni” di tale forza
intimidatrice possano comunque contribuire a formare la
prova dell’apparato strutturale mafioso.
Il termine “omertà”, con il quale Mario Puzo ne “Il
padrino” indica “la nuova religione”, nata dalla
negazione da parte dei siciliani della amministrazione
della giustizia da parte dello Stato, non significa
“umiltà”, come si potrebbe pensare a prima vista, ma
“omineità”, qualità di esser “omu”, cioè uomo virile,
serio, forte.
Nei tempi passati al termine è stato attribuito un
significato con connotazione positiva: omertà era il
codice sociale di comportamento osservato dai veri
uomini, che credevano nella legge della propria
coscienza, era il silenzio e la mancanza di
collaborazione nei confronti di uno Stato oppressore ed
ingiusto, cui si negava la legittimazione ad
amministrare la giustizia.
L’espressione “omertà” è usata, invece, dal legislatore
del 1982 nel significato moderno, carico di connotazione
negativa, intesa cioè come atteggiamento di disimpegno e
di mancanza di collaborazione verso gli organi pubblici,
dovuto alla paura che prevale sull’istinto di
solidarietà sociale.
Se prendiamo in esame le situazioni tipiche delle “mafie
storiche” e teniamo conto della elaborazione
storico-sociologica in materia, possiamo dire che
l’omertà è il rifiuto incondizionato e tendenzialmente
assoluto a collaborare con gli organi statali, non
soltanto per timore di rappresaglie o per volontà di
proteggere la consorteria di cui si fa parte, ma anche
per la tendenza a negare ogni legittimazione a qualsiasi
“interferenza” dello Stato nella sfera dei singoli e
negli affari del gruppo.
Sul piano meramente giuridico l’omertà può essere
definita come rifiuto sufficientemente generalizzato a
collaborare con organi dello Stato aventi funzioni
inquirenti e giudicanti, derivante dalla paura che si
nutre nei confronti del sodalizio criminoso, dal quale
si sia subita una prevaricazione, ovvero del quale si
conoscano aspetti penalmente rilevanti, ovvero sul quale
si sia chiamati a riferire ciò che si sa.
In giurisprudenza la definizione più puntuale del
concetto normativo di omertà non è stata data
nell’ambito di procedimenti di “mafia storica”, bensì
nell’ambito di una comune associazione a delinquere di
cui era messa in discussione la possibile trasformazione
in associazione di tipo mafioso.
È il caso della sentenza Teardo del 1989.
In essa si legge: “Perché sussista omertà è sufficiente
che il rifiuto a collaborare con gli organi dello Stato
sia sufficientemente diffuso, anche se non generale; che
tale atteggiamento sia dovuto alla paura non tanto di
danni all’integrità della propria persona, ma anche solo
alla attuazione di minacce che comunque possono
realizzare danni rilevanti; che sussista la diffusa
convinzione che la collaborazione con l’autorità
giudiziaria – denunziando il singolo che compie
l’attività intimidatoria – non impedirà che abbiano
ritorsioni dannose per la ramificazione
dell’associazione, la sua efficienza, la sussistenza di
altri soggetti non identificabili e forniti di un potere
sufficiente per danneggiare chi ha osato contrapporsi.
Tra le possibili ritorsioni, che portano ad un
assoggettamento ed alla necessità dell’omertà vi è anche
quella che possa mettere a rischio la pratica
possibilità di continuare a lavorare e viva la
prospettiva allarmante di dover chiudere la propria
impresa perché altri partecipanti all’associazione o da
essa influenzati hanno la concreta possibilità di
escludere dagli appalti colui che si è ribellato alle
pretese. A tale ultimo fine non è necessario che le
conseguenze minacciate si verifichino, ma è sufficiente
che esse ingenerino il ragionevole timore che induca al
silenzio e all’omertà”.
La condizione di assoggettamento e di omertà deve
derivare, come la forza di intimidazione, ancora una
volta dal vincolo associativo. Infatti, quando la forza
di intimidazione risiede tutta in una persona è più
facile per il minacciato resistere, richiedendo
l’intervento della forza pubblica. Viceversa, quando
tale intimidazione deriva dal vincolo associativo, la
soggezione del minacciato è completa in quanto sul piano
psicologico egli non si sentirà mai sufficientemente
protetto per il timore che l’associazione possa
“rivendicare” l’offesa subita.
Ci si potrebbe chiedere a questo punto: se ci sono
persone, membri dell’associazione o terzi, che “rompono
il muro di omertà” allora tale situazione di omertà è
rilevante ai fini della configurabilità del reato?
Il problema può essere risolto affermando che la mera
presenza di imputati collaboranti, che accettano di
riferire ciò di cui sono a conoscenza su un determinato
sodalizio, non può avere l’effetto di neutralizzare le
prove che siano state acquisite circa l’esistenza di una
carica intimidatoria promanante da quel sodalizio e
circa la sua idoneità a ingenerare assoggettamento ed
omertà. In tale ottica il “pentitismo” si presenta
proprio come reazione a un livello di ferocia divenuto
insopportabile (Nel 1989 a Francesco Marino Mannoia
uccidono il fratello, Agostino, che adorava. Capisce che
il suo spazio vitale all’interno di Cosa Nostra si sta
restringendo. Perché o hanno ucciso suo fratello a torto
– e deve chiederne conto – oppure lo hanno ucciso a
ragion veduta; in entrambi i casi significa che
anch’egli sarà presto eliminato. Mannoia fa una lucida
analisi della situazione e decide di collaborare. Lo
stesso accade per Tommaso Buscetta).
In tale quadro vanno inserite anche le ritrattazioni di
dichiarazioni già rese e riscontrate: esse sono senza
dubbio conseguenza dell’omertà derivante dalla forza di
intimidazione del vincolo associativo e dalla condizione
di assoggettamento ed omertà che da essa deriva.
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