Avv. Paolo Nesta


Palazzo Giustizia  Roma


Palazzo Giustizia Milano

Sede di Roma: C.so Vittorio Emanuele II,  252   00186 – Roma
Tel. (+39) 06.6864694 – 06.6833101 Fax (+39) 06.6838993
Sede di Milano:  Via Pattari,  6   20122 - Milano 
Tel. (+39) 02.36556452 – 02.36556453  Fax (+ 39) 02.36556454 

 

Autodeterminazione e diritto privato*- Carlo Castronovo

 

Home page

Note legali e privacy

Dove siamo

Profilo e attività

Avvocati dello Studio

Contatti

Cassa di Previdenza e deontologia forense

Notizie di cultura e di utilità varie

 

 

 

 

 

sed desperatis etiam Hippocrates vetat adhibere medicinam

(Cicerone ad Attico, epistola 426, in Epistole ad Attico,

 a cura di C. Di Spigno)

 

 

sommario: 1. L’autodeterminazione come autonomia circa sé; 2. Suicidio e libertà di morire; 3. Diritto alla salute
e diritto alla vita; 4. Autodeterminazione e libertà personale; 5. Rifiuto e rinuncia del trattamento medico; 6. Volontà di morire e sua insurrogabilità; 7. Il caso Englaro e le contraddizioni della Cassazione; 8. L’autodeterminazione come esempio di valore assunto in termini assoluti; 9. La mediazione, quando necessaria, tra autodeterminazione e situazioni di garanzia nel fuoco della tutela giurisdizionale.

 

1. Autodeterminazione è parola che nasce a metà dell’ottocento a indicare il diritto degli individui e delle nazioni di scegliere da sé medesime il proprio destino[1]. La libertà a riguardo di se stessi, che essa significa, fa sì che la si trovi utilizzata 
 come sinonimo della stessa libertà a seconda dei contesti e delle lingue. In proposito è degno di nota che, nel definire la libertà secondo i romani, Fritz Schulz la identifichi con il Selbstbestimmungsrecht, il diritto di autodeterminazione, di cui dice
 che a sua volta significa l’essere privo di padrone: non mai il potere di fare o non fare a proprio piacimento, perché <nel concetto romano di libertà è immanente l’idea della limitazione>[2]. Invero nella  celebre definizione di Fiorentino[3], che

egli stesso cita, si trova sia l’aspetto positivo sia l’aspetto del limite. Quest’ultimo è ovvio anche per i moderni. Il maggiore cantore moderno della libertà, John Stuart Mill[4], non ha infatti difficoltà ad ammettere che <le necessità della vita
esigono continuamente non che noi rinunciamo alla nostra libertà, ma che consentiamo a lasciarcela limitare in un modo o nell’altro>. Con questo la libertà e il diritto come ordinamento risultano richiamarsi vicendevolmente, come non altri che Kant[5]
ha potuto mettere mirabilmente in evidenza nella sua celebre definizione del diritto come l’insieme delle condizioni nelle quali l’arbitrio del singolo diventa compatibile con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale di libertà. La libertà esige l’ordine
giuridico quale necessario orizzonte di certezza, l’ordine giuridico ha nella libertà da garantire e disciplinare la ragione ultima del suo essere.

 Dalla prospettiva del diritto civile l’autodeterminazione evoca l’autonomia come potere dinamico del soggetto a riguardo della sua sfera giuridica. Ma, nonostante abbia la propria radice filosofica

 

* Questo scritto prende spunto dalla Relazione al Convegno dei giuristi cattolici su L’autodeterminazione, Roma, 5-7 dicembre 2009.

 

nella kantiana autonomia della volontà[6], da cui origina la visione moderna di quella che i privatisti

chiamano autonomia privata, l’autodeterminazione non compare nella teoria classica del negozio

giuridico come determinazione della volontà volta a produrre effetti giuridici. E neppure nella più

sofisticata teoria che, appunto sotto il nome di autonomia privata,  nel novecento aggiorna quella del negozio giuridico nel senso di enfatizzare l’aspetto funzionale  (produzione di effetti giuridici)   rispetto   a quello   contenutistico (della signoria
della volontà), si rinviene alcun cenno alla persona che possa riguardarla alla stessa maniera in cui il potere di disporre si riferisce ai diritti sulle cose in prospettiva dinamica.

Nel diritto privato la persona come tale viene invece originariamente in considerazione nella prospettiva dei diritti, in risposta alla domanda se il soggetto di diritto possa dirsi titolare di diritti sulla propria persona.

Dice Savigny[7]: <Secondo una dottrina molto diffusa l’uomo avrebbe sulla propria persona un diritto  che in maniera necessitata comincia con la sua nascita e non viene meno fino a quando esso vive, onde viene detto anche il diritto originario…Se,
per rendere questa dottrina  più comprensibile, si dice che l’uomo ha la proprietà del suo essere materiale, del suo corpo e delle sue membra… tra le altre conseguenze questo implicherebbe la legittimazione al suicidio…. (però) senz’altro non
si può disconoscere che l’uomo disponga di se stesso e delle sue facoltà…Questo potere è invero la base e il presupposto dei diritti in senso proprio. Il punto di partenza di parecchi istituti del diritto positivo …è in effetti la protezione di questo

potere naturale dell’uomo sulla propria persona contro le aggressioni esterne>. Da qui emerge l’idea dei diritti della personalità connotati dall’assolutezza propria dei diritti reali: il diritto originario sul proprio corpo significa essenzialmente ius excludendi alios. Questo emerge anche dalla citazione che Savigny fa di Donello, per il quale esistono, secondo una distinzione che arriva fino a Kant[8] (che chiama la proprietà ‘il mio e il tuo esterni’) due specie di nostrum: in persona cujusque et in rebus externis, ponendo nella prima specie vita, incolumitas corporis, libertas, existimatio. L’equiparazione delle due specie sul piano della tutela chiarisce quanto abbiamo appena detto: che i diritti sulla propria persona vengono concepiti come sinonimo di una sfera di intangibilità, di affermazione della persona nella sua integrità e incolumità nei confronti delle aggressioni altrui. Questo vale per l’individuo anzitutto nei confronti di se stesso, secondo quanto afferma Grozio: <Natura homini suum est vita, non quidem ad perdendum, sed ad custodiendum, corpus, membra, fama, honor, actiones propriae>[9].

L’idea che non ci possa essere un diritto sulla propria persona che ne significhi altresì, alla stregua dei diritti sulle cose, la disponibilità Savigny[10] la trae da Hegel, il quale nei Lineamenti di filosofia del diritto[11]  afferma che «la vita non è esteriore rispetto alla personalità… l’alienazione o sacrificio della vita è piuttosto il contrario dell’esistenza di questa personalità; Io, pertanto, propriamente, non ho alcun diritto a tale alienazione… la morte è la negatività immediata della vita stessa… pertanto, dev’essere subìta o dal di fuori come una cosa naturale, o al servizio dell’Idea etica, da mano estranea».

Il diritto sulla propria persona come ius excludendi alios, così come lo abbiamo individuato in Savigny viene altrimenti affermato da Windscheid, che idealmente chiude la stagione ottocentesca iniziata con il padre della Scuola storica. Invero Windscheid formula la sua posizione in maniera duplice. Egli dice :<Quando si chieda se vi siano diritti sulla propria persona, il senso di questa domanda …può essere soltanto quanto si è già osservato [nella definizione del diritto reale]: se …la volontà del titolare è decisiva per la …persona di lui>[12]. E qui il riferimento potrebbe supporsi alla libertà di disporre di sé. Ma proprio nel definire il diritto reale, W. ha affermato che <il contenuto del potere volitivo, che costituisce il diritto reale, è negativo: quelli che si trovano di fronte al titolare del diritto devono astenersi da qualsiasi azione…non devono impedire l’azione del titolare sulla cosa>, concludendo che <il diritto reale contiene solo divieti>[13]. E’ il diritto soggettivo di nuovo come puro ius excludendi alios, nel quale finisce per consistere quello che pure viene definito una potestà o signoria della volontà, cui  l’ordinamento fornisce il suo riconoscimento[14]; diritto soggettivo che, secondo l’immagine di Binding[15], è un buco, un buco nero, diremmo noi che l’aggettivo abbiamo aggiunto senza necessità, intorno al quale sta un alone di poteri[16] organizzati a difesa. E di fronte a tale immagine ci si può chiedere che cosa ci sia da difendere, se veramente ciò che si vuole difendere è uno spazio vuoto.

Windscheid perciò conclude, con riguardo al diritto sulla propria persona, che esso significa che l’ordinamento munisce il titolare di divieti verso coloro che gli stanno di fronte. Però subito dopo ritiene che si possa giungere ad affermare un diritto alla vita, all’integrità corporale e a disporre del proprio corpo senza ostacoli (libertà). Un tale diritto, egli dice, non equivale ad affermare un diritto al suicidio, ma soltanto che <il suicida non commette un’ingiustizia a danno degli altri>[17]. Ma un diritto che si limiti ad essere l’assenza di un diritto contrario in capo ad altri è un diritto misero, da potere della volontà atto a manifestarne la signoria [18], scema a mera libertà, a  pura facultas. Si tratta, allora, di quella libertà che Savigny[19] chiama <facoltà di scelta tra diverse determinazioni possibili>.

 

2. La definizione di libertà tramandataci da Fiorentino, come facoltà di fare ciò che ciascuno vuole, salvo che la forza o il diritto non lo impedisca, trova eco nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo  del 26 agosto 1789, la quale all’art. 4 proclama che <la libertà  consiste nel poter fare  tutto ciò che non nuoce ad altri>, aggiungendo che <l’esercizio dei diritti naturali…non ha altri limiti che quelli che assicurano agli altri membri della società  il godimento di questi stessi diritti>.

Filomusi Guelfi, autore di una celebrata Enciclopedia giuridica, come si chiamava allora il corso di introduzione alla scienza giuridica,  afferma che <la prima pretensione che l’uomo affaccia si manifesta come supremo diritto di libertà >[20]. Ma subito aggiunge che la ‘determinazione’ di detto diritto di libertà dal lato fisico è ‘il diritto supremo alla conservazione’; e conclude poi:< Si è affermato più volte…il diritto al suicidio, come conseguenza della signoria dell’uomo su sé stesso e sul proprio corpo. Ma anche antiche sono le ragioni che lo combattono: secondo …una filosofia teistica la vita dell’uomo non è proprietà di lui, ma del Creatore… e secondo una veduta razionalista ed umana, l’uomo non dimostra coraggio uccidendosi…sottraendosi al dovere della propria conservazione…e secondo i casi ai doveri verso la famiglia e la patria. Il diritto sul proprio corpo ha quindi anche i suoi limiti>[21]. Non altri che Aristotele[22], infatti, dice essere <debolezza lo sfuggire ai travagli e chi s’uccide agisce non per affrontare una prova decorosa, bensì per fuggire un male>. L’affermazione non nasconde le durezze di una civiltà classica educata all’αρετή. Dalla prospettiva dei moderni, i quali sono molto meno inclini al valore, però, un autore come Karl Jaspers può affermare, in tutt’altra direzione, che <la realtà del suicidio esige rispetto>[23].

Or non è  suicidio anche la morte alla quale il soggetto si abbandona rinunciando alle cure? La domanda può suonare bizzarra, ma la ragione è soltanto dovuta al fatto che sul piano linguistico l’autodeterminazione, come sottocategoria della libertà, nel richiamare quest’ultima finisce con l’obliterare il risultato di essa applicata alla morte, allontanando la parola che unicamente è in grado di evocarlo: suicidio[24]. Un suicidio omissivo, non cruento o non violento come invece siamo abituati a concepire quello commissivo, e però pur sempre tale. Per quanto possa apparire inopportuno in questa società che ama le forme linguistiche morbide, le quali però rischiano di favorire le ipocrisie, a tutto concedere, allora, parlare di suicidio a proposito della morte per mero rifiuto di ciò che possa evitarla costituisce casomai solo una sovraesposizione linguistica, almeno rispetto all’uso e alla sensibilità oggi correnti, sovraesposizione che equilibra il contrario understatement o sottoesposizione alla quale ci ha altrettanto abituati l’uso del termine autodeterminazione.

Altra è la questione se tutte le modalità nelle quali, per decisione mediata o immediata l’individuo pone fine alla sua esistenza, siano da mettere sullo stesso piano, se a tutte esse si debba riconoscere identica qualificazione rispetto a quella nella quale unicamente siamo abituati a pensare al suicidio, ovvero la fine della vita provocata da una decisione violenta del suo titolare. A questa domanda oggi nessuno, che sia veramente consapevole del problema, ardisce di fornire una risposta univoca, valida per tutte le situazioni. Dice ancora Jaspers, riassumendo nel modo sinteticamente più significativo la questione, che <il circolo dell’essere donati a se stessi e del farsi se stessi, del fondamento della libertà e della libertà medesima, non si può risolvere senza contraddizione>. Assolutizzare la vita come dono che ci viene fatto significa obliterare la libertà, la quale da un certo momento diventa coautrice della vita stessa così come essa si viene facendo; e assolutizzare la libertà significa sovraordinarla alla vita sul piano del valore, laddove è la vita che ne costituisce il presupposto e il fondamento.

L’esercizio sbagliato della libertà può mettere fine a una vita ancora degna di essere vissuta. Questa affermazione fa intuire che possono darsi vite non degne di essere vissute; e questo può suonare relativizzazione del diritto alla vita[25]. Per quanto forte questa implicazione possa apparire, essa trova fondamento nell’idea che, in caso contrario, la vita diventerebbe un valore assoluto: conclusione che contrasta con la finitudine che incontestabilmente caratterizza la persona umana proprio come creatura. Peraltro questo impedirebbe di distinguere tra chi dà la propria vita per qualcosa che reputa superiore ad essa e chi invece decide puramente e semplicemente di sopprimerla: <fra chi muore, per dirla con Chesterton,[26] per amore della vita  e chi muore per amore della morte>. Ma se la vita non è un valore assoluto, tanto meno la libertà, che ne è un valore dipendente, può esserlo. Contrapporre perciò la libertà alla vita, con l’idea che la prima possa decidere della seconda significa alterare un ordine di valori che in questo caso sembra porsi da se medesimo.

Peraltro pure la libertà è afflitta da un’aporia insolubile, consistente nel suo essere sinonimo di mancanza di limiti e in pari tempo espressione di un soggetto finito e perciò limitato[27].

La finitudine del soggetto sembra implicare il riferimento ad altro da sé quando si tratta di sé. Questo altro da sé per il credente è Dio, per i non credenti potrebbe essere lo Stato come secolarizzazione di Dio. Ma concepire lo Stato come l’erede del Dio morto significa cadere nello Stato etico, quello che, in luogo di Dio, ha dettami da imporre al soggetto come persona. Questo Stato viene oggi rifiutato, e con ragione, perché inutile e vana sarebbe la morte di Dio se le prerogative di esso dovessero riputarsi ereditate dallo Stato, per di più neanche dotato della trascendenza divina. Ecco perché il laico, privato dell’Altro da sé, si trova senza rete[28], avendo come unico ancoraggio se stesso: cosa che ricorda il barone di Münchhausen che si tira dallo stagno per i capelli. Ma per il cristiano la questione è diversa. In quanto accetta la vita come dono di Dio, sa che non può disporne liberamente perché altrimenti negherebbe l’ancoraggio a Dio come Altro da sé che in ipotesi accetta. Per il cristiano, perciò, la libertà ha un limite in tutto ciò che richiama l’Altro da sé. Per il cristiano la morte che consegue al rifiuto di quanto è necessario al suo mantenimento in vita equivale alla morte per condotta omissiva. Su questo punto si evidenzia un percorso diverso tra la legge dello Stato e quella della Chiesa, o anche tra legge e coscienza, perché, mentre  lo Stato rinuncia alla potestà punitiva, la Chiesa ha sempre condannato il suicidio.

 

 

3. Trascorrendo al piano giuridico-positivo  pare significativo che la Costituzione non parli di diritto alla vita. Quest’ultimo da un lato deve essere apparso ai costituenti  implicito nei diritti della persona, dai diritti di libertà al diritto alla salute, in quanto presupposto necessario di essi tutti e di ciascuno, al punto da farne apparire inutile superfetazione il menzionarlo esplicitamente; dall’altro menzionarlo, piuttosto che valorizzarlo costituzionalmente poté significare abbassarlo al livello degli altri e metterlo in possibile competizione con essi. Da questa prospettiva è lecito ritenere che affrontare sul piano costituzionale, come spesso si fa, la questione del fine vita dalla prospettiva dell’art. 32 cost., che si riferisce al diritto alla salute, rischia di diventare estremamente riduttivo[29]. La salute, come è ovvio, è qualificazione, sul piano naturale come su quello giuridico, della persona vivente; richiamarla perciò in un contesto nel quale è in questione la vita nella prospettiva della sua cessazione ha il sapore del grottesco. Questa considerazione generale trova conforto dalla lettura dell’art. 32. Esso nel suo insieme tutela la salute erigendola a diritto costituzionalmente rilevante.  E quanto questo non abbia a che fare con la questione del se e del come del fine vita deliberato è autoevidente.

Anche l’interpretazione analitica dell’articolo orienta in questo senso. Il I° comma, nel proclamare la salute <fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività>, spira evidentemente in tutt’altra direzione dal fine vita; e il II° comma, formulando la riserva di legge per i trattamenti sanitari obbligatori, a sua volta segnata dai <limiti imposti dal rispetto della persona umana>, si riferisce a trattamenti che devono essere volti a tutela della salute nell’ottica del fondamentale diritto dell’individuo e dell’interesse della collettività di cui al comma precedente. Dalla prospettiva dell’art. 32, dunque, ciò che si ricava è l’attenzione per una salute da mantenere e magari migliorare, con il solo limite del rispetto della persona umana, che vale in particolare nel caso di trattamenti sanitari imposti per legge.  Da una rilettura dell’art. 32, co. 1 si potrà ricavare pure un diritto all’autodeterminazione terapeutica, ma non il diritto all’autodeterminazione circa il fine vita[30]. L’art. 32 esprime originariamente una pretesa del cittadino nei confronti dello Stato, e il reciproco dovere di quest’ultimo, dovere il cui adempimento può giungere fino alla previsione di trattamenti sanitari obbligatori, caratterizzati però dal doppio vincolo della  legge e del rispetto della persona umana. In questo senso vale quanto già in altra sede ho avuto occasione di precisare: che <in quanto diritto sociale la salute non consente di essere configurata alla stregua dei diritti di libertà: non è questa la lettera né l’intonazione dell’art. 32 cost.>[31]. Dall’art. 32 non si può dunque  ricavare l’autodeterminazione circa il proprio continuare ad esistere, né in particolare dal fatto che al comma 2 esso faccia divieto di trattamenti sanitari obbligatori salvo che questi siano previsti dalla legge. Ciò perché l’autodeterminazione per la sua stessa natura, della quale fa fede il nome stesso, nasce come diritto di libertà; mentre la salute, come ho detto, non è un diritto di libertà, così come la disciplina che la riguarda non può essere considerata alla stregua dei diritti di libertà. Proprio perché si tratta di diritti di matrice diversa, si può parlare di possibile  <punto di intersezione tra diritto alla salute e diritto di libertà…sotto il profilo dell’autodeterminazione> e affermare che <a tale punto il diritto alla salute manifesta la sua dimensione in ultima istanza aporetica rispetto al diritto di libertà> [32]. Tale intersezione, tuttavia, all’interno dello stesso art. 32, fa rilevare che l’obbligazione dello Stato circa la salute non può avvenire in contrasto con la libertà del singolo, se non mediante un provvedimento legislativo. In questo senso la tutela della salute trova un limite in tale libertà, la quale a sua volta può essere limitata mediante un provvedimento generale e astratto. Sembra echeggiare quell’avvertimento del paladino della libertà, John Stuart Mill, che <le necessità della vita esigono continuamente non che noi rinunciamo alla nostra libertà, ma che consentiamo a lasciarcela limitare in un modo o nell’altro>[33].

In conclusione, nonostante tutti i richiami che ad esso sono stati fatti per fondarvi costituzionalmente un diritto all’autodeterminazione circa la vita che non si vuole più, è difficile sostenere che l’art. 32 possa includere anche questo. Non lo si può affermare sul piano dell’interpretazione storica[34] e, quanto a un’ipotetica interpretazione evolutiva, è ancora più difficile sostenere che una norma dettata, secondo l’unanime lettura che ne è stata fatta in materia di danno alla persona, a tutela della salute, possa essere richiamata nella vicenda del fine vita nella quale la salute, affievolendosi, sembrerebbe non più in grado di reclamare per se stessa ma piuttosto contro se stessa[35]. Proprio distinguendo la morte rispetto alla lesione della salute, discutendo di danno biologico avevo avuto occasione di rilevare che affrontare la questione della rilevanza del diritto alla vita muovendo dal diritto alla salute è un errore di prospettiva[36]. Se la salute è un bene prezioso e un diritto inalienabile, la vita è bene troppo grande per essere ricompresa in quella, come il tutto non può essere ridotto a una parte. Certo l’intervento terapeutico su una persona in vita incide sulla sua salute, ma, quando esso si svolge nella prospettiva del fine vita, parlarne nei termini di un intervento sanitario, obbligatorio o no,  significa partire dagli antipodi rispetto al senso che il costituente volle imprimere all’art. 32. Non si tratta infatti di salvare una vita secondo quello che sembra essere il fine naturale della cura, bensì di prolungarne o spegnerne una che volge inarrestabilmente verso la sua conclusione. Da questo consegue che è inadeguato considerare le terapie riguardanti i malati la cui vita si è oramai orientata verso la fine domandandosi se e quanto esse possano accostarsi ai trattamenti sanitari obbligatori di cui all’art. 32; questi, per come la norma stessa mostra di considerarli,sono trattamenti più o meno generali, riguardanti cioè una pluralità indeterminata di persone[37] in una certa situazione astrattamente considerata, laddove quello del fine vita è un problema drammaticamente individuale, a riguardo del quale la legge non può assumere alcun provvedimento. Non tanto perché esso violerebbe la volontà individuale, bensì per difetto del presupposto di fatto al quale ragionevolmente può riferirsi la categoria dei trattamenti sanitari obbligatori: il verificarsi di una situazione astrattamente delineata dalla legge, con riferimento a una generalità di soggetti. Che tali trattamenti nulla abbiano a che fare con il fine vita è suggerito, del resto, dalla considerazione che con riguardo a tale esito pietoso la questione non è quale trattamento apprestare, ché più che un trattamento ciò che ricorre è un non trattamento, ove con questo si intenda una cura che qui oramai non si dà o si rifiuta. Il percorso è per così dire obbligato, mentre quello che la legge deve è, da un lato, stabilirne il punto di partenza, dall’altro risolvere una questione di legittimazione: chi e in quali circostanze potrà decidere il commodus discessus.  Che la salute non possa essere accostata alla vita come un puro minus di quest’ultima è peraltro suggerito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che all’art. 2 contempla il diritto alla vita, distinguendolo dal diritto all’integrità della persona, al quale invece riferisce il rispetto del consenso libero e informato.

 

4. Altro è allora, per l’ordinamento italiano il luogo costituzionale dell’autodeterminazione; e non può che essere quello della libertà personale. Quest’ultima infatti nel suo significato moderno si esprime non soltanto come indipendenza da una signoria altrui ma anche come potere di autodeterminazione cioè come fascio di facoltà di scelta riguardanti la persona nella sua individualità. Se pure si voglia intendere ancora l’art. 13 cost. come l’erede moderno dell’habeas corpus, in termini analoghi si pone la questione di  interventi su chi, come malato, si trovi  in un ambito medico nel quale altri è preposto a decidere per lui fino a quando la persona permanga nell’ambito medesimo. In questo senso la lettera dell’art. 13 cost. favorisce una interpretazione evolutiva in grado di riferire e rendere applicabile la norma anche a situazioni diverse da quella  originariamente in vista e ad altre simili che hanno costituito uno dei punti salienti del primo costituzionalismo[38]. Dispone infatti il terzo comma che <E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà>. Dedotta la formula, invero di stampo penale, essa ben può essere considerata Tatbestand anche delle situazioni  in cui si trova il malato, il quale nel ricovero ospedaliero in particolare di fine vita, e comunque per la difficoltà di movimento autonomo che quasi inevitabilmente connota tale frangente,  può certo dirsi ‘sottoposto a restrizioni di libertà’[39].

E’ sufficiente la regola appena citata per rendere certa la non imponibilità di terapie e interventi sanitari o curativi che non abbiano a presupposto il consenso del malato. Questo può sembrare ovvio in una stagione nella quale è oramai indiscusso il principio del consenso informato, che ha trovato adeguata considerazione ad opera della Corte costituzionale nella sentenza del 22 ottobre 1990, n. 471, proprio sotto il profilo dell’ancoraggio di esso all’art. 13 cost.

Ma il principio del consenso alle cure mediche non sembra in grado di risolvere il problema della decisione circa il fine vita. Ci troviamo di fronte a un’apparente aporia: perché da un lato nessun intervento medico può svolgersi senza il consenso del titolare del bene giuridico tutelato, sia esso la salute o la vita; dall’altro la vita è un bene indisponibile, onde esso non è idoneo a sopportare atti di disposizione che la abbiano ad oggetto diretto e proprio. Vale infatti riguardo alla vita lo stesso paradosso della libertà[40]: il diritto in cui essa consiste non può essere esercitato in un modo che ne implichi la negazione. In questo senso vale ancora pienamente il divieto di atti di disposizione del proprio corpo di cui all’art. 5 c.c. Questa norma, anzitutto, è quella dalla quale si può ricavare meglio che da altri luoghi normativi l’inesistenza di un diritto al suicidio[41]. Se non si può disporre con effetti di diminuzione permanente dell’integrità fisica, a fortiori l’atto di disposizione non può avere effetti di fine vita. Al più, con Windscheid si può dire che chi commette suicidio non è autore di un’ingiustizia a danno di altri: il suicidio non è lecito, bensì non illecito, viola pur sempre un diritto, quello sulla propria vita, tanto è vero che se ne punisce l’istigazione e l’aiuto (art. 580 c.p.); ma chi lo commette è giustificato da una sorta di stato di necessità, nel quale l’ordinamento considera che possa avere ritenuto di trovarsi. La soluzione dell’ordinamento è chiaramente aporetica, nel momento in cui non punisce l’autore del fatto che sia sopravvissuto,  mentre punisce colui che con esso concorre.

 In altra sede abbiamo affermato che se originariamente il sintagma ‘atto di disposizione’ anche nel riferimento alla persona ha potuto significare attribuzione ad altri, oggi, di fronte alla questione della disposizione avente ad oggetto il destino fisico della persona, l’art. 5 c.c. deve ritenersi  applicabile benché le norme di divieto siano da considerarsi di stretto diritto. Una interpretazione logico-sistematica non può infatti ammettere che di fronte a un bene superiore quale è la vita rispetto all’integrità fisica, l’esito sia più permissivo. Qui atto di disposizione acquista un significato più ampio dell’attribuzione ad altri, con la quale coincide nel campo degli atti patrimoniali, essendo sufficiente ai fini del divieto che la scelta del titolare sia decisiva del destino circa la propria esistenza[42]. Anche le categorie dell’illecito, prima evocate, risultano del resto a loro volta trasposte, perché sia del diritto violato che della causa di giustificazione titolare è il medesimo soggetto.

 

5. L’improcedibilità della scelta che decide direttamente della propria esistenza, anzi della fine di essa, ci rimanda all’altro corno dell’aporia: quello del consenso al trattamento medico. Proprio perché riguarda la persona, sia pure in via mediata, cioè di riflesso dalla decisione circa l’intervento curativo, tale consenso, che il titolare può liberamente dare, può altrettanto liberamente revocare[43]. In proposito un breve interludio di ortosemantica  ci rende chiaro che la parola consenso nel contesto al quale la riferiamo ora  non sta a significare quello che altrimenti chiamiamo accordo.   Nella materia dei trattamenti sanitari esso è tecnicamente un assenso, cioè un atto di volontà che rimane caratterizzato dalla sua unilateralità e che dunque non va mai a coniugarsi con un’altra volontà in un accordo.  Per tale ragione esso non crea un vincolo ma costituisce soltanto un’autorizzazione di cui il medico o la struttura sanitaria ha bisogno per potere agire sul paziente; onde la revoca, che è possibile in ogni momento, priva il medico o la struttura sanitaria di ogni potere di azione. In questo senso non mi pare si possa ipotizzare una differenza tra il rifiuto originario dell’intervento terapeutico, che il paziente nell’esercizio della sua libertà potrebbe efficacemente manifestare, e una rinuncia al trattamento già iniziato che sarebbe interdetta al paziente[44]. Affermare questo significa caricare il c.d. consenso di un effetto che esso non è in grado di possedere, come se esso avesse creato un qualche vincolo rilevante, dal quale il paziente non potrebbe sciogliersi più, quasi avendo consumato il potere di autodeterminazione  che con il consenso ha esercitato. L’autonomia cessa di essere tale e così l’autodeterminazione quando sia stata esercitata in funzione del sorgere di un vincolo: è quest’ultimo che non consente più al soggetto di ritenersi libero alla maniera in cui lo era prima proprio per la mancanza del vincolo stesso.  Ma non è questo il caso del c.d. consenso al trattamento medico. Invero tale vincolo, ove fosse di diritto privato, dovrebbe consistere in una obbligazione nella quale, nei termini in cui Carnelutti ne concepiva in generale l’oggetto, il paziente sarebbe tale in senso etimologico, sarebbe cioè tenuto ad una patientia[45], a un puro soggiacere all’iniziativa altrui, a ciò che altri decida di fare del suo corpo. Or non è certo questo il senso che l’opinione generale è disposta ad assegnare al c.d. consenso. Meno ancora sarebbe pensabile un vincolo di diritto pubblico, il quale da un lato non può nascere da un atto privato di volontà, dall’altro confliggerebbe con la libertà personale, la quale può essere limitata soltanto nei termini dell’art. 13 cost., ove non sia il caso di trattamenti sanitari obbligatori per i quali però allora, a tenore dell’art. 32 cost., è necessaria la previsione legislativa.  Abbiamo visto che il c.d. consenso non dà vita a un vincolo ma si limita a neutralizzare un impedimento all’azione di terzi sul proprio corpo. E’ il classico consenso dell’avente diritto, che deterge l’antigiuridicità di una condotta, ma che lascia a colui che l’ha dato la titolarità del diritto. Tale è infatti l’effetto dell’autorizzazione, la quale per sua stessa natura è revocabile, massime quando sia data nell’esclusivo interesse del suo autore[46]. Da una prospettiva squisitamente privatistica possiamo dire che il c.d. consenso, riguardando esclusivamente la persona che ne è l’autrice, non crea nessun affidamento in capo a soggetti terzi, dato che il medico deve considerarsi chiamato ad operare non nell’interesse proprio o in nome di un interesse di natura generale, bensì soltanto nell’interesse del paziente. Ancor meno può ritenersi che esso crei un vincolo a carico di quest’ultimo che comporterebbe in pari tempo una pretesa di altri o almeno una soggezione, che a’ sensi dell’art. 1174 c.c. presuppone un interesse in capo a quest’ultimo, interesse che però non c’è e non può esserci, unico interesse essendo quello del paziente. Se però il consenso può essere revocato in ogni momento, tale revoca non può convertirsi in una domanda di essere aiutato nel commiato dalla vita. Questo significherebbe trasformare la non facoltà di intervento che segue al rifiuto delle terapie in un obbligo di intervento, che sarebbe a sua volta in contrasto con l’obbligo di cura gravante sul medico. Si tratterebbe dell’aiuto al suicidio, che è sanzionato dall’art. 580  del codice penale. Soltanto l’abrogazione di tale norma per la parte relativa all’aiuto potrebbe dare all’autodeterminazione una portata maggiore di quella attuale, la quale non può andare oltre il rifiuto o la rinuncia al trattamento medico.

Ma la prestazione o il ritiro del consenso, che l’art. 5 della convenzione di Oviedo può prevedere puramente e semplicemente in quanto si riferisce genericamente a ‘un intervento nel campo della salute’,  esige la capacità di intendere e di volere; ed è questo a porre il problema circa la revoca del consenso nelle situazioni di fine vita, dato che nella gran parte dei casi tale capacità, a causa di una malattia giunta allo stadio terminale, sarà venuta a mancare. La volontà che sia stata manifestata mediante il testamento, detto di vita (living will) ma che piuttosto è di morte[47], sembra risolvere in anticipo il problema del fine vita, salva la difficoltà di individuare con precisione la situazione che dovrà essere riconosciuta come quella con riferimento alla quale il titolare dichiara di revocare il consenso al trattamento ovvero di non acconsentire al trattamento. Pure su questo terreno un problema comunque sorge: quello di chi debba ritenersi legittimato a inquadrare il caso concreto nella previsione, necessariamente generale e atecnica, che il paziente avrà fatto nel suo testamento di vita.

 

6. La vera difficoltà in tale frangente è costituita dalle situazioni in cui la vita non sembra affievolita al punto di dare corso alla volontà di morte onde sembri ancora prevalente l’obbligo del medico di continuare ad apprestare le cure del caso. Il dubbio essenziale che le caratterizza le rende simili a   quelle nelle quali il malato sia oramai insuscettibile di cura o questa non produca alcun effetto di recupero e la sopravvivenza del malato sia totalmente dipendente dall’assistenza medica, e manchi una volontà preterita, manifestata nel testamento di morte, che escluda l’intervento, così come la possibilità di una volontà presente che lo consenta. Qui l’assenza-impossibilità del consenso o di un consenso che si possa dire espresso in stato di piena capacità, fa emergere l’obbligo terapeutico nella sua purezza, rendendolo elemento esclusivo dal quale far dipendere  l’attuazione della cura. La posizione di garanzia nella quale si trova il medico come soggetto tenuto per la sua professione ad adottare tutte le misure terapeutiche suggerite dalle circostanze non solo lo giustifica in questo caso, ma lo obbliga. Essa pone però la domanda fino a qual punto la cosa possa durare, dato che il paziente viene a trovarsi in un frangente nel quale potrebbe revocare il consenso ma non è più in grado di farlo per essere in stato di incapacità. In questo caso ritenere che il medico mantenga a tempo indeterminato la sua  posizione di garanzia significa sostituire alla volontà del paziente quella del medico[48]. Tale conclusione è coerente solo nella prospettiva di chi ritiene che il diritto alla vita prevalga sull’autodeterminazione[49], ma  in tal modo giunge a far prevalere la volontà del medico su quella del paziente; posizione che trova sostenitori non solo in area cattolica, perché con essa paradossalmente concordano la posizione hegeliana, che dice indisponibile la vita, e quella di Stuart Mill che nega al titolare del diritto il potere di esercitarlo in senso contrario al diritto stesso: perciò la libertà contro la libertà, la vita contro la vita. In realtà, se rammentiamo quanto abbiamo detto a proposito del diritto alla vita come ius excludendi alios, dobbiamo concludere che il malato che rinuncia al trattamento che lo tiene in vita non chiede al medico di aiutarlo al suicidio, bensì revoca il consenso che giustifica l’intervento medico e senza del quale quest’ultimo costituirebbe una ingiustificata aggressione o violenza fisica, per esprimerci nei termini dell’art. 13, co. 3 cost. In questo senso quello che in dottrina è stato detto il diritto del soggetto a non curarsi e a lasciarsi morire[50] si può affermare quale elemento che concorre a comporre il contenuto del diritto alla vita[51].

Nell’ipotesi in cui il paziente non sia più in grado di manifestare la propria volontà, l’impossibilità di rifiutare l’intervento terapeutico pone il problema della modalità alternativa che costituisca l’equivalente della volontà del titolare oramai irrecuperabile.  In simile frangente, una presunzione di volontà contraria al trattamento non ha il conforto dell’id quod plerumque accidit, né può trarsi da atteggiamenti o opinioni del paziente, quella che ho chiamata ‘volontà per sentito dire’[52], viziata alla radice, ove pure fosse accertata, dalla diversità radicale di contesto. La volontà del paziente non sopporta neppure di essere sostituita da altra volontà, pur costituita in rappresentanza legale, cioè da chi sia titolare della potestà parentale, se si tratta di pazienti minori, o sia tutore o curatore speciale nel caso di conflitto di interessi tra il tutore e il soggetto rappresentato[53]. La ragione di questo sta, anzitutto, nella considerazione che una autodeterminazione che tale sia veramente non sopporta sostituzioni[54] ma casomai alternative: sta in questo punto la differenza specificante dell’autodeterminazione, come  determinazione circa sé, rispetto all’ordinaria autonomia privata; in secondo luogo, nell’inquadramento dell’autodeterminazione del paziente nella libertà personale. Di quest’ultima è regola fondamentale l’art. 13 cost., il quale a sua volta prevede soltanto limitazioni, cioè condotte di contrasto o di avallo di tale libertà, non di sostituzioni del titolare. E, come solo quest’ultimo può autodeterminarsi accettando le cure, così solo esso può rifiutarle[55]: altrimenti siamo fuori dall’autodeterminazione e il risultato diventa una mistificazione. 

Del tutto correttamente perciò la Cassazione, nella sentenza n. 21748/07, afferma che <il rifiuto delle terapie…anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per …eutanasia…esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale>[56]. Nell’impossibilità che questo accada per la sopravvenuta incapacità del soggetto, la disciplina della libertà personale indica la via da seguire per la cessazione della cura e anche per la cessazione pura e semplice dell’intervento medico che si limiti al puro tenere in vita il paziente. La limitazione della libertà personale che abbia come presupposto l’irrilevanza o l’assenza della volontà del soggetto non trova nell’ordinamento altra risposta che quella giurisdizionale. Lo dice in termini chiari l’art. 13, co. 2 cost., assoggettando qualsiasi restrizione della libertà personale a un ‘atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge’. Poiché il consenso del paziente come consenso dell’avente diritto non troverebbe modo per cessare in ipotesi nelle quali il soggetto, ove fosse capace di intendere e di volere, potrebbe ritirarlo, l’intervento medico che solo in tale consenso trova giustificazione, in mancanza di esso potrà cessare o continuare in virtù di un’autorizzazione proveniente dall’autorità giudiziaria. Senza bisogno di pensare a un procedimento più complicato di quello monitorio, si tratta di un esito necessitato una volta che si affermi, come ha fatto la Cassazione penale[57], che il consenso al trattamento medico-chirurgico <afferisce alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporea, le quali sono tutte profili  della libertà personale proclamata inviolabile dall’art. 13 Cost.>. 

 

7. Chiaramente la Cassazione fa eco a Corte cost.n. 471/1990, che come abbiamo visto ha incentrato il consenso del paziente all’intervento medico nell’art. 13 cost. L’espresso richiamo a tale norma  comporta che la si applichi integralmente in ciò che essa prevede. E questo è in particolare il potere dell’autorità giudiziaria di decidere sulla libertà personale, esonerando il paziente dalla soggezione alla terapia o confermandola. Su questo punto l’ordinamento mette in luce una lacuna della legge ordinaria, lacuna propria, non frutto della valutazione dell’interprete che, insoddisfatto di una disciplina esistente, ne trae un significato restrittivo collocando fuori da essa il caso da risolvere. L’unica regola invocabile in proposito, infatti, l’art. 5 c.c., che in altra sede[58] ho indicato come ostacolo a una volontà dello stesso paziente di interrompere ogni pratica che lo tenga in vita, risulta recessiva di fronte alla situazione attuale, nella quale la possibilità di dire no alla vita è andata avanti di conserva con lo sviluppo tecnologico e può riputarsi ignota al legislatore del 1942. In assenza allora di una legge ordinaria che disciplini la materia[59], l’autorità giudiziaria può dirsi investita di un potere decisorio conferitole direttamente dalla Costituzione e che, ove essa avesse avuto l’accortezza di metterlo in luce e di esercitarlo,  avrebbe evitato il giudizio sul conflitto di attribuzione che invece ne è conseguito[60].

Non è stata coerente la Cassazione quando, nella sentenza centrale sul caso Englaro[61], dopo avere affermato che <il carattere personalissimo  del diritto alla salute dell’incapace… non trasferisce sul tutore un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e completa incoscienza> (n. 7.3), e dopo avere continuato che <al giudice non può essere richiesto di ordinare il distacco del sondino naso gastrico…che in sé non costituisce oggettivamente una forma di accanimento terapeutico, e che rappresenta piuttosto, un presidio proporzionato>, ha ritenuto che <l’intervento del giudice … si estrinseca nell’autorizzare o meno la scelta compiuta dal tutore> (n. 8). L’incoerenza è doppia, in primo luogo perché la Corte, nel momento in cui autorizza il tutore stesso al distacco del sondino naso-gastrico, finisce con l’attribuire al tutore un potere che in principio gli ha negato; in secondo luogo perché essa fa ciò dopo avere detto che il sondino non costituisce accanimento terapeutico e anzi è presidio proporzionato. Tutto questo in una cornice nella quale la decisione circa il distacco viene erroneamente riferita al diritto alla salute mentre riguarda il diritto alla vita. Evidentemente i Supremi giudici hanno preferito l’incoerenza all’esercizio diretto ed esplicito del potere loro conferito dalla Costituzione, scegliendo il doppio schermo della volontà del tutore e della volontà presunta della paziente, ricavata dal <suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona> (n. 8). In tal modo la Suprema corte, in assenza di una norma di legge e senza neanche l’intervento della Corte costituzionale, ha esteso il potere di rappresentanza degli incapaci al diritto personalissimo della vita[62]. Dovendosi aggiungere, nel merito, che la Cassazione, nel momento in cui ha inteso fare da sé,  avrebbe dovuto assumere in proprio il metro della ‘dignità della persona’[63], che costituisce il nucleo del principio personalistico su cui si fonda l’intera Costituzione, e valutare se nel caso concreto l’alimentazione naso-gastrica potesse riputarsi in contrasto con esso.

Il secondo nodo della critica alla Suprema corte riguarda il luogo normativo intorno al quale essa ha elaborato la sua decisione: l’art. 32 cost. Tale norma,  lo abbiamo detto, non può ritenersi direttamente applicabile alle decisioni di fine-vita[64], sia perché la questione non era quella dei trattamenti sanitari obbligatori sia perché ad essere in gioco non era la salute ma il diritto alla vita. Della dignità comunque è funzione il rispetto della persona umana che l’art. 32 co. 2 prevede come limite che, per questo profilo opportunamente generalizzando, può essere riferito a ogni specie di trattamento sanitario.  Pur partendo dall’art. 32, la previsione di tale limite e l’assenza di un potere diverso da quello del titolare avrebbe dovuto indurre la Cassazione a negare la c.d. autorizzazione, in corollario della sua stessa affermazione che il sondino naso-gastrico non costituisce accanimento terapeutico e nella specie doveva ritenersi presidio proporzionato. La mancanza di una volontà reale della paziente ha caricato l’autorizzazione al distacco del significato di pura e semplice attribuzione al tutore del <compito di completare (l’) identità complessiva della vita del paziente>[65]: attribuzione invero taumaturgica, che si è tradotta in quel potere di disporre della salute della persona in stato di assoluta incapacità, che in principio[66]era stata negata.

Dunque sotto le specie di una autodeterminazione virtuale, in quanto nel caso concreto impossibile, si è giunti all’eterodeterminazione, la quale non trova alcuna giustificazione alla luce di quanto siamo venuti dicendo fin qui. Ci accorgiamo allora che autodeterminazione, al di là di ciò che è in grado di significare e che ci siamo sforzati di capire in questa sede, è una delle parole magiche che di quando in quando ricorrono per rappresentare un problema o la sua soluzione; e che finiscono con l’essere usate anche quando ciò che con esse si descrive è il suo contrario.

 

8. Questo paradosso è unicamente spiegabile come manifestazione del limite estremo cui può giungere la visione di un valore in chiave esclusiva e preclusiva di ogni altro, come un’assolutizzazione[67] che rende ragione dell’idea di esso come surrogato modano del trascendente in un mondo secolarizzato[68]. Infatti è solo nel momento in cui si rende assoluto e indiscutibile nel confronto con ogni altro, che il valore acquista completamente e pienamente  la medesima portata metafisica che nel contesto del trascendente si è disposti a riconoscere a Dio. Ma questo finisce con il contrastare con l’idea che sta alla base dell’instaurazione dei valori mondani come surrogato del trascendente, in quanto sostituisce al politeismo di valori, che pur si riconoscano gerarchicamente ordinati, il monoteismo trascendente, come accade quando un valore ed uno soltanto si elegga a presidiare uno spicchio di realtà.. E’ un esempio di sovraesposizione assolutizzante di un valore, di c.d. tirannia, espressiva di un valore che neutralizza tutti gli altri, diventando il gagliardetto di un’etica e dunque un’imposizione normativa, dato che ogni etica è normativa, tanto più quando asseverata dal diritto positivo. In realtà la stessa autodeterminazione, ove elevata a unico punto di riferimento per la discussione e la decisione di fine vita, diventa essa stessa etica, in tali termini imposta anche a coloro che considerino l’autodeterminazione come uno dei punti di vista, magari il più importante ma non l’unico, da tenere presente. Considerazione che si rivela utile per smontare il ricatto argomentativo che sia lo Stato etico l’approdo inevitabile di qualunque orientamento diverso dall’accettazione di una solipsistica autodeterminazione.

Ma l’autodeterminazione può essere tenuta in considerazione senza obliterare altri valori che pure affiorano altrettanto decisamente dalla Carta costituzionale, la quale quantomeno funge da fonte di accertamento dei valori ai quali si deve dire che il nostro ordinamento riserva ossequio. Un’autodeterminazione che si contrapponga al diritto alla vita, che pure indubitabilmente sottende  tutti i diritti[69] che nominatamente o desumibili da un’espressione normativa generale sono oggetto di contemplazione costituzionale, diventa un valore non credibile perché prova troppo. Se esistono diritti inviolabili, e tale è l’espressione dell’art. 2 cost., come può non essere inviolabile la vita che ne costituisce il necessario presupposto? Ed è possibile pensare che tale inviolabilità sia dovuta soltanto dagli altri mentre per il titolare essa è affatto disponibile?  Se la risposta a queste domande è negativa, come dobbiamo ritenere, assumere un’autodeterminazione assolutizzata diventa contraddittorio, e ragionevole appare l’idea di conciliare l’autodeterminazione con la vita, rendendo a ciascuna la misura sua propria. Evitare lo scontro irredimibile dei valori o la tirannia di uno di essi si può soltanto in quanto si determini lo spazio proprio di ciascuno, cosa che ne implica la reciproca delimitazione: precisamente coma accade tra i diritti di cui è intessuta la società, i quali per affermarsi senza entrare in conflitto e per persistere nella loro  pluralità necessaria hanno bisogno di una continua actio finium regundorum.

Nel caso dei diritti circa la propria persona, la mancanza di limiti che un’autodeterminazione assolutizzata farebbe ipotizzare, è smentita dall’art. 5 c.c. e dalle altre norme[70] che l’ordinamento è venuto adottando in funzione di eccezione al divieto degli atti di disposizione con esiti di mutilazione, le quali confermano la persistenza del divieto generale. Ciò sembra confermato dalla considerazione che, ove pure in corollario del principio personalistico si affermi la libertà di disporre del proprio corpo, questo non significa eliminazione del divieto di disposizione che abbia esiti definitivamente lesivi. L’art. 5 c.c. è ancora norma vigente nel nostro ordinamento, onde casomai si dovrebbe passare attraverso la dichiarazione di illegittimità costituzionale di tale norma per giungere all’idea di piena disponibilità del proprio corpo. Ma con riguardo al fine vita  la questione oggi si pone all’interno dei due poli, costituiti dall’art. 5 c.c. e dall’inesistenza di un divieto penale del suicidio. Da queste due norme sembra risultare che il rifiuto delle cure che metta a repentaglio la propria incolumità è illecito (cade sotto il divieto dell’art. 5), anche se non è sanzionato penalmente. L’atto di auto disposizione, dunque, non è giuridicamente irrilevante[71]: solo si tratta di stabilire in che senso. Se l’autodeterminazione non è altro che libertà circa sé, non può essere pensata senza limiti.

Qui sta un equivoco che, in fine di discorso va fatto rilevare: il poter pensare che essa, in quanto riferita allo stesso soggetto che ne è titolare, possa essere un assoluto del quale, così come accade nel mondo morale, non si può che prendere atto.  E’ la fallace trasposizione, dal piano della morale a quello del diritto, dell’affermazione di Kant, ricordata sopra[72], secondo cui «l’autonomia della volontà è quel carattere della volontà per cui essa è legge a se stessa».   Del resto lo stesso Kant, e sempre nella chiave della morale, afferma che «la volontà è pensata come una facoltà di autodeterminazione ad agire in conformità alla rappresentazione di certe leggi»[73]. E comunque, proprio in merito al fine vita, chiarisce senza equivoci che «la conservazione della propria vita è un dovere»[74],  articolando analiticamente l’affermazione: «Se per sfuggire a una situazione penosa (l’uomo) distrugge se stesso, egli si serve di una persona semplicemente come di un mezzo per mantenere una situazione sopportabile fino alla fine della vita. Ma l’uomo non è una cosa…deve esser sempre considerato come un fine in se stesso. Di conseguenza non posso assolutamente disporre dell’uomo nella mia persona per mutilarlo o danneggiarlo o ucciderlo»[75]

Dunque anche sul piano morale la volontà è legge a se stessa, ma nel contesto di certe leggi, alle quali essa non è in grado di sottrarsi. Quanto poi all’autodeterminazione in senso giuridico, se la radice è la stessa dell’autodeterminazione morale perché ambedue trovano unità nell’identità del soggetto, nel momento in cui diventa rilevante per il diritto (oggettivo) l’autodeterminazione non può non scontare la soggezione al limite, che caratterizza il diritto (soggettivo) in maniera trascendentale cioè essenziale[76]. Neppure la definizione di diritto in senso oggettivo può indurre a conclusione diversa, ove pure si voglia enfatizzare che il limite della libertà dell’individuo che ne costituisce l’essenza è pensato con riferimento alla libertà degli altri, laddove l’autodeterminazione, essendo prettamente individuale, escluderebbe in partenza il riferimento ad altri. In realtà non è così, quantomeno per il fine vita che non si esaurisce uno actu come nel suicidio classico, ma finisce con l’essere una sorta di suicidio che, se pur non è calatis comitiis, assume necessariamente rilevanza sociale nel momento in cui si può praticare soltanto in una dimensione relazionale che ha come altri poli soggettivi il medico e il più delle volte una famiglia in qualche misura partecipe. Sul terreno dell’autodeterminazione giuridica l’ordinamento deve allora reperire il surrogato della regola morale, in base alla quale la vita è un fine in sé. Se l’autodeterminazione è potere di disporre di sé in quell’area che abbiamo individuata tra indisponibilità (art. 5 c.c.) e non divieto di suicidio, tale surrogato trova il correlato nell’idea di responsabilità, che è categoria di sanzione della libertà: una responsabilità che se non si può tradurre in pena né in risarcimento perché soggetto attivo di essa e soggetto passivo coincidono, diventa autoresponsabilità come parametro di valutazione di un potere correttamente esercitato; e il rapporto tra libertà e responsabilità è connotato nel senso della conformità: tanto minore è la responsabilità quanto minore è lo spazio di libertà. Questo è un principio, che detto così risulta espresso in termini relativi, mentre in senso assoluto può essere detto adeguatezza ed esprime la razionalità pratica che governa gli ordinamenti e ne fornisce la legittimazione ultima. Esso presiede all’attività legislativa, per la quale la regola deve essere espressione della relazione migliore tra il fatto da qualificare e il valore alla luce del quale essa intende essere qualificazione; e diventa criterio per il giudice quando è al potere di quest’ultimo che si debba fare capo per autorizzare o impedire una determinata azione.

 

9. Abbiamo detto che uno degli equivoci che aleggiano intorno alla questione del fine vita è che quest’ultima possa essere risolta senza alcun riferimento a una morale; ulteriormente che tale riferimento implichi inevitabilmente la caduta nello stato etico. Ora che l’autodeterminazione non possa stare in un vuoto di discorso morale abbiamo visto poco sopra; quanto al richiamo allo stato etico, esso si rivela un ricatto argomentativo fondato sullo scambio indebito tra la distinzione del diritto dalla morale e l’estraneità. La distinzione fa parte ormai del bagaglio indiscutibile della riflessione sul diritto; l’estraneità fu bensì l’illusione del positivismo giuridico, che però il superamento di quest’ultimo coerentemente impone di considerare a propria volta superata. La pretesa neutralità assiologica del diritto è risultata infatti più una velleità di stampo scientista, rivelatasi tale sia sul piano filosofico, ove il diritto è emerso come risultato di vettori storicamente situati, sia sul piano metodologico quando ha cominciato a risultare falsa l’idea dell’interpretazione come pura parafrasi della legge, e l’irriducibilità dell’applicazione a puro sillogismo. «Comparata alla tesi positivistica della separazione, la materializzazione del diritto implica una sua ‘rimoralizzazione’, la quale, nella misura in cui l’argomentazione giuridica si apre a punti di vista di principi morali e di obiettivi politici, allenta il legame lineare della giustizia con il portato delle leggi»[77]. In particolare le costituzioni moderne possono essere lette come un catalogo nel quale sono confluite più o meno disordinatamente etiche materiali dei valori, a loro volta surrogati mondani del trascendente. E’ quella che tanti anni fa abbiamo chiamata ‘desecolarizzazione in senso debole’[78], con la quale intendemmo esprimere  dal particolare punto di vista dei rapporti tra cultura e trascendenza, il superamento del positivismo giuridico, inteso come fase storica nella quale si era verificata la pretesa sterilità assiologica del diritto mediata dallo spoglio di esso da qualsiasi velleità di fondazione ultramondana. Come è stato autorevolmente osservato, con un  pensiero che si pone in continuità con il precedente, «l’innovazione radicale della Costituzione è la stabilizzazione del punto di vista morale all’interno del diritto positivo»[79].

Se così è, non si può coerentemente pensare di adottare l’argomento ex Stato etico ogni volta che a riguardo del fine vita si prospetti una tesi che non accolga come valore assoluto l’autodeterminazione. Quest’ultima fa parte dei valori innestati nella Costituzione e perciò, come deve accadere per ciascuno di  questi, non può a propria volta ignorare gli altri, sicché quando ne ricorrano i presupposti essa deve entrare in quel contesto che si chiama bilanciamento[80], reso necessario dall’idea che i valori costituzionalizzati sono valori mondani e per definizione non assoluti, pena il ricadere nella idea di trascendenza che la loro mondanizzazione ha inteso superare. In realtà il rifiuto della c.d. tirannia dei valori è un corollario della negazione della loro trascendenza. In quanto ugualmente mondani, nessuno di essi può aspirare alla singolarità dell’Assoluto, la quale sarebbe contraddittorio appannaggio di una trascendenza negata in linea di principio.

Da questo punto di vista emerge come da un lato risolvere la questione del fine vita alla stregua dell’autodeterminazione assunta a unico valore possa risultare unilaterale e arbitrario; come, in secondo luogo, la rimessione al giudice quando ricorra il rischio di tale unilateralità sia il tramite mediante il quale il bilanciamento che abbiamo detto necessario unicamente può realizzarsi. Questo accadrà ogni volta che possa ricorrere il dubbio circa l’idoneità del soggetto a decidere da sé, dubbio dal quale possa derivare per il medico l’incertezza circa la conformità, dell’atto medico che ne seguirebbe, alle norme e agli obblighi professionali, secondo l’art. 4 della Convenzione di Oviedo[81]. E invero dal punto di vista dell’autodeterminazione in ipotesi del genere, poiché non è lo stesso titolare del diritto a poter decidere, sarebbe prima che iniquo non corrispondente alla realtà una attribuzione di senso a una autodeterminazione che non c’è. Se è concepibile che l’io costituisca l’orizzonte di riferimento di colui che decide circa sé, esso non può esserlo per definizione per chi decida per altri, il quale avrà anzitutto come orizzonte di riferimento il proprio io e quindi non potrà essere soggetto di una autodeterminazione della quale non sia il titolare.

Fermo restando allora che il soggetto in grado di decidere deve essere rispettato nella sua determinazione circa sé, la quale nei confronti di colui o coloro che apprestano le cure significa revoca della precedente accettazione, ogni volta che tale revoca si verifichi, il medico che debba dare esecuzione a tale volontà, ove non la ritenga seria o conforme al criterio di adeguatezza rispetto alla situazione, potrà rimettere la questione al giudice ex art. 13 cost. Analogamente, nel caso in cui il soggetto non sia più in grado di manifestare la propria volontà e altri chiedano, in luogo di lui, che si cessino gli apprestamenti in grado di tenere in vita il paziente. Da un lato, infatti, starebbe un’autodeterminazione ritenuta non autentica,  o che addirittura non c’è; dall’altra la posizione di chi «oggi (non) può essere obbligato ex lege a compiere le operazioni materiali necessarie per interrompere il trattamento sanitario in corso al posto dell’interessato impossibilitato a compierlo»[82].

Certo, morire può essere una cosa difficile, ma morire per scelta lo è ancora di più.

 

 

 


 

[1] Vero e proprio apostolo, sul terreno morale e su quello politico, ne può essere detto Giuseppe Mazzini: cfr. L. Salvatorelli, Pensiero e azione del risorgimento, Torino, 1963, p. 95; J. Bowle, Storia d’Europa,tr. it., III, Milano 1982, p. 260.

[2] F. Schulz, I principi del diritto romano, tr. it., rist., Firenze, 1995, p. 122.

[3] D. I,5,4: Libertas est naturalis facultas eius quod cuique facere libet, nisi si quid vi aut iure prohibetur.

[4] J. S. Mill, La libertà e altri saggi, ed. it. a cura di P. Crespi, Milano, 1946, p. 155.

[5] I. Kant, La metafisica dei costumi, tr. it., Bari, 1970, p. 34 s.

[6] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it. P. Chiodi, Bari, 1980, p. 76: <L’autonomia della volontà è quel carattere della volontà per cui essa è legge a se stessa>.

[7] System des heutigen römischen Rechts, I, Berlin, 1840,  § 53. Ho preferito adottare una traduzione che si discosta da quella, pur ottima, di Vittorio Scialoja.

[8] ‘Il diritto privato del mio e del tuo esterni’ costituisce la parte prima della dottrina generale del diritto di Kant. V. I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto2, tr. it. G Solari e G. Vidari, Torino, 1965, p. 423 s.

[9] H. Grotii, De iure belli ac pacis, n. ed., Lugduni Batavorum, 1939, II,XVII, II.

[10] System, cit., § 53 (a), ove si cita Hegel, Naturrecht, §  70.

[11] F.G. Hegel, Linamenti di filosofia del diritto,§70 (ed. it. a cura di V. Cicero, Milano, 1996, p. 173).

[12] Windscheid, Pandette, ed. it. a cura di Fadda e Bensa, I, § 40.

[13] Op. ult. cit., § 38, testo e nota 3. Anche questa idea del diritto soggettivo si può fare derivare da Kant, Scritti politici ecc, cit., p. 428, il quale definisce il mio esterno ( la proprietà) come <quello di cui non mi si può impedire l’uso senza offendermi>.

[14] Windscheid, Pandette, § 37.

[15] Il quale (cit. da Windscheid, op. cit., § 38, nt. 3) definisce il diritto soggettivo  ‘Loch in Centrum eines Normenkreises’. W. dice che a tale concetto si accosta piuttosto la definizione che Thon dà a sua volta del diritto soggettivo. Ma si tratta di sfumature. In verità, come risulta dal dialogo che egli intreccia su questo punto con altri autori, Windscheid si trova in mezzo tra la sua definizione originaria di diritto soggettivo come potere o signoria della volontà (formulata nel paragrafo iniziale della trattazione: §37) e quella di autori successivi, come appunto Thon, i quali spostano il fuoco della definizione sul diritto oggettivo come fonte di divieti dai quali è escluso solo il titolare del diritto soggettivo.

[16] Questo fascio di poteri diventa invece, secondo S. Schlossmann, Der Vertrag, Leipzig, 1876, p. 250, 261, il significato più pregnante di diritto soggettivo, il quale però in tal modo diventa soltanto un ‘terminologisches Hilfsmittel). 

[17] Windscheid, Pandette, cit., §40, testo e nt. 1.

[18] K. Larenz, Allgemeiner Teil des deutschen Bürgerlichen Rechts2, München, 1972, p. 29, definisce, potremmo dire per l’oggi, il diritto soggettivo ‚das berechtigte Verlangen’. Ma la pretesa è propria del diritto di credito,, mentre nei diritti assoluti  essa, come pretesa di rispetto nei confronti dei terzi, è il riflesso di rilevanza dell’interesse del titolare, nella quale sembra anzitutto consistere il diritto, il quale allora è in primo luogo signoria, non più della volontà, bensì nei limiti e con i contenuti fissati dall’ordinamento.

[19] Sistema, cit.,§ 94.

[20] F. Filomusi Guelfi, Enciclopedia giuridica, Napoli, 1910, p. 190 s.

[21] Op. ult. cit., p. 194 s.

[22] Etica nicomachea, III, 7, 1116 a,12 (tr. A. Plebe, Bari, 1979, p. 67).

[23] K. Jaspers, Verità e verifica, tr. it., Brescia, 1986, p. 237.

[24]  E’ esattamente quello che afferma S. Rodotà, La vita e le regole, Milano, 2006, p. 248: «Il morire è sempre più governabile dall’uomo, appartiene alla sua vita, e dunque rientra nell’autonomia delle scelte di ciascuno». Non è  il fatto che sia più governabile che lo faccia rientrare nell’autonomia: lo è sempre stato; solo, adesso può fruire di forme più sofisticate. E pure parlare di suicidio assistito è, secondo F. D’Agostino, Introduzione alla biopolitica, Roma, 2009, p. 29, un eufemismo.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        

[25] Tale esito si intravede nell’idea che ‘come non ogni omicida è un assassino, non ogni suicida è colpevole di peccato mortale’, formulata da J.L.Borges, Altre inquisizioni, tr. it., Milano, 2000, p. 95 s., a commento della frase del poeta inglese J. Donne, posta a sottotitolo della sua opera Biathanatos,’That Self-homicide is not so naturally Sin that  it never be otherwise’. Borges ricorda anche come Epitteto e Schopenhauer abbiano difeso il suicidio, e Sant’Agostino  considerasse Sansone, morto per sua volontà insieme ai Filistei, non colpevole della morte di questi né della propria in quanto guidato da un’ispirazione dello Spirito Santo.

[26] G. K. Chesterton, L’ortodossia,  tr. it., Brescia, 1960, p. 128, il quale, a proposito del detto evangelico ‘colui che getterà la sua vita, quegli la salverà’, aggiunge: <In questo paradosso è tutto il principio del coraggio>.

[27]  Cfr.  B. Montanari, Libertà, responsabilità, legge, in Id. Luoghi della filosofia del diritto, Torino, 2009, p. 52.

[28] Peraltro si deve fare distinzione tra una prospettiva meramente libertaria e una autenticamente liberale: «Per i libertari il fatto che una scelta sia autonoma, la rende…insindacabile…Per la tradizione liberale, invece, l’autonomia è un valore solo se dialetticamente connessa al suo corretto determinarsi» ( D’Agostino, Introduzione alla biopolitica, cit., p. 25).

[29] Anche F. Gazzoni, Sancho Panza in Cassazione, in Dir. fam. pers. 2008, p. 109 s., in critica a Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, ivi, p.77 s., ritiene che l’art. 32 cost. sia ‘una coperta troppo corta’. Sul concetto di fine vita, v. S. Patti, La fine della vita e la dignità della morte, in Famiglia, persone e successioni, 2006, p. 390 s.

[30] Non mi pare che l’art. 32 cost. sia suscettibile della reinterpretazione, in grado di farlo diventare il polo costituzionale dell’autodeterminazione terapeutica, tentata da G.U.Rescigno, Dal diritto di rifiutare un determinato trattamento sanitario secondo l’art. 32, co. 2,  cost, al principio di autodeterminazione intorno alla propria vita, in Dir. pubbl., 2008, p. 85 s.

[31] C. Castronovo, Dignità della persona e garanzie costituzionali nei trattamenti sanitari obbligatori, in Jus, 1990, p. 194, nt. 15. In senso conforme A. Nicolussi, Al limite della vita: rifiuto e rinuncia ai trattamenti sanitari, in Quaderni costituzionali, 2010, p. 277, nt. 30. Contra: Cass. n. 21748/2007, n. 61, la quale afferma che <il diritto del singolo alla salute…come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute.>. Ma perdere la salute non è lo stesso che perdere la vita. Secondo F. Modugno, I «nuovi diritti» nella giurisprudenza costituzionale, Torino, 1995, p. 70, <il diritto alla salute presenta la stessa struttura del diritto di libertà personale: il bene protetto è lo stesso…diverse sono le attività o le condotte pregiudizievoli o pericolose>. In questo modo, però, a me pare si obliteri la differenza fondamentale consistente nella natura di mera difesa, che caratterizza il diritto di libertà, e quella di promozione, implicante prestazioni  tipiche dei diritti sociali, che caratterizza il diritto alla salute.

[32] Castronovo, Dignità, cit., p. 194. La distinzione tra i due piani, di libertà e di diritto socialmente rilevante, quale è la salute, rispettivamente fissati all’art. 13 e all’art. 32 cost. non è ben chiara a Cass.16 ottobre 2007, n. 21748, nella lettura della quale l’art. 32 cost. finisce con l’essere una ripetizione dell’art. 13 riferito alla salute. Sulla scia di tale sentenza, anche T. Pasquino, Autodeterminazione e dignità della morte, Padova, 2009, p. 25 s., 53.

[33] La libertà, cit., p. 155.

[34] Cfr. Nicolussi, Lo sviluppo della persona umana come valore costituzionale e il cosiddetto biodiritto, in questa Rivista., 2009, p. 25.

[35] Dice Nicolussi, Rifiuto e rinuncia, cit., p. 278, che <se…la salute viene ridotta a mera proiezione della volontà soggettiva non è più possibile concepire una tutela pubblica della sanità>.

[36] C. Castronovo, Il danno biologico a causa di morte aspettando la Corte costituzionale, in Vita not., 1994, p. 557.

[37] Secondo la Corte cost. (n.258/1994 e n. 118/1996), richiamata in questo senso da Cass. n. 21748/2007, cit., n. 6.1, i trattamenti sanitari obbligatori hanno in vista la tutela della salute altrui messa a repentaglio dallo stato di salute del singolo.

[38] Cfr.  G. Amato, Commentario della costituzione, Rapporti civili, Bologna-Roma 1977, sub art. 13, p. 51, il quale sotto l’etichetta ‘altre restrizioni’ alle quali l’art. 13 cost. può essere applicato, fa riferimento anche a <quelle strumentali ai trattamenti sanitari>, precisando che l’art. 32 cost. <prevede soltanto una riserva di legge per la sottoposizione obbligatoria ai trattamenti>, e ipotizzando l’intervento del giudice a tutela della libertà personale nei trattamenti non obbligatori come frutto di un ‘combinato disposto’ dell’art. 13 e dell’art. 32 cost.

[39] Sottovaluta la portata dell’art. 13, sequestrandolo entro l’ambito giuridico-penale, Cl. Sartea, Fine vita: cronache perplesse dal dibattito mediatico sulla fase legiferante, in Iustitia, 2009, p. 195, laddove all’interpretazione sistematica da tale a. privilegiata  può ben essere contrapposta quella letterale, dalla quale emerge che i commi 1 e 4 dell’articolo consentono di essere intesi evolutivamente nel senso suggerito da noi, mentre il riferimento del comma 2  a ‘qualsiasi altra restrizione della libertà personale’ ben si attaglia alla situazione del paziente istituzionalizzato all’interno di una struttura ospedaliera.

[40] Mill, La libertà, cit., p. 155: <Non è libertà il poter rinunciare alla propria libertà>.

[41] Al quale invece si finisce con il giungere, adottando un modello neoliberale di libertà personale considerata in chiave puramente formale, come spazio di non oltrepassabilità ab extrinseco, laddove un diritto che sia pienamente tale va definito nel suo contenuto. Questo almeno dal momento in cui gli ordinamenti hanno intrapreso ad occuparsi della vita materiale, per la quale i diritti in senso formale risultano inadeguati  perché il buco nero nel quale consistono significa una abdicazione rispetto alla realtà che essi oramai si dicono orientati a  cogliere.

 

[42] Ho espresso questa idea in altra sede, Il negozio giuridico dal patrimonio alla persona, in Europa dir. priv., 2009, p. 104 s., ove peraltro la indisponibilità del diritto alla vita emergeva come limite non superabile dagli atti di disposizione del proprio corpo anche nel caso di fine vita. E pure il consenso dell’avente diritto incappa nel limite della indisponibilità del diritto: cfr. M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 2004, sub art. 50, p. 529 s. Ma, come risulta da quanto viene detto nel testo, il rifiuto delle terapie è atto molto meno impegnativo, che però si rivela capace di esiti ben più dirompenti.

[43] Parla di ‘ovvietà’  Gazzoni, Sancho Panza in Cassazione, cit., p. 108, a proposito dell’affermazione di Cass. n. 21748/2007, cit., n. 6.1, secondo cui <il Collegio ritiene che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva>.

[44] Tale differenza viene specialmente orientata sul piano della rilevanza giuridica dalla considerazione che la rinuncia al trattamento quasi inevitabilmente implica un atto positivo del medico: così A. Nicolussi, Rifiuto e rinuncia ai trattamenti sanitari, cit., p. 279 s. Tale orientamento è uno dei due che emergono dal documento del Comitato nazionale per la bioetica, Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione medico-paziente, par. 3.  L’orientamento contrapposto riconosce  comunque il diritto all’autodeterminazione, ma quest’ultimo può essere esercitato solo nelle situazioni di capacità del soggetto.

[45] F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, 1951, p. 146; e v. la critica di L. Mengoni, L’oggetto dell’obbligazione, in Jus, 1952, p. 160.

[46] Nelle parole di Cass. n. 21748/2007, n. 6.1, <il consenso informato ha, come correlato, la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale>. Tale affermazione necessita soltanto del chiarimento che il potere formale di accettazione e di revoca del trattamento non abbisogna dell’informazione: quest’ultima rileva soltanto ai fini di una eventuale responsabilità del medico che abbia indotto il paziente a decidere senza piena consapevolezza. Non si può neppure parlare di omicidio del consenziente, giustificato dall’esercizio di un dovere imposto da una norma giuridica (così Rescigno, Dal diritto di rifiutare, cit., p. 94 s., che ritiene necessario combinare l’art. 579 con l’art. 51 c.p.). La condotta che giunge alla cessazione dell’intervento non è quella del medico, che si tratta allora di giustificare, bensì del paziente il quale, avendo il diritto di rifiutare, impone al medico di dare ad esso attuazione,  compiendo quanto è necessario in tal senso.

[47] Cfr. Castronovo, Il negozio giuridico dal patrimonio alla persona, cit., p. 109 s.,

[48] M. Bertolino, Suicidio (istigazione o aiuto al),  in Digesto/pen., XIV, Torino, 1999, p.121.

[49] L. Eusebi, Omissione dell’intervento terapeutico ed eutanasia, in Arch. pen. 1985, p. 527.

[50] F. Mantovani, Eutanasia, in Digesto/pen., IV, Torino, 1990, p. 417 ss.  Per le connessioni tra eutanasia e rilevanza penale del suicidio, v. Bertolino, Suicidio (istigazione o aiuto al), cit., p. 120 s.

[51] In proposito, non sembra accettabile l’affermazione di Gazzoni, Sancho Panza, cit., p. 109, secondo il quale la rimozione del sondino naso-gastrico da parte del medico, in presenza di una volontà del paziente in tal senso, costituirebbe condotta commissiva da qualificarsi quantomeno concausa della morte, e perciò imputabile a titolo di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), o addirittura causa esclusiva di essa, imputabile allora a titolo di omicidio. In realtà, in presenza di una precisa volontà del paziente di sottrarsi a un intervento medico ritenuto oramai inutile e fonte di una situazione degradante, il medico si limita a dare esecuzione al rifiuto del paziente,  che lo stesso Gazzoni non mette in discussione.

[52] Il negozio giuridico dal patrimonio alla persona, cit., p. 109.

[53] In merito, peraltro, non si comprende come, sull’assunto <della non configurabilità…di un generale potere di rappresentanza in capo al tutore con riferimento ai c.d. atti personalissimi>, Cass. 20 aprile 2005, n. 8291 abbia potuto concludere che al compimento di un atto personalissimo come la scelta di morire in assenza di alimentazione potesse  provvedere un curatore speciale, la cui nomina risolve il conflitto di interessi tra tutore e rappresentato ma non è certo in grado di attribuirgli un potere più ampio di quello riconoscibile in capo al tutore. Contrasta con questa osservazione ovvia la lettura, non precisamente pacata, di Gennari, La protezione della autonomia del disabile psichico nel compimento di atti di natura personale, con particolare riferimento al consenso informato, in Familia, 2006, p. 753, 755, nt. 60, il quale dopo avere riferito l’assunto della Corte qui riportato, contraddittoriamente conclude che per essa  il problema non è se l’incapace possa essere rappresentato negli atti personalissimi, ma se possa farlo il rappresentante legale o uno speciale. 

[54] Cfr. F.D.Busnelli, Il caso Englaro in Cassazione, in Fam. Pers. Succ., 2008, p. 966 s., il quale tra i principi  di una disciplina da venire per il testamento biologico include la non sostituibilità, nell’esercizio dell’autodeterminazione, dell’infermo di mente (ma questo si dovrebbe dire per tutti i casi di incapacità di intendere o di volere) da parte del rappresentante. Dopo avere difeso, però, la sentenza della Cassazione n. 21784/2007, la quale inciampa, come diciamo di seguito nel testo, appunto sull’attribuzione al rappresentante del potere di decidere l’interruzione del trattamento.

[55] E certo, come dice Gennari, op. cit., p. 753, <consenso informato e rifiuto informato sono…due facce di un identico problema>, ma solo se riferite a scelte omogenee, quali certamente non sono l’intervento medico volto a migliorare la salute del paziente e quello in mancanza del quale ne va della vita. Nel secondo caso nessuna rappresentanza può essere ipotizzata, perché sarebbe come affermare un potere di… suicidare un altro: che è una contraddizione.

[56] Cass. n. 21748/2009, n.6.1. Ma la libertà negativa come esenzione dall’obbligatorietà dei trattamenti non significa in positivo libertà di morire.

[57] Cass. pen. sez. IV, 11 luglio 2001- 3 ottobre 2001, richiamata da Cass. n. 21748/2007, cit., n. 6,

[58] C. Castronovo, Il negozio giuridico dal patrimonio alla persona, cit., p.108.   

[59] Anche Rescigno, Dal diritto di rifiutare, cit., p. 89, rileva una lacuna della legge ordinaria a riguardo dell’ipotesi in cui la decisione circa il fine vita riguardi un soggetto incapace. E’ corretto affermare che l’art. 32, co. 2 cost. «non è sufficiente per fondare un diritto soggettivo come pretesa immediatamente giustiziabile». Ma questo conferma che la prospettiva che muove dall’art. 32, in materia di fine vita non è quella giusta

[60] Definito da Corte cost. 8 ottobre 2008, n. 334, ord. Alla Cassazione, così come a coloro che ancorano l’autodeterminazione circa il fine vita  all’art. 32 cost., sembra sfuggire che tale norma non prevede alcun potere dell’autorità giudiziaria in materia di scelte terapeutiche, onde questa autoattribuzione di un potere che la norma stessa non prevede, avrebbe potuto spiegare la posizione del conflitto di attribuzione. Secondo Gazzoni, Sancho Panza in Cassazione, cit., p. 125, tale conflitto trova radice nella rilevanza attribuita dalla Cassazione, la quale si sarebbe con questo sostituita al legislatore, alla volontà ipotetica della degente.

[61] Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748. Centrale perché sta in mezzo tra Cass. 20 aprile 2005, n. 8291  e Cass. 13 novembre 2008, n. 27145;e anche perché, diversamente dalla altre due, affronta nel merito la questione del fine vita.

[62] A. Nicolussi, Lo sviluppo della persona umana, cit., 35. Sugli aspetti di metodo e le implicazioni di sistema della pronuncia della Cassazione, mi sono soffermato in Scienza giuridica e prassi nella moltiplicazione dei poteri, in questa Rivista, 2010, 487 s.

 [63] Contra: G.Cricenti, I diritti sul corpo, Napoli, 2008, p. 198 s., il quale per evitare che la dignità diventi tramite di un obbligo dell’individuo di rispettare la propria umanità, finisce con l’assorbire la dignità nell’autodeterminazione. Ma si tratta di due valori diversi.

[64] Anche quando si condivida l’idea di Modugno, I “nuovi diritti”, cit., p. 70, secondo cui «il diritto alla salute presenta la stessa struttura del diritto di libertà personale».

[65] Cass. cit., n. 7.5. Nella successiva Cass. 15 settembre 2008, n. 23676, riguardante un caso di trasfusioni di sangue senza il consenso del paziente, testimone di Geova, la Suprema corte ha affermato, in maniera specularmente opposta a Cass. n. 21748/2007,  che un rifiuto a priori di trattamento terapeutico, non sostenuto da adeguata informazione la quale soltanto rende serio il consenso,  non può ritenersi validamente prestato, occorrendo una manifestazione di volontà attuale, dello stesso paziente o di persona da esso nominata ad hoc. Questo vero e proprio contrasto giurisprudenziale (cfr. Pasquino, Autodeterminazione e dignità della morte, cit., p. 105 s.), si può spiegare soltanto alla luce della considerazione sostanziale che nel caso della trasfusione rifiutata il soggetto non intende  morire onde l’argomentare dei giudici è stato orientato a tale esito. E’ un chiaro esempio di argomentazione orientata alle conseguenze, come ce l’ha insegnata L. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, p. 115 s.

[66] Cass. cit., n. 7.3

[67] Secondo la rilevazione che ne ha fatta Nicolussi, Lo sviluppo della persona, cit., p. 9 s., a proposito dell’autonomia privata.

[68] Cfr. L. Mengoni-C. Castronovo, Profili della secolarizzazione nel diritto privato, in Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, a cura di L. Lombardi Vallauri,  Milano, 1981, p. 1194 s.

[69] Il c.d. Urrecht, il diritto soggettivo originario, come lo chiama Savigny, System, cit., § 53.

[70]V. per tutti, C. D’Arrigo, Autonomia privata e integrità fisica, Milano, 1999, p. 38 ss. Contrastano però con l’origine della norma codicistica e con la successiva  adozione di regole speciali la negazione che la prima contenga una norma generale e l’affermazione che essa sia da ritenere piuttosto una norma di chiusura (op. cit., p. 93), nonostante il necessario reinquadramento nelle norme costituzionali.

[71] Op. ult. cit., p. 225 s.

[72] V. supra, nt. 5.

[73] Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 58.

[74] Op. ult. cit., p. 17.

[75] Fondazione, cit., p. 61, ove di seguito la precisazione circa la possibilità della mutilazione per sopravvivere e del rischio della vita per salvarla.

[76] Mengoni-Castronovo, Profili della secolarizzazione nel diritto privato, cit., p. 1192, ricordano che l’aporia tra imperativo categorico e conformità alla regola giuridica viene risolta dai giuristi che pur muovono dalla kantiana autonomia della volontà, semplicemente «accantonando l’imperativo categorico come elemento giuridicamente non adattabile».

[77] J. Habermas, Faktizität und Geltung4, Frankfurt a. Main, 1994, p. 301.

[78] Mengoni- Castronovo, Profili della secolarizzazione nel diritto privato,cit. , p. 1198.

[79] L. Mengoni, Note sul rapporto tra diritto e morale, in Iustitia, 1998, p. 311.

[80] Cfr. Modugno, I “nuovi diritti”, cit., il quale considera il bilanciamento con la preoccupazione di fissare il limite opposto, che è quello oltre il quale il valore risulti neutralizzato.

[81] Conformità opportunamente richiamata da Nicolussi, Rifiuto e rinuncia ai trattamenti sanitari, cit., p. 280, come limite al consenso ‘puro’, di cui all’art. 5 della medesima Convenzione. Come diciamo nel testo, detto limite diventa attuale tutte le volte che il consenso nelle circostanze possa non apparire attendibile.

[82] Rescigno, Dal diritto di rifiutare un determinato trattamento sanitario, cit. p. 93.

 

Legislazione e normativa nazionale

Dottrina e sentenze

Consiglio Ordine Roma: informazioni

Rassegna stampa del giorno

Articoli, comunicati e notizie

Interventi, pareri e commenti degli Avvocati

Formulario di atti e modulistica

Informazioni di contenuto legale

Utilità per attività legale

Links a siti avvocatura e siti giuridici