sed
desperatis etiam Hippocrates vetat adhibere medicinam
(Cicerone ad Attico,
epistola 426, in Epistole ad Attico,
a cura di C. Di
Spigno)
sommario: 1.
L’autodeterminazione come autonomia circa sé; 2.
Suicidio e libertà di morire; 3. Diritto alla salute
e
diritto alla vita; 4. Autodeterminazione e libertà
personale; 5. Rifiuto e rinuncia del trattamento medico;
6. Volontà di morire e sua insurrogabilità; 7. Il caso
Englaro e le contraddizioni della Cassazione; 8.
L’autodeterminazione come esempio di valore assunto in
termini assoluti; 9. La mediazione, quando necessaria,
tra autodeterminazione e situazioni di garanzia nel
fuoco della tutela giurisdizionale.
1. Autodeterminazione
è parola che nasce a metà dell’ottocento a indicare il
diritto degli individui e delle nazioni di scegliere da
sé medesime il proprio destino.
La libertà a riguardo di se stessi, che essa significa,
fa sì che la si trovi utilizzata
come sinonimo della
stessa libertà a seconda dei contesti e delle lingue. In
proposito è degno di nota che, nel definire la libertà
secondo i romani, Fritz Schulz la identifichi con il
Selbstbestimmungsrecht, il diritto di
autodeterminazione, di cui dice
che a sua volta
significa l’essere privo di padrone: non mai il potere
di fare o non fare a proprio piacimento, perché <nel
concetto romano di libertà è immanente l’idea della
limitazione>.
Invero nella celebre definizione di Fiorentino,
che
egli stesso cita, si trova sia l’aspetto positivo
sia l’aspetto del limite. Quest’ultimo è ovvio anche per
i moderni. Il maggiore cantore moderno della libertà, John Stuart Mill,
non ha infatti difficoltà ad ammettere che <le necessità
della vita
esigono continuamente non che noi rinunciamo
alla nostra libertà, ma che consentiamo a lasciarcela
limitare in un modo o nell’altro>. Con questo la libertà
e il diritto come ordinamento risultano richiamarsi
vicendevolmente, come non altri che Kant
ha potuto mettere mirabilmente in evidenza nella sua
celebre definizione del diritto come l’insieme delle
condizioni nelle quali l’arbitrio del singolo diventa
compatibile con l’arbitrio di un altro secondo una legge
universale di libertà. La libertà esige l’ordine
giuridico quale necessario orizzonte di certezza,
l’ordine giuridico ha nella libertà da garantire e
disciplinare la ragione ultima del suo essere.
Dalla prospettiva del
diritto civile l’autodeterminazione evoca l’autonomia
come potere dinamico del soggetto a riguardo della sua
sfera giuridica. Ma, nonostante abbia la propria radice
filosofica
* Questo scritto
prende spunto dalla Relazione al Convegno dei giuristi
cattolici su L’autodeterminazione, Roma, 5-7
dicembre 2009.
nella kantiana
autonomia della volontà,
da cui origina la visione moderna di quella che i
privatisti
chiamano autonomia
privata, l’autodeterminazione non compare nella teoria
classica del negozio
giuridico come
determinazione della volontà volta a produrre effetti
giuridici. E neppure nella più
sofisticata teoria
che, appunto sotto il nome di autonomia privata, nel
novecento aggiorna quella del negozio giuridico nel
senso di enfatizzare l’aspetto funzionale (produzione
di effetti giuridici) rispetto a quello
contenutistico (della signoria
della volontà), si
rinviene alcun cenno alla persona che possa riguardarla
alla stessa maniera in cui il potere di disporre si
riferisce ai diritti sulle cose in prospettiva dinamica.
Nel diritto privato la
persona come tale viene invece originariamente in
considerazione nella prospettiva dei diritti, in
risposta alla domanda se il soggetto di diritto possa
dirsi titolare di diritti sulla propria persona.
Dice Savigny:
<Secondo una dottrina molto diffusa l’uomo avrebbe sulla
propria persona un diritto che in maniera necessitata
comincia con la sua nascita e non viene meno fino a
quando esso vive, onde viene detto anche il diritto
originario…Se,
per rendere questa dottrina più
comprensibile, si dice che l’uomo ha la proprietà del
suo essere materiale, del suo corpo e delle sue membra…
tra le altre conseguenze questo implicherebbe la
legittimazione al suicidio…. (però) senz’altro non
si
può disconoscere che l’uomo disponga di se stesso e
delle sue facoltà…Questo potere è invero la base e il
presupposto dei diritti in senso proprio. Il punto di
partenza di parecchi istituti del diritto positivo …è in
effetti la protezione di questo
potere naturale
dell’uomo sulla propria persona contro le aggressioni
esterne>. Da qui emerge l’idea dei diritti della
personalità connotati dall’assolutezza propria dei
diritti reali: il diritto originario sul proprio corpo
significa essenzialmente ius excludendi alios.
Questo emerge anche dalla citazione che Savigny fa di
Donello, per il quale esistono, secondo una distinzione
che arriva fino a Kant
(che chiama la proprietà ‘il mio e il tuo esterni’) due
specie di nostrum: in persona cujusque et in
rebus externis, ponendo nella prima specie vita,
incolumitas corporis, libertas, existimatio.
L’equiparazione delle due specie sul piano della tutela
chiarisce quanto abbiamo appena detto: che i diritti
sulla propria persona vengono concepiti come sinonimo di
una sfera di intangibilità, di affermazione della
persona nella sua integrità e incolumità nei confronti
delle aggressioni altrui. Questo vale per l’individuo
anzitutto nei confronti di se stesso, secondo quanto
afferma Grozio: <Natura homini suum est vita, non quidem
ad perdendum, sed ad custodiendum, corpus, membra, fama,
honor, actiones propriae>.
L’idea che non ci
possa essere un diritto sulla propria persona che ne
significhi altresì, alla stregua dei diritti sulle cose,
la disponibilità Savigny
la trae da Hegel, il quale nei Lineamenti di
filosofia del diritto
afferma che «la vita non è esteriore rispetto alla
personalità… l’alienazione o sacrificio della vita è
piuttosto il contrario dell’esistenza di questa
personalità; Io, pertanto, propriamente, non ho alcun
diritto a tale alienazione… la morte è la negatività
immediata della vita stessa… pertanto, dev’essere subìta
o dal di fuori come una cosa naturale, o al servizio
dell’Idea etica, da mano estranea».
Il diritto sulla
propria persona come ius excludendi alios, così
come lo abbiamo individuato in Savigny viene altrimenti
affermato da Windscheid, che idealmente chiude la
stagione ottocentesca iniziata con il padre della Scuola
storica. Invero Windscheid formula la sua posizione in
maniera duplice. Egli dice :<Quando si chieda se vi
siano diritti sulla propria persona, il senso di questa
domanda …può essere soltanto quanto si è già osservato
[nella definizione del diritto reale]: se …la volontà
del titolare è decisiva per la …persona di lui>.
E qui il riferimento potrebbe supporsi alla libertà di
disporre di sé. Ma proprio nel definire il diritto
reale, W. ha affermato che <il contenuto del potere
volitivo, che costituisce il diritto reale, è negativo:
quelli che si trovano di fronte al titolare del diritto
devono astenersi da qualsiasi azione…non devono impedire
l’azione del titolare sulla cosa>, concludendo che <il
diritto reale contiene solo divieti>.
E’ il diritto soggettivo di nuovo come puro ius
excludendi alios, nel quale finisce per consistere
quello che pure viene definito una potestà o signoria
della volontà, cui l’ordinamento fornisce il suo
riconoscimento;
diritto soggettivo che, secondo l’immagine di Binding,
è un buco, un buco nero, diremmo noi che l’aggettivo
abbiamo aggiunto senza necessità, intorno al quale sta
un alone di poteri
organizzati a difesa. E di fronte a tale immagine ci si
può chiedere che cosa ci sia da difendere, se veramente
ciò che si vuole difendere è uno spazio vuoto.
Windscheid perciò
conclude, con riguardo al diritto sulla propria persona,
che esso significa che l’ordinamento munisce il titolare
di divieti verso coloro che gli stanno di fronte. Però
subito dopo ritiene che si possa giungere ad affermare
un diritto alla vita, all’integrità corporale e a
disporre del proprio corpo senza ostacoli (libertà). Un
tale diritto, egli dice, non equivale ad affermare un
diritto al suicidio, ma soltanto che <il suicida non
commette un’ingiustizia a danno degli altri>.
Ma un diritto che si limiti ad essere l’assenza di un
diritto contrario in capo ad altri è un diritto misero,
da potere della volontà atto a manifestarne la signoria
, scema a mera libertà, a pura
facultas. Si tratta, allora, di quella libertà che
Savigny
chiama <facoltà di scelta tra diverse determinazioni
possibili>.
2. La definizione di
libertà tramandataci da Fiorentino, come facoltà di fare
ciò che ciascuno vuole, salvo che la forza o il diritto
non lo impedisca, trova eco nella Dichiarazione dei
diritti dell’uomo del 26 agosto 1789, la quale all’art.
4 proclama che <la libertà consiste nel poter fare
tutto ciò che non nuoce ad altri>, aggiungendo che
<l’esercizio dei diritti naturali…non ha altri limiti
che quelli che assicurano agli altri membri della
società il godimento di questi stessi diritti>.
Filomusi Guelfi,
autore di una celebrata Enciclopedia giuridica,
come si chiamava allora il corso di introduzione alla
scienza giuridica, afferma che <la prima pretensione
che l’uomo affaccia si manifesta come supremo diritto di
libertà >.
Ma subito aggiunge che la ‘determinazione’ di detto
diritto di libertà dal lato fisico è ‘il diritto supremo
alla conservazione’; e conclude poi:< Si è affermato più
volte…il diritto al suicidio, come conseguenza della
signoria dell’uomo su sé stesso e sul proprio corpo. Ma
anche antiche sono le ragioni che lo combattono: secondo
…una filosofia teistica la vita dell’uomo non è
proprietà di lui, ma del Creatore… e secondo una veduta
razionalista ed umana, l’uomo non dimostra coraggio
uccidendosi…sottraendosi al dovere della propria
conservazione…e secondo i casi ai doveri verso la
famiglia e la patria. Il diritto sul proprio corpo ha
quindi anche i suoi limiti>.
Non altri che Aristotele,
infatti, dice essere <debolezza lo sfuggire ai travagli
e chi s’uccide agisce non per affrontare una prova
decorosa, bensì per fuggire un male>. L’affermazione non
nasconde le durezze di una civiltà classica educata
all’αρετή. Dalla prospettiva dei moderni, i quali sono
molto meno inclini al valore, però, un autore come Karl
Jaspers può affermare, in tutt’altra direzione, che <la
realtà del suicidio esige rispetto>.
Or non è suicidio
anche la morte alla quale il soggetto si abbandona
rinunciando alle cure? La domanda può suonare bizzarra,
ma la ragione è soltanto dovuta al fatto che sul piano
linguistico l’autodeterminazione, come sottocategoria
della libertà, nel richiamare quest’ultima finisce con
l’obliterare il risultato di essa applicata alla morte,
allontanando la parola che unicamente è in grado di
evocarlo: suicidio.
Un suicidio omissivo, non cruento o non violento come
invece siamo abituati a concepire quello commissivo, e
però pur sempre tale. Per quanto possa apparire
inopportuno in questa società che ama le forme
linguistiche morbide, le quali però rischiano di
favorire le ipocrisie, a tutto concedere, allora,
parlare di suicidio a proposito della morte per mero
rifiuto di ciò che possa evitarla costituisce casomai
solo una sovraesposizione linguistica, almeno rispetto
all’uso e alla sensibilità oggi correnti,
sovraesposizione che equilibra il contrario
understatement o sottoesposizione alla quale ci ha
altrettanto abituati l’uso del termine
autodeterminazione.
Altra è la questione
se tutte le modalità nelle quali, per decisione mediata
o immediata l’individuo pone fine alla sua esistenza,
siano da mettere sullo stesso piano, se a tutte esse si
debba riconoscere identica qualificazione rispetto a
quella nella quale unicamente siamo abituati a pensare
al suicidio, ovvero la fine della vita provocata da una
decisione violenta del suo titolare. A questa domanda
oggi nessuno, che sia veramente consapevole del
problema, ardisce di fornire una risposta univoca,
valida per tutte le situazioni. Dice ancora Jaspers,
riassumendo nel modo sinteticamente più significativo la
questione, che <il circolo dell’essere donati a se
stessi e del farsi se stessi, del fondamento della
libertà e della libertà medesima, non si può risolvere
senza contraddizione>. Assolutizzare la vita come dono
che ci viene fatto significa obliterare la libertà, la
quale da un certo momento diventa coautrice della vita
stessa così come essa si viene facendo; e assolutizzare
la libertà significa sovraordinarla alla vita sul piano
del valore, laddove è la vita che ne costituisce il
presupposto e il fondamento.
L’esercizio sbagliato
della libertà può mettere fine a una vita ancora degna
di essere vissuta. Questa affermazione fa intuire che
possono darsi vite non degne di essere vissute; e questo
può suonare relativizzazione del diritto alla vita.
Per quanto forte questa implicazione possa apparire,
essa trova fondamento nell’idea che, in caso contrario,
la vita diventerebbe un valore assoluto: conclusione che
contrasta con la finitudine che incontestabilmente
caratterizza la persona umana proprio come creatura.
Peraltro questo impedirebbe di distinguere tra chi dà la
propria vita per qualcosa che reputa superiore ad essa e
chi invece decide puramente e semplicemente di
sopprimerla: <fra chi muore, per dirla con Chesterton,
per amore della vita e chi muore per amore della
morte>. Ma se la vita non è un valore assoluto, tanto
meno la libertà, che ne è un valore dipendente, può
esserlo. Contrapporre perciò la libertà alla vita, con
l’idea che la prima possa decidere della seconda
significa alterare un ordine di valori che in questo
caso sembra porsi da se medesimo.
Peraltro pure la
libertà è afflitta da un’aporia insolubile, consistente
nel suo essere sinonimo di mancanza di limiti e in pari
tempo espressione di un soggetto finito e perciò
limitato.
La finitudine del
soggetto sembra implicare il riferimento ad altro da sé
quando si tratta di sé. Questo altro da sé per il
credente è Dio, per i non credenti potrebbe essere lo
Stato come secolarizzazione di Dio. Ma concepire lo
Stato come l’erede del Dio morto significa cadere nello
Stato etico, quello che, in luogo di Dio, ha dettami da
imporre al soggetto come persona. Questo Stato viene
oggi rifiutato, e con ragione, perché inutile e vana
sarebbe la morte di Dio se le prerogative di esso
dovessero riputarsi ereditate dallo Stato, per di più
neanche dotato della trascendenza divina. Ecco perché il
laico, privato dell’Altro da sé, si trova senza rete,
avendo come unico ancoraggio se stesso: cosa che ricorda
il barone di Münchhausen che si tira dallo stagno per i
capelli. Ma per il cristiano la questione è diversa. In
quanto accetta la vita come dono di Dio, sa che non può
disporne liberamente perché altrimenti negherebbe
l’ancoraggio a Dio come Altro da sé che in ipotesi
accetta. Per il cristiano, perciò, la libertà ha un
limite in tutto ciò che richiama l’Altro da sé. Per il
cristiano la morte che consegue al rifiuto di quanto è
necessario al suo mantenimento in vita equivale alla
morte per condotta omissiva. Su questo punto si
evidenzia un percorso diverso tra la legge dello Stato e
quella della Chiesa, o anche tra legge e coscienza,
perché, mentre lo Stato rinuncia alla potestà punitiva,
la Chiesa ha sempre condannato il suicidio.
3. Trascorrendo al
piano giuridico-positivo pare significativo che la
Costituzione non parli di diritto alla vita.
Quest’ultimo da un lato deve essere apparso ai
costituenti implicito nei diritti della persona, dai
diritti di libertà al diritto alla salute, in quanto
presupposto necessario di essi tutti e di ciascuno, al
punto da farne apparire inutile superfetazione il
menzionarlo esplicitamente; dall’altro menzionarlo,
piuttosto che valorizzarlo costituzionalmente poté
significare abbassarlo al livello degli altri e metterlo
in possibile competizione con essi. Da questa
prospettiva è lecito ritenere che affrontare sul piano
costituzionale, come spesso si fa, la questione del fine
vita dalla prospettiva dell’art. 32 cost., che si
riferisce al diritto alla salute, rischia di diventare
estremamente riduttivo.
La salute, come è ovvio, è qualificazione, sul piano
naturale come su quello giuridico, della persona
vivente; richiamarla perciò in un contesto nel quale è
in questione la vita nella prospettiva della sua
cessazione ha il sapore del grottesco. Questa
considerazione generale trova conforto dalla lettura
dell’art. 32. Esso nel suo insieme tutela la salute
erigendola a diritto costituzionalmente rilevante. E
quanto questo non abbia a che fare con la questione del
se e del come del fine vita deliberato è autoevidente.
Anche
l’interpretazione analitica dell’articolo orienta in
questo senso. Il I° comma, nel proclamare la salute
<fondamentale diritto dell’individuo e interesse della
collettività>, spira evidentemente in tutt’altra
direzione dal fine vita; e il II° comma, formulando la
riserva di legge per i trattamenti sanitari obbligatori,
a sua volta segnata dai <limiti imposti dal rispetto
della persona umana>, si riferisce a trattamenti che
devono essere volti a tutela della salute nell’ottica
del fondamentale diritto dell’individuo e dell’interesse
della collettività di cui al comma precedente. Dalla
prospettiva dell’art. 32, dunque, ciò che si ricava è
l’attenzione per una salute da mantenere e magari
migliorare, con il solo limite del rispetto della
persona umana, che vale in particolare nel caso di
trattamenti sanitari imposti per legge. Da una
rilettura dell’art. 32, co. 1 si potrà ricavare pure un
diritto all’autodeterminazione terapeutica, ma non il
diritto all’autodeterminazione circa il fine vita.
L’art. 32 esprime originariamente una pretesa del
cittadino nei confronti dello Stato, e il reciproco
dovere di quest’ultimo, dovere il cui adempimento può
giungere fino alla previsione di trattamenti sanitari
obbligatori, caratterizzati però dal doppio vincolo
della legge e del rispetto della persona umana. In
questo senso vale quanto già in altra sede ho avuto
occasione di precisare: che <in quanto diritto sociale
la salute non consente di essere configurata alla
stregua dei diritti di libertà: non è questa la lettera
né l’intonazione dell’art. 32 cost.>.
Dall’art. 32 non si può dunque ricavare
l’autodeterminazione circa il proprio continuare ad
esistere, né in particolare dal fatto che al comma 2
esso faccia divieto di trattamenti sanitari obbligatori
salvo che questi siano previsti dalla legge. Ciò perché
l’autodeterminazione per la sua stessa natura, della
quale fa fede il nome stesso, nasce come diritto di
libertà; mentre la salute, come ho detto, non è un
diritto di libertà, così come la disciplina che la
riguarda non può essere considerata alla stregua dei
diritti di libertà. Proprio perché si tratta di diritti
di matrice diversa, si può parlare di possibile <punto
di intersezione tra diritto alla salute e diritto di
libertà…sotto il profilo dell’autodeterminazione> e
affermare che <a tale punto il diritto alla salute
manifesta la sua dimensione in ultima istanza aporetica
rispetto al diritto di libertà>
. Tale intersezione, tuttavia,
all’interno dello stesso art. 32, fa rilevare che
l’obbligazione dello Stato circa la salute non può
avvenire in contrasto con la libertà del singolo, se non
mediante un provvedimento legislativo. In questo senso
la tutela della salute trova un limite in tale libertà,
la quale a sua volta può essere limitata mediante un
provvedimento generale e astratto. Sembra echeggiare
quell’avvertimento del paladino della libertà, John
Stuart Mill, che <le necessità della vita esigono
continuamente non che noi rinunciamo alla nostra
libertà, ma che consentiamo a lasciarcela limitare in un
modo o nell’altro>.
In conclusione,
nonostante tutti i richiami che ad esso sono stati fatti
per fondarvi costituzionalmente un diritto
all’autodeterminazione circa la vita che non si vuole
più, è difficile sostenere che l’art. 32 possa includere
anche questo. Non lo si può affermare sul piano
dell’interpretazione storica
e, quanto a un’ipotetica interpretazione evolutiva, è
ancora più difficile sostenere che una norma dettata,
secondo l’unanime lettura che ne è stata fatta in
materia di danno alla persona, a tutela della salute,
possa essere richiamata nella vicenda del fine vita
nella quale la salute, affievolendosi, sembrerebbe non
più in grado di reclamare per se stessa ma piuttosto
contro se stessa.
Proprio distinguendo la morte rispetto alla lesione
della salute, discutendo di danno biologico avevo avuto
occasione di rilevare che affrontare la questione della
rilevanza del diritto alla vita muovendo dal diritto
alla salute è un errore di prospettiva.
Se la salute è un bene prezioso e un diritto
inalienabile, la vita è bene troppo grande per essere
ricompresa in quella, come il tutto non può essere
ridotto a una parte. Certo l’intervento terapeutico su
una persona in vita incide sulla sua salute, ma, quando
esso si svolge nella prospettiva del fine vita, parlarne
nei termini di un intervento sanitario, obbligatorio o
no, significa partire dagli antipodi rispetto al senso
che il costituente volle imprimere all’art. 32. Non si
tratta infatti di salvare una vita secondo quello che
sembra essere il fine naturale della cura, bensì di
prolungarne o spegnerne una che volge inarrestabilmente
verso la sua conclusione. Da questo consegue che è
inadeguato considerare le terapie riguardanti i malati
la cui vita si è oramai orientata verso la fine
domandandosi se e quanto esse possano accostarsi ai
trattamenti sanitari obbligatori di cui all’art. 32;
questi, per come la norma stessa mostra di
considerarli,sono trattamenti più o meno generali,
riguardanti cioè una pluralità indeterminata di persone
in una certa situazione astrattamente considerata,
laddove quello del fine vita è un problema
drammaticamente individuale, a riguardo del quale la
legge non può assumere alcun provvedimento. Non tanto
perché esso violerebbe la volontà individuale, bensì per
difetto del presupposto di fatto al quale
ragionevolmente può riferirsi la categoria dei
trattamenti sanitari obbligatori: il verificarsi di una
situazione astrattamente delineata dalla legge, con
riferimento a una generalità di soggetti. Che tali
trattamenti nulla abbiano a che fare con il fine vita è
suggerito, del resto, dalla considerazione che con
riguardo a tale esito pietoso la questione non è quale
trattamento apprestare, ché più che un trattamento ciò
che ricorre è un non trattamento, ove con questo si
intenda una cura che qui oramai non si dà o si rifiuta.
Il percorso è per così dire obbligato, mentre quello che
la legge deve è, da un lato, stabilirne il punto di
partenza, dall’altro risolvere una questione di
legittimazione: chi e in quali circostanze potrà
decidere il commodus discessus. Che la salute
non possa essere accostata alla vita come un puro
minus di quest’ultima è peraltro suggerito dalla
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che all’art.
2 contempla il diritto alla vita, distinguendolo dal
diritto all’integrità della persona, al quale invece
riferisce il rispetto del consenso libero e informato.
4. Altro è allora, per
l’ordinamento italiano il luogo costituzionale
dell’autodeterminazione; e non può che essere quello
della libertà personale. Quest’ultima infatti nel suo
significato moderno si esprime non soltanto come
indipendenza da una signoria altrui ma anche come potere
di autodeterminazione cioè come fascio di facoltà di
scelta riguardanti la persona nella sua individualità.
Se pure si voglia intendere ancora l’art. 13 cost. come
l’erede moderno dell’habeas corpus, in termini
analoghi si pone la questione di interventi su chi,
come malato, si trovi in un ambito medico nel quale
altri è preposto a decidere per lui fino a quando la
persona permanga nell’ambito medesimo. In questo senso
la lettera dell’art. 13 cost. favorisce una
interpretazione evolutiva in grado di riferire e rendere
applicabile la norma anche a situazioni diverse da
quella originariamente in vista e ad altre simili che
hanno costituito uno dei punti salienti del primo
costituzionalismo.
Dispone infatti il terzo comma che <E’ punita ogni
violenza fisica e morale sulle persone comunque
sottoposte a restrizioni di libertà>. Dedotta la
formula, invero di stampo penale, essa ben può essere
considerata Tatbestand anche delle situazioni in
cui si trova il malato, il quale nel ricovero
ospedaliero in particolare di fine vita, e comunque per
la difficoltà di movimento autonomo che quasi
inevitabilmente connota tale frangente, può certo dirsi
‘sottoposto a restrizioni di libertà’.
E’ sufficiente la
regola appena citata per rendere certa la non
imponibilità di terapie e interventi sanitari o curativi
che non abbiano a presupposto il consenso del malato.
Questo può sembrare ovvio in una stagione nella quale è
oramai indiscusso il principio del consenso informato,
che ha trovato adeguata considerazione ad opera della
Corte costituzionale nella sentenza del 22 ottobre 1990,
n. 471, proprio sotto il profilo dell’ancoraggio di esso
all’art. 13 cost.
Ma il principio del
consenso alle cure mediche non sembra in grado di
risolvere il problema della decisione circa il fine
vita. Ci troviamo di fronte a un’apparente aporia:
perché da un lato nessun intervento medico può svolgersi
senza il consenso del titolare del bene giuridico
tutelato, sia esso la salute o la vita; dall’altro la
vita è un bene indisponibile, onde esso non è idoneo a
sopportare atti di disposizione che la abbiano ad
oggetto diretto e proprio. Vale infatti riguardo alla
vita lo stesso paradosso della libertà:
il diritto in cui essa consiste non può essere
esercitato in un modo che ne implichi la negazione. In
questo senso vale ancora pienamente il divieto di atti
di disposizione del proprio corpo di cui all’art. 5 c.c.
Questa norma, anzitutto, è quella dalla quale si può
ricavare meglio che da altri luoghi normativi
l’inesistenza di un diritto al suicidio.
Se non si può disporre con effetti di diminuzione
permanente dell’integrità fisica, a fortiori
l’atto di disposizione non può avere effetti di fine
vita. Al più, con Windscheid si può dire che chi
commette suicidio non è autore di un’ingiustizia a danno
di altri: il suicidio non è lecito, bensì non illecito,
viola pur sempre un diritto, quello sulla propria vita,
tanto è vero che se ne punisce l’istigazione e l’aiuto
(art. 580 c.p.); ma chi lo commette è giustificato da
una sorta di stato di necessità, nel quale l’ordinamento
considera che possa avere ritenuto di trovarsi. La
soluzione dell’ordinamento è chiaramente aporetica, nel
momento in cui non punisce l’autore del fatto che sia
sopravvissuto, mentre punisce colui che con esso
concorre.
In altra sede abbiamo
affermato che se originariamente il sintagma ‘atto di
disposizione’ anche nel riferimento alla persona ha
potuto significare attribuzione ad altri, oggi, di
fronte alla questione della disposizione avente ad
oggetto il destino fisico della persona, l’art. 5 c.c.
deve ritenersi applicabile benché le norme di divieto
siano da considerarsi di stretto diritto. Una
interpretazione logico-sistematica non può infatti
ammettere che di fronte a un bene superiore quale è la
vita rispetto all’integrità fisica, l’esito sia più
permissivo. Qui atto di disposizione acquista un
significato più ampio dell’attribuzione ad altri, con la
quale coincide nel campo degli atti patrimoniali,
essendo sufficiente ai fini del divieto che la scelta
del titolare sia decisiva del destino circa la propria
esistenza.
Anche le categorie dell’illecito, prima evocate,
risultano del resto a loro volta trasposte, perché sia
del diritto violato che della causa di giustificazione
titolare è il medesimo soggetto.
5. L’improcedibilità
della scelta che decide direttamente della propria
esistenza, anzi della fine di essa, ci rimanda all’altro
corno dell’aporia: quello del consenso al trattamento
medico. Proprio perché riguarda la persona, sia pure in
via mediata, cioè di riflesso dalla decisione circa
l’intervento curativo, tale consenso, che il titolare
può liberamente dare, può altrettanto liberamente
revocare.
In proposito un breve interludio di ortosemantica ci
rende chiaro che la parola consenso nel contesto al
quale la riferiamo ora non sta a significare quello che
altrimenti chiamiamo accordo. Nella materia dei
trattamenti sanitari esso è tecnicamente un assenso,
cioè un atto di volontà che rimane caratterizzato dalla
sua unilateralità e che dunque non va mai a coniugarsi
con un’altra volontà in un accordo. Per tale ragione
esso non crea un vincolo ma costituisce soltanto
un’autorizzazione di cui il medico o la struttura
sanitaria ha bisogno per potere agire sul paziente; onde
la revoca, che è possibile in ogni momento, priva il
medico o la struttura sanitaria di ogni potere di
azione. In questo senso non mi pare si possa ipotizzare
una differenza tra il rifiuto originario dell’intervento
terapeutico, che il paziente nell’esercizio della sua
libertà potrebbe efficacemente manifestare, e una
rinuncia al trattamento già iniziato che sarebbe
interdetta al paziente.
Affermare questo significa caricare il c.d. consenso di
un effetto che esso non è in grado di possedere, come se
esso avesse creato un qualche vincolo rilevante, dal
quale il paziente non potrebbe sciogliersi più, quasi
avendo consumato il potere di autodeterminazione che
con il consenso ha esercitato. L’autonomia cessa di
essere tale e così l’autodeterminazione quando sia stata
esercitata in funzione del sorgere di un vincolo: è
quest’ultimo che non consente più al soggetto di
ritenersi libero alla maniera in cui lo era prima
proprio per la mancanza del vincolo stesso. Ma non è
questo il caso del c.d. consenso al trattamento medico.
Invero tale vincolo, ove fosse di diritto privato,
dovrebbe consistere in una obbligazione nella quale, nei
termini in cui Carnelutti ne concepiva in generale
l’oggetto, il paziente sarebbe tale in senso
etimologico, sarebbe cioè tenuto ad una patientia,
a un puro soggiacere all’iniziativa altrui, a ciò che
altri decida di fare del suo corpo. Or non è certo
questo il senso che l’opinione generale è disposta ad
assegnare al c.d. consenso. Meno ancora sarebbe
pensabile un vincolo di diritto pubblico, il quale da un
lato non può nascere da un atto privato di volontà,
dall’altro confliggerebbe con la libertà personale, la
quale può essere limitata soltanto nei termini dell’art.
13 cost., ove non sia il caso di trattamenti sanitari
obbligatori per i quali però allora, a tenore dell’art.
32 cost., è necessaria la previsione legislativa.
Abbiamo visto che il c.d. consenso non dà vita a un
vincolo ma si limita a neutralizzare un impedimento
all’azione di terzi sul proprio corpo. E’ il classico
consenso dell’avente diritto, che deterge
l’antigiuridicità di una condotta, ma che lascia a colui
che l’ha dato la titolarità del diritto. Tale è infatti
l’effetto dell’autorizzazione, la quale per sua stessa
natura è revocabile, massime quando sia data
nell’esclusivo interesse del suo autore.
Da una prospettiva squisitamente privatistica possiamo
dire che il c.d. consenso, riguardando esclusivamente la
persona che ne è l’autrice, non crea nessun affidamento
in capo a soggetti terzi, dato che il medico deve
considerarsi chiamato ad operare non nell’interesse
proprio o in nome di un interesse di natura generale,
bensì soltanto nell’interesse del paziente. Ancor meno
può ritenersi che esso crei un vincolo a carico di
quest’ultimo che comporterebbe in pari tempo una pretesa
di altri o almeno una soggezione, che a’ sensi dell’art.
1174 c.c. presuppone un interesse in capo a
quest’ultimo, interesse che però non c’è e non può
esserci, unico interesse essendo quello del paziente. Se
però il consenso può essere revocato in ogni momento,
tale revoca non può convertirsi in una domanda di essere
aiutato nel commiato dalla vita. Questo significherebbe
trasformare la non facoltà di intervento che segue al
rifiuto delle terapie in un obbligo di intervento, che
sarebbe a sua volta in contrasto con l’obbligo di cura
gravante sul medico. Si tratterebbe dell’aiuto al
suicidio, che è sanzionato dall’art. 580 del codice
penale. Soltanto l’abrogazione di tale norma per la
parte relativa all’aiuto potrebbe dare
all’autodeterminazione una portata maggiore di quella
attuale, la quale non può andare oltre il rifiuto o la
rinuncia al trattamento medico.
Ma la prestazione o il
ritiro del consenso, che l’art. 5 della convenzione di
Oviedo può prevedere puramente e semplicemente in quanto
si riferisce genericamente a ‘un intervento nel campo
della salute’, esige la capacità di intendere e di
volere; ed è questo a porre il problema circa la revoca
del consenso nelle situazioni di fine vita, dato che
nella gran parte dei casi tale capacità, a causa di una
malattia giunta allo stadio terminale, sarà venuta a
mancare. La volontà che sia stata manifestata mediante
il testamento, detto di vita (living will) ma che
piuttosto è di morte,
sembra risolvere in anticipo il problema del fine vita,
salva la difficoltà di individuare con precisione la
situazione che dovrà essere riconosciuta come quella con
riferimento alla quale il titolare dichiara di revocare
il consenso al trattamento ovvero di non acconsentire al
trattamento. Pure su questo terreno un problema comunque
sorge: quello di chi debba ritenersi legittimato a
inquadrare il caso concreto nella previsione,
necessariamente generale e atecnica, che il paziente
avrà fatto nel suo testamento di vita.
6. La vera difficoltà
in tale frangente è costituita dalle situazioni in cui
la vita non sembra affievolita al punto di dare corso
alla volontà di morte onde sembri ancora prevalente
l’obbligo del medico di continuare ad apprestare le cure
del caso. Il dubbio essenziale che le caratterizza le
rende simili a quelle nelle quali il malato sia oramai
insuscettibile di cura o questa non produca alcun
effetto di recupero e la sopravvivenza del malato sia
totalmente dipendente dall’assistenza medica, e manchi
una volontà preterita, manifestata nel testamento di
morte, che escluda l’intervento, così come la
possibilità di una volontà presente che lo consenta. Qui
l’assenza-impossibilità del consenso o di un consenso
che si possa dire espresso in stato di piena capacità,
fa emergere l’obbligo terapeutico nella sua purezza,
rendendolo elemento esclusivo dal quale far dipendere
l’attuazione della cura. La posizione di garanzia nella
quale si trova il medico come soggetto tenuto per la sua
professione ad adottare tutte le misure terapeutiche
suggerite dalle circostanze non solo lo giustifica in
questo caso, ma lo obbliga. Essa pone però la domanda
fino a qual punto la cosa possa durare, dato che il
paziente viene a trovarsi in un frangente nel quale
potrebbe revocare il consenso ma non è più in grado di
farlo per essere in stato di incapacità. In questo caso
ritenere che il medico mantenga a tempo indeterminato la
sua posizione di garanzia significa sostituire alla
volontà del paziente quella del medico.
Tale conclusione è coerente solo nella prospettiva di
chi ritiene che il diritto alla vita prevalga
sull’autodeterminazione,
ma in tal modo giunge a far prevalere la volontà del
medico su quella del paziente; posizione che trova
sostenitori non solo in area cattolica, perché con essa
paradossalmente concordano la posizione hegeliana, che
dice indisponibile la vita, e quella di Stuart Mill che
nega al titolare del diritto il potere di esercitarlo in
senso contrario al diritto stesso: perciò la libertà
contro la libertà, la vita contro la vita. In realtà, se
rammentiamo quanto abbiamo detto a proposito del diritto
alla vita come ius excludendi alios, dobbiamo
concludere che il malato che rinuncia al trattamento che
lo tiene in vita non chiede al medico di aiutarlo al
suicidio, bensì revoca il consenso che giustifica
l’intervento medico e senza del quale quest’ultimo
costituirebbe una ingiustificata aggressione o violenza
fisica, per esprimerci nei termini dell’art. 13, co. 3
cost. In questo senso quello che in dottrina è stato
detto il diritto del soggetto a non curarsi e a
lasciarsi morire
si può affermare quale elemento che concorre a comporre
il contenuto del diritto alla vita.
Nell’ipotesi in cui il
paziente non sia più in grado di manifestare la propria
volontà, l’impossibilità di rifiutare l’intervento
terapeutico pone il problema della modalità alternativa
che costituisca l’equivalente della volontà del titolare
oramai irrecuperabile. In simile frangente, una
presunzione di volontà contraria al trattamento non ha
il conforto dell’id quod plerumque accidit, né
può trarsi da atteggiamenti o opinioni del paziente,
quella che ho chiamata ‘volontà per sentito dire’,
viziata alla radice, ove pure fosse accertata, dalla
diversità radicale di contesto. La volontà del paziente
non sopporta neppure di essere sostituita da altra
volontà, pur costituita in rappresentanza legale, cioè
da chi sia titolare della potestà parentale, se si
tratta di pazienti minori, o sia tutore o curatore
speciale nel caso di conflitto di interessi tra il
tutore e il soggetto rappresentato.
La ragione di questo sta, anzitutto, nella
considerazione che una autodeterminazione che tale sia
veramente non sopporta sostituzioni
ma casomai alternative: sta in questo punto la
differenza specificante dell’autodeterminazione, come
determinazione circa sé, rispetto all’ordinaria
autonomia privata; in secondo luogo, nell’inquadramento
dell’autodeterminazione del paziente nella libertà
personale. Di quest’ultima è regola fondamentale l’art.
13 cost., il quale a sua volta prevede soltanto
limitazioni, cioè condotte di contrasto o di avallo di
tale libertà, non di sostituzioni del titolare. E, come
solo quest’ultimo può autodeterminarsi accettando le
cure, così solo esso può rifiutarle:
altrimenti siamo fuori dall’autodeterminazione e il
risultato diventa una mistificazione.
Del tutto
correttamente perciò la Cassazione, nella sentenza n.
21748/07, afferma che <il rifiuto delle terapie…anche
quando conduce alla morte, non può essere scambiato per
…eutanasia…esprimendo piuttosto tale rifiuto un
atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la
malattia segua il suo corso naturale>.
Nell’impossibilità che questo accada per la sopravvenuta
incapacità del soggetto, la disciplina della libertà
personale indica la via da seguire per la cessazione
della cura e anche per la cessazione pura e semplice
dell’intervento medico che si limiti al puro tenere in
vita il paziente. La limitazione della libertà personale
che abbia come presupposto l’irrilevanza o l’assenza
della volontà del soggetto non trova nell’ordinamento
altra risposta che quella giurisdizionale. Lo dice in
termini chiari l’art. 13, co. 2 cost., assoggettando
qualsiasi restrizione della libertà personale a un ‘atto
motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e
modi previsti dalla legge’. Poiché il consenso del
paziente come consenso dell’avente diritto non
troverebbe modo per cessare in ipotesi nelle quali il
soggetto, ove fosse capace di intendere e di volere,
potrebbe ritirarlo, l’intervento medico che solo in tale
consenso trova giustificazione, in mancanza di esso
potrà cessare o continuare in virtù di un’autorizzazione
proveniente dall’autorità giudiziaria. Senza bisogno di
pensare a un procedimento più complicato di quello
monitorio, si tratta di un esito necessitato una volta
che si affermi, come ha fatto la Cassazione penale,
che il consenso al trattamento medico-chirurgico
<afferisce alla libertà morale del soggetto ed alla sua
autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica
intesa come diritto al rispetto della propria integrità
corporea, le quali sono tutte profili della libertà
personale proclamata inviolabile dall’art. 13 Cost.>.
7. Chiaramente la
Cassazione fa eco a Corte cost.n. 471/1990, che come
abbiamo visto ha incentrato il consenso del paziente
all’intervento medico nell’art. 13 cost. L’espresso
richiamo a tale norma comporta che la si applichi
integralmente in ciò che essa prevede. E questo è in
particolare il potere dell’autorità giudiziaria di
decidere sulla libertà personale, esonerando il paziente
dalla soggezione alla terapia o confermandola. Su questo
punto l’ordinamento mette in luce una lacuna della legge
ordinaria, lacuna propria, non frutto della valutazione
dell’interprete che, insoddisfatto di una disciplina
esistente, ne trae un significato restrittivo collocando
fuori da essa il caso da risolvere. L’unica regola
invocabile in proposito, infatti, l’art. 5 c.c., che in
altra sede
ho indicato come ostacolo a una volontà dello stesso
paziente di interrompere ogni pratica che lo tenga in
vita, risulta recessiva di fronte alla situazione
attuale, nella quale la possibilità di dire no alla vita
è andata avanti di conserva con lo sviluppo tecnologico
e può riputarsi ignota al legislatore del 1942. In
assenza allora di una legge ordinaria che disciplini la
materia,
l’autorità giudiziaria può dirsi investita di un potere
decisorio conferitole direttamente dalla Costituzione e
che, ove essa avesse avuto l’accortezza di metterlo in
luce e di esercitarlo, avrebbe evitato il giudizio sul
conflitto di attribuzione che invece ne è conseguito.
Non è stata coerente
la Cassazione quando, nella sentenza centrale sul caso
Englaro,
dopo avere affermato che <il carattere personalissimo
del diritto alla salute dell’incapace… non trasferisce
sul tutore un potere incondizionato di disporre della
salute della persona in stato di totale e completa
incoscienza> (n. 7.3), e dopo avere continuato che <al
giudice non può essere richiesto di ordinare il distacco
del sondino naso gastrico…che in sé non costituisce
oggettivamente una forma di accanimento terapeutico, e
che rappresenta piuttosto, un presidio proporzionato>,
ha ritenuto che <l’intervento del giudice … si
estrinseca nell’autorizzare o meno la scelta compiuta
dal tutore> (n. 8). L’incoerenza è doppia, in primo
luogo perché la Corte, nel momento in cui autorizza il
tutore stesso al distacco del sondino naso-gastrico,
finisce con l’attribuire al tutore un potere che in
principio gli ha negato; in secondo luogo perché essa fa
ciò dopo avere detto che il sondino non costituisce
accanimento terapeutico e anzi è presidio proporzionato.
Tutto questo in una cornice nella quale la decisione
circa il distacco viene erroneamente riferita al diritto
alla salute mentre riguarda il diritto alla vita.
Evidentemente i Supremi giudici hanno preferito
l’incoerenza all’esercizio diretto ed esplicito del
potere loro conferito dalla Costituzione, scegliendo il
doppio schermo della volontà del tutore e della volontà
presunta della paziente, ricavata dal <suo modo di
concepire, prima di cadere in stato di incoscienza,
l’idea stessa di dignità della persona> (n. 8). In tal
modo la Suprema corte, in assenza di una norma di legge
e senza neanche l’intervento della Corte costituzionale,
ha esteso il potere di rappresentanza degli incapaci al
diritto personalissimo della vita.
Dovendosi aggiungere, nel merito, che la Cassazione, nel
momento in cui ha inteso fare da sé, avrebbe dovuto
assumere in proprio il metro della ‘dignità della
persona’,
che costituisce il nucleo del principio personalistico
su cui si fonda l’intera Costituzione, e valutare se nel
caso concreto l’alimentazione naso-gastrica potesse
riputarsi in contrasto con esso.
Il secondo nodo della
critica alla Suprema corte riguarda il luogo normativo
intorno al quale essa ha elaborato la sua decisione:
l’art. 32 cost. Tale norma, lo abbiamo detto, non può
ritenersi direttamente applicabile alle decisioni di
fine-vita,
sia perché la questione non era quella dei trattamenti
sanitari obbligatori sia perché ad essere in gioco non
era la salute ma il diritto alla vita. Della dignità
comunque è funzione il rispetto della persona umana che
l’art. 32 co. 2 prevede come limite che, per questo
profilo opportunamente generalizzando, può essere
riferito a ogni specie di trattamento sanitario. Pur
partendo dall’art. 32, la previsione di tale limite e
l’assenza di un potere diverso da quello del titolare
avrebbe dovuto indurre la Cassazione a negare la c.d.
autorizzazione, in corollario della sua stessa
affermazione che il sondino naso-gastrico non
costituisce accanimento terapeutico e nella specie
doveva ritenersi presidio proporzionato. La mancanza di
una volontà reale della paziente ha caricato
l’autorizzazione al distacco del significato di pura e
semplice attribuzione al tutore del <compito di
completare (l’) identità complessiva della vita del
paziente>:
attribuzione invero taumaturgica, che si è tradotta in
quel potere di disporre della salute della persona in
stato di assoluta incapacità, che in principioera
stata negata.
Dunque sotto le specie
di una autodeterminazione virtuale, in quanto nel caso
concreto impossibile, si è giunti
all’eterodeterminazione, la quale non trova alcuna
giustificazione alla luce di quanto siamo venuti dicendo
fin qui. Ci accorgiamo allora che autodeterminazione, al
di là di ciò che è in grado di significare e che ci
siamo sforzati di capire in questa sede, è una delle
parole magiche che di quando in quando ricorrono per
rappresentare un problema o la sua soluzione; e che
finiscono con l’essere usate anche quando ciò che con
esse si descrive è il suo contrario.
8. Questo paradosso è
unicamente spiegabile come manifestazione del limite
estremo cui può giungere la visione di un valore in
chiave esclusiva e preclusiva di ogni altro, come
un’assolutizzazione
che rende ragione dell’idea di esso come surrogato
modano del trascendente in un mondo secolarizzato.
Infatti è solo nel momento in cui si rende assoluto e
indiscutibile nel confronto con ogni altro, che il
valore acquista completamente e pienamente la medesima
portata metafisica che nel contesto del trascendente si
è disposti a riconoscere a Dio. Ma questo finisce con il
contrastare con l’idea che sta alla base
dell’instaurazione dei valori mondani come surrogato del
trascendente, in quanto sostituisce al politeismo di
valori, che pur si riconoscano gerarchicamente ordinati,
il monoteismo trascendente, come accade quando un valore
ed uno soltanto si elegga a presidiare uno spicchio di
realtà.. E’ un esempio di sovraesposizione
assolutizzante di un valore, di c.d. tirannia,
espressiva di un valore che neutralizza tutti gli altri,
diventando il gagliardetto di un’etica e dunque
un’imposizione normativa, dato che ogni etica è
normativa, tanto più quando asseverata dal diritto
positivo. In realtà la stessa autodeterminazione, ove
elevata a unico punto di riferimento per la discussione
e la decisione di fine vita, diventa essa stessa etica,
in tali termini imposta anche a coloro che considerino
l’autodeterminazione come uno dei punti di vista, magari
il più importante ma non l’unico, da tenere presente.
Considerazione che si rivela utile per smontare il
ricatto argomentativo che sia lo Stato etico l’approdo
inevitabile di qualunque orientamento diverso
dall’accettazione di una solipsistica
autodeterminazione.
Ma
l’autodeterminazione può essere tenuta in considerazione
senza obliterare altri valori che pure affiorano
altrettanto decisamente dalla Carta costituzionale, la
quale quantomeno funge da fonte di accertamento dei
valori ai quali si deve dire che il nostro ordinamento
riserva ossequio. Un’autodeterminazione che si
contrapponga al diritto alla vita, che pure
indubitabilmente sottende tutti i diritti
che nominatamente o desumibili da un’espressione
normativa generale sono oggetto di contemplazione
costituzionale, diventa un valore non credibile perché
prova troppo. Se esistono diritti inviolabili, e tale è
l’espressione dell’art. 2 cost., come può non essere
inviolabile la vita che ne costituisce il necessario
presupposto? Ed è possibile pensare che tale
inviolabilità sia dovuta soltanto dagli altri mentre per
il titolare essa è affatto disponibile? Se la risposta
a queste domande è negativa, come dobbiamo ritenere,
assumere un’autodeterminazione assolutizzata diventa
contraddittorio, e ragionevole appare l’idea di
conciliare l’autodeterminazione con la vita, rendendo a
ciascuna la misura sua propria. Evitare lo scontro
irredimibile dei valori o la tirannia di uno di essi si
può soltanto in quanto si determini lo spazio proprio di
ciascuno, cosa che ne implica la reciproca
delimitazione: precisamente coma accade tra i diritti di
cui è intessuta la società, i quali per affermarsi senza
entrare in conflitto e per persistere nella loro
pluralità necessaria hanno bisogno di una continua
actio finium regundorum.
Nel caso dei diritti
circa la propria persona, la mancanza di limiti che
un’autodeterminazione assolutizzata farebbe ipotizzare,
è smentita dall’art. 5 c.c. e dalle altre norme
che l’ordinamento è venuto adottando in funzione di
eccezione al divieto degli atti di disposizione con
esiti di mutilazione, le quali confermano la persistenza
del divieto generale. Ciò sembra confermato dalla
considerazione che, ove pure in corollario del principio
personalistico si affermi la libertà di disporre del
proprio corpo, questo non significa eliminazione del
divieto di disposizione che abbia esiti definitivamente
lesivi. L’art. 5 c.c. è ancora norma vigente nel nostro
ordinamento, onde casomai si dovrebbe passare attraverso
la dichiarazione di illegittimità costituzionale di tale
norma per giungere all’idea di piena disponibilità del
proprio corpo. Ma con riguardo al fine vita la
questione oggi si pone all’interno dei due poli,
costituiti dall’art. 5 c.c. e dall’inesistenza di un
divieto penale del suicidio. Da queste due norme sembra
risultare che il rifiuto delle cure che metta a
repentaglio la propria incolumità è illecito (cade sotto
il divieto dell’art. 5), anche se non è sanzionato
penalmente. L’atto di auto disposizione, dunque, non è
giuridicamente irrilevante:
solo si tratta di stabilire in che senso. Se
l’autodeterminazione non è altro che libertà circa sé,
non può essere pensata senza limiti.
Qui sta un equivoco
che, in fine di discorso va fatto rilevare: il poter
pensare che essa, in quanto riferita allo stesso
soggetto che ne è titolare, possa essere un assoluto del
quale, così come accade nel mondo morale, non si può che
prendere atto. E’ la fallace trasposizione, dal piano
della morale a quello del diritto, dell’affermazione di
Kant, ricordata sopra,
secondo cui «l’autonomia
della volontà è quel carattere della volontà per cui
essa è legge a se stessa». Del resto lo stesso Kant, e
sempre nella chiave della morale, afferma che «la
volontà è pensata come una facoltà di autodeterminazione
ad agire in conformità alla rappresentazione di certe
leggi».
E comunque, proprio in merito al fine vita, chiarisce
senza equivoci che «la conservazione della propria vita
è un dovere»,
articolando analiticamente l’affermazione: «Se per
sfuggire a una situazione penosa (l’uomo) distrugge se
stesso, egli si serve di una persona semplicemente come
di un mezzo per mantenere una situazione
sopportabile fino alla fine della vita. Ma l’uomo non è
una cosa…deve esser sempre considerato come un fine in
se stesso. Di conseguenza non posso assolutamente
disporre dell’uomo nella mia persona per mutilarlo o
danneggiarlo o ucciderlo».
Dunque anche sul
piano morale la volontà è legge a se stessa, ma nel
contesto di certe leggi, alle quali essa non è in
grado di sottrarsi. Quanto poi all’autodeterminazione in
senso giuridico, se la radice è la stessa
dell’autodeterminazione morale perché ambedue trovano
unità nell’identità del soggetto, nel momento in cui
diventa rilevante per il diritto (oggettivo)
l’autodeterminazione non può non scontare la soggezione
al limite, che caratterizza il diritto (soggettivo) in
maniera trascendentale cioè essenziale.
Neppure la definizione di diritto in senso oggettivo può
indurre a conclusione diversa, ove pure si voglia
enfatizzare che il limite della libertà dell’individuo
che ne costituisce l’essenza è pensato con riferimento
alla libertà degli altri, laddove l’autodeterminazione,
essendo prettamente individuale, escluderebbe in
partenza il riferimento ad altri. In realtà non è così,
quantomeno per il fine vita che non si esaurisce uno
actu come nel suicidio classico, ma finisce con
l’essere una sorta di suicidio che, se pur non è
calatis comitiis, assume necessariamente rilevanza
sociale nel momento in cui si può praticare soltanto in
una dimensione relazionale che ha come altri poli
soggettivi il medico e il più delle volte una famiglia
in qualche misura partecipe. Sul terreno
dell’autodeterminazione giuridica l’ordinamento deve
allora reperire il surrogato della regola morale, in
base alla quale la vita è un fine in sé. Se
l’autodeterminazione è potere di disporre di sé in
quell’area che abbiamo individuata tra indisponibilità
(art. 5 c.c.) e non divieto di suicidio, tale surrogato
trova il correlato nell’idea di responsabilità, che è
categoria di sanzione della libertà: una responsabilità
che se non si può tradurre in pena né in risarcimento
perché soggetto attivo di essa e soggetto passivo
coincidono, diventa autoresponsabilità come parametro di
valutazione di un potere correttamente esercitato; e il
rapporto tra libertà e responsabilità è connotato nel
senso della conformità: tanto minore è la responsabilità
quanto minore è lo spazio di libertà. Questo è un
principio, che detto così risulta espresso in termini
relativi, mentre in senso assoluto può essere detto
adeguatezza ed esprime la razionalità pratica che
governa gli ordinamenti e ne fornisce la legittimazione
ultima. Esso presiede all’attività legislativa, per la
quale la regola deve essere espressione della relazione
migliore tra il fatto da qualificare e il valore alla
luce del quale essa intende essere qualificazione; e
diventa criterio per il giudice quando è al potere di
quest’ultimo che si debba fare capo per autorizzare o
impedire una determinata azione.
9. Abbiamo detto che
uno degli equivoci che aleggiano intorno alla questione
del fine vita è che quest’ultima possa essere risolta
senza alcun riferimento a una morale; ulteriormente che
tale riferimento implichi inevitabilmente la caduta
nello stato etico. Ora che l’autodeterminazione non
possa stare in un vuoto di discorso morale abbiamo visto
poco sopra; quanto al richiamo allo stato etico, esso si
rivela un ricatto argomentativo fondato sullo scambio
indebito tra la distinzione del diritto dalla morale e
l’estraneità. La distinzione fa parte ormai del bagaglio
indiscutibile della riflessione sul diritto;
l’estraneità fu bensì l’illusione del positivismo
giuridico, che però il superamento di quest’ultimo
coerentemente impone di considerare a propria volta
superata. La pretesa neutralità assiologica del diritto
è risultata infatti più una velleità di stampo
scientista, rivelatasi tale sia sul piano filosofico,
ove il diritto è emerso come risultato di vettori
storicamente situati, sia sul piano metodologico quando
ha cominciato a risultare falsa l’idea
dell’interpretazione come pura parafrasi della legge, e
l’irriducibilità dell’applicazione a puro sillogismo.
«Comparata alla tesi positivistica della separazione, la
materializzazione del diritto implica una sua
‘rimoralizzazione’, la quale, nella misura in cui
l’argomentazione giuridica si apre a punti di vista di
principi morali e di obiettivi politici, allenta il
legame lineare della giustizia con il portato delle
leggi».
In particolare le costituzioni moderne possono essere
lette come un catalogo nel quale sono confluite più o
meno disordinatamente etiche materiali dei valori, a
loro volta surrogati mondani del trascendente. E’ quella
che tanti anni fa abbiamo chiamata ‘desecolarizzazione
in senso debole’,
con la quale intendemmo esprimere dal particolare punto
di vista dei rapporti tra cultura e trascendenza, il
superamento del positivismo giuridico, inteso come fase
storica nella quale si era verificata la pretesa
sterilità assiologica del diritto mediata dallo spoglio
di esso da qualsiasi velleità di fondazione
ultramondana. Come è stato autorevolmente osservato, con
un pensiero che si pone in continuità con il
precedente, «l’innovazione radicale della Costituzione è
la stabilizzazione del punto di vista morale all’interno
del diritto positivo».
Se così è, non si può
coerentemente pensare di adottare l’argomento ex
Stato etico ogni volta che a riguardo del fine vita si
prospetti una tesi che non accolga come valore assoluto
l’autodeterminazione. Quest’ultima fa parte dei valori
innestati nella Costituzione e perciò, come deve
accadere per ciascuno di questi, non può a propria
volta ignorare gli altri, sicché quando ne ricorrano i
presupposti essa deve entrare in quel contesto che si
chiama bilanciamento,
reso necessario dall’idea che i valori
costituzionalizzati sono valori mondani e per
definizione non assoluti, pena il ricadere nella idea di
trascendenza che la loro mondanizzazione ha inteso
superare. In realtà il rifiuto della c.d. tirannia dei
valori è un corollario della negazione della loro
trascendenza. In quanto ugualmente mondani, nessuno di
essi può aspirare alla singolarità dell’Assoluto, la
quale sarebbe contraddittorio appannaggio di una
trascendenza negata in linea di principio.
Da questo punto di
vista emerge come da un lato risolvere la questione del
fine vita alla stregua dell’autodeterminazione assunta a
unico valore possa risultare unilaterale e arbitrario;
come, in secondo luogo, la rimessione al giudice quando
ricorra il rischio di tale unilateralità sia il tramite
mediante il quale il bilanciamento che abbiamo detto
necessario unicamente può realizzarsi. Questo accadrà
ogni volta che possa ricorrere il dubbio circa
l’idoneità del soggetto a decidere da sé, dubbio dal
quale possa derivare per il medico l’incertezza circa la
conformità, dell’atto medico che ne seguirebbe, alle
norme e agli obblighi professionali, secondo l’art. 4
della Convenzione di Oviedo.
E invero dal punto di vista dell’autodeterminazione in
ipotesi del genere, poiché non è lo stesso titolare del
diritto a poter decidere, sarebbe prima che iniquo non
corrispondente alla realtà una attribuzione di senso a
una autodeterminazione che non c’è. Se è concepibile che
l’io costituisca l’orizzonte di riferimento di colui che
decide circa sé, esso non può esserlo per definizione
per chi decida per altri, il quale avrà anzitutto come
orizzonte di riferimento il proprio io e quindi non
potrà essere soggetto di una autodeterminazione della
quale non sia il titolare.
Fermo restando allora
che il soggetto in grado di decidere deve essere
rispettato nella sua determinazione circa sé, la quale
nei confronti di colui o coloro che apprestano le cure
significa revoca della precedente accettazione, ogni
volta che tale revoca si verifichi, il medico che debba
dare esecuzione a tale volontà, ove non la ritenga seria
o conforme al criterio di adeguatezza rispetto alla
situazione, potrà rimettere la questione al giudice
ex art. 13 cost. Analogamente, nel caso in cui il
soggetto non sia più in grado di manifestare la propria
volontà e altri chiedano, in luogo di lui, che si
cessino gli apprestamenti in grado di tenere in vita il
paziente. Da un lato, infatti, starebbe
un’autodeterminazione ritenuta non autentica, o che
addirittura non c’è; dall’altra la posizione di chi
«oggi (non) può essere obbligato ex lege a
compiere le operazioni materiali necessarie per
interrompere il trattamento sanitario in corso al posto
dell’interessato impossibilitato a compierlo».
Certo, morire può
essere una cosa difficile, ma morire per scelta lo è
ancora di più.
Al quale invece si finisce con il giungere,
adottando un modello neoliberale di libertà
personale considerata in chiave puramente
formale, come spazio di non oltrepassabilità
ab extrinseco, laddove un diritto che sia
pienamente tale va definito nel suo contenuto.
Questo almeno dal momento in cui gli ordinamenti
hanno intrapreso ad occuparsi della vita
materiale, per la quale i diritti in senso
formale risultano inadeguati perché il buco
nero nel quale consistono significa una
abdicazione rispetto alla realtà che essi oramai
si dicono orientati a cogliere.
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