Sommario: 1. L’autodeterminazione
individualistica assoluta e l’autodeterminazione
personalistica relativa. – 2. Il limite del non diritto
al suicidio. – 3. I limiti concernenti l’eutanasia. – 4.
I limiti delle dichiarazioni anticipate di trattamento.
– 5. Gli stravolgimenti giuridico-giudiziari
dell’autodeterminazione in un noto caso di stato
vegetativo persistente. – 6. La configurabilità del
delitto di omicidio premeditato nel caso di sospensione
della alimentazione e idratazione artificiali . – 7. Un
inquietante interrogativo.
1. L’autodeterminazione
individualistica assoluta e l’autodeterminazione
personalistica relativa. –
L’autodeterminazione costituisce, per tutte le
implicazioni, positive e negative, un problema centrale
non solo della bioetica e del biodiritto, ma anche e in
particolare del biodiritto penale, problemi, questi, che
stanno assurgendo – come già avvertiva autorevolmente
Giovanni Paolo II – a problemi epocali e di dimensione
planetaria.
Invero, superato
ormai il grande scontro tra capitale e lavoro e tra
prospettiva proletario-capitalista e statale-socialista,
che ha dominato per oltre un secolo la vita pubblica, il
vuoto creatosi si è andato riempendo anche coi temi
immateriali della bioetica e del biodiritto,che
investono il problema della disponibilità del corpo
umano e, più in radice, la stessa identità dell’essere
umano ed il rischio della artificializzazione della vita
e della morte, poiché le crescenti possibilità delle
tecniche biomediche possono costituire generose
conquiste «con» e «per l’uomo» o ritorcersi «contro
l’uomo».
In quanto terreni,
questi, di una più radicale contrapposizione tra: 1) un
«accanimento contro la vita», di una nichilistica
«cultura di morte», il male oscure che ammorba
*
Il presente scritto è
il testo della relazione tenuta al Convegno dei giuristi
cattolici del 2009
questa nostra civiltà
occidentale, vecchi, stanca, intristita, depressa e
deeticizzata, che
in nome della difesa
dei diritti umani, pratica il disprezzo di tali diritti.
E, innanzi tutto, del diritto alla vita, non più
soltanto dei singoli individui, dalla fase embrionale
alla fase terminale, ma delle presenti e future
generazioni, poiché è sempre più vulnerata la stessa
abitabilità del pianeta Terra, forse l’unico giardino
dell’intero universo, la cui fioritura ha richiesto la
pazienza di miliardi di anni, ma sempre più minacciata
dall’insania umana: il più grande peccato contro la
meraviglia della divina creazione; 2) ed una «cultura
della vita», alla quale sembrano sempre più legate le
sorti distruttive o salvifiche, dell’umanità.
Ebbene, il concetto
«magico» di autodeterminazione è del tutto ambiguo e
polivalente, poiché può essere espressione:
1) di una cultura di
morte, e, costituire quindi, un disvalore, se assunta
come «autodeterminazione assoluta», illimitata,
inquadrata nella logica di una concezione
utilitaristica-individualistica-egocentrica-edonistica,
la quale, sulla base del consenso del soggetto, in un
soggettivismo tendenzialmente senza limiti, eleva il
volere e il sentire individuali a summa lex
dell’«uomo solo», chiuso all’alterità dell’«uomo
integrale». Col conseguente corollario individualistico
del principio della massima disponibilità dell’essere
umano, per mano propria o altrui, onde si legittima la
politica della liberalizzazione, tendenzialmente
illimitata, dell’aborto, embrioesperimentazione,
embrioeugenetica, droga, sterilizzazione irreversibile,
transessualismo, procreazione assistita, congelamento
dei propri embrioni, locazione del grembo materno,
vendita dei gameti alle banche del seme, fino
all’eutanasia e allo stesso suicidio per mano propria o
assistita. Il tutto: se stesso e gli altri ridotti ad
oggetto del proprio ingannevole piacere;
2) di una cultura di
vita e costituire,quindi un valore, se assunta come «autodeterminazione
relativa», limitata, nella logica di una concezione
personalistica dell’uomo-valore, dell’uomo persona,
dell’uomo fine, poiché il personalismo sta ad indicare
una «visione integrale» della persona umana, non come
singolo nella sua nuda individualità, ma nella trama
delle relazioni sociali in cui vive e nell’insieme dei
diritti fondamentali di ogni essere umano, che trovano
la propria dimensione e misura nella coesistenza ed
accoglienza reciproca con altri, specie se soggetti più
deboli e indifesi.
Ciò premesso, anche
per il personalismo l’autodeterminazione, se limitata,
pone non tanto e necessariamente un problema di
legittimità, poiché non esistono, sul piano etico e
giuridico, radicali obiezioni di principio. Essa infatti
trova il proprio fondamento in quella cultura, che ha
affermato, nel campo biomedico, il principio del
consenso informato, se inteso personalisticamente. E
che ha segnato il passaggio epocale dalla risalente
concezione c.d. paternalistica dei «doveri del medico»,
per definizione benefattore e onnidecidente, alla
concezione c.d. personalistica dei «diritti del
paziente», che si pone al centro del rapporto
medico-paziente e della struttura sanitaria come
portatore di propri diritti, primi fra i quali il
diritto alla vita e alla salute e il diritto
all’autodeterminazione in ordine agli interventi sul
proprio corpo: alla partecipazione alle decisioni
medico-chirurgiche che lo riguardano. In un perdurante
dialogo, umanizzante e rassicurante, fiduciario e
collaborativo, tra medico e paziente. Principio, il
suddetto, che trova ilo proprio fondamento giuridico
nella Costituzione, nella legislazione ordinaria e in
documenti sovranazionali.
Il problema di fondo
concerne, invece, la portata e i limiti
dell’autodeterminazione, ove insorge la contrapposizione
tra la cultura della morte e la cultura della vita, tra
le pretese di un’autodeterminazione assoluta,
tendenzialmente illimitata, ed una autodeterminazione
relativa, sottoposta a precisi limiti oggettivi, per cui
nel campo biomedico, se senza il consenso informato ogni
intervento è illecito, anche col consenso del soggetto
gli interventi restano illeciti se violano i relativi
limiti oggettivi.
2. Il limite
personalistico del non diritto al suicidio.
– Il primario limite
personalistico è dato dal principio generale della
indisponibilità della vita umana come valore in sé:
dal suo primo palpito al momento terminale, che non
consente segmentazioni e commisurazioni con nessuna
altra utilità, poiché l’umanità, se perde il rispetto
per una sola particella della vita umana, perde il
rispetto per l’intera vita. E punto di incontro, tale
principio, delle grandi religioni monoteistiche e
dell’autentica laicità (non delle degenerazioni
laicistiche), poiché la vita è sacra per le prime e
diritto assoluto indisponibile per le seconde (come
affermava un grande laico: Norberto Bobbio). Con tutta
una serie di corollari di tale principio, dei quali
indicheremo quelli più più rilevanti e di particolare
attualità.
Primo corollario è il
categorico rifiuto del diritto al suicidio per
mano propria o per mano altrui (edulcorato con
l’eufemistica slealtà semantica del c.d. «suicidio
assistito», quale asserita mera modalità organizzativa
del proprio suicidio).
Diritto, rivendicato
da sostenitori della autodeterminazione assoluta più
radicale, ma manifestamente contrastante ed
incompatibile col nostro ordinamento: de iure condito
e de iure condendo.
A) De iure
condito, perché il nostro vigente ordinamento
prevede, accanto alla tradizionale bipartizione degli
atti leciti e degli atti vietati, l’ulteriore categoria
degli atti giuridicamente tollerati, che
si differenziano dai suddetti atti, poiché: 1) gli
atti leciti sono tali in quanto giuridicamente
autorizzati o imposti, siccome socialmente utili o
necessari, e costituiscono, perciò, esercizio di un
diritto o adempimento di un dovere, con conseguenti
effetti scriminanti, ex art. 119 c.p., rispetto
non solo ai loro autori, ma anche a tutti i soggetti
concorrenti; 2) gli atti vietati, che sono tali
in quanto socialmente dannosi e rispetto ai quali sono
punibili, ex art 110 c.p., non solo gli autori,
ma anche tutti i concorrenti; 3) gli atti
giuridicamente tollerati, che tali sono in quanto
costituiscono giuridicamente pur sempre un disvalore, ma
non sono punibili rispetto ai loro autori per ragioni di
mera opportunità, mentre punibili sono rispetto a tutti
coloro che tali atti favoriscono, agevolano o sfruttano.
Esempi paradigmatici
di atti giuridicamente tollerati, perché costituenti un
disvalore anche giuridico, sono: a) l’esercizio
della prostituzione, in quanto lesivo della dignità
della persona umana, degradandola a mero organismo
sessuale, ma non punibile come tale, mentre punibili
sono gli istigatori, gli agevolatori e gli sfruttatori
dell’altrui prostituzione; b) l’uso personale di
droga, perché offensivo di tutta una serie di beni
individuali e ultraindividuali, collettivi e pubblici,
essendo inconcepibile la società dei
drogati-decerebrati; ma in molti paesi non punibile,
mentre punibili sono le attività agevolatrici: dalla
narcoproduzione al narcotraffico; c) la
compravendita e il traffico di parti anatomiche per
fini di trapianto, sia per la ripugnanza collettiva per
la commercializzazione del corpo umano, sia per le
conseguenti odiose diseguaglianze tra malati ricchi e
malati poveri bisognosi di trapianti. Ma punibili nei
confronti non dei venditori e degli acquirenti, ma
soltanto degli autori della mediazione lucrativa.
Ma paradigmatico
esempio di atto giuridicamente tollerato è,
segnatamente, il suicidio, che è giuridicamente
un disvalore, pur non essendo punibile il suicidio
mancato, sia per la ragione pratica che la pena può
costituire una spinta ad una più efficace programmazione
del suicidio o a ritentare l’atto suicidario, sia perché
trattasi di soggetti bisognosi di tanto aiuto. Ma
punibili sono,invece: a) l’istigazione e l’aiuto
al suicidio e l’omicidio del consenziente (art. 680 e
679 c.p.); b) le pubblicazioni e le trasmissioni
radiotelevisive, destinate a fanciulli e ad adolescenti,
idonee all’incitamento al suicidio, oppure a contenuto
impressionante, tale da potere provocare il diffondersi
di suicidi (artt.14 e 15 L.n. 47/ 1948 e 30 L.n.
223/1990); c) la pubblicazione sui giornali
periodici di ritratti di suicidi (artt. 114-117 T. V. di
P.S. del 1933); d) i maltrattamenti in famiglia
quale causa non dolosa di suicidi ( art.572/2 c.p.).
In breve: nel nostro
vigente ordinamento il suicidio è non un diritto di
libertà, ma una mera libertà negativa,di fatto, essendo
il mancato suicida non punibile.
B) Ma il suicidio non
può essere riconosciuto come diritto di libertà neppure
de iure condendo: 1) sia perché, sul piano di
fatto, il preteso diritto al suicidio viene fondato su
una postulata libertà di autodeterminazione, mentre la
cruda realtà sta a dimostrare che la causa pressoché
esclusiva del suicidio è costituita da psicopatologie
(innanzitutto da psicosi depressive), che escludono la
capacità di intendere e di volere. E che,comunque, i
soggetti con tendenze suicide sono soggetti bisognosi di
aiuto, più che «neoilluministi» che esercitano un loro
inviolabile diritto all’autodistruzione; 2) sia perché,
sul piano giuridico, il diritto al suicidio implica una
serie di corollari inaccettabili da qualunque
ordinamento non nichilistico, non necrofilo. E cioè:
a) la liceità del suicidio per mano altrui:
dell’omicidio del consenziente; b) la conseguente
liceità dell’uccisione – da parte di ognuno di
noi, medico o non medico, e sulla base di una mera
richiesta o consenso del soggetto – di un numero
indeterminato, di un’infinità di persone, malate o sane,
anziane o giovani, desiderose, per le più diverse
ragioni, di cessare di vivere, ma senza il coraggio o la
possibilità materiale di farlo; c) la
vanificazione, in nome dell’affermazione teorica del
diritto alla morte, dell’esigenza dell’accertamento
della validità o meno del consenso: estremamente
difficile, se non impossibile, date le condizioni
psichiche, in cui normalmente versano gli aspiranti al
suicidio; con tutte le conseguenti incertezze, di chi si
ritrova di fronte ad un soggetto pericolante per tentato
suicidio, circa l’esistenza dell’obbligo di soccorso (ex
art. 592 c.p.) o dell’obbligo di rispettare l’altrui
volontà suicida; d) l’inviolabilità e,
addirittura la garanzia costituzionale (ex art. 2
Cost.), di siffatto diritto, azionabile come pretesa
verso lo Stato, obbligato ad apprestare strutture – in
nome del principio di eguaglianza – per l’uccisione di
chi non è in grado di farlo di persona; col conseguente
obbligo per i medici delle strutture sanitarie pubbliche
di provvedervi; e) la punibilità
dell’intervento di salvataggio come delitto di
violenza privata e dell’applicabilità della
scriminante della legittima difesa a favore di chi,
mentre sta attuando il proprio proposito suicida,
reagisca violentemente contro chi tenta di impedirgli di
suicidarsi.
In breve: da una così
assoluta disponibilità della vita deriva una tal serie
di implicazioni, che, oltre a non essere legittimabili
da qualsiasi ordinamento, potrebbero essere accettate da
ben poche persone, compresa l’esigua minoranza dei
sostenitori del diritto al suicidio, che si limitano a
rivendicare tale diritto per legittimare soprattutto
l'eutanasia attiva consensuale dei malati terminali e
fortemente sofferenti. Rivendicazione non necessaria e
per eccesso anche al fine specifico della legittimazione
di tale eutanasia. E forse senza cogliere, essi, non
sempre tutte le implicazioni della proclamazione di tale
diritto.
3. I limiti
concernenti l’eutanasia.
– Un secondo ordine
di limiti dell’autodeterminazione personalistica
relativa concerne l’eutanasia, concetto anch’esso
generico ed ambiguo, comprendente fenomeni profondamente
diversi e, perciò, differenziati sotto il profilo della
disciplina giuridica. Onde va distinto:
A) l’eutanasia
pura (o paraeutanasia), consistente nella morte
naturale, resa indolore o meno dolorosa dalla medicina
palliativa, e che non ha mai creato problemi etici e
giuridici di liceità, poiché scopo della medicina
moderna non è solo guarire o procrastinare il più
possibile la morte, ma anche aiutare il malato «non a
morire», ma «nel morire», alleviandone le sofferenze: a
vivere questa ultima esperienza terrena nel modo più
umano possibile, fisicamente e spiritualmente.
Con la possibile
anticipazione, in qualche misura, della morte. Ma ad
escludere già sul piano etico la configurabilità
dell’omicidio interviene, qui, il principio del
doppio effetto, in base al quale un’azione o
un’omissione, da cui derivano sia un effetto positivo
sia un effetto negativo, sono da considerare lecite a
condizione: 1) che l’intenzione dell’agente sia
informata dalla finalità positiva; 2) che l’effetto
diretto dell’intervento sia quello positivo; 3) che
l’effetto positivo sia proporzionalmente superiore o
almeno equivalente all’effetto negativo; 4) che
l’intervento non abbia altri rimedi esenti da effetti
negativi;
B) l’eutanasia
attiva non consensuale, consistente nel cagionare la
morte, possibilmente indolore, del malato incurabile e
gravemente sofferente, mediante un comportamento attivo:
senza e contro la sua volontà. È la forma più grave di
eutanasia, da punire perciò severamente come omicidio
doloso (premeditato e spesso pluriaggravato), perché
lede un triplice diritto: 1) il diritto alla vita,
per quel tanto che ancora residua (costante è la
giurisprudenza nel considerare omicidio anche
l’anticipazione della morte per una ridotta frazione di
tempo); 2) il diritto, in qualche misura,
dell'autodeterminazione, poiché si uccide un
soggetto senza o contro la sua volontà (onde non trova
applicazione la fattispecie, più attenuata,
dell’omicidio del consenziente); 3) il diritto di
vivere il proprio morire, cioè l’esperienza, unica
ed irripetibile, della propria morte naturale:
conciliativa, liberatoria o angosciante che sia;
C) l’eutanasia
attiva consensuale, che costituisce il vero e più
dibattuto problema. I sostenitori della legittimazione
invocano il triplice argomento: 1) della pietà verso il
malato incurabile, sofferente, o, comunque, incapace
della c.d. «vita degna»; 2) del diritto di
autodeterminazione del soggetto; 3) del diritto al
suicidio, secondo le posizioni più radicali.
Gli oppositori
contrappongono più tenaci argomenti. Cioè: 1) l’argomento
di principio della intangibilità della vita umana
come valore in sé, tanto più rispetto agli altrui
interventi soppressivi, perché il male derivante dalla
perdita del rispetto della vita umana è
incommensurabilmente superiore ai contingenti e fallaci
vantaggi, ritenuti ricavabili dalla pena di morte,
dall’aborto, dall’eutanasia, in quanto lo stesso divieto
di uccidere viene scosso nella sua necessaria
tabuizzazione. Con fatale indebolimento della percezione
sociale del valore della vita, la possibilità di tragici
abusi e il disimpegno pubblico nell’assistenza ai
morenti: 2) gli argomenti di ordine pratico: a)
della incontenibilità dell’eutanasia pietosa
dilatantesi, sulla scivolosa china dei «passi
successivi», a categorie sempre più ampie di malati (docet
in materia il caso Olanda); b) degli imponenti e
continui progressi della medicina palliativa, che
rende sopportabile il dolore prima insopportabile ed
accettabile la residua vita; c) dell’estrema
difficoltà di accertare la reale volontà, libera e
definitiva, del «voglio morire», che può celare, spesso,
una disperata richiesta di vicinanza e di solidarietà;
d) della fatale burocratizzazione delle pratiche
eutanasiache in una sbrigativa apposizione di un vista (docet
la triste prassi dell’aborto); 3) gli argomenti di
opportunità: a) dell’intorpidimento
dell'identità, morale e professionale, del medico,
investito del potere di uccidere, b) del fatale
aumento di sfiducia nella classe medica,
sapendosi che il medico può infliggere il colpo di
grazia sulla base di consensi dubbi, presunti, prestati
od attestati da altri (docet il triste caso di
Eluana Englaro). Anche per liberare corsie ospedaliere e
parenti da gravosi oneri. Con conseguente tendenza alla
fuga dal pubblico ospedale, quando le cose per il
paziente volgono al peggio, per il timore di essere
eutanasiati; 4) gli argomenti
fenomenologico-statistici, poiché l’eutanasia
attiva, come il diritto al suicidio, più che un’esigenza
proveniente dal basso, è soprattutto la teorizzazione
ideologico-intellettualistica di chi sta bene e
disquisisce negli attici intellettuali lontano dai
luoghi della vita che fugge. E nella realtà è problema
pressoché inesistente, come attestano gli oncologi, i
medici dei malati terminali, i volontari dell’assistenza
e le ricerche e studi in materia: b) perché,
anche per l’elementare spirito di autoconservazione, la
pressoché totalità dei malati pretende dai medici il
massimo sforzo terapeutico, fino al miracolo; c)
perché le eccezionali richieste eutanasiache provengono
da malati non circondati da presenze amorevoli, ma
abbandonati e soli nella fase più drammatica della loro
vita e non aiutati da adeguate cure palliative; d)
perché la media dei suicidi tra gli ammalati di cancro è
di gran lunga inferiore a quella della popolazione sana.
E il desiderio di suicidio, manifestato nei primi mesi
della diagnosi, viene meno in seguito alla terapia
antidolorifica; 5) gli argomenti giuridico-penali,
poiché, de iure condito, l’eutanasia
attiva consensuale costituisce i delitti di omicidio del
consenziente o di omicidio doloso comune, spesso non
ricorrendo i rigorosi requisiti del delitto di omicidio
del consenziente nei malati terminali, gravemente
sofferenti, non curabili. E de iure condendo,
stante le severe pene oggi previste per i suddetti
delitti, che pongono il giudice nel dilemma di applicare
pene sentite come eccessive o trovare espedienti per
forzare la legge e per pervenire anche ad assoluzioni,
non giustificabili anche sotto il profilo della
generalprevenzione, la soluzione più corretta, che noi
membri della Commissione redigente il Progetto di un
nuovo codice penale ( 1992) adottammo, è la distinzione
tra: a) l’eutanasia non pietosa, ma
di comodo, punita come omicidio doloso comune, non
essendovi ragione per indulgere; b) l’eutanasia
autenticamente pietosa, contraddistinta da
requisiti ben precisi, punita in modo meno severo;
D) l’eutanasia
passiva consensuale (denominazione non del tutto
propria, perché si tratta del rifiuto della attivazione
o della continuazione di terapie), che sul piano
astratto, di principio, non solleva obiezioni radicali,
di fondo: 1) perché si tratta di un aspetto, assieme al
consenso informato, dell’autodeterminazione, pur se
relativa; 2) perché sta ad indicare non il diritto al
suicidio, ma che la salute non può essere oggetto di
imposizione autotentativo-coattivo. Ciò in quanto non
esiste l’obbligo giuridico di curarsi (altro il discorso
sul piano etico): a) perché nel catalogo chiuso
dei doveri, sanciti dalla Costituzione, non è previsto
il dovere di curarsi; b) perché ex art. 32
Cost. i trattamenti sanitari obbligatori sono solo
quelli previsti per legge e limitati ai casi di
coincidenza della salvaguardia della salute individuale
e della salute collettiva (così per le vaccinazioni
obbligatorie per malattie contagiose); c) perché,
di fatto, l’obbligo giuridico di curarsi (indeterminato,
incontenibile, in buona parte inesigibile) apre le porte
ad un sistema totalitario di imposizioni, divieti,
controlli, coinvolgenti l’intero modo di vita del
soggetto (alimentazione, vestiario, lavoro,
divertimento, ecc.). E per la non punibilità del medico
per l’omessa terapia e la conseguente morte del paziente
non è richiesta una specifica disciplina legislativa, ma
è sufficiente la comune disciplina sulla responsabilità
omissiva, poiché il potere-dovere del medico di curare
si fonda sul consenso del paziente e, quando interviene
il rifiuto della cura da parte di questi, il dovere del
medico di curare viene meno e, quindi, la responsabilità
per omissione, che richiede ex art. 40 c.p.
l’obbligo di impedire l’evento (il c.d. obbligo di
garanzia), non più sussistente in caso di intervenuto
rifiuto.
Il problema è,
invece, di ordine pratico,poiché la validità del rifiuto
ha carattere eccezionale, richiedendo una serie di
requisiti non facilmente presenti ed accertabili nei
malati terminali o gravemente sofferenti, dovendosi
trattare di rifiuto: a) personale di
soggetto capace di intendere e di volere, non del
rappresentante legale dell’incapace; b) reale,
non presunto sulla base della situazione personale del
malato (tormentosità e incurabilità del male, imminenza
della morte, ecc.) o del criterio della «vita indegna),
c) informato, quindi, consapevole circa
gli effetti del rifiuto delle cure; d)
autentico, cioè fermo, ribadito, razionalmente
motivato.
Il problema
dell’eutanasia non consensuale si è acutizzato rispetto
al c.d. accanimento terapeutico.
Espressione che dovrebbe essere forse abbandonata già al
livello semantico per il suo carattere emozionale, per
un possibile uso impressionante la pubblica opinione,
per la forza evocatrice di un «potere medico» fine a se
stesso e di tenebrose sperimentazioni su malati, oltre
che per la sua indeterminatezza, aperta a possibili
abusi.
Ma poiché costituisce
una possibilità medica ed un’eventualità pratica, esso
pone innanzitutto due questioni.
A) La prima questione
riguarda la difficoltà di stabilire quando si tratti di
accanimento o di doverosa terapia, stante
la difficoltà di una distinzione assoluta tra terapia
proporzionata e terapia sproporzionata alla
concreta situazione clinica. Anche perché molti successi
della medicina moderna sono dovuti alla insistenza nel
cercare di proteggere ogni residuo di vita del paziente,
prodigandosi fino al limite dell’impossibile.
B) La seconda
questione riguarda il tipo di utilizzo del
concetto di accanimento terapeutico, perché: 1) o si
vuole indicare una cosa ovvia, ossia che nei casi
di comprovata sproporzione, di inutilità della terapia,
che aggraverebbe solo la sofferenza e l’agonia, cessa
l’obbligo medico di curare. Senza necessità di alcuna
previsione legislativa, come comprova la normale prassi
medica, che in materia non ha mai posto pericolare
problemi giuridici; e perché la cessazione della terapia
non è causa (né concausa) della morte, né di un
apprezzabile anticipo della medesima e, quindi, non vi è
omicidio per omissione;
2) oppure si vuole
affermare una cosa pericolosa, se, attraverso una
concezione ampia di tale concetto, si intende
legittimare apprezzabili anticipazioni della morte e,
quindi, l’eutanasia passiva non consensuale, vietate dal
nostro diritto. Circa, poi e in particolare, i soggetti
sottoposti alle tecniche rianimatorie per lunghi
periodi e senza esiti, il problema dell’accanimento
terapeutico neppure si pone, perché la morte
encefalica: a) o non è intervenuta e, allora,
esiste l’obbligo giuridico di continuare il trattamento
rianimatorio, poiché si tratta di soggetto vivente, con
possibilità anche di ripresa totale o parziale; b)
oppure è intervenuta come certa e, allora, trattandosi
di cadavere, sussiste l’obbligo dell’inumazione e,
quindi, della cessazione della inutile rianimazione.
Tutto ciò premesso,
la risposta autenticamente personalistica all’ideologia
eutanasica sta: a) sul piano umano, nella
riscoperta della «cultura dell’accompagnamento del
malato alla morte»: più solidarietà, vicinanza,
condivisione della sofferenza; b) sul piano
medico, nel potenziamento della medicina palliativa,
che svuota la ragione della eutanasia pietosa dal suo
interno.
Con l’inquietante
interrogativo se l’ideologia eutanasica, sincronica alla
imperversante ideologia materialistica-edonistica dell’uomo-piacere
(sempre giovane, bello, longilineo, efficiente,
scattante, deodorato, lavato e stirato), non sia il
prezzo dell’obliterazione dell’immagina, degradata e
disfunzionale, dell’uomo-dolore e per esorcizzare
l’immagine inquietante della morte e della sofferenza:
di un’umanità, ove, perduta la «pietà per la morte», si
invoca la «morte per pietà».
4. I limiti delle
dichiarazioni anticipate di trattamento.
– Un terzo ordine di limiti dell’autodeterminazione
personalistica relativa concerne le dichiarazioni
anticipate di trattamento (il c.d.,
impropriamente, testamento biologico), che pongono un
triplice problema.
A) Il problema,
innanzitutto del fondamento giuridico, della
legittimità, di tali dichiarazioni, che sul piano
astratto non appare presentare radicali obiezioni
etico-giuridiche di principio, perché trovano anch’esse
il loro fondamento nella cultura,anche personalistica,
che ha affermato il principio di autodeterminazione,
pure se relativa.
B) Il problema, in
secondo luogo, dell’opportunità di un’espressa
disciplina legislativa, avversata da coloro che
temono che essa sia il prologo per l’introduzione di una
legge autorizzatrice dell’eutanasia. Ma invece, da più
parti richiesta dopo le inquietanti pronunce giudiziarie
sul caso Eluana Englaro di giudici ordinari, di giudici
amministrativi e l’introduzione, da parte di zelanti
amministrazioni comunali, di registri per l’iscrizione
delle dichiarazione anticipate con la triplice finalità:
1) di garantire la reale volontà del soggetto ed evitare
che, in nome del diritto di autodeterminazione, si violi
tale diritto; 2) di ridurre le tormentose incertezze dei
medici; 3) di evitare che i problemi di vita e di morte
vengano risolti secondo le variabili etiche, ideologiche
e caratteriali dei singoli giudici. Richiesta, dovuta ad
esigenze anche di certezza ed eguaglianza giuridica e
già accolta dal legislatore con il disegno di legge già
approvato in Senato.
C) Il problema, in
terzo luogo, dei requisiti e dei limiti di
validità delle dichiarazioni anticipate e di
vincolatività delle stesse per il medico, rispetto,
al quale sono tre le soluzioni prospettate o, comunque,
prospettabili:
1) la soluzione
della vincolatività assoluta, espressione
dell’autodeterminazione illimitata, che va respinta
perché presenta due inaccettabili inconvenienti: a)
perché non salvaguardia l’attendibilità delle
dichiarazioni anticipate e, quindi, può comportare gravi
attentati allo stesso principio dell’autodeterminazione,
in quanto, tali dichiarazioni sono ritenute vincolanti
in qualunque forma espresse (scritta o orale) da
chiunque attestate (congiunti,amici, terzi) e con
qualunque mezzo di prova accertate (anche testimoniale:
così negli sconcertanti ed inquietanti casi di Nency
Cruzen, Terry Schiavo ed Eluana Englaro); b)
perché impone al medico l’automatica e meccanica
esecuzione delle dichiarazioni, privandolo degli spazi
di autonomia decisionale, necessari proprio per
salvaguardare la stessa volontà del soggetto, specie
quando è intervenuta una mutazione in meglio della
situazione clinica e terapeutica;
2) la contrapposta
soluzione della non vincolatività assoluta,
che non può essere interamente accolta perché presenta i
due inconvenienti opposti: a) perché renderebbe
sempre doveroso il trattamento medico stante la
postulata inattendibilità assoluta delle dichiarazioni
(per l’affermata inevitabile genericità ed
ambiguità del linguaggio e del contenuto delle stesse e
per la loro inattualità, stante l’incolmabile differenza
esistente tra un rifiuto delle cure, espresso in un
lontano momento di benessere e,comunque, distaccato
dalle angosce di una vita che fugge, e la persistenza di
un tale rifiuto in tutt’altro contesto esistenziale,
all’interno di una esperienza concreta di malattia; b)
perché vanificherebbe totalmente il principio di
autodeterminazione, anche nei casi di dichiarazioni con
precisi requisiti di attendibilità;
3) la intermedia
soluzione della vincolatività relativa, accolto
anche dal Comitato nazionale di bioetica e dal Disegno
di legge, già approvato dal Senato, e che si presenta
come la più corretta, perché non appare contrastare col
principio personalistico dell’autodeterminazione
relativa, in quanto richiede i seguenti rigorosi
requisiti di validità: a) la provenienza della
dichiarazione da soggetto maggiorenne,
capace di intendere e di volere ed informato sugli
esiti del rifiuto (es: che negli stati vegetativi
persistenti la richiesta sospensione della alimentazione
ed idratazione artificiali comporta la morte per fame e
per sete con agonia anche bisettimanale e possibili
atroci sofferenze); b) la forma scritta
(e, per certi disegni di legge, anche notarile), di
data e firma autografa certe (anche per
stabilire la raggiunta maggiore età del dichiarante);
c) la specificità delle situazioni cliniche
considerate e dei tipi di terapia rifiutati, con l’assistenza
di un medico, che controfirma; d) la
conformità delle dichiarazioni al nostro ordinamento
giuridico, perché esse non possano costituire lo
strumento per una surrettizia introduzione della
eutanasia attiva, finché questa sarà vietata dal nostro
ordinamento, onde il dichiarante può rifiutare solo le
cure che potrebbe rifiutare in stato di coscienza
nell’attualità della malattia; e) la
persistente attualità delle dichiarazioni,
requisito questo più arduo e problematico, poiché le
dichiarazioni hanno una validità limitata nel tempo
(3 anni per certi disegni di legge e 5 per il disegno
già approvato in Senato); e non deve essere intervenuta
revoca delle stessa, a nostro avviso anche
informale (formale invece per tale disegno) e pur se in
stato di coscienza ridotta del soggetto, poiché nel
dubbio vale il principio di precauzione: in dubio pro
vita; f) la possibilità di nomina di un
fiduciario, col solo compito di controllare il
rispetto della volontà del dichiarante, non di esprimere
rifiuti in sua vece, trattandosi di un diritto
personalissimo; g) il divieto per il
rappresentante legale del minore e dell’infermo di
mente, di rifiutare le cure del rappresentato, poiché
questo ha soltanto il potere-dovere di agire per la
salvaguardia della vita e salute del rappresentato
medesimo.
Sicché il medico ha
il dovere di accertare la sussistenza di tutti i
suddetti requisiti, onde, in assenza anche di uno
soltanto di essi, è tenuto a praticare le cure.
5. Gli
stravolgimenti giuridico-giudiziari
dell’autodeterminazione in un noto caso di stato
vegetativo persistente.
– Il problema della
dichiarazioni anticipate di trattamento si è
riacutizzato rispetto agli stati vegetativi
persistenti e drammatizzato in seguito alla serie di
pronunce sul triste caso di Eluana Englaro, viziate da
stravolgimenti di fondamentali principi giuridici, che
suscitano profonde inquietudini, anche per tutte le
possibili e tremende implicazioni.
Ai presenti fini
prescindiamo pure per ragioni di tempo ad una più
approfondita analisi: 1) dello stravolgimento del
principio di legalità, poiché con atti, più che di
giurisdizione (di ius dicere), di sovranità (di
ius dare) si è costruito non solo un controverso
diritto ad arrecare la morte, ma anche una «scriminante
procedurale», in base alla quale la morte di Eluana si
legittima se arrecata con prefissate macabre modalità
esecutive (in compiacenti hospices, con
trattamenti riduttivi delle atrocità visive della morte
per fame e per sete e la somministrazione di sedativi).
Cose estranee alla giurisdizione (si dimentica che anche
le modalità di esecuzione della pena di morte, quando
vigeva, erano stabilite dalla legge); 2) del fatto che
la Suprema Corte di Cassazione ha deciso per la liceità
dell’arrecata morte di Eluana, facendo finta di non
decidere attraverso il sofisma processuale della
mancanza di interesse pubblico del ricorso, perciò
ritenuto inammissibile, del Procuratore generale della
Repubblica di Milano, riguardando il caso il diritto
personalissimo del rifiuto di trattamenti. Con la
degradazione, così, di tutto ad un fatto meramente
privato, individuale, e dimenticando: a) che le
problematiche delle dichiarazioni anticipate e dello
stato vegetativo presentano una dimensione epocale e
pressoché planetaria (con profondi contrasti nel mondo
giuridico, laceranti impatti nella pubblica opinione,
incertezze scientifiche, prese di posizione di
Amministrazioni regionali e di Ministri, proposte di
decreti legge e presentazione di disegni di legge) ed
interessano migliaia di Eluana, presenti e future; b)
che tutto ciò che concerne il primario diritto della
vita sottostà alla garanzia della riserva di legge,
volta ad assicurare, fra l’altro, la certezza e
l’uguaglianza giuridica (così, ad es., le leggi sui
trapianti, sulla morte encefalica, e più in generale
sulla bioetica); 3) dello stravolgimento di due dati
biologici, postulati come certi, ma smentiti o
ritenuti problematici (vedi da ultimo il documento
del gruppo di
ricerca del Ministero del Welfare) dalle più recenti
acquisizioni della scienza medica e tutt’altro che
irrilevanti: a) la irreversibilità dello
stato vegetativo persistente, poiché trattasi invece di
un giudizio soltanto statistico-probabilistico, essendo
stato dalla scienza provate non la totale assenza di
possibili momenti di coscienza di sé e del mondo
esterno, bensì, attraverso la risonanza magnetica
funzionale, un’attività cerebrale cosciente,
intrappolata in un corpo non comunicante con l’esterno
per il blocco muscolare. Tant’è che la Conferenza
mondiale di neurologia eliminò (1997) l’aggettivo
«permanente», usato invece nelle pronunce su Eluana;
b) la totale assenza di sensibilità, di
sofferenza, nel caso di provocata morte per fame e sete,
di durata anche bisettimanale, per sospensione
dell’alimentazione e idratazione artificiali: cosa non
solo scientificamente non provata, ma smentita
scientificamente dalla tomografia ad emissione di
positroni (e, implicitamente, dagli stessi giudici
milanesi, avendo essi prescritto l’accompagnamento della
interruzione dell’alimentazione e idratazione con la
somministrazione di sedativi e secondo un meticoloso
protocollo). E non si è mancato, da parte di neurologi,
di ipotizzare che l’improvviso peggioramento fisico di
Eluana durante il trasporto nella casa di cura udinese e
il ricovero nella medesima potrebbe essere dovuto alla
presa di coscienza da parte della ragazza dell’abbandono
dell’ambiente protetto e amorevole in cui da quindici
anni era assistita da generose suore. E nella meticolosa
«Scheda di rilevazione degli elementi indicativi di
sofferenza», gelidamente compilato di ora in ora nei
giorni e nelle notti di sottrazione del nutrimento e
dell’acqua, si legge della voce di Eluana sentita più
volte, di emissione di suoni spontanei, di singoli
lamenti, di suoni che sembrano sospiri.
Ma non si può
prescindere, e tanto meno, dal forzato stravolgimento
del principio di autodeterminazione, attraverso
l’affermazione dei tre seguenti contrari assunti.
A) In primo luogo, la
proclamazione del principio della legittimità non solo
del rifiuto dei trattamenti sanitari, espresso e
documentato, ma anche del rifiuto presunto,
desumibile da nebulosi e generici indici (personalità
del soggetto, stile di vita, suoi convincimenti circa
l’idea della dignità umana). Apertamente contrastante
con l’enfatizzata premessa che il rifiuto del paziente
deve risultare da elementi chiari, univoci e
convincenti. E perciò aperto a tutti gli abusi ed
arbitrii (fra l’altro di familiari, possibili
costruttori di artificiose presunzioni di rifiuto di
terapie dei loro «cari» in stato di incoscienza per fini
appropriativi ed utilitaristici, fiancheggiati magari da
testimoni compiacenti facilmente reperibili). Ci
troviamo di fronte più che ad una adesione ad una
autodeterminazione assoluta, ad una macroscopica
violazione dello stesso principio di autodeterminazione
tout court, assoluta o relativa che si voglia.
Invero, l’asserito
rifiuto di Eluana, risalente a circa venti anni fa,
manca di tutti i requisiti minimi di validità,
sopraelencati, di un’attendibile dichiarazione
anticipata: di trattamento: a) della forma
scritta e sottoscritta e della data certa
(anche per accertare la raggiunta maggiore età della
medesima); b) della specificità del tipo
di trattamento rifiutato (non riguardando, di certo, il
suo asserito rifiuto lo stato vegetativo persistente,
essendo questo vent’anni fa ben noto neppure ai medici);
c) del requisito liberale-laico della
autodeterminazione informata, poiché Eluana non
fu certo informata e, comunque, non era consapevole che
l’interruzione del cibo e dell’acqua avrebbe provocato
l’orribile morte per fame e sete con agonia anche
quindicinale (docet l’allucinante fotoregistrata
agonia di Terry Schiavo); d) della persistente
attualità dell’asserito rifiuto, perché è stato
espresso non entro i suddetti 3 0 5 anni precedenti, ma
risalirebbe a circa 20 anni prima, e perché esiste una
incolmabile differenza tra una volontà espressa in un
lontano momento di benessere o quando la non incombenza
dello stato patologico consentiva solo una valutazione
astratta, distaccata da tale situazione, e la
persistenza di tale volontà nella reale situazione
patologica di una vita che fugge ed a una tale distanza
cronologica, psicologica, esistenziale, del momento
della sua attuazione. Con, altresì, una palese
contraddizione tra pronunce della stessa Corte di
cassazione, che nel 2006 nega validità per difetto di
attualità al rifiuto specifico di emotrasfusioni di un
testimone di Geova, documentato in un tesserino, e nel
2008 afferma l’attualità di un rifiuto presunto e del
tutto generico, di età ventennale.
Ma anche con la
profonda amarezza e sconcerto di tutti coloro
(sottoscritto compreso) che per decenni si sono battuti,
sul piano culturale, giudiziario e legislativo, per
l’affermazione dell’autentico principio personalistico
della autodeterminazione: di fronte alla constatazione
che sotto l’enfatizzata difesa del diritto di
autodeterminazione, si è vanificato tale diritto,
attraverso un costruito rifiuto, da parte di Eluana, del
cibo e dell’acqua e una sua volontà di morire per sete e
per fame, orribilmente. Senza alcuna effettiva prova, se
non asseriti vaghi discorsi e brani di conversazioni,
desunti da testimonianze, già ritenute generiche e,
quindi, insufficienti dalla Corte d’appello di Milano in
una precedente sentenza del 2006; e smentiti da altre
testimonianze processualmente non emerse. Sarebbero
questi gli elementi di prova: chiari, univoci e
convincenti, richiesti dalla Corte di cassazione? E
senza particolare originalità, poiché la storia gronda
di casi in cui in nome della difesa dei diritti umani se
ne pratica il disprezzo.
B) In secondo luogo,
l’affermazione del principio per cui il
consentire e il rifiutare il trattamento sanitario non è
più un diritto personalissimo e, quindi,
esclusivo del soggetto, capace di intendere e di volere
e cosciente, ma anche una «potestà» del
rappresentante legale, al quale invece gli ordinamenti
giuridici di civiltà e, di recente, anche la convenzione
di Oviedo, resa esecutiva con la legge n. 145/2001,
hanno sempre riconosciuto solo il potere-dovere di agire
per la tutela innanzitutto della vita, oltreché della
salute, del rappresentato, e non per la soppressione
della stessa. E si è così aperta la prospettiva che la
vita o la morte dei malati, minori o infermi di mente,
dipendano dalle diverse etiche ed ideologie dei
rappresentanti. Docent i misfatti, compiuti in
altri paesi, di trapianti di rene di fanciullo gemello a
fratello gemello, con la mera autorizzazione dei
genitori.
c) In terzo luogo,
l’emersione del principio per cui la dignità
o la non dignità della vita umana viene
legata allo stato di coscienza o allo stato di
incoscienza del soggetto, scivolando così sulla china
eugenetico-razzista della negazione totale di tale
dignità ai dementi, agli psicotici, ai colpiti da
ictus; o ad una graduatoria della dignità umana in
base al criterio di una maggiore o minore coscienza. E
col vuoto di memoria circa il fatto che il criterio
della «vita non degna», enunciato da due illustri
pensatori tedeschi nel 1922, fu il supporto del
programma nazista eutanasico, che nel 1939-41 portò alla
eliminazione di oltre 70.000 infermi di mente.
E con
l’autorizzazione di ciò che non era giuridicamente
autorizzabile in sede giudiziaria, perché contra
legem, non solo si è violato il principio
costituzionale della soggezione del giudice (soltanto,
ma anche sempre) alla legge e stravolto il
principio istituzionale della divisione dei poteri. Ma
si concorre ad incrementare l’erronea e preoccupante
convinzione, in crescente espansione nella magistratura,
che il giudice sia fonte del diritto e possa farsi le
proprie leggi, e, negli operatori sanitari e nella
pubblica opinione, che quanto sentenziato dai giudici su
Eluana sia del tutto legittimo e legittimamente
ripetibile rispetto ai tanti altri casi similari.
Ma, in verità, le
strumentalizzazioni del triste caso di Eluana e la serie
di forzature e di stravolgimenti, di diritto e di fatto,
al triplice scopo di affermare la legittimità anche di
rifiuti, presunti o indimostrati, della sospensione
dell’alimentazione e della idratazione artificiali,
nonché di morti giudizialmente autorizzate e programmate
e medicalmente provocate con macabro rituale, hanno
ottenuto l’effetto opposto, poiché in tanti hanno
suscitato dolore e rifiuto, un senso di repulsione e di
lesa umanità. E quindi sollecitato – per l’elementare
legge di reazione umana – l’esigenza di una
regolamentazione legislativa, subito espressa nel
disegno di legga già approvato al Senato e che sancisce:
1) l’ammissibilità soltanto di un rifiuto
anticipato, purché espresso e presenti tutti gli
imprescindibili requisiti di forma e di contenuto
sopraelencati; 2) il divieto della sospensione
della alimentazione e idratazione artificiale nei
soggetti in stato vegetativo; 3) la conseguente
punibilità della provocata morte del dichiarante per i
reati di omicidio (artt. 575 e 579 c.p.) in tutti i casi
in cui il rifiuto non presenti i requisiti di
legittimità dalla legge stabiliti.
6. La
configurabilità del delitto di omicidio premeditato nel
caso di sospensione dell’alimentazione e idratazione
artificiali.
– Tale sospensione può
configurare il delitto di omicidio premeditato, sia che
si consideri detta sospensione vietata, sia che la si
ritenga non vietata, ma non sussista un rifiuto con i
requisiti di validità sopraelencati. Ed è, in
particolare, configurabile – come affermato anche da
emeriti Presidenti della Corte costituzionale – nel caso
di Eluana Englaro:
A) perché sul
piano oggettivo: 1) Eluana era persona viva:
a) poiché non era intervenuta la morte encefalica,
come richiesta dalla legge; il circolo e il respiro
proseguivano spontaneamente; e normale era il ritmo
sonno-veglia; b) il corpo era sano, per
l’assenza di patologie rilevanti e le persistenti buone
condizioni di salute fino al momento del trasporto ad
Udine (che smentiscono le asserite gravi condizioni, che
avrebbero richiesto la procedura d’urgenza del ricovero
udinese); con ritorno mestruale, assenza di decubito
dopo 17 anni di giacenza in letto, peso corporeo sui
56-57 Kg prima di tale trasporto e sui 53 (e non 40 come
è stato detto) al momento del decesso; c) il peso
del cervello – la notizia più grave se vera – era uguale
a quello di persona normale, mentre i medici
filoeutanasici avrebbero assicurato che la ragazza non
avrebbe sofferto, perché il suo cervello, quale quello
di Terry Schiavo, era ridotto almeno alla metà del suo
peso normale; 2) la sospensione dell’alimentazione e
idratazione è stata causa certa della morte; 3)
non è configurabile la scriminante dell’esercizio
del diritto, fondata sull’autorizzazione dei giudici
milanesi: a) poiché trattasi di autorizzazione
contra legem, sia innanzi tutto se si ritiene tale
sospensione vietata, sia comunque qualora la si ritenga
legittima, se consentita dal soggetto, in quanto
l’asserito rifiuto della alimentazione e idratazione,
attribuito ad Eluana, manca, come già dimostrato, dei
requisiti minimi per l’attendibilità e, quindi, per la
legittimità dello stesso; b) in ogni caso, la
pronuncia della Corte civile di appello non è
vincolante per il giudice penale e il contrasto tra
il giudizio civile e il giudizio penale sarebbe
imputabile alla illegittimità del primo;
B) perché sul
piano soggettivo: 1) nei soggetti esecutori della
sospensione dell’alimentazione e della disidratazione e
nei soggetti concorrenti vi è stata l’incontestabile
coscienza e volontà di cagionare, in tal modo, la morte,
programmata, di Eluana, e, quindi, la sussistenza del
dolo di premeditazione; 2) non è configurabile nei
loro confronti neppure la scriminante putativa
dell’esercizio del diritto, cioè di credere erroneamente
di tenere una condotta giuridicamente autorizzata, e,
quindi, lecita: a) perché trattasi di errore non
inevitabile e perché per il dolo di omicidio basta anche
il dubbio sulla liceità della sospensione dei
suddetti trattamenti e, quindi, il dubbioso, che non si
astiene dalla condotta, accetta il rischio della sua
illiceità; b) perché quanto meno un tale dubbio
era incontestabilmente presente nei suddetti soggetti,
stante il lacerante dibattito, umano, scientifico e
giuridico, accesosi nelle più varie sedi, le autorevoli
critiche mosse alle pronunce giudiziarie in materia, il
rifiuto espresso da molte strutture sanitarie e da
Regioni di effettuare la sospensione della alimentazione
e idratazione di Eluana, gli interventi contrari di
Ministri e la presentazione di un decreto legge di
divieto; c) perché nel dubbio vale il principio
di precauzione: in dubio pro vita.
E a completamento del
suddetto quadro di stravolgimenti giuridici, con
esemplare coerenza il GIP udinese ha emesso, su
richiesta del Pubblico Ministero, il decreto di
archiviazione, con una ancor più sconcertante
motivazione, poiché, verosimilmente convinto della
totale insostenibilità della nebulose tesi del rifiuto,
espresso o presunto di Eluana, ha ripiegato sulla
duplice peggiorativa argomentazione, stando alle notizie
mediatiche, se vere: a) che «la prosecuzione dei
trattamenti di sostegno vitale di Eluana Englaro non era
legittima in quanto contrastante con la volontà espressa
dai legali rappresentanti della paziente, nel ricorrere
dei presupposti in cui tale volontà può essere espressa
per conto dell’incapace»: con un totale stravolgimento
del magistero del rappresentante legale, così investito
dei tremendi poteri di vita o di morte sul rappresentato
a seconda delle sue etiche, ideologie, note caratteriali
e convinzioni personali sulla dignità dell’altrui vita,
che tristemente rievocano il primordiale ius vitae et
necis del pater familias romano; 2) che il
decesso di Eluana non è stato «conseguenza di pratiche
diverse da quelle autorizzate e specificate nei
provvedimenti giudiziari», elevando così tale
provvedimento contra legem, a sentenza di
condanna a morte e l’osservanza del macabro rituale ivi
sancito a legittima esecuzione di tale condanna. Et
lux facta est? O al divieto costituzionale della
pena di morte pubblica viene a sostituirsi il diritto di
morte privata?
E per non disperare,
vivo è l’auspicio che tutti coloro che hanno contribuito
alla morte di Eluana e i laudatores di siffatta
«conquista di civiltà» prendano chiara coscienza che col
caso Eliana si è aperta una scivolosa china di
implicazioni, al fondo della quale possiamo trovare
abominevoli realtà. E che con siffatte pronunce (assieme
al moltiplicarsi di tante altre sentenze creative di
diritto extralegislativo ed ideologiche) la sondata
sfiducia nella magistratura di tre persone su quattro di
quel Popolo, in nome del quale la giustizia viene
amministrata, rischia di diventare di quattro persone su
quattro. E rende sempre più urgente il rientro,
spontaneo o sospinto, di certa magistratura nel proprio
alveo istituzionale abbandonato. Nell’interesse oltre
che della giustizia della stessa magistratura.
7. Un inquietante
interrogativo.
–
E, per
concludere, ai suddetti giudici, a tutti i concorrenti
nella provocata morte di Eluana e a tutti i
laudatores suddetti, un inquietante interrogativo:
se il supposto
atto di volontà di Eluana avesse avuto per oggetto beni
patrimoniali ai fini di una successione ereditaria, da
nessuno sarebbe stato ritenuto un valido testamento
successorio, mentre è stato considerato un valido
testamento biologico, avendo avuto ad oggetto il bene
primario della vita. Ebbene per certi giudici e certi
ambienti culturali sostenitori di una «tale conquista di
civiltà» i beni patrimoniali, i soldi, valgono di più e
meritano una tutela superiore della vita umana? È questa
l’amara morale del triste e strumentalizzato caso di
Eluana Englaro?
O forse siamo di fronte – ripetiamo – alla grande e più
generale bugia di un mondo che, perduta la «pietà per la
morte», invoca «la morte per pietà».
|