1. Le quattro firme elettroniche “ufficiali” del CAD
Con il D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, è stato
significativamente modificato anche il quadro delle
firme elettroniche presente nel Codice
dell’amministrazione digitale, contenuto nel D.Lgs. 7
marzo 2005, n. 82. Infatti, l’art. 1 del D.Lgs.
235/2010, in iterativo recepimento della normativa
europea contenuta nella Direttiva del Parlamento europeo
e del Consiglio, 13 dicembre 1999, n. 1999/93/CE, ha
reintrodotto la cosiddetta firma elettronica “avanzata”.
A onor del vero, si tratta di una delle due tipologie
previste fin dal 1999 in Europa assieme alla firma
elettronica (semplice), che era stata già introdotta nel
nostro ordinamento dall’abrogato D.Lgs. 10 gennaio 2002,
n. 10, anche se poi era stata confermata nel regolamento
emanato con DPR 7 aprile 2003, n. 137, tuttora vigente.
In maniera inspiegabile, invece, era stata tolta dal
dettato normativo del CAD emanato con il D.Lgs. 82/2005
e ora, quindi, reintrodotta. Non si tratta dunque, com’è
stato dichiarato, di una vocazione europeista, ma di un
preciso obbligo imposto dalla normativa comunitaria.
La novità, però, non si ferma qui. Per il legislatore
italiano i genus di firma adesso sono due: la firma
elettronica e la firma elettronica avanzata. La
differenza, com’è noto, è ontologica: la prima tipologia
di firma, definita in modo generalissimo e quasi
evanescente dal legislatore, ricomprende qualsiasi tipo
di identificazione che in qualche modo consenta una
qualsiasi associazione logica tra un determinato
soggetto e determinati dati: da un normalissimo PIN del
bancomat, alle normali credenziali di accesso costituite
da nome utente e password. Firma e documento in ogni
caso rimangono sempre entità distinte, ancorché
logicamente associate.
La seconda tipologia di firma invece si caratterizza per
il fatto di essere “collegata ai dati” a cui si
riferisce, in modo da consentire di rilevare eventuali
alterazioni successive. Firma e documento quindi si
fondono in un’unica entità, e vengono separate solo al
momento della verifica della firma. Che poi nella
prassi, per economia di calcolo, si firmi non
direttamente il documento, ma la sua impronta, non
rileva ai nostri fini perché ogni variazione del
documento si ripercuote direttamente sulla sua impronta.
Nella novella legislativa tuttavia il genus di firma
“avanzata” con una certa originalità viene ora suddiviso
in due species: la firma elettronica “qualificata” e la
firma “digitale”, che vengono ridefinite e ricondotte
entrambe al più ampio genus, appunto, della firma
elettronica avanzata.
Ecco allora le definizioni proposte dall’art. 1 del
D.Lgs. 235/2010:
Firma elettronica
(lett. q)
L’insieme dei dati in forma elettronica, allegati oppure
connessi tramite associazione logica ad altri dati
elettronici, utilizzati come metodo di identificazione
informatica
Firma elettronica avanzata
(lett. q-bis)
Insieme di dati in forma elettronica allegati oppure
connessi a un documento informatico che consentono
l’identificazione del firmatario del documento e
garantiscono la connessione univoca al firmatario,
creati con mezzi sui quali il firmatario può conservare
un controllo esclusivo, collegati ai dati ai quali detta
firma si riferisce in modo da consentire di rilevare se
i dati stessi siano stati successivamente modificati
Firma elettronica qualificata
(lett. r)
Un particolare tipo di firma elettronica avanzata che
sia basata su un certificato qualificato e realizzata
mediante un dispositivo sicuro per la creazione della
firma
Firma digitale
(lett. s)
Un particolare tipo di firma elettronica avanzata basata
su un certificato qualificato e su un sistema di chiavi
crittografiche, una pubblica e una privata, correlate
tra loro, che consente al titolare tramite la chiave
privata e al destinatario tramite la chiave pubblica,
rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la
provenienza e l’integrità di un documento informatico o
di un insieme di documenti informatici
Non possiamo non permetterci una prima considerazione:
la vera innovazione sarebbe stata dimezzare le tipologie
da quattro a due, oppure eliminare almeno la firma
elettronica qualificata. In ogni caso, sarebbe stato
lecito sperare in una diversa e migliore definizione
della firma qualificata, eliminando la perniciosa
autoreferenzialità della sua definizione, che
riconducendo la firma qualificata all’utilizzo di un
dispositivo “qualificato” non contribuisce di certo a
generare chiarezza nel sistema.
Invece di procedere in questa direzione il legislatore
ha optato da un lato per l’inserimento della firma
avanzata, dall’altro per modificare la definizione della
firma digitale ricondotta ora direttamente all’insieme
delle firme avanzate, e saltando qualsiasi riferimento
alle firme qualificate.
Ora, a tale nuovo ardore definitorio è necessario dare
un qualche significato. Una prima soluzione potrebbe
essere quella di ritenere che la nuova firma digitale
non sia più necessariamente riconducibile all’insieme
delle firme qualificate, ma direttamente all’ambito
della firma avanzata. Non si avrebbe più quindi una
sorta di piramide classificatoria, con alla base la
firma elettronica, quindi la firma avanzata, e poi via
via la firma qualificata ed infine quella digitale,
ciascuna intesa come sottoinsieme della precedente
categoria, ma si avrebbe una sorta di piramide
dall’equilibrio forse precario, con al vertice gli
insiemi non perfettamente corrispondenti delle firme
qualificate e digitale, ciascuna con parziali ambiti di
indipendenza.
Una seconda soluzione, forse preferibile, sarebbe invece
quella di ritenere pur sempre valida la piramide e,
pertanto, ritenere che allo stato attuale la firma
“digitale” non possa che essere anche firma
“qualificata”. E questo perché ad oggi la firma digitale
è apposta attraverso un dispositivo di firma “sicuro”
per la creazione della firma, cioè attraverso un
dispositivo “qualificato”, condizione necessaria e
sufficiente per ricondurre la stessa anche nell’ambito
delle firme qualificate.
2. Un nuovo nome per la firma digitale?
In questa sede di riforme poi, sarebbe stato senz’altro
non disprezzabile cogliere la palla al balzo e procedere
ad una ridefinizione e chiarificazione della non
cristallina nomenclatura dei vari e numerosi tipi di
firma, abolendo per lo meno quel sintagma “firma
digitale” che poco significa nell’eterna crasi e
intercambiabilità dei termini “elettronica” e
“digitale”. Una firma digitale sempre elettronica è: al
di là dello strutturalismo, perché utilizzare
significanti diversi per lo stesso significato? In una
climax, avrebbe potuto essere coniata una “firma
elettronica certificata”, rimanendo, pur nella
lunghezza, sullo stesso piano lessicale e semantico. O
forse ancora, posto che la firma digitale è - come noto
- l’unica che per espresso dettato normativo è vincolata
ad una precisa tecnologia e segnatamente alla tecnologia
della crittografica asimmetrica, tanto valeva chiamarla
con il nome riferito alla specifica tecnologia. Per
esempio, “firma a crittografica asimmetrica” o
semplicemente “firma asimmetrica”. Sarebbe stato un nome
sicuramente perfettibile, ma certamente meno equivoco
del termine “digitale” che vuol dire tutto e nulla.
La vita è fatta di scelte, anche in questo campo: o si
utilizza l’espressione “firme digitali” oppure “firme
elettroniche”, perché, com’è noto fin dai primi
insegnamenti di Renato Borruso, la normativa va scritta
come un algoritmo: a parole uguali corrisponde un
significato uguale. D’altronde, se è un tipo di firma
elettronica, perché non aggiungere un aggettivo che
mantenga una coerenza tra parole e concetti?
Probabilmente non c’è in questa proposta il dono della
sintesi, ma della chiarezza e della normalizzazione. In
occasione della reintroduzione della firma elettronica
avanzata, in armonia con la direttiva comunitaria, lo
sforzo avrebbe potuto, dunque, essere completato in
questo senso, visto che l’Europa prevede le electronic
signatures e non le digital signatures[1].
A maggior ragione, dunque, restano da tenere d’occhio le
regole tecniche per la firma avanzata perché, in forza
della disposizione del nuovo CAD, può esservi lo spazio
per una ricostruzione in cui firma qualificata e firma
digitale non siano totalmente sovrapponibili come nuove
“firme avanzate”, come invece ora avviene.
3. Un’altra firma elettronica: l’invio di PEC
Prima di entrare nel merito, vale la pena ricordare che
nell’ordinamento italiano la vicenda delle firme
elettroniche rappresenta un classico esempio di
instabilità normativa, ma anche di non rispetto della
gerarchia delle fonti.
Infatti, mentre la firma elettronica avanzata era stata
introdotta con un norma di recepimento di rango
legislativo (D.Lgs. 23 gennaio 2002, n. 10), la firma
qualificata era stata inserita con una norma
regolamentare, che aveva anche reintrodotto la firma
digitale (DPR 7 aprile 2003, n. 137).
Come si è visto, i novellati sulle tipologie di firma
elettronica sono sempre avvenuti con norme di rango non
inferiore al DPR. Invece, con il DPCM 6 maggio 2009, che
inerisce a un sottoinsieme di posta elettronica
certificata, la CEC-PAC (detta ora “Postacertificat@),
era stato novellato come segue:
art. 4, comma 4
L’invio tramite PEC costituisce sottoscrizione
elettronica ai sensi dell’art. 21, comma 1, del decreto
legislativo n. 82 del 2005.
Al di là degli errori lessicali e concettuali (“invio”
in luogo di “il documento inviato” e “sottoscrizione” in
luogo di “firma”), già più volte segnalati[2], con
l’entrata in vigore del nuovo CAD, per buona sorte,
l’art. 21, comma 1, è rimasto inalterato, lasciando però
aperta una strada di scarsa chiarezza.
L’art. 21, come noto, è rubricato «Valore probatorio del
documento informatico sottoscritto» e il comma 1
inerisce soltanto all’efficacia probatoria:
art. 21, comma 1
Il documento informatico, cui è apposta una firma
elettronica, sul piano probatorio è liberamente
valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue
caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza,
integrità e immodificabilità.
Ne deriva che il richiamo del DPCM al CAD è da
intendersi come volto a definire semplicemente
l’efficacia probatoria dell’invio tramite PEC, nel senso
di ritenere liberamente valutabile in giudizio
l’imputabilità e l’ascrivibilità del messaggio al
titolare dell’account di posta. In una parola, la
provenienza (giuridica e diplomatistica), ma nulla di
più.
La conseguenza più importante per il pubblico ufficiale
e per il notaio è che la richiesta di autenticazione di
un messaggio di PEC è irricevibile, soprattutto ai fini
dell’art. 25, comma 2 del CAD, sul quale ritorneremo. In
questo senso, l’invio tramite PEC non rappresenta una
firma elettronica dal punto di vista sostanziale, ma
risulta solamente equiparato ad essa a esclusivi fini
probatori.
Andava quindi puntualmente chiarito, in sede di
regolamentazione tecnica o in sede esplicativa (ci sono
ben tre circolari ministeriali solo sulla PEC nel
2010!)[3], che il messaggio in alcun modo non firma i
file allegati, soprattutto nel caso di presentazione di
istanze o di dichiarazioni, come simultaneamente
regolamentato dall’art. 38 del DPR 445/2000 e dall’art.
65 del CAD. Lo strumento PEC, da intendersi
esclusivamente come vettore qualificato, in particolare
per i concorsi pubblici, è infatti solamente uno degli
strumenti dell’amministrazione digitale e con essi va
integrato.
È forse possibile formulare qualche ulteriore
osservazione sui limiti di tale equiparazione tra
l’invio tramite PEC e la firma elettronica, soprattutto
richiamando l’art. 21 che, come noto, è rubricato
«Valore probatorio del documento informatico
sottoscritto» e il primo comma di tale articolo, a cui
specificamente il richiamo si riferisce, non fa che
occuparsi proprio di detta efficacia probatoria.
Cercando quindi di dare un’interpretazione razionale a
tale richiamo, tenuto anche conto della fenomenologia
sociale prevalente secondo la quale ovviamente chi invia
un messaggio di posta, ancorché certificata, non vuole
certo firmare il messaggio, ma appunto solo inviarlo, è
forse possibile e sicuramente preferibile ritenere che
il rinvio citato sia più che altro da intendersi come
volto a definire semplicemente l’efficacia probatoria
dell’invio tramite PEC, ma non si spinga oltre. Non si
spinga in altre parole ad identificare tale “invio” con
la firma, ma con una sorta di (censurabile) sineddoche
che utilizza il tutto (“firma”), per indicare solo una
parte, cioè a dire la mera efficacia probatoria della
stessa.
Non si ha in sostanza vera firma, ma semplice
equiparazione parziale di alcuni limitati effetti della
firma. Prima conseguenza di stampo strettamente
giuridico e civilistico è che eventuali documenti
inviati unitamente al messaggio non devono ritenersi
“firmati”, ma semplicemente “inviati” dal titolare
dell’account di posta, punto e basta. Sempre ammesso che
il titolare agisca per proprio conto e non come vettore
qualificato di terzi (ad esempio, di un coniuge, di un
figlio, etc.) e ferma restando l’impossibilità di
verificare integrità e provenienza dei file inviati se
privi di firma digitale.
4. Un problema complesso: la firma analogica scansita
come firma elettronica
Pesanti riserve rimangono sul fronte della possibilità
di considerare come “firma elettronica” la firma
scansita, quella cioè che riproduce in un’immagine
informatica la firma autografa, ad esempio direttamente
da tablet o da scanner.
Il novellato dell’art. 25, comma 2, sulla firma
autenticata, infatti, recita:
L’autenticazione della firma elettronica, anche mediante
l’acquisizione digitale della sottoscrizione autografa,
o di qualsiasi altro tipo di firma elettronica avanzata
consiste nell’attestazione, da parte del pubblico
ufficiale, che la firma è stata apposta in sua presenza
dal titolare, previo accertamento della sua identità
personale, della validità dell’eventuale certificato
elettronico utilizzato e del fatto che il documento
sottoscritto non è in contrasto con l’ordinamento
giuridico.
Vengono, innanzitutto, poste alcune condizioni, quali la
firma in presenza del pubblico ufficiale, il rispetto
della legalità, l’accertamento dell’identità personale e
la validità del certificato elettronico. La previsione
normativa, peraltro, riprende quanto già introdotto nel
nostro ordinamento con l’art. 52-bis della legge 16
febbraio 1913, n. 89, cioè la c.d. “legge notarile”
modificata dal D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 110.
Tuttavia, l’identificazione di un’immagine informatica
riproducente una caratteristica personale quale la firma
autografa con una firma elettronica rappresenta un
monstrum giuridico e del buon senso, che manda in
soffitta le differenze tra digitale e analogico[4].
Il problema non è l’interpretazione giuridica, che può
essere forzata al punto di considerare la scansione un
“insieme dei dati in forma elettronica”, ma ancora una
volta la costruzione di un sistema promiscuo, a metà
strada tra innovazione e tradizione.
La ratio legis è pensata per non obbligare chi non
possiede una firma digitale a procurarsela per
sottoscrivere un atto notarile informatico. Intenzione
ottima, ma concettualizzata in contrasto con quanto dal
1997 si è detto sulla impossibilità metodologica di
scambiare la firma scansita con una firma elettronica.
Una scappatoia che cerchi di salvare una certa coerenza
lessicale forse si può provocatoriamente ipotizzare
considerando il termine “digitale” come proveniente non
dall’inglese digit (cifra), ma dal latino digitus
(dito).
Insomma, ora la firma digitale si fa con le dita.
A ben vedere, può essere interessante notare come tale
promiscuità semantica esista forse dalla notte dei
tempi, in quanto digit e digitus hanno la stessa radice
indoeuropea, poi latina e questo perché gli esseri umani
da sempre usano contare i numeri prima di tutto con le
dita. E dalla notte dei tempi quindi ritorna con
incredibile modernità tale promiscuità di significati,
che tuttavia sarebbe stato opportuno riuscire ad
evitare.
Così facendo, i contraenti non saranno costretti ad
avere una firma digitale per vendere o comperare un
immobile, ma risulterà sufficiente far trasumanare la
propria firma autografa a cura del notaio o del pubblico
ufficiale, cioè una firma tradizionale olografa e
autografa, contestualmente scansita e autenticata.
Ma allora c’è da chiedersi: ha ancora senso la parola
“innovazione” nell’amministrazione digitale italiana?
Non sarebbe stato maggiormente congruo rivoluzionare
l’atto notarile informatico attribuendolo, ai sensi
dell’art. 2699 del codice civile, solo al pubblico
ufficiale senza alcun altro intervento, tra l’altro
giuridicamente non imprescindibile, come avviene per gli
atti noncupativi (ad esempio, per un testamento dettato
ma non sottoscritto in punto di morte)?
Tale soluzione de iure condendo sarebbe stata certamente
possibile. E a ben vedere il nostro ordinamento contiene
già in nuce alcuni elementi che potrebbero legittimare
una tale ricostruzione. Da un lato infatti esiste
sicuramente l’atto notarile privo della firma delle
parti, impossibilitate per varie disgrazie della vita a
sottoscrivere (focomelici, ipovedenti, ma anche
semplicemente persone momentaneamente impossibilitate a
sottoscrivere ad esempio per una banale fasciatura). In
tal caso l’atto viene firmato solo dal notaio con
l’aggiunta però dei testimoni.
Ma anche a prescindere da tali ipotesi residuali, può
essere interessante notare che anche la firma apposta in
calce al tradizionale atto pubblico cartaceo a ben
vedere non è affatto una firma.
Essa è piuttosto una sottoscrizione leggibile e per
disteso con il nome e il cognome. Non è quindi un segno
grafico dotato di particolari caratteri di
riconoscibilità ed irripetibilità, ma è anzi un segno
grafico che prescinde da essi, dovendo appunto essere
leggibile e pertanto potenzialmente diverso dalla firma
abituale del soggetto e a lui biometricamente
riferibile.
Anche nel rogito notarile cartaceo quindi, così come
nell’atto notarile informatico, l’unica persona che
firma veramente è il notaio. Ed anche nel rogito
cartaceo, la firma del notaio è già una firma-funzione,
in quanto accanto alla firma deve essere apposta
l’impronta del sigillo, che attesta appunto la funzione
svolta dal pubblico ufficiale, simmetricamente a quanto
accade per i certificati di firma digitale del
notariato, che appunto attestano, oltre alla titolarità
del dispositivo, anche la funzione svolta dal titolare.
La ratio della norma che impone la leggibilità della
sottoscrizione non è facile da individuare e per
comprenderla è necessario calarsi nella realtà sociale
dell’Italia del primo Novecento, nella quale la vigente
legge notarile ha iniziato la sua vita. In tale
contesto, tornato incredibilmente attuale per certi
versi a seguito della forte immigrazione riscontratasi
in Italia negli ultimi anni, con un’altissima
percentuale di analfabetismo, la sottoscrizione
leggibile con il nome ed il cognome è riconducibile non
tanto alla necessità di controllare l’identità delle
parti (già attestata dal pubblico ufficiale) quanto
piuttosto all’esigenza di operare un doppio controllo
sull’operato di tale pubblico ufficiale al fine di
evitare che egli stesso possa adottare anche
inconsapevolmente comportamenti non corretti con persone
analfabete.
La legge notarile infatti dispone cautele aggiuntive
laddove intervengano all’atto contraenti analfabeti,
finalizzate ad accertare con maggiore prudenza e cautela
l’effettiva volontà degli stessi. Tali formalità però
potrebbero agevolmente essere scavalcate anche
all’insaputa del pubblico ufficiale con una firma
illeggibile la quale, in quanto mero scarabocchio, è in
sostanza apponibile quasi da chiunque, anche da un
analfabeta.
Una sottoscrizione leggibile invece, con nome e cognome
indicati per disteso è più difficile da apporre, essendo
più probabile che il soggetto che riesca a produrla sia
anche in grado di leggere e scrivere. La sottoscrizione
leggibile e per disteso quindi non è una firma. Essa
invece - pur mantenendo certamente il significato
sociale e psicologico di approvazione definitiva - è
piuttosto anche una prova aggiuntiva del fatto che la
parte è in grado di leggere e scrivere[5].
Ora, anche la firma acquisita tramite scansione ottica,
o tramite tavoletta informatica non è affatto una firma,
nemmeno elettronica. È uno strano ornitorinco in parte
digitale in parte analogico difficile da inquadrare.
Essa si sarebbe forse potuta evitare ed è possibile che
sia stata mutuata dall’esperienza francese senza
eccessivo approfondimento. È da verificare tuttavia se
tale simulacro di firma, mediato dalla tavoletta
informatica, mantenga almeno la seconda funzione che la
saggezza della legge notarile le ha assegnato riguardo
al controllo sulle capacità “letterali” delle parti.
5. Brevi conclusioni
La soluzione complessiva per l’amministrazione digitale
italiana non pare in linea con lo scarso livello di
alfabetizzazione del sistema Italia, che permane a tinte
sfumate almeno per tre ordini di motivi: le sempre più
scarse risorse destinate alla formazione, l’assenza di
regole tecniche e l’instabilità del quadro normativo.
Innovare significa anche cambiare metodi e strategie, in
un contesto che deve essere preparato gradualmente e
continuativamente, fino a divenire permeabile. In questo
caso, la formazione strategica diventa fondamentale. I
segnali che giungono, invece, vanno verso la riduzione
sempre più consistente delle risorse economiche,
nonostante il richiamo alla formazione contenuto
nell’art. 13 del CAD (si veda, solo come ultimo esempio,
la legge 30 luglio 2010, n. 122).
Il nuovo dettato normativo contiene un misto di principi
generali e di indicazioni pratiche che, però, attendono
da alcuni anni di essere attuati attraverso una
regolamentazione tecnica ampiamente prevista e
annunciata, ma non ancora concretizzatasi.
Premesso che il quadro sulle firme elettroniche
richiederebbe una semplificazione, l’elemento più
critico è la sua stabilizzazione. Semplificare, però,
non significa banalizzare. Da un lato abbiamo quattro
firme ufficiali inserite in un decreto legislativo,
dall’altro l’invio di PEC che, con qualche forzatura
inserito in un DPCM, viene equiparato a una firma
elettronica e, infine, un escamotage in un altro testo
(D.Lgs. 110/2010), recepito nel nuovo CAD, che si pone
l’obiettivo di far firmare nel mondo analogico qualcosa
che sarà gestito esclusivamente nel mondo digitale.
I prossimi dodici mesi, pertanto, saranno decisivi per
il futuro dell’amministrazione digitale, visto che si
affronteranno i nodi delle regole tecniche, sperando che
il legislatore abbia l’accortezza strategica di
coinvolgere le diverse professionalità e le associazioni
che le rappresentano, tenendo per ferma l’esperienza di
questi anni che ha ampiamente dimostrato che la riforma
calata dall’altro non attecchisce.
[1] Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, 13
dicembre 1999, n. 1999/93/CE, Quadro comunitario per le
firme elettroniche (GUCE 19.01.2000, L 13). Su questo
tema sono intervenuti in molti. Si rinvia per la
chiarezza a C. Giustozzi, Firme digitali e... analogie
elettroniche, «Interlex», 2003.
[2] I seguenti articoli sono stati pubblicati nel 2010
su questa stessa rivista: A. Lisi - Gianni Penzo Doria,
Che PEC-ato!; G. Penzo Doria,
La firma elettronica del quinto tipo; G. Penzo Doria,
PEC e CEC-PAC: proviamo a fare chiarezza.
[3] Presidenza del Consiglio dei Ministri, Circolare 18
febbraio 2010, n. 1, Uso della posta elettronica
certificata nelle amministrazioni pubbliche; Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Circolare 19 aprile 2010, n.
2, Informazioni per la gestione delle caselle di posta
elettronica certificata; ma soprattutto questa:
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Circolare 3
settembre 2010, n. 12, Procedure concorsuali ed
informatizzazione. Modalità di presentazione della
domanda di ammissione ai concorsi pubblici indetti dalle
amministrazioni. Chiarimenti e criteri interpretativi
sull’utilizzo della PEC.
[4] Come ha ricordato recentemente Giovanni Manca,
esiste anche un’ulteriore tipologia di firma elettronica
avanzata che è quella biometrica. Risulta simile alla
firma analogica scansita, ma più robusta sul piano della
sicurezza, generata come biometria comportamentale del
titolare in quanto gestita sul piano grafologico. Si
tratta di una firma dai risvolti affascinanti,
soprattutto per il digital divide, purché in presenza di
soluzioni applicative adeguate. Per approfondimenti, cfr.
inter alia CNIPA, Linee guida per le tecnologie
biometriche, 2004 (www.cnipa.gov.it/site/_files/Linee%20guida%20tecnologie%20biometriche.pdf).
[5] Tale funzione può forse far sorridere o sembrare
lontana dalla realtà, ma nell’esperienza sul campo più
di una volta il sostanziale analfabetismo di un
comparente si è palesato solo al momento della
sottoscrizione. Persone apparentemente “letterate” si
sono invece rivelate sostanzialmente analfabete solo al
momento della richiesta di ripetere la firma in modo
leggibile, risultando in grado di apporre un sostanziale
scarabocchio mandato a memoria, ma incapaci a scrivere
correttamente il proprio nome e cognome per disteso. |