Ci sono due modi per
affrontare, seppur in forma succinta, il commento ad una
sentenza della Corte costituzionale che si pronunzia su
questioni di diritto che riguardano la delicatissima
l'interazione reciproca di tre dei valori più rilevanti
nella vita dell'ordinamento: quello dell'efficienza
della giurisdizione, cioè dell'amministrare giustizia,
sotto la particolare prospettiva della "speditezza dei
processi", il valore della tutela del diritto di difesa,
allorché l'imputato si trovi a dover svolgere funzioni
costituzionali rilevantissime come quelle di Presidente
del Consiglio dei Ministri, e un terzo valore, che, come
ricorda la sent. 263 del 2003, consiste nella necessità
di preservare l' "integrità funzionale" dell'organo
costituzionale coinvolto.
I due modi in cui si può affrontare un simile commento
sono, da un lato, quello di considerare l'impatto
politico che una simile decisione ha sulle relazioni tra
i poteri coinvolti e sul grado di legittimazione o
delegittimazione che il sistema costituzionale conserva
agli occhi dei cittadini. Dall'altro lato, quello, più
ovvio, di considerare, al di là di questi aspetti così
delicati, il profilo più squisitamente tecnico del
decisum.
Al giurista spetta soprattutto il secondo ordine di
riflessioni. Ma nessuno si può nascondere che anche il
primo sia rilevantissimo, soprattutto con riferimento
agli equilibri istituzionali ai quali le valutazioni
giuridiche trovano applicazione. In questa prospettiva è
da salutare con estremo favore l'insistenza con la quale
la Corte costituzionale ha sottolineato che - al di là
della delicata ricostruzione formale delle fattispecie
applicative dei menzionati valori - un ruolo
fondamentale nel concreto assetto di relazioni
politico-istituzionali è rimesso a quel "meta-valore"
che è la leale collaborazione, tanto cruciale quanto,
ovviamente, sfuggente. Ed è proprio rispetto a tale
esigenza, che il giudice costituzionale si riserva un
estremo potere di sindacato sul cattivo esercizio del
potere da parte degli organi coinvolti, allorché entri
in gioco una questione di (possibile) "legittimo
impedimento".
Tornano alla mente le riflessioni di Vezio Crisafulli,
ad un tempo ammirate e venate da un consapevole
realismo, in ordine alla pretesa della nostra
Costituzione (e più in generale di molte costituzioni
contemporanee) di sottoporre al principio di legalità e
alla sua
justiciability anche le relazioni tra organi
supremi dello Stato.
Questo spiega altresì, a mio modo di vedere, la
preoccupazione della Corte costituzionale di
stigmatizzare - anche nella decisione in commento -
qualsiasi tentativo introdurre "automatismi" nella
regolazione delle relazioni collaborative tra gli organi
coinvolti. Onde evitare - salvo sempre l'intervento
costituzionale - soluzioni che finiscano per eludere il
passaggio collaborativo, rendendo interamente e
incontestabilmente disponibile, in capo a ciascuno di
tali "poteri", l'esito della ponderazione di interessi.
E ciò vale, dunque, sia per il legislatore ordinario,
pena la dichiarazione di legittimità costituzionale, sia
per il giudice procedente, pena la contestazione - come
ribadito - del cattivo esercizio del potere in sede di
conflitto di attribuzione.
E' questo, fondamentalmente, il "cuore" dispositivo
dell'intero percorso della giurisprudenza costituzionale
in questa materia, che anche quest'ultima decisione non
fa che confermare e che la Corte stessa ribadisce nell'incipit
della parte motiva dedicata all'esame in punto di merito
della controversia (p. 4.1 del considerato in diritto).
Le singole conclusioni raggiunte non sono, in questa
prospettiva, che esiti della volontà di applicare tali
premesse ricostruttive.
Sul piano critico, si può essere, o meno d'accordo, con
tali conclusioni, pur continuando a condividere il
quadro interpretativo e sistematico generale.
Chi scrive, ad esempio, lo condivide (se si vuol,
Guzzetta G., Legittimo impedimento:
un'interpretazione della l. n. 51/2010 conforme a
Costituzione è possibile e non è inutile, in
www.forumcostituzionale.it ) anche se ne avrebbe
tratto conclusioni diverse sul piano della valutazione
della fondatezza. Si riteneva, ad esempio, che il
combinato disposto della "coessenzialità" (alle funzioni
di governo dell'attività concretamente esercitata) e
della "concomitanza" tra attività e udienza, previsto
dalla legge n. 51/2010 perché si riconosca la
sussistenza del legittimo impedimento, fosse abbastanza
"capiente" da abbracciare anche il requisito della
"assolutezza" dell'impedimento, richiesto dall'art. 420
ter c.p.p. per procedere al rinvio dell'udienza. Insomma
chi scrive riteneva che in via di interpretazione
costituzionalmente orientata un tale esito avrebbe
comunque potuto essere raggiunto.
Nello stesso tempo si era avanzata l'opinione che il
meccanismo della certificazione della continuità
dell'impedimento da parte della Presidenza del Consiglio
(art. 1, comma 4) potesse anch'esso essere letto in
termini conformi a Costituzione. Non certo per inibire
qualsiasi contestazione da parte del giudice (non si
trattava infatti tecnicamente di una presunzione
juris et de jure, ma di una attestazione di fatti,
comunque revocabile in dubbio), ma per consentire una
comunicazione sintetica allorché l'impedimento si
protraesse nei termini di una qualche continuità
temporale, nelle ipotesi (non pretestuose) che,
astrattamente, non possono comunque essere escluse (dal
prolungato viaggio all'estero all'ipotesi estrema - e
speriamo di scuola - di una gravissima calamità naturale
o dello stato di guerra).
L'alternativa per la Corte era, a parere di chi scrive,
tra l'accoglimento e l'interpretativa di rigetto. Il
giudice costituzionale si è orientato in un caso verso
questa seconda ipotesi e diversamente negli altri due
casi.
Ciò che sembra importante sottolineare, però, è che, a
differenza di quanto ritenuto da alcuni commentatori, la
legge che risulta oggi dall'intervento ablativo del
giudice delle leggi conserva una sua utilità ed ha una
precisa funzione orientativa dell'interpretazione.
Almeno su di uno specifico punto: l'area delle attività
funzionali che possono dar luogo (nell'ipotesi di
concomitanza e assolutezza) al sorgere del legittimo
impedimento. Un' actio finium regundorum non
inutile se si considera che, assai più che per altri
organi costituzionali, le attribuzioni del Presidente
del Consiglio e dei Ministri sono, dall'art. 95 Cost.,
ampiamente rimesse alla concreta determinazione del
legislatore ordinario.
Non contestando la soluzione legislativa che ha recepito
il concetto (già emerso nella giurisprudenza di
legittimità) di "coessenzialità" alle funzioni di
governo e ha incluso le attività "preparatorie e
consequenziali" nel perimetro delle attribuzioni
legittimanti l'impedimento (coerentemente con la propria
precedente giurisprudenza), la Corte ha consolidato lo
sforzo del legislatore di offrire certezza in tale
materia.
E' stato inutile legiferare sul punto? Ci si sarebbe
potuti arrivare in via interpretativa a partire dai
principi costituzionali? Forse. Ma se dovessimo
considerare inutili tutte le norme legislative che
Crisafulli chiamerebbe "a contenuto costituzionalmente
vincolato" o quelle regolamentari a contenuto
legislativamente vincolato e via discorrendo, lo stock
di legislazione vigente risulterebbe ben ridimensionato
e non ci sarebbe più nemmeno bisogno persino dei vari
provvedimenti "taglialeggi". E forse nemmeno dell'art.
420-ter cpp. In sua mancanza, la Corte costituzionale
avrebbe potuto ovviare, all'occorrenza, con una sentenza
additiva. Insomma, l'argomento dell'inutilità
prova troppo. L'esplicitazione legislativa di
interpretazioni implicite (e spesso per ciò stesso
contestate) serve alla certezza del diritto. Certezza,
che, poi, è una delle sue più importanti funzioni.
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