Nel merito.it
Per iniziare è necessario che si
renda chiaro di che cosa si sta parlando quando ci si
riferisce alla “mediazione”, di cui oggi si parla
troppo, perché sta diventando un affare. Il significato
stesso di “mediazione” è ambiguo, se non è analizzato e
chiarito.
La mediazione si preoccupa poco o
niente dell’esito finale, perché è un bene in sé, a
prescindere dal risultato. L’effetto rispetto alla
mediazione, quindi il suo risultato, può (o meno) essere
l’accordo, la conciliazione.
La mediazione - per usare un
linguaggio moderno - è la precondizione della
conciliazione, nel senso che è lo strumento che le parti
hanno per un incontro su di una posizione intermedia.
La mediazione favorisce o può
favorire l’accordo o la conciliazione, ma la
conciliazione non condiziona l’esistenza della
mediazione.
Perché la mediazione non ha come
unica finalità la conciliazione; ha come prima finalità
la ricostituzione del tessuto sociale, del dialogo fra
componenti della società in caso di conflitto.
Si è, quindi, già messo a fuoco il
vizio di fondo del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 2814
costituito dalla mediazione essenzialmente finalizzata
alla conciliazione, dove la conciliazione è tanto
importante da prevalere sulla mediazione.
La condizione indispensabile per il
funzionamento della media-conciliazione è essenzialmente
una sola: il funzionamento effettivo del processo
civile.
Ora, i tempi lunghi del processo
civile, soprattutto di primo grado ma in vari distretti
anche del grado di appello, per non parlare del grado di
Cassazione, favoriscono ineluttabilmente la parte che sa
di avere torto o dubita fortemente di avere ragione,
perché quei tempi sfiancano la controparte, magari
economicamente più debole.
In base a quale razionalità
economica un litigante dovrebbe accettare una
media-conciliazione, che in quattro mesi lo porterebbe a
essere destinatario passivo di un titolo eseguibile?
E infatti in questi primi mesi di
applicazione dell’istituto si registra, laddove si
applica, mediamente nel 75% dei casi, la dichiarazione
preliminare di una delle parti di non volersi conciliare
a nessun costo e di preferire comunque la decisione del
giudice.
Per ottenere un reale effetto
deflattivo del contenzioso occorrerebbe che l’istituto
realizzasse almeno 5-600mila conciliazioni/anno, il che
consentirebbe di ridurre la pressione del milione circa
di processi nuovi che iniziano ogni anno dinanzi ai
giudici.
Un altro difetto assai grave
dell’istituto è l’assenza di qualsiasi criterio di
competenza territoriale.
Se, infatti, si scorre l’elenco
delle sedi degli organismi di mediazione si resta
colpiti dalla loro distribuzione.
È chiaro che una distribuzione
territoriale del genere abbia assai poco a che vedere
con l’efficienza, molto più con il disperato tentativo
di lucrare sull’istituto.
Se poi si aggiunge che il 70% dei
mediatori è costituito da avvocati, e si rammenta lo
sterminato numero (220mila) di avvocati in Italia; se si
fa cenno, infine, al business che si è scatenato intorno
alla formazione da 50 ore, quel sospetto diventa
certezza.
Non è nemmeno vera la
giustificazione data dal medesimo sottosegretario
sull’omessa previsione di competenza territoriale: se
fosse stata prevista allora si sarebbe dovuto istituire
un meccanismo per dirimere i conflitti di competenza
sino alla Cassazione.
Sarebbe stato logico distinguere la
figura del mediatore-conciliatore da quella
dell’avvocato, per suo ruolo difensore del proprio
cliente. Si tratta di prospettive assai diverse, mentre
con le ultime proposte di riforma si potrebbe,
all’opposto, allargare a dismisura il ruolo
dell’avvocato a scapito di quello del mediatore.
V’è poi l’ambito di competenze,
assurdo e raccogliticcio, che presuppone una sterminata
serie di competenze assai specifiche.
Tirando le fila delle osservazioni
svolte e dall’analisi della disciplina, si percepisce
l’assenza di una vera cultura della mediazione e della
conciliazione: nessuno dei grandi filoni culturali della
mediazione ha avuto il minimo influsso sul D.Lgs. 4
marzo 2010, n. 28, laddove il legislatore ha combinato -
pasticciando - la mediazione problem solving (art. 7,
co. 3) con la mediazione pura e semplice (art. 2),
purché esse procurino comunque una conciliazione.
Sono in discussione due disegni di
legge, di diversa natura, mirati alla “correzione” della
disciplina della media-conciliazione. Dall’inizio del
decennio, nell’incapacità di emanare norme chiare,
razionali e meditate, si ricorre all’abuso del
“correttivo”, la cui aspettativa ha il risultato
mirabile di non far applicare la norma vigente.
I due DdL hanno in comune
l’introduzione del principio di facoltatività della
media-conciliazione e di una competenza territoriale
dell’organismo di mediazione più rigida il secondo e più
lasca il primo.
Hanno sempre in comune
l’abrogazione dell’art. 13 D.Lgs. sulla regolazione
delle spese di mediazione da parte del giudice del
processo, in caso di mediazione non riuscita, e
l’abrogazione dell’art. 15 D.Lgs. relativo alla
media-conciliazione in relazione all’azione di classe
prevista dal Codice del consumo.
Per nulla condivisibile è, a mio
avviso, l’introduzione dell’obbligatorietà della difesa
tecnica, prevista dal primo ddL e del tutto condivisa
dal ministro di Giustizia, che comporta un’estensione
invasiva del ruolo obbligatorio dell’avvocato anche in
questa fase.
Da questo principio, infatti,
discendono tre corollari, che valgono a trasformare
radicalmente la mediazione:
un irrigidimento e una
formalizzazione dell’atto introduttivo della mediazione;
un innegabile e sostanzioso maggior
costo del procedimento di media-conciliazione
la prevedibile sudditanza del
mediatore rispetto agli avvocati presenti, con lo
snaturamento dell’istituto.
La seconda critica concerne un
profilo che potrebbe apparire “moderno” e che potrebbe
far qualificare questa critica come anacronistica e
pregiudizialmente ostile all’istituto. Intendo riferirmi
alla previsione della possibilità di svolgimento della
mediazione con modalità telematiche.
La compresenza delle parti è
essenziale non certo in sé, quanto per poter sviluppare
fra mediatore e parti quell’aspetto essenziale di ogni
mediazione che è l’empatia: con le parti distanti,
l’empatia non si stabilisce. Il circuito psicologico ed
emozionale che si sviluppa fra mediatore e parti, e che
costituisce il substrato stesso della mediazione e anche
della media-conciliazione, richiede che questi tre
soggetti si vedano fisicamente in faccia. In uno spazio
delimitato e caratterizzato dalla presenza fisica del
mediatore, il conflitto “precipita” in termini
fisico-chimici: si chiarisce ed è percepito dalle parti
in modo utile per la loro decisione in proposito.
Questa è una condizione
indefettibile per la generazione dell’empatia, la quale
- a sua volta - è il requisito fondamentale per la
riuscita della mediazione, indipendentemente dalla
possibile conciliazione. Non si deve dimenticare che il
contesto sociale in cui i confliggenti sono calati ben
può esser la reale causa scatenante il conflitto, e solo
la separazione dei confliggenti da quel contesto può
valere a renderli attori del conflitto e non “agiti” dal
conflitto. Non occorre dilungarsi per sottolineare come
tutto ciò manchi nella videoconferenza. |