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GIUSTIZIA CIVILE: REGOLE O INCENTIVI? Daniela Marchesi

 

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Gli effetti negativi che l’inefficienza della giustizia civile può produrre sull’economia sono molteplici e la letteratura ha individuato ed evidenziato empiricamente l’esistenza di numerosi di essi: compromettere la crescita dimensionale, impedire lo sviluppo dei mercati finanziari, distorcere il mercato del credito e quello del prodotto, ostacolare la crescita dell’economia.

 

Secondo una valutazione di Confartigianato e Infocamere svolta nel periodo precedente alla grande crisi economica il costo per le imprese del ritardo nella riscossione dei crediti è di 1.157 milioni di euro e quello legato alla lentezza delle procedure concorsuali è di 1.174 milioni di euro.

Accanto a tale rilevanza diretta per l’economia, la giustizia ha un effetto ulteriore e rilevantissimo: dal buon funzionamento di essa dipende l’effettività sia dei contratti sia di tutti gli altri ambiti del diritto rilevanti per il sistema economico.

I dati sulla giustizia italiana offrono ormai da troppo tempo un panorama sconsolante. In alcuni settori le lentezze sono più gravi che in altre ma comunque in nessuno di essi sono modeste.

Rimedi e riforme sono improcrastinabili.

L’Italia segna il passo rispetto agli altri Paesi avanzati sia dal punto di vista dei tempi sia, sebbene in misura largamente inferiore, da quello dei costi privati di accesso alla giustizia civile.

In questi ultimi mesi il problema del peso dell’inefficienza della giustizia civile sulla crescita dell’economia italiana si è riproposto con particolare forza in sede istituzionale, sia nazionale sia sovranazionale.

Che cosa si sta facendo? Quali sono le prospettive di politica normativa che si profilano in questo campo vitale sia per l’economia sia per la qualità della vita civile del Paese?

La manovra finanziaria approvata in questi giorni introduce una delega al Governo per interventi sulla geografia giudiziaria volti ad affrontare l’inefficienza della macchina giudiziaria e dispone una serie di interventi di minore entità sull’organizzazione del processo. All’inizio di settembre è stato anche approvato dal Governo lo schema di decreto legislativo delegato per la semplificazione dei riti processuali.

I tentativi di riforma che si sono succeduti nel tempo hanno in comune la compresenza di interventi straordinariamente numerosi e affastellati, una modesta connessione tra le diverse azioni di riforma, che, pertanto, non svolgono un’azione coordinata verso uno stesso obiettivo, l’assoluta prevalenza di azioni concentrate sulla modifica dei riti piuttosto che sugli altri aspetti che governano le dinamiche dei processi. Le regole che riguardano i riti sono importanti, ma sono anche fondamentali gli incentivi di comportamento che esse producono sui protagonisti della contesa: i giudici, i difensori e le parti.

Dal confronto internazionale emerge chiaramente come l’Italia disponga di un numero di magistrati e di risorse finanziarie non inferiore, e talvolta superiore, a Paesi che pure mostrano una performance giudiziaria migliore.

Secondo i dati del Consiglio d’Europa, l’Italia è terza tra i Paesi europei con i maggiori livelli di spesa pubblica per la giustizia, ed è in linea con la media quanto a dotazione di magistrati per l’esercizio della funzione giudicante. Quanto ai tempi dei procedimenti, invece, secondo la stessa fonte, l’Italia esibisce in assoluto i risultati peggiori tra tutti i Paesi europei per tutte le tipologie di contenzioso.

Finora in Italia le politiche di potenziamento del sistema giudiziario sono state dirette prevalentemente all’incremento del numero dei magistrati.

Il principale elemento d’inefficienza dell’offerta di giustizia in Italia risiede nell’esistenza, nell’ambito dell’attività degli uffici giudiziari, di economie di scala non sfruttate. Le ragioni sono diverse ma la principale motivazione di questa relazione risiede nella possibilità offerta dalle sedi di maggior dimensione di sfruttare le economie di specializzazione nell’attività dei magistrati.

Queste economie di specializzazione non sono possibili nei piccoli tribunali, dove il giudice si occupa delle questioni più disparate.

Le analisi rivelano anche che l’introduzione del giudice unico ha comportato un primo recupero di efficienza.

L’eccessivo numero di sedi, d’altra parte, trova conferma anche dal confronto Internazionale.Una modifica della distribuzione degli uffici giudiziari è urgente e realizzabile senza pregiudicare i diritti degli utenti.

Sfruttando gli investimenti di maggiore informatizzazione dei tribunali che si stanno realizzando nell’ambito dei progetti di innovazione della pubblica amministrazione, massicci spostamenti e accorpamenti fisici delle diverse sedi potrebbero essere evitati.

Le disfunzioni legate alla dimensione degli uffici giudiziari e alla specializzazione nell’attività dei giudici non bastano a spiegare il dissesto della giustizia italiana, ma certo risolverle comporterebbe un grosso passo avanti.

Un elemento di particolare rilievo nell’allungamento delle controversie deriva dalla combinazione della normativa processual-civilistica italiana, profondamente garantista, è la formula per la remunerazione degli avvocati. La formula per determinare l’onorario degli avvocati è ancora oggi regolata nella sua essenza da un Regio decreto del 1933 e prevede che la parcella del difensore sia legata indissolubilmente al numero di attività svolte nell’ambito del processo.

Questo sistema produce non poche distorsioni: tanto più l’avvocato è abile e riesce a ridurre al minimo le procedure per risolvere la contesa, tanto meno verrà pagato.

Infatti, in Italia, in proporzione costa meno affrontare una causa di grande valore che una di valore modesto.

E questa è la conseguenza di una formula economicamente inefficiente di determinazione delle parcelle che, oltre a dare luogo a molte opacità e a impedire che i prezzi siano rivelatori di qualità, concorre non poco alla congestione della giustizia. Se i processi sono inutilmente complessi, per un dato numero e una data produttività dei magistrati, i tempi inevitabilmente si allungano.

Gran parte del dibattito sulla riforma dell’avvocatura si concentra sul tema dei minimi tariffari e su quello dell’opportunità o meno di porre barriere all’ingresso per l’esercizio della professione.

In realtà, se i minimi tariffari sono anticoncorrenziali e probabilmente anche inidonei a svolgere un ruolo di difesa dell’interesse del cliente da inettitudini professionali, perché fornire questa garanzia è invece compito e ruolo degli ordini non sono tuttavia la causa principale delle distorsioni del mercato italiano dei servizi legali.

Per ottenere questo, la regola da modificare è principalmente quella che governa la formula di determinazione dell’onorario degli avvocati, che fa sì che per un dato valore della causa, tanto maggiore è il numero di attività svolte tanto più alta sarà la parcella.

Infatti, se questa regola resta in vigore, anche se si consente al singolo avvocato di praticare prezzi inferiori ai minimi e se pure contemporaneamente gli si consente di pubblicizzare con qualunque mezzo questa sua scelta, comunque il potenziale cliente non viene messo in grado di scegliere sulla base della convenienza se rivolgersi a lui piuttosto che a un altro avvocato.

Pubblicità e assenza di limiti al ribasso delle tariffe non svolgono appieno il loro ruolo di introdurre trasparenza e concorrenzialità se il costo complessivo del servizio che si acquista non si può conoscere in anticipo. Come può il cliente confrontare le offerte di due diversi professionisti? Come può farsi un’idea del

rapporto qualità/prezzo?

Le tariffe riguardano, infatti, solo le singole azioni che l’avvocato svolgerà, ma il numero di tali azioni può per uno stesso caso variare di molto a seconda, per esempio, della strategia processuale scelta. Al contempo il fatto che un avvocato abbia svolto più azioni per il cliente non è affatto garanzia di un servizio migliore perché la formula in questione incentiva comportamenti distorti.

Risulta evidente il ruolo determinante che svolge nel produrre una serie di incentivi di comportamento la formula di determinazione delle parcelle, che peraltro non viene adottata da nessun altro Paese avanzato.

Imporre parcelle forfettarie d’importo libero risolverebbe i problemi di concorrenza nel mercato dei servizi legali e, al contempo, alleggerirebbe non poco la congestione della giustizia civile.

Le varie riforme che si sono succedute negli anni hanno mirato prevalentemente a riorganizzare i riti processuali in modo da renderli più spediti.

Ma sono sistematicamente svuotate dalla prassi processuale, dato che nel nostro diritto non vi sono efficaci incentivi che rendano conveniente alle parti e ai loro difensori non abusare delle garanzie che il diritto processuale offre.

L’efficienza della giustizia civile ha un effetto prociclico sull’economia e per questo la lentezza dei processi concorrerà ad aggravare la già profonda crisi economica del nostro Paese.

Le ragioni di tale influenza stanno nel fatto che non solo la lentezza della giustizia rende più difficoltoso ottenere il credito bancario e deprime il livello degli investimenti, ma soprattutto spinge sistema economico e imprese ad adottare comportamenti, scelte, strutture aziendali volti a minimizzare il rischio di incorrere in giudizio.

Restano, inoltre, ancora presenti nel nostro ordinamento, nonostante i vari tentativi di riforma che si sono succeduti, molti degli incentivi di comportamento che concorrono alla congestione della giustizia e all’allungamento dei tempi dei processi. Una riforma delle professioni opportunamente calibrata consentirebbe di riportare l’attuale sistema di incentivi distorti verso un percorso virtuoso e, in particolare, un intervento efficace potrebbe essere quello di modificare l’attuale struttura di determinazione delle parcelle degli avvocati.

 

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