Persona e danno.it
“Non sussiste il dolo del delitto
di abusivo esercizio della professione medica, ove
l’imputato non abbia agito nella consapevolezza di porre
in essere (o di agevolare) indebitamente l’esecuzione di
un intervento chirurgico, seppur di portata minore,
quale è la circoncisione di un minorenne.”
Ad affermare ciò è la Sesta sezione
Penale della Suprema Corte di Cassazione, nella
pronuncia n. 43646/2011, depositata il 24 novembre.
Nel caso di specie vediamo
un'accusa - rivolta nei confronti di una madre nigeriana
- di aver partecipato attivamente alla circoncisione del
proprio figlio minore, in parte effettuata da un'altra
donna totalmente priva di ogni conoscenza medica.
I Giudici di piazza Cavour hanno
ritenuto sussistente, una tipica ipotesi di reato
culturalmente orientato, ovvero il reato che, seppur
cozzando contro le norme attuali, trova una
giustificazione nel background culturale dell'imputato.
Secondo la Suprema Corte, l’imputata ha agito senza la
consapevolezza di sottoporre il proprio figlio ad un
vero e proprio intervento chirurgico di circoncisione,
il quale però costituisce senz’altro un atto medico, in
quanto tale eseguibile solo da soggetti che hanno
conseguito la specifica abilitazione professionale
richiesta dalla legge dello Stato.
La suindicata sentenza della Corte
Costituzionale ritiene quindi scusabile l’errore,
derivante da ”ignorantia legis”, cassando così la
sentenza della Corte di Appello di Venezia, con la
formula “perché il fatto non costituisce reato”. Fatto e
diritto
1. La Corte d'Appello di Venezia,
con sentenza 12/10/2009, confermava la decisione
8/11/2007 del Tribunale di Padova, che, per quanto qui
interessa, aveva dichiarato K..S. , cittadina nigeriana,
colpevole di concorso nel delitto di cui all'art. 348
cod. pen. e l'aveva condannata, previa concessione delle
circostanze attenuanti generiche, a pena ritenuta di
giustizia e al risarcimento dei danni in favore della
costituita parte civile.
L'addebito specifico mosso
all'imputata è di avere fatto sottoporre, la sera del
(omissis) , il proprio figlio E.F.O. , nato (omissis)
precedente, a intervento di circoncisione da parte di
soggetto non abilitato all'esercizio della professione
medica, con la conseguenza che il neonato, poche ore
dopo l'intervento subito, aveva avuto una imponente
emorragia, che ne aveva imposto il ricovero d'urgenza in
ospedale per gli interventi terapeutici del caso.
Il Giudice distrettuale riteneva
che l'intervento di circoncisione andava qualificato
come atto medico, sia "in ragione della materialità
dell'atto" che, interferendo sull'integrità fisica, non
può prescindere dall'attenta valutazione delle
condizioni del soggetto che lo subisce, sia in
considerazione del fatto che "richiede capacità tecniche
e conoscenze di medicina tali da dovere essere riservato
solo ai soggetti abilitati alla professione medica".
Sottolineava, inoltre, alla luce di
quanto emerso dalla espletata istruttoria, che
l'imputata aveva deciso di sottoporre il figlio di poche
settimane alla circoncisione "per motivi culturali -
religiosi", anche se tale pratica non costituiva "un
rito della fede religiosa professata, bensì una condotta
in uso nella comunità di appartenenza" (di fede
cattolica), con l'effetto che la scelta operata doveva
essere apprezzata come una mera "manifestazione della
cultura assunta dall'imputata" e non era, quindi,
invocabile la scriminante dell'esercizio del diritto di
professare liberamente la propria fede religiosa.
L'errore-ignoranza dell'imputata circa la natura di atto
medico dell'intervento di circoncisione, in quanto
incidente sul precetto penale, era privo di rilevanza,
ai sensi dell'art. 5 cod. pen..
Precisava,
infine, che la sofferenza provocata al neonato
dall'intervento e dalle successive complicazioni
integrava il "danno morale", al cui risarcimento
l'imputata era tenuta.
2. Ha proposto ricorso per
cassazione, tramite il proprio difensore, l'imputata,
deducendo:
1) erronea applicazione della legge
penale, con riferimento all'art. 348 cod. pen., e vizio
di motivazione circa l'individuazione della nozione di
"atto medico", nella quale non può essere ricondotta la
circoncisione rituale, non avendo la stessa finalità
terapeutiche, non essendo finalizzata alla cura della
salute psico-fisica del soggetto ed essendo
caratterizzata, specie se eseguita su neonato, da una
estrema semplicità;
2) violazione dell'art. 55 cod.
pen. in relazione agli artt. 51 cod. pen., 19 e 30
Cost., non essendosi considerato che era difettata in
lei la consapevolezza di sottoporre il proprio figlio ad
un intervento di competenza medica, essendo incorsa, per
eccesso di colpa, in errore circa i limiti entro cui le
era consentita, in aderenza alla propria tradizione
culturale, la pratica della circoncisione;
3) violazione di legge in ordine
alla ritenuta sussistenza del nesso causale tra
l'ipotizzato reato di cui all'art. 348 cod. pen. e il
danno morale lamentato dalla parte civile.
3.
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
Vengono
in rilievo, nel caso in esame, delicati aspetti
giuridici connessi alla pratica, nella società
occidentale e, in particolare, nel nostro Paese, della
circoncisione c.d. rituale e, quindi, non terapeutica da
parte di soggetti di diversa etnia, che, per tradizione
culturale o religiosa, sono ad essa favorevoli.
La questione centrale attiene al
profilo medico insito nella circoncisione eseguita per
motivi rituali.
Questa
è solitamente percepita da un medico occidentale come
una mutilazione genitale per il bambino e una palese
violazione del fondamentale comandamento che deve
ispirare l'attività del sanitario: primum non nocere.
In sostanza, si tratterebbe
comunque di un atto medico, perché, pur in assenza di
finalità terapeutica, interferisce sull'integrità fisica
della persona, presuppone un attento esame delle
condizioni della medesima prima di essere eseguito,
richiede l'osservanza di determinate tecniche e di
opportune precauzioni, impone il monitoraggio del
decorso post-operatorio per prevenire eventuali
complicazioni.
Tale percezione, però, non è, di
per sé, decisiva per la soluzione della questione
sottoposta all'attenzione di questa Corte, in quanto non
tiene conto della complessa problematica connessa alle
ragioni e al forte carico simbolico che connotano la
pratica della circoncisione rituale in determinati
contesti.
Non può essere sottaciuto, infatti,
il significato che tale pratica assume da parte di
aderenti ad una determinata fede religiosa, che è
propria di due tra le religioni monoteiste, l'ebraismo e
l'islamismo.
Quanto al primo, in particolare,
che si richiama solo esemplificativamente, il
riferimento nella Bibbia alla circoncisione come patto
di sangue, come alleanza tra Dio e il popolo ebraico è
ripetuto a partire dalla Genesi; la pratica di tale rito
nell'osservanza di rigide regole rappresenta,
considerate le profonde radici della civiltà ebraica in
occidente, una forte sfida culturale sia per l'imponenza
(sotto il profilo numerico) del fenomeno che per le
tematiche in esso coinvolte.
L'intreccio tra circoncisione e
identità ebraica è reale e non può essere ignorato, come
non possono essere ignorati i limiti medici e legali che
attengono al nucleo più profondo del nostro ordinamento,
che appresta particolare tutela al rispetto dei diritti
individuali e alla salute psico-fisica di ogni membro
appartenente alla società.
È necessario, quindi, verificare se
è possibile conciliare - ed entro quali limiti - allo
stato della legislazione vigente, tali opposte esigenze:
da un lato, la volontà di determinate minoranze che
vivono in Italia di rivendicare l'appartenenza alla
propria etnia e l'osservanza delle proprie tradizioni;
dall'altro, il rispetto delle nostre regole.
Legge, religione, tradizione
culturale e medicina vengono a confronto.
Una società multietnica, che
accetta più o meno consapevolmente il multiculturalismo,
non può ignorare una certa dose di relativismo
culturale, che consenta di guardare ad altre civiltà
senza giudicarle secondo i propri parametri. Ne consegue
che l'approccio alla delicata questione in esame, per le
implicazioni di carattere etico e giuridico che vengono
in rilievo, deve essere guidato da una prudente e
illuminata interpretazione delle norme di riferimento,
senza sottovalutare la peculiare posizione del soggetto
coinvolto nell'atto rituale incriminato.
3.1. Osserva la Corte che sul tema
della circoncisione rituale non esiste in Italia una
espressa normativa di legge, che specifichi il soggetto
che può praticarla e il luogo in cui può essere
praticata.
Richiamando ancora l'esempio di cui
al punto che precede, la circoncisione rituale
dell'ebraismo è una cerimonia religiosa (brit milah:
patto del taglio) con cui si da il benvenuto ai neonati
maschi nella comunità, è effettuata, solitamente in casa
o in altro luogo privato, dal mohel all'ottavo giorno
dalla nascita del bambino; il padre del neonato, avendo
l'obbligo biblico di eseguire la circoncisione e non
avendo la formazione medica necessaria, affida tale
compito al mohel, che di solito è un medico o comunque
una persona specializzata nella pratica della
circoncisione e dei relativi rituali.
La legge 8/3/1989 n. 101, dando
attuazione all'Intesa stipulata il 27/2/1987, contiene
norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e
l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Tale
normativa contiene un implicito riconoscimento della
conformità della pratica circoncisoria ebraica ai
principi dell'ordinamento giuridico italiano, come si
evince indirettamente dal combinato disposto degli artt.
2, comma 1, e 25, in forza dei quali è garantito "il
diritto di professare e praticare liberamente la
religione ebraica in qualsiasi forma...e di esercitarne
in privato o in pubblico il culto e i riti", con la
precisazione che l'attività di religione e di culto si
svolge liberamente in conformità dello Statuto
dell'ebraismo italiano, senza alcuna ingerenza da parte
dello Stato, delle Regioni e degli altri Enti
territoriali.
La circoncisione rituale praticata
dagli ebrei su neonato deve, pertanto, ritenersi non in
contrasto con il nostro ordinamento e ha una preminente
valenza religiosa che sovrasta quella medica, con
l'effetto che giammai il mohel potrebbe incorrere nel
reato di esercizio abusivo della professione medica e la
sua condotta, che oggettivamente integra il reato di
lesione personale, è scriminata, se non determina una
apprezzabile lesione permanente e non mostra segni di
negligenza, imprudenza o imperizia.
La scelta fatta dal legislatore del
1989 con la legge innanzi richiamata è, peraltro, in
linea con diritti presidiati dalla Carta Costituzionale.
Il riferimento è all'art. 19 Cost.,
che riconosce il diritto alla libertà di religione,
purché non vengano compiute pratiche contrarie al buon
costume, ipotesi questa da escludere per la
circoncisione, che non può certo considerarsi una
pratica contraria ai principi etici o alla morale
sociale e non pregiudica la sfera dell'intimità e della
decenza sessuale della persona.
Non superfluo, inoltre, è il
riferimento all'art. 30 Cost., che riconosce il
diritto-dovere dei genitori di educare i figli e
ovviamente l'educazione religiosa rientra in tale
parametro costituzionale.
Quanto al delitto di lesione
personale, astrattamente ipotizzabile, la causa di
giustificazione a favore del mohel trova titolo nel
consenso dell'avente diritto (art. 50 cod. pen.),
prestato validamente ed efficacemente dai genitori del
neonato, per il compimento di un atto che rientra tra
quelli consentiti di disposizione del proprio corpo
(art. 5 cod. civ.), in quanto non determina una
menomazione irreversibile con indebolimento permanente e
non modifica sostanzialmente il modo d'essere
dell'individuo sotto il profilo dell'integrità
funzionale o sotto quello della capacità di vita di
relazione.
3.2. Non può omettersi di
considerare, però, che il significato della
circoncisione non terapeutica è spesso riconducibile a
motivazioni che esulano da esigenze religiose e
identitarie e affondano le loro radici soltanto in
tradizioni culturali ed etniche, assolutamente estranee
alla cultura occidentale e non sempre compatibili, sul
piano operativo, con la nostra legislazione.
Non può essere ignorato, infatti,
che in molti casi l'esecuzione dell'intervento cruento,
a differenza di quanto accade nel mondo ebraico, è
affidata a persona non qualificata, non
dotata
cioè di adeguata e riconosciuta competenza, che vi
procede in modo empirico e senza alcuna concreta
garanzia circa la sua corretta effettuazione, lo
scrupoloso rispetto dell'igiene e dell'asepsi, la
continuità dell'assistenza anche dopo l'intervento, con
conseguente intuibile pericolo per la salute del
bambino, alla quale invece il nostro ordinamento impone
di dare maggior peso rispetto ai contingenti fattori
culturali ed etnici che ispirano, in certi contesti
sociali, la pratica di cui si discute.
Tanto è riscontrabile nella vicenda
che vede coinvolta la nigeriana K..S.
Costei, pacificamente di fede
cattolica, decise di fare sottoporre il proprio figlio
di appena un mese a circoncisione, adeguandosi ad una
pratica in uso presso la comunità di appartenenza e
notoriamente estranea al rito della religione cattolica;
in sostanza, la scelta operata dalla predetta va letta
come espressione della cultura dalla medesima
interiorizzata nell'ambito della comunità di provenienza
e nulla ha da condividere con la circoncisione rituale
di matrice religiosa praticata dagli ebrei, sicché non è
invocabile, nella specie, l'esercizio del diritto di
professare liberamente la propria fede religiosa.
L'imputata affidò il compito di
eseguire l'intervento circoncisorio ad una non meglio
identificata donna nigeriana, certamente priva, per
ammissione implicita della stessa imputata, di qualsiasi
professionalità adeguata al caso, se vero che il
bambino, subito dopo l'intervento, evidenziò
"un'emorragia cospicua e irrefrenabile con necessità di
ospedalizzazione e trattamento terapeutico complesso",
per superare la fase di criticità che aveva addirittura
posto in pericolo la sua vita.
Nella descritta situazione, non si
può prescindere dalla considerazione che il diritto,
necessariamente tributario della scienza medica, non può
sottovalutare la delicatezza dell'intervento di
circoncisione, che, per quanto semplice, interferisce
comunque sulla integrità fisica della persona, comporta
una manipolazione del corpo umano potenzialmente
rischiosa per la salute e oggettivamente, pur in assenza
di preventive finalità terapeutiche, è sostanzialmente
un atto di natura medica (trattasi di vero e proprio
intervento chirurgico), che non può essere affidato al
libero esercizio di una qualsiasi persona, ma deve
essere eseguito, di norma, da un medico, che è soggetto
professionalmente attrezzato per assolvere tale compito.
Né, nella situazione in esame, che
attiene - come si è precisato - alla circoncisione
motivata da tradizioni etniche, soccorre, a differenza
di quanto previsto per il rito religioso ebraico, una
qualche previsione legislativa del nostro ordinamento,
che legittimi una tale pratica, sganciata da ogni
regola; nel caso specifico, quindi, non può che operare
la "riserva professionale", finalizzata a garantire la
qualificazione e la specifica competenza della persona
che deve procedere all'intervento.
Assume, pertanto, concretezza,
almeno in astratto, il precetto di cui all'art. 348 cod.
pen., la cui violazione è contestata all'imputata in
termini di concorso.
Si è in presenza, sotto il profilo
della materialità, di un reato, per così dire,
culturalmente orientato, quello che gli americani
definiscono cultural offence.
Nel reato culturalmente orientato
non viene in rilievo il conflitto interno dell'agente,
vale a dire l'avvertito disvalore della sua azione
rispetto alle regole della sua formazione culturale,
bensì il conflitto esterno, che si realizza quando la
persona, avendo recepito nella sua formazione le norme
della cultura e della tradizione di un determinato
gruppo etnico, migra in un'altra realtà territoriale,
dove quelle norme non sono presenti. Il reato commesso
in condizione di conflitto esterno è espressione della
fedeltà dell'agente alle norme di condotta del proprio
gruppo, ai valori che ha interiorizzato sin dai primi
anni della propria vita.
Ciò posto, devesi escludere,
tuttavia, alla luce di quanto emerge dalle due sentenze
di merito, la sussistenza dell'elemento soggettivo del
reato contestato all'imputata.
Il reato di cui all'art. 348 cod.
pen. è punito a titolo di dolo, consistente nella
coscienza e volontà di concorrere nel compimento di un
atto di abusivo esercizio della professione medica. La
citata norma è una norma penale in bianco, integrata da
altre norme che disciplinano la professione protetta e
che penetrano nella struttura della prima, formando con
questa un tutt'uno.
Si tratta di cogliere, alla luce
delle circostanze di fatto accertate dai giudici di
merito, il processo di formazione della volontà
dell'imputata, i suoi eventuali condizionamenti, la
consapevolezza o meno in lei, nel decidere di fare
circoncidere il proprio bambino, di sottoporre lo stesso
ad un intervento di chirurgia minore, che, secondo la
nostra legislazione, è normalmente di competenza medica.
Tale aspetto non è adeguatamente
approfondito dalla sentenza impugnata, che si limita ad
affermare l'irrilevanza dell'eventuale
"errore/ignoranza" incidente sul precetto penale; e tale
deve ritenersi, secondo la stessa sentenza,
"l'errore/ignoranza" che riguarda "la natura di atto
medico dell'intervento di circoncisione".
La
sentenza in verifica, in sostanza, omette di valutare la
posizione dell'imputata alla luce dell'art. 5 cod. pen.,
nel nuovo testo risultante a seguito della sentenza
additiva n. 364/1988 della Corte Costituzionale, che ha
dichiarato costituzionalmente illegittima detta norma
“nella parte in cui esclude dall'inescusabilità
dell'ignoranza della legge penale l'ignoranza
inevitabile”.
La rilevanza dell’ignorantia legis
scusabile implica che il giudizio di rimproverabilità
del soggetto agente deve necessariamente estendersi alla
valutazione del processo formativo della sua volontà,
per stabilire se il medesimo soggetto, al momento
dell'azione posta in essere, si sia o no reso conto
dell'illiceità della sua condotta e del valore tutelato
dalla norma violata.
Tale principio opera anche con
riferimento alla norma extrapenale che va ad
incorporarsi nella fattispecie penale, in quanto la
prima diventa anch'essa penale ai fini della disciplina
dell'ignorantia legis, con l'effetto che l'errore - se
scusabile - deve essere apprezzato come fattore di
esclusione della colpevolezza, e ciò proprio in forza
del disposto dell'art. 5 cod. pen., nel testo risultante
dall'intervento del Giudice delle leggi, ed a
superamento della previsione di cui all'art. 47, comma
terzo, cod. pen., che attiene più propriamente
all'errore sulla norma extrapenale priva di funzione
integratrice di quella penale.
L'individuazione dei parametri di
valutazione del principio della scusabilità
dell'ignorantia legis inevitabile, in difetto di una
specifica indicazione del richiamato art. 5 cod. pen.,
non può che essere rimessa all'interprete, che deve fare
leva, tenendo presenti le indicazioni fornite dalla
Corte Costituzionale, su considerazioni sistematiche e
funzionali più generali.
Il
criterio di detta individuazione, per essere affidabile,
non può che emergere dal raffronto tra dati oggettivi,
che possono avere determinato nell'agente l’ignorantia
legis circa l'illiceità del suo comportamento, e dati
soggettivi attinenti alle conoscenze e alle capacità
dell'agente, che avrebbero potuto consentire al medesimo
di non incorrere dell’error iuris.
È certamente dato oggettivo
incontestabile il difettoso raccordo che si determina
tra una persona di etnia africana, che, migrata in
Italia, non è risultata essere ancora integrata nel
relativo tessuto sociale, e l'ordinamento giuridico del
nostro Paese; non può tale situazione risolversi
semplicisticamente a danno della prima, che, in quanto
portatrice di un bagaglio culturale estraneo alla
civiltà occidentale, viene a trovarsi in una oggettiva
condizione di difficoltà nel recepire, con immediatezza,
valori e divieti a lei ignoti.
Quanto all'aspetto soggettivo, non
possono essere ignorati, anche alla luce della
testimonianza del sacerdote D.J.B. , il basso grado di
cultura dell'imputata e il forte condizionamento
derivatole dal mancato avvertimento di un conflitto
interno, circostanze queste che sfumano molto il dovere
di diligenza dell'imputata finalizzato alla conoscenza
degli ambiti di liceità consentiti nel diverso contesto
territoriale in cui era venuta a trovarsi.
Sussistono pertanto, nel caso
concreto, gli estremi dell'errar iuris scusabile e la
conferma indiretta di ciò si coglie nel comportamento
post - delictum dell'imputata, che, resasi conto che il
figlio necessitava di assistenza medica, non esitò a
ricoverarlo in ospedale e a riferire ai sanitari, senza
alcuna reticenza e con molta naturalezza, quanto era
accaduto.
4.
Le argomentazioni sin qui svolte, che hanno carattere
assorbente rispetto a ogni altra doglianza articolata in
ricorso, impongono l'annullamento senza rinvio della
sentenza impugnata, perché il fatto non costituisce
reato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza
impugnata perché il fatto non costituisce reato. |