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Flessibilità in uscita e
stabilizzazione in entrata. I modelli europei e mondiali
per rilanciare l’occupazione giovanile
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FLESSIBILITA’ IN USCITA
E
STABILIZZAZIONE IN ENTRATA
I modelli europei e mondiali per
rilanciare l’occupazione giovanile
di
Avv. Gianluca Spera
Tra le misure allo studio per
offrire all’Unione europea un piano di risanamento
credibile, c’è anche la riforma dell’articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori. Per alcuni la norma rappresenta
un totem intoccabile che tutela i lavoratori dal
licenziamento, per altri una norma troppo rigida, da
adeguare alla società attuale. Per ora, il Governo
uscente, stante la ferma opposizione dei sindacati, ha
evitato di inserire provvedimenti di modifica
all’interno del maxiemendamento recentemente approvato.
Ma il nuovo Esecutivo non potrà sottrarsi alla
decisione. La scelta potrebbe essere agevolata da
un’attenta analisi comparativa circa i modelli di
disciplina vigenti in altri Paesi. Se, per esempio,
rivolgiamo lo sguardo ad economie più solide di quella
italiana, possiamo facilmente constatare che, in Europa,
forme di flessibilità in uscita dal lavoro non
rappresentano un tabù. Se ci spostiamo fuori dai confini
continentali, per esempio negli Stati Uniti e in
Giappone, la normativa diventa ancor più liberale. In
ogni caso, sono previsti ammortizzatori sociali che
garantiscono il lavoratore licenziato e ne favoriscono,
nel frattempo, il reinserimento.
Chi si scaglia pregiudizialmente
contro ogni modifica, dovrebbe considerare che questi
Paesi hanno tassi di disoccupazione, specialmente
giovanili, molto bassi se messi a confronto con quelli
italiani. Emblematico è proprio il caso del Giappone. Il
tasso di inoccupati raggiunge appena il 4%, nonostante
il datore di lavoro possa interrompere il rapporto
liberamente solo sulla base di una “oggettiva e
ragionevole motivazione”. In America, invece, esiste l’employment
at willche consente di sciogliere il vincolo con il
lavoratore, a cui è garantito un congruo risarcimento in
caso di licenziamento illegittimo.
I modelli più virtuosi, nel vecchio
continente, sono quelli scandinavi. Tanto è vero che la
proposta di modifica dell’art.18 avanzata dal senatore
Ichino prende ad esempio proprio la “flexicurity”. In
Svezia, esiste l’indennità di licenziamento che arriva a
coprire fino all’80% dello stipendio e si applica anche
ai precari. In Danimarca, l’assegno può raggiungere
anche il 90% della retribuzione e durare fino a quattro
anni. Non va trascurato nemmeno quello che accade in
Stati a noi più vicini. In Germania, il lavoratore
riceve un “attestato di lavoro” che lo facilita nella
ricerca di un nuovo impiego, in Francia viene
predisposto un piano sociale per ridurre gli effetti
della perdita del posto di lavoro, attraverso corsi di
formazione e riqualificazione.
Infine, anche nel Regno Unito,
stanno pensando di introdurre una normativa più
liberale. Saranno colpiti solo i licenziamenti che
discriminino il lavoratore in ragione del sesso o della
razza. Non sono previste forme di reintegro ma il datore
potrà essere costretto a pagare fino a 68mila sterline
di indennizzo.
In questo quadro europeo ed
internazionale, l’Italia è chiamata a dotarsi di una
disciplina che coniughi le esigenze di modernizzazione
con quelle di equità sociale ma che, soprattutto,
permetta un considerevole incremento dei livelli di
occupazione giovanile. Non possiamo più consentirci
l’inamovibilità in uscita che, di fatto, esclude la
possibilità di stabilizzazione in entrata.
Come ha sottolineato qualche acuto
osservatore, le categorie deboli, peraltro, sono escluse
dal cosiddetto “tavolo della concertazione”. Capita che,
ad essere rappresentate nelle sedi decisionali, siano
solo le categorie organizzate, quelle che già hanno e
non vogliono cedere nemmeno un millimetro delle proprie
posizioni.
Invece, oggi più che mai,
occorrerebbe un patto generazionale per dare meno ai
padri e più ai figli. Quelli che sopportano il peso di
un debito pubblico enorme, lasciatogli in eredità. Alla
generazione dei trentenni viene impedito da innumerevoli
ostacoli l’ingresso nel mondo del lavoro. Forse prima di
iniziare qualunque discussione, bisognerebbe considerare
che ai disoccupati ed ai giovani lavoratori precari,
l’art.18, per evidenti ragioni, non si applica nemmeno.
(Articolo già pubblicato su:
“Ottopagine” - Avellino)
Avv. Gianluca Spera |