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PREGI E DIFETTI DELL'IMUdi Alberto Zanardi

 

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Un terzo della manovra del governo si fonda sull'imposizione immobiliare, attraverso l'introduzione dell'Imu. Il provvedimento ha diversi pregi: torna la tassazione sulla prima casa, aumenta il gettito con una tassa che non incide sulla crescita e ridà ai comuni una potente leva di fiscalità. Più discutibili la compartecipazione dello Stato a un tributo locale, l'inasprimento sulle locazioni e la mancata soluzione delle iniquità del sistema delle rendite catastali. E in generale, si va forse verso un nuovo modello di federalismo fiscale con più autonomia e meno solidarietà?

 

La manovra varata dal governo Monti si affida per ben un terzo della sua dimensione complessiva lorda a interventi sull’imposizione immobiliare: 11 miliardi su 30 complessivi. In particolare, la manovra anticipa al 2012, e riforma radicalmente, l’Imu, Imposta municipale propria, già prevista dal decreto sul federalismo municipale del 2011, in sostituzione dell’Ici.

 

LA NUOVA IMPOSTA

 

Gli interventi principali consistono nel:

1) riportare l’abitazione principale nella base imponibile, ma prevedendo un regime agevolato: aliquota ribassata al 4 per mille, rispetto a quella ordinaria del 7,6 per mille, e detrazione fissa di 200 euro;

2) rivalutare decisamente le rendite catastali ai fini del calcolo dei valori da sottoporre a tassazione. In particolare, per le abitazioni va applicato un moltiplicatore pari a 160 (e non più 100, come finora) alla rendita catastale rivalutata del 5 per cento.

Ai comuni sono poi riconosciuti ampi margini di manovra sia sull’ammontare della detrazione per la prima casa, sia sulle aliquote: +/- 3 per mille sull’aliquota ordinaria; +/- 2 per mille su quella agevolata per la prima casa; possibile riduzione fino al 4 per mille per immobili posseduti dai soggetti passivi dell'imposta sul reddito delle società ovvero nel caso di immobili locati.

Il gettito della nuova Imu tuttavia non è lasciato interamente ai comuni. Lo Stato si riserva una quota di imposta pari alla metà dell’importo calcolato applicando alla base imponibile di tutti gli immobili, a eccezione delle abitazioni principali, l’aliquota di base della 7,6 per mille. In altri termini, ai comuni rimarrebbe, oltre al gettito della tassazione sulle prime case, metà del gettito relativo a tutti gli altri immobili, ovviamente calcolato alla aliquota base (cioè senza tener conto dell’eventuale sforzo fiscale, ma anche delle riduzioni di aliquota, decisi in autonomia dal comune).

 

PUNTI A FAVORE

 

L’intervento del governo sull’Imu ha più di un pregio. Innanzitutto, risolve in modo chiaro e diretto la questione della mancata tassazione della prima casa nell’imposta patrimoniale comunale pur tenendo conto, attraverso la previsione dell’aliquota ribassata e della detrazione, delle preoccupazioni equitative collegate a un bene così sensibile dal punto di vista redistributivo, come è l’abitazione principale. Infatti, se applicassimo il regime Ici 2007, quello in vigore prima della progressiva esenzione della prima casa dalla tassazione patrimoniale, il limite di valore catastale non soggetto ad alcun prelievo sarebbe equivalente a circa 43mila euro. (1) Nella nuova normativa, il limite è ora innalzato a 50mila euro.

Il secondo pregio consiste nel fatto che, soprattutto attraverso la potente rivalutazione delle rendite catastali, la nuova Imu produce un aumento rilevante del prelievo immobiliare. Si tratta di una scelta opportuna perché nel confronto internazionale l’imposizione in Italia risulta(va) meno gravosa che nella maggior parte degli altri paesi, e perché tassare gli immobili è una modalità di prelievo fiscale “più amica” della crescita economica rispetto ad altri tipi di imposizione.

In terzo luogo, la manovra consegna ai comuni una leva potente di fiscalità, in passato fiaccata dall’esenzione della prima casa dalla base imponibile. La Relazione tecnica valuta che alle aliquote base (e quindi al netto dell’eventuale aumento di aliquote autonomamente deliberato dai comuni) il gettito della nuova Imu accresca di 2 miliardi le entrate fiscali del complesso dei comuni rispetto a quanto promesso con la versione Imu precedente (e al netto della riserva a favore dello Stato). Inoltre, sono ampi i margini di variazione delle aliquote su cui i sindaci potranno esercitare il proprio sforzo fiscale (oppure, ma è meno probabile, le riduzioni di aliquota). E le variazioni di aliquote si applicano su una base imponibile gonfiata dalla rivalutazione, in grado quindi di produrre rilevanti margini di gettito.

 

ASPETTI CRITICI

 

Al contempo però l’intervento del governo presenta alcuni punti critici. Il primo è relativo alle iniquità, non risolte, del sistema delle rendite catastali tra diverse aree territoriali del Paese, tra diversi quartieri nelle aree urbane, tra diverse tipologie di immobili soprattutto residenziali. L’aumento deciso del moltiplicatore applicato alle rendite attuali, anzi, le enfatizza fortemente. Data l’urgenza dei provvedimenti, non è proponibile una rideterminazione delle rendite, che è operazione di medio periodo, ma certamente sarebbe auspicabile una loro correzione per ridurre gli scostamenti assai differenziati rispetto ai valori di mercato. Interessante è la proposta avanzata da Nens di utilizzare a tale scopo le rilevazioni sui prezzi delle transazioni immobiliari condotte per micro-zone dall’Omi (Osservatorio del mercato immobiliare) dell’Agenzia del territorio.

Un secondo elemento critico è quello della tassazione delle abitazioni date in locazione. Nella precedente normativa sull’Imu, il proprietario di un’abitazione locata era assoggettato a un’imposta dimezzata rispetto all’aliquota normale: 3,8 contro 7,6 per mille. Ora la riduzione dell’aliquota (fino al minimo del 4 per mille) è possibile, ma deve essere deliberata discrezionalmente dal comune e ovviamente a carico del suo bilancio. Si tratta cioè di un (probabile) inasprimento sulle locazioni che contrasta con l’alleggerimento fiscale sul lato della tassazione dei redditi da locazione recentemente introdotto con il meccanismo della cedolare secca e che, nel caso in cui il maggior onere venga traslato dai proprietari sugli inquilini, potrebbe portare a effetti di iniquità.

Infine, un punto problematico riguarda le relazioni tra diversi livelli di governo (comuni e Stato) coinvolti nella riforma Imu. Lo Stato si riserva una potente compartecipazione nel gettito incrementato dal rientro della prima casa e dalla rivalutazione delle rendite catastali, 9 miliardi secondo la Relazione tecnica. Inserire una compartecipazione erariale in un tributo locale può indebolire l’incentivo del comune a gestire efficientemente il tributo.

Meglio sarebbe allora attribuire pienamente l’Imu riformata all’autonomia comunale e “ammortizzare” l’aumento di risorse pubbliche assegnate ai comuni con una rideterminazione verso il basso delle compartecipazioni su molti tributi statali attribuiti ai comuni dalla riforma del federalismo fiscale, a partire da Iva, imposta di registro, eccetera.

 

LA QUESTIONE DEL FONDO PEREQUATIVO

 

C’è poi un altro profilo più generale da valutare, non immediatamente inerente all’Imu ma a essa collegato, che riguarda l’impatto della manovra sulla finanza comunale. Innanzitutto, il maggior gettito attribuito dalla riforma Imu al comparto dei comuni è compensato da un corrispondente taglio di risorse con cui lo Stato (attraverso compartecipazioni comunali su tributi erariali) alimenta il fondo perequativo tra comuni (nella sua attuale versione provvisoria e poi in quella a regime). In aggiunta, la manovra stringe ancora i cordoni della finanza locale, sommando agli inasprimenti del Patto di stabilità interno decisi con le manovre di luglio e agosto, nuovi sacrifici, questa volta però nella forma di un’altra sforbiciata di 1,45 miliardi di euro annui sempre sui trasferimenti statali al finanziamento del fondo perequativo dei comuni. Il risultato è che, da un lato, aumentano le necessità perequative tra i diversi comuni perché crescono le risorse proprie loro attribuite (cioè l’Imu) e, dall’altro, si riducono le risorse finanziarie che possono essere utilizzate per perequate le differenze di capacità fiscali tra i vari comuni. Ritornano qui le preoccupazioni circa gli effetti equitativi della manovra. Non più collegate al prelievo dei tributi locali sui contribuenti, bensì più concretamente alle capacità dei comuni di fornire i servizi essenziali ai propri cittadini su base tendenzialmente omogenea sull’intero territorio nazionale. Dopo tanto discutere nel precedente governo, spesso senza contenuti effettivi, stiamo forse andando verso un nuovo modello di federalismo fiscale con più autonomia e meno solidarietà?

 

(1) Valore rivalutato secondo il nuovo moltiplicatore delle rendite catastali e tenendo conto della nuova aliquota.

 

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