di Alessandro Gallucci,
Chissà quante volte si è avuta la
sensazione che, avendo necessità di rivolgersi
all’Autorità Giudiziaria, il processo sia durato fin
troppo tempo. Se la sensazione viene ad essere
sostituita da dati di fatto, chi ha subito un torto del
genere può chiedere allo Stato (il ricorso si propone
nei confronti del Ministero della Giustizia) un
indennizzo per il danno patrimoniale e non patrimoniale
che le lungaggini gli hanno causato (art. 2 l. n.
89/2001).
Il procedimento è quello delineato
dall’art. 3 della medesima legge, che recita:
“ La domanda di equa riparazione si
propone dinanzi alla corte di appello del distretto in
cui ha sede il giudice competente ai sensi dell'articolo
11 del codice di procedura penale a giudicare nei
procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto
è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito
ovvero pende il procedimento nel cui ambito la
violazione si assume verificata.
La domanda si propone con ricorso
depositato nella cancelleria della corte di appello,
sottoscritto da un difensore munito di procura speciale
e contenente gli elementi di cui all'articolo 125 del
codice di procedura civile.
Il ricorso è proposto nei confronti
del Ministro della giustizia quando si tratta di
procedimenti del giudice ordinario, del Ministro della
difesa quando si tratta di procedimenti del giudice
militare. Negli altri casi è proposto nei confronti del
Ministro dell’economia e delle finanze.
La corte di appello provvede ai
sensi degli articoli 737 e seguenti del codice di
procedura civile. Il ricorso, unitamente al decreto di
fissazione della camera di consiglio, è notificato, a
cura del ricorrente, all'amministrazione convenuta,
presso l'Avvocatura dello Stato. Tra la data della
notificazione e quella della camera di consiglio deve
intercorrere un termine non inferiore a quindici giorni.
Le parti hanno facoltà di
richiedere che la corte disponga l'acquisizione in tutto
o in parte degli atti e dei documenti del procedimento
in cui si assume essersi verificata la violazione di cui
all'articolo 2 ed hanno diritto, unitamente ai loro
difensori, di essere sentite in camera di consiglio se
compaiono. Sono ammessi il deposito di memorie e la
produzione di documenti sino a cinque giorni prima della
data in cui è fissata la camera di consiglio, ovvero
sino al termine che è a tale scopo assegnato dalla corte
a seguito di relativa istanza delle parti.
La corte pronuncia, entro quattro
mesi dal deposito del ricorso, decreto impugnabile per
cassazione. Il decreto è immediatamente esecutivo.
L'erogazione degli indennizzi agli
aventi diritto avviene, nei limiti delle risorse
disponibili, a decorrere dal 1° gennaio 2002”.
Svolta questa premessa di carattere
generale è utile domandarsi: nel caso d’irragionevole
durata del processo avente come parte un condominio, chi
può agire per ottenere l’indennizzo?
Secondo la Suprema Corte di
Cassazione la legittimazione a stare in giudizio spetta
ai condomini e non all’amministratore. Nell’ultima
pronuncia in materia, resa lo scorso 17 ottobre, si
legge che " il condominio è privo di personalità
giuridica in quanto unicamente ente di gestione delle
cose comuni e che l'amministratore può agire in virtù
della sola delibera assembleare anche non totalitaria a
tutela della gestione delle stesse mentre per quanto
concerne i diritti che i condomini vantano unicamente
uti singuli è necessario lo specifico mandato da parte
di tutti i condomini (giurisprudenza pacifica: ex multis
Cassazione civile, sez. 2^, 26 aprile 2005, n. 8570),
nella fattispecie insussistente, e che il difetto di
legittimazione può essere eccepito anche per la prima
volta in sede di legittimità (Cassazione civile, sez.
2^, 13 marzo 2007, n. 5862), non vi è dubbio che il
diritto all'equo indennizzo per la irragionevole durata
di un processo non spetti all'ente condominiale che è
preposto unicamente alla gestione della cosa comune in
quanto l'eventuale patema d'animo conseguente alla
pendenza del processo incide unicamente sui condomini
che quindi sono titolari uti singuli del diritto al
risarcimento" (Cass. 17 ottobre 2011 n. 21461).
L’amministratore, quindi, è legale
rappresentante per la gestione dei beni comuni ma i
diritti personali dei condomini, pur se collegati alle
cose in condominio, non entrano nella sfera delle sue
competenze.
CondominioWeb.com
Avv. Alessandro Gallucci |