Federica Federici
Nel sistema penalistico per la
concezione formale è reato il fatto che l’ordinamento
giuridico definisce come tale. Di contro, la concezione
sostanziale postula che la nozione di reato debba essere
ricercata al di fuori dell’ordinamento giuridico.
Le teorie moderne, proprie dello
Stato di diritto, sono ancorate al modello formale. Lo
Stato di diritto, articolato sulla separazione dei
poteri, riserva al legislatore quella che è la
definizione di reato e la sua disciplina (il c.d.
principio di legalità). Lo Stato di diritto è, però,
anche uno Stato democratico, che deve indirizzare
l’esercizio della sovranità, quando questa viene
attribuita dalla Costituzione a soggetti diversi dal
popolo. Allora anche negli ordinamenti occidentali, che
aderiscono al modello formale, si avverte l’esigenza di
porre vincoli sostanziali al legislatore nel ricostruire
la nozione di reato. Dalla combinazione della nozione
formale con i vincoli posti dalle fonti superiori
scaturisce il modello formale-sostanziale, laddove il
principio di legalità sostanziale è un elemento della
concezione formale-sostanziale del reato. Caratteristica
del modello formale è, dunque, il principio di legalità,
nella sua duplice accezione di legalità formale (nullum
crimen sine lege poenalis) e legalità sostanziale
(nullum crimen sine stricta lege poenalis).
La formulazione del codice penale
(art. 1) costituisce la tradizionale esplicazione del
principio di legalità, sia formale che sostanziale,
assegnando priorità al dato astratto (secondo lo schema
norma-fatto-effetto); la formulazione della
Costituzione (art. 25) assegna priorità al dato
concreto, qualificando il fatto non dal punto di vista
legale (come reato), ma da quello reale (come fatto
commesso), agganciandolo alla dimensione temporale.
La fattispecie di reato,
astrattamente prevista dal legislatore (legalità
formale), deve infatti essere delineata con precisione
sufficiente ad individuare il comportamento che, in
concreto, potrà essere penalmente sanzionato (legalità
sostanziale).
Tanto la legalità in senso formale,
quanto la legalità in senso sostanziale assolvono anche
ad una funzione meno evidente, di realizzare
l’uguaglianza e l’imparzialità. Limitando l’arbitrio del
potere esecutivo e circoscrivendo la discrezionalità del
giudice, esse presuppongono una legge penale uguale per
tutti e di imparziale applicazione, perché avente ad
oggetto fattispecie astratte la cui applicazione deve
avvenire con carattere di generalità.
Il principio fondamentale in base
al quale stabilire quando un fatto costituisce reato è
quello di legalità con il suo corollario di tipicità,
che riguarda il rapporto tra precetto, fatto e
sanzione. In termini generali tale principio si collega
al principio di causalità normativa, per il quale a un
dato fatto consegue un effetto giuridico, sulla base di
un procedimento di qualificazione del fatto operato
dalla norma. In materia penale opera in senso rigido,
non permettendo che esistano figure di illecito non
tipizzate dall’ordinamento. Il principio di tipicità
interessa in primo luogo la fattispecie astratta, cioè
il fatto previsto dalla norma o, se si preferisce, la
figura legale del fatto.
Nel linguaggio comune la tipicità
si collega all’idea di uno schema ideale o astratto, a
cui corrispondono, o possono corrispondere, con assoluta
identificazione o con maggiore o minore approssimazione,
situazioni concrete; ma nel diritto penale il
collegamento della tipicità con la legalità è un dato
necessario. Non possono darsi, pertanto, reati
innominati, ma eventualmente solo reati sussidiari. La
tipizzazione di un illecito si articola di solito sue
due piani: azione ed evento. Il disvalore d’azione e
quello di evento insieme connotano il disvalore
integrale del fatto, e il principio di tipicità non può
che abbracciare entrambi. Il reato è anzitutto «illecito
di lesione», ragion per cui il principio di tipicità si
collega al principio di offensività, in termini di
lesività: se nell’ordinamento penale vige il principio
di tipicità, la lesività non può che essere interna al
fatto tipico. Ciò pone il problema dell’eventuale scarto
tra il grado di offesa astrattamente fissato dal
legislatore e quello concretamente verificatosi. In tal
senso e nello scarto logico tra tipicità e offesa si può
giungere a parlare di tipicità apparente.
Il principio di tipicità opera
quindi non solo nel delimitare l'area dei fatti
punibili, ma anche l'area dell'incriminazione, cioè a
che stadio il fatto può costituire reato. Tuttavia,
nell’operare in tal senso il legislatore è vincolato ad
altri principi, quali quelli di materialità, necessità
(o necessarietà) ed offensività.
Il principio di materialità impone
che il fatto di reato si estrinsechi nel mondo
materiale, non essendo sufficiente, al riguardo, che
esso consista in un mero stato soggettivo di volizione.
Il principio di materialità trova il suo fondamento
costituzionale nell'art. 25 della Carta nella quale
l'uso della locuzione "fatto commesso" lascia
chiaramente intendere l'esclusione dall'area del
penalmente rilevante di quei fatti che, esaurendosi
nella sfera psichica dell'autore, non trovano una
concreta estrinsecazione nella realtà esterna. Il fatto
di reato, in armonia con l'enunciato principio di
materialità, deve necessariamente consistere di un
elemento oggettivo (materiale) distinto dall'elemento
psicologico. Quanto all'elemento oggettivo, esso
coinvolge necessariamente la condotta, nonchè, ove
richiesto, l'evento ed il nesso di causalità tra
condotta ed evento.
Sotto il profilo definitorio la
condotta penalmente rilevante è quella conforme al fatto
tipico descritto dalla norma penale.
Il principio di necessità (o
necessarietà), che concepisce lo strumento penale come
extrema ratio, della quale servirsi solo ove
strettamente necessario, ed è intimamente collegato al
principio di determinatezza, di cui favorisce la
realizzazione, individuando non aree di comportamenti,
ma singole porzioni, che il legislatore può descrivere
più precisamente e con maggior grado di aderenza al
reale.
Infine, il principio di offensività
impone di subordinare la punibilità alla lesione
(nocumento effettivo) o messa in pericolo del bene
giuridico protetto (nocumento potenziale). L’ancoraggio
normativo è rinvenibile in più riferimenti
costituzionali, ma trova la sua base giuridica nell’art.
49, comma 2, cod. pen. che dispone che la punibilità è
esclusa quando, per l’inidoneità dell’azione o per
l’inesistenza dell’oggetto, è impossibile l’evento
dannoso o pericoloso (c.d. reato impossibile, che si
realizza allorquando la condotta dell’agente è inidonea
appunto, per le sue concrete modalità realizzative, a
ledere o porre in pericolo il bene giuridico tutelato
dalla norma incriminatrice o la stessa resta
improduttiva di effetti a causa dell’inesistenza
dell’oggetto contro cui era diretta l’azione lesiva o
pericolosa). Al primo comma della stessa norma si
rinviene il c.d. reato putativo, che si realizza quando
il suo autore ritiene costituire reato, ma che al
contrario, è pienamente lecito: tale errore può
verificarsi sulla norma o su un elemento materiale del
fatto o, per la giurisprudenza, anche quando si ignora
in concreto una causa di non punibilità.
In linea teorica e generalista si
potrebbe argomentare che, laddove la soglia di
offensività sia minima e al di sotto dei parametri cui
la legge subordina la soglia di punibilità, si realizza
la figura del reato “inconsistente”. Da parte di taluni
si è parlato anche di “evanescenza” quale
indetermintatezza ed inidoneità a tracciare con certezza
la linea di demarcazione tra condotte penalmente
rilevanti e condotte prive di disvalore penale. Il reato
inconsistente, invero, non è semplicemente il reato
inoffensivo rispetto al bene giuridico, bensì un reato
la cui carente di capacità di offesa si avverte ancor
prima, sul piano delle categorie scientifiche. Tale
argomentazione consentirebbe di superare quella parte di
dottrina che sostiene che se il fatto non è offensivo
non è nemmeno tipico richiedendosi che il fatto, oltre
ad essere tipico, deve essere offensivo (offensività che
rappresenta quel quid pluris rispetto al fatto).
Si potrebbe ipotizzare che
l’inconsitenza sia un precipitato logico ed astratto
dell’evanescenza (la coltivazione di stupefacenti
domestica potrebbe configurarsi come reato
inconstistente in concreto, in quanto pur non mutando,
nell'obiettività giuridica e nella struttura, le
fattispecie di reato di cui al d.P.R. 1990/309 e d.l.
2005/72, la legge attribuisce ad essa una minore valenza
offensiva; mentre il reato di atti persecutori di cui
all’art. 612 bis cod. pen. e la pornografia di cui agli
artt. 600 ter e quater cod. pen. come reati
inconstistenti in astratto quindi assimilabili a reati
evanescenti pur nella loro tipicità ed antigiuridicità.
Nel caso del falso grossolano – innocuo – inutile di cui
agli artt. 476 e ss. Cod. pen. si configurerebbe invece
un reato impossibile per inidoneità dell’azione: quindi
nei reati cd. formali non opera questa categoria, perchè
sono già reati costruiti con leggi sociali, e
l'incriminazione non si fonda sulla "consistenza" come
opportuno ricondurle alle categorie scientifiche. In
questo contesto opererà l'art. 49 cod. pen. Di contro,
nei reati naturali, se la dimensione fisica del fatto è
minima - in astratto o in concreto - si ha reato
inconsistente. Ad esempio le molestie sessuali (di cui
al 609 bis cod. pen.) potrebbero anche configurarsi
come reato "inconsistente", come l'appropriazione di
cose di minimo valore economico (ad es. furto dell’acino
d’uva).
E’ probabile in conclusione che
vero il punctum pruriens delle fattispecie e quaestio in
esame, è rappresentato dall’identificazione del
parametro di riferimento cui agganciare la valutazione
di "minima offensività” del fatto tipico. Tali parametro
dovrà essere necessariamente riferito ad un tertium
comparationis che permetta di accertare se l'offesa sia,
nei vari casi di specie, veramente minimale. In altre
parole, se la "minima offensività” del fatto tipico può
essere validamente misurata sulla scorta di tali indici,
è pur tuttavia necessario che tale processo valutativo
si riferisca ad un quid che consenta di accertare la
reale dimensione offensiva della condotta posta in
essere.
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