All’inizio
di quest’anno ho letto che il governo inglese sta
valutando di inserire una “tassa sul divorzio”.
Il Sottosegretario al
Ministero del Lavoro e delle Pensioni, Maria Miller ha
infatti affermato:
“Stiamo considerando
di imporre una tassa sul divorzio, che potrebbe presto
riguardare tutte le coppie sposate con figli. In caso di
separazione, queste ultime dovranno pagare una tassa che
servirà per finanziare il sistema che gestisce e
supervisiona l’affidamento e il mantenimento dei figli.
L’obiettivo è quello di convincere i genitori che il
divorzio deve essere l’ultima soluzione possibile. Nel
progetto c’è infatti anche un programma che cerca di
aiutare i genitori a individuare e risolvere possibili
problemi e contrasti in famiglia. Ma questo è solo un
inizio. Io credo fermamente che tutto il sistema vada
rivisto in favore del concetto di famiglia”.
Una tassa? E perché mai?
La notizia è di quelle che fanno certamente
rabbrividire.
Per ora, è bene
precisarlo, si tratta solo di una proposta che dovrà poi
eventualmente confrontarsi con l’opinione pubblica.
Da un lato è certamente
positivo che ci si interroghi sul degrado ormai diffuso
della relazione familiare ma, dall’altro lato, è
oltremodo ingenuo pensare che possa bastare
l’introduzione di una tassa per ridurre i divorzi. Non è
certamente una tassa che può tenere unita una famiglia.
Non si può poi non
considerare che una simile tassa rischierebbe di
compromettere la libertà di scelta delle coppie meno
abbienti, penalizzando così i coniugi che subiscono dal
proprio partner abusi e soprusi di ogni genere.
Scrive Giuseppe Anzani
su Avvenire: “ L’amore è una cosa diversa, è
promessa e dono totale. L’amore è un’arte da apprendere,
ma è un’arte che nessuno ti insegna, questo è il punto.
E forse il censimento dei disastri familiari è
l’occasione per riflettere e per escogitare qualche
rimedio serio, invece che una tassa, per “aiutare” le
coppie in difficoltà, le famiglie in crisi, le vite
minacciate di naufragio.
È questa, in fondo, la differenza fra l’ordine giuridico
concepito grezzamente come cintura di “diritti
individuali” noncuranti, e l’ordine sociale che
abbraccia la presenza delle persone vive, con
l’intreccio di un dono reciproco. La scelta familiare è
un dono singolarissimo, inconfondibile, irretrattabile.
Perderlo è una sventura fra le più grandi. Io non
giudico le persone che incontrano il divorzio; a volte
mi è parso di sentire nella loro confidata ferita la
nostalgia dolente di un bene perduto, quasi il varco di
un lutto. Ma giudico una società indifferente a questi
lutti, a questi cancelli del dolore; a queste
statistiche dei fallimenti. Giudico una società che ha
creduto finora di assolvere i suoi compiti negando di
avere compiti, paga di esaltare ideologicamente
“diritti” impiegati a distruggere, invece che a
costruire. Altro che tasse, è il soccorso e la
prevenzione ciò che ci manca”.
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