La sicurezza come problema
complesso
Il tema della sicurezza è
antico: esso corrisponde ad aspetti fondamentali della
condizione umana, alla nostra condivisa vulnerabilità
ed esposizione al rischio, nozioni queste ultime
che stanno catalizzando progressivamente l’attenzione di
chi si occupa dei processi e delle trasformazioni
sociali, nonché delle questioni attinenti allo sviluppo
del diritto e delle specifiche questioni concettuali che
lo accompagnano.
Basti pensare che la grande
tradizione della filosofia politica e giuridica moderna
nasce con il tema della mancanza di sicurezza dello
stato di natura, che richiese la costruzione di un
ordine artificiale, l’ordinamento giuridico-politico,
capace di assicurare la prevedibilità dei comportamenti,
la certezza delle aspettative, la fissità rassicurante
delle regole – in sintesi, l’universo concettuale della
sicurezza è strettamente connesso con lo Stato moderno e
le sue configurazioni.
Sicurezza è diventata nozione
forte nei tempi più recenti per via dei due fenomeni
congiunti della globalizzazione, da una parte, e delle
nuove tecnologie, dall’altra. Avviene allora che temi
che una volta sarebbero stati declinati in termini di
«ordine pubblico» vengono ora concettualizzati
come problemi di sicurezza
sia che si parli di microcriminalità urbana che di
terrorismo. Anche altre questioni fondamentali
tradizionalmente afferenti alla «giustizia sociale»
vengono percepite come problemi di sicurezza (a partire
dal posto di lavoro sino alle più generali politiche di
welfare) così come alla sicurezza e alla sua
grammatica rinviano le recenti crisi economiche. Infine
spesso le riflessioni sul diritto soggettivo alla
privacy, in relazione alle innovazioni apportate
dalle tecnologie informatiche, vengono discusse
nell’arena pubblica legandole alla sicurezza e a questo
fine vengono approvate normative, convenzioni, nuovi
provvedimenti e regole che mutano gli scenari anche
costituzionali.
La sicurezza sta in pratica
diventando il punto di vista, il catalizzatore
semantico, dal quale si concettualizzano molti degli
altri valori ai quali si fa riferimento per legittimare
una policy o una direzione decisionale: sia che
si tratti di questioni ecologiche, di energia più o meno
“sicura”, che di affrontare la sfida dei fenomeni
migratori che stanno rapidamente cambiando il volto
demografico del Paese; sia che si tratti di pensare alle
città, ai nuovi conflitti e agli attori sociali, oltre
alle politiche sociali che riguardano le persone che le
abitano.
La sicurezza è quindi un
concetto polisemico i cui diversi profili la lingua
italiana non è in grado di esprimere appieno. E’ invece
nella lingua inglese che tutte le potenzialità di tale
concetto vengono a trovare espressione attraverso
l’utilizzo di tre termini: security [sicurezza
esistenziale], ossia la certezza che qualunque cosa sia
stata conquistata o conseguita rimarrà in nostro
possesso; qualunque obiettivo raggiunto conserverà il
suo valore; il mondo nel quale viviamo è stabile come il
nostro stile di vita e le nostre tradizioni;
certainty [certezza], la nostra bussola che ci
consente di muoverci nell’ambito delle relazioni sociali
sapendo cosa è giusto e cosa è sbagliato, quali condotte
sono punite, censurate o consentite; safety
[incolumità], ossia la tutela e conservazione della
nostra persona, dei nostri cari e dei nostri beni contro
i pericoli che possono incombere e provenire
dall’esterno.
La sua natura caleidoscopica
rende il concetto di sicurezza è uno dei nodi
cruciali che la cultura contemporanea deve affrontare,
essendo divenuto il referente privilegiato del
vocabolario della discussione pubblica ma anche, più in
specifico, mediatica.
Nel discorso pubblico, i
termini analizzati subiscono una commistione,
integrandosi in modo da far sì che il riferimento ai
concetti di sicurezza e insicurezza sia divenuto un
frame egemone, se non addirittura
dominante, fino a sovvertire – come avviene nel
nostro paese – l’ordine di priorità tra dato statistico
dei crimini commessi e percezione sociale della
sicurezza oppure fino ad assorbire, entro la sua potente
sfera semantica, problemi originati da altri processi.
Si pensi al fenomeno delle morti sul lavoro, che in
Italia è una piaga se non una vera e propria emergenza
sociale: basti dire che nel nostro paese si muore sul
lavoro quasi il doppio che in Francia, il 30% in più
rispetto a Spagna e Germania. Nel 2010 hanno perso la
vita 1.080 lavoratori (+ 6,5% rispetto al 2009)
e si sono verificate più morti bianche che omicidi, così
come – prestando attenzione ad un altro versante – i
decessi in incidenti stradali sono stati sei volte più
numerosi degli omicidi.
Nonostante questi dati di
fatto, il sistema mediatico e le autorità sono
concentrate sulla criminalità, specie quella micro,
lasciando ai margini le cause profonde dell’insicurezza:
emerge così la questione centrale del rapporto tra
sicurezza effettiva e percezione della sicurezza.
Seppure le statistiche storiche sulla criminalità ci
dicano che il numero dei delitti, in particolare di
quelli contro la persona - omicidi, risse, violenze,
lesioni – sia diminuito, in proporzione alla
popolazione, rispetto a qualche decennio fa e ancor più
rispetto a un secolo fa,
l’allarme sociale legato al tema sicurezza non tende a
scemare nelle priorità degli italiani.
Si tratta di una paura in gran parte costruita dalla
politica e dai media. In contrasto con la diminuzione
oggettiva della criminalità, le statistiche ci rivelano
infatti che il tempo dedicato dai telegiornali alla
cronaca dei delitti è più che raddoppiato negli ultimi
quattro anni. Secondo le analisi riferite dal Centro di
ascolto radicale, lo spazio dedicato dai telegiornali
alle notizie di cronaca nera è passato dal 10,4% della
loro durata nel 2003 al 23,7% nel 2007
con un aumento vertiginoso sino al 323%. Inoltre è da
notare che ai fatti di sangue, tanto più se efferati e
spaventosi, sono stati dedicati lunghi dibattiti
televisivi. Si aggiunga che questi dati, in Italia, sono
cresciuti in maniera esponenziale durante la campagna
elettorale, vinta non a caso dalla destra che ha
cavalcato la politica della paura, promettendo e poi
introducendo inasprimenti punitivi orientati unicamente
nei confronti della criminalità di strada.
Alla sicurezza, al rischio,
alla vulnerabilità, si accompagna una parola chiave,
anch’essa centrale del lessico politico a cominciare da
Hobbes: la paura.
Tuttavia, nel dilagante senso
di insicurezza «si nutrono a vicenda due paure. Una
paura reale, concreta, connessa alla socialità e alla
sopravvivenza, e una paura strisciante che tocca il
significato dell’essere e della sua individualità. La
contaminazione tra le due paure è costante, particelle
si incontrano, si influenzano, si mescolano fino a
produrre una paura ancora maggiore, che esplode
nell’immaginario».
La necessità di sicurezza, intesa in senso esistenziale,
è alla base di quell’atteggiamento della maggior parte
delle persone che confidano nella continuità della
propria identità e nella costanza dell’ambiente sociale
e materiale in cui agiscono. Essa è quindi intimamente
connessa alla routine, e dipende dalla diffusione
delle abitudini e dalla familiarità delle relazioni.
Per questo, spesso,
nella
rivendicazione dell’insicurezza e nella conseguente
richiesta di sicurezza e di ordine allo Stato, così come
nella scelta di operare in tale direzione privatamente,
vi è qualcosa di più della paura della criminalità,
entrando in gioco il problema più ampio del disordine
sociale. In tal senso si viene a legare la nozione
dell’insicurezza ai fenomeni sintomatici di una messa in
prospettiva dei rapporti con l’Altro, lo straniero, a
colui che, attraverso i suoi atti o la sua presenza,
tende a creare una certa destabilizzazione relazionale.
L’ “altro”
realizza infatti un’alterazione delle regole
comunicative abituali, introducendo in un dato contesto
delle ansie esistenziali che prendono la forma del
sospetto e dell’ostilità. In tal senso, la violazione
delle abitudini sociali che si verifica in seguito alla
rapidità delle trasformazioni dello stesso ambiente
urbano, in occasione per esempio di cambiamenti sociali,
del mercato immobiliare o di operazioni speculative,
pongono gli individui, spesso i più fragili e isolati,
di fronte a condizioni nuove e non decodificabili.
Quindi sebbene la vita moderna imponga, come si sa, di
vivere con gli stranieri, si deve anche constatare come
vivere con gli stranieri sia in ogni epoca una vita
precaria, snervante e impegnativa.
L’insicurezza è
quindi anche il frutto dell’incapacità di adattamento,
ossia della difficoltà di porre una distanza cognitiva
tra il sé e l’altro, il che provoca la destabilizzazione
del sistema di orientamento e l’abbassamento della
soglia di tolleranza alla frustrazione, dovuta alla
mancanza di controllo sulle circostanze della vita.
Anche alla luce
delle precedenti considerazioni, si può fondatamente
sostenere come non siano i grossi delitti isolati o le
forme di criminalità insolite e condannate in modo
generalizzato a creare la paura, quanto piuttosto tutta
quella serie di “inciviltà” diffuse che denunciano la
difficoltà dei rapporti con gli altri, la messa in crisi
della possibilità del vivere collettivo da parte di
soggetti che, in quanto portatori di altre abitudini e
altri costumi, sembrano non accettare le regole ritenute
alla base di una convivenza civile.
Numerose ricerche hanno poi rilevato che la natura della
fear of crime può essere ricondotta a una
condizione di precarietà sociale economica, alla
fragilità e all’isolamento dell’identità personale.
Abbastanza chiare appaiono le logiche sociali, culturali
e ideologiche che sottendono il manifestarsi della
paura: più il livello culturale e la categoria sociale
sono elevate, meno si provano delle paure. All’inverso,
la paura è proporzionale alla povertà materiale e
culturale.
Più in generale si può dire che l’insicurezza può essere
messa in relazione con il contesto della qualità della
vita.
Così la paura di perdere il
lavoro, o di non trovarlo affatto (che sta all’origine
dell’insicurezza delle nuove generazioni), la paura di
non avere un’identità sociale, la paura di ciò che è
sconosciuto e diverso – da cui si origina, sulla base di
stereotipi e pregiudizi, l’odio per lo straniero, per il
migrante, nonché il «ritorno della razza» nel discorso
pubblico –, la paura di non essere omologati, ovvero
riconosciuti, e quindi di vivere la solitudine e di
essere alla «mercé dei rischi», sono tutte facce
dell’enorme incertezza che pervade l’uomo nell’«età
della globalizzazione».
Tale condizione genera un processo che si sviluppa
sostanzialmente tra due precisi poli che lavorano
nell’uomo: si oscilla tra la paura del sosia e
quella del mostro.
Cosa intendo dire: semplicemente che si ha paura sia
dell’altro troppo uguale a sé, sia dell’altro troppo
diverso da sè. L’arrivo improvviso dell’altro mette in
vibrazione questa soglia. Se, poi, questo arrivo è
massivo e repentino, ciò mette contemporaneamente alla
prova altre soglie critiche: quella dei mutamenti
sostenibili e quella della loro rapidità. E la risonanza
molteplice provocata da simili eventi può diventare, in
ogni individuo, ingovernabile, mettendo in moto
distruttivi meccanismi di autodifesa, come pregiudizi,
proiezioni, immaginazioni persecutorie – tutto quel
ventaglio regressivo di sindromi che attivano il
fenomeno del ‘capro espiatorio’ (Arendt). Così il
singolo, non più membro di una comunità coesa, ma monade
in un sistema privo di corpi intermedi, può sentirsi, a
un tratto, sradicato in casa propria, può cominciare a
vivere quell’inquietudine segreta che oscilla fra una
coatta, omologante appartenenza che schiaccia
nell’identità collettiva e una totale disappartenenza
che strappa dalla radice. E questa inquietudine
sommersa può entrare in risonanza con quella di tanti
altri, generando spirali di reazioni e gorghi emozionali
di massa che possono venire, in momenti topici, allo
scoperto improvvisi, determinando movimenti
regressivi di massa (Elias Canetti).
Non si tratta solo di una
questione teorica. L’insicurezza colpisce in concreto,
in corpore vili, si tramuta in violenza, odio,
frustrazione, avvilimento, depressione. Ciò porta gli
individui a difendere, senza troppi scrupoli, il proprio
“spazio vitale” in modo egoistico (ad es. si respingono
gli sconosciuti, ci si arma, ci si isola…): in tal modo,
creando un meccanismo perverso, la «fabbrica della
paura» e «la fabbrica dell’insicurezza» fabbricano
violenza, dal contesto urbano a quello globale.
Il saldarsi di insicurezza,
paura e incertezza, chiamano così in causa al fine di
dare risposte ragionevoli, da un lato, la necessità di
mettere in atto strumenti di analisi multi e
interdisciplinare, dall’altro di pensare a strategie che
colgano le cause dell’insicurezza e sappiano suggerire
politiche di sicurezza, senza esserne divorati e senza
cadere nella logica della mera percezione che detta e
orienta l’azione.
Occorre mettere in atto un
approccio “integrato”, che colga appieno le diverse
forme di sicurezza (e insicurezza), le loro correlazioni
con altri fattori, le loro tensioni con altri elementi (in
primis i diritti fondamentali delle persone). Solo
adottando un tale approccio si può cercare di far uscire
la sicurezza da quel ventre oscuro che è il suo
habitat naturale ed evitare che derive securitarie
non facciano altro che alimentare nuova insicurezza, che
la paura sia la soluzione, o addirittura un
«investimento politico», che la sicurezza stessa diventi
un’ossessione.
E’ per questo
che al concetto di insicurezza si può contrapporre
quello di fiducia, quale antidoto alla paura
sociale, nella misura in cui solo il grado di
integrazione sociale, di forza dei legami sociali e di
fiducia condivisa, in una parola il livello del
“capitale sociale”, aiutano ritessere la trama spezzata
di una comunità solidale, dando vita ad una nuova
concezione della cittadinanza che si richiami ai
principi della costituzione (cd. patriottismo
costituzionale).
Dove manca la
fiducia infatti, la paura regna incontrastata.
Come ha scritto Bauman, ne «La
solitudine del cittadino globale», l’insicurezza di
oggi assomiglia alla situazione che potrebbero provare i
passeggeri di un aereo nello scoprire che la cabina di
pilotaggio è vuota, che la voce rassicurante del
capitano era soltanto la ripetizione di un messaggio
registrato molto tempo prima. L’insicurezza delle
condizioni di vita, insieme con l’assenza di
un’istituzione cui rivolgersi con fiducia,
un’istituzione capace di mitigare quell’insicurezza o
perlomeno di ascoltare le richieste di maggiore
sicurezza, arrecano un danno particolarmente profondo
alla politica della vita e al tessuto della comunità
La caduta di fiducia nelle capacità dello Stato di
fornire sicurezza e legittimità attraverso il welfare
e la regolazione economica, apre al sistema penale
un’opportunità per forgiare e mobilitare il consenso
sociale tra le popolazioni colpite dalla paura.
In tal modo, concretando quel processo di manipolazione
prima denunciato, la domanda di sicurezza viene
strumentalizzata per mobilitare solo quell’azione
istituzionale, locale e statale, diretta al mantenimento
dell’ordine sociale (o meglio dell’ordine pubblico) in
virtù dell’intervento del sistema penale.
Ma per sventare
tale rischio, non è più possibile ricorrere ad un
generico richiamo ai valori condivisi o agli antichi
mores,
oggi il recupero del legame sociale può avvenire solo a
livello simbolico: è in questa direzione che nascono le
nuove politiche di gestione dell’insicurezza,
indirizzate allo sviluppo di forme di cittadinanza
attiva e consapevole, attraverso la creazione di reti
tra istituzioni e società civile, in particolare a mezzo
dell’organizzazione di programmi di supporto per le
vittime, di conciliazione e di mediazione, non solo come
risposte alla criminalità, ma anche con funzioni
preventive.
Obiettivo dei
suddetti programmi è proprio la restaurazione di quel
legame sociale la cui carenza appare essere causa
primaria, ad un tempo, sia del diffondersi del fenomeno
criminale che del timore di esso, siano o meno le due
realtà in correlazione: ricostruzione che prescinde
dalla vicinanza materiale dei soggetti e si concentra
sugli effetti rassicuranti di politiche di cogestione
del territorio e condivisione degli aspetti problematici
dell’esistenza.
Le ordinanze sindacali come segno dei tempi
Con il
D.L. n. 92 del 23 maggio 2008 convertito in Legge 24
luglio 2008, n. 125 si sono introdotte o modificate una
serie di disposizioni eterogenee, tutte accomunate
dall’obbiettivo di affrontare e risolvere la generale
questione della «sicurezza» o meglio della percezione
dell’insicurezza da parte di larghi strati della
popolazione.
Questo provvedimento tuttavia – così come il successivo
«pacchetto sicurezza» approvato con L. n. 94/2009 –
«invece che rivolgersi all’efficienza simbolica dei
valori costituzionali, [rappresenta l’esplicazione] del
simbolismo efficientista proprio della politica
spettacolare»
, nella quale la base di
legittimità delle decisioni legislative si rinviene nel
sostegno elettorale, e non nel consenso sui valori
costituzionali, creando un processo artificiale di
legittimazione, in cui viene realizzato lo scambio tra
illusioni di sicurezza e voti
.
Tra le modifiche apportate, quella che rileva nella
specie attiene all’art. 54 T.u.e.l., volto a
disciplinare le «attribuzioni del sindaco nei servizi di
competenza statale»
, il cui novellato comma 4 prevede
che il sindaco possa emanare anche ordinanze
contingibili ed urgenti a tutela dell’incolumità
pubblica e della sicurezza urbana .
Ciò ha contribuito a una nuova «primavera» nell’utilizzo
delle ordinanze da parte dei sindaci, in particolare da
parte di quelli dei Comuni medio-piccoli, i quali, in
una sorta di rincorsa imitativa, hanno fatto a gara
nell’adottare le ordinanze più disparate
che, in modo più o meno efficace, potessero rispondere
alle situazioni di insicurezza percepite nei singoli
territori
.
La stabilizzazione crescente dello strumento
dell’ordinanza nell’ordinamento giuridico, rappresenta
tuttavia una deriva della funzione normativa dagli
organi legislativi agli apparati amministrativi, che pur
muovendo da condivisibili principi di autonomia e
differenziazione, finisce col favorire la creazione di
tanti «microordinamenti» accomunati piuttosto che da
filo logico-normativo, dall’urgenza di provvedere ad
emergenze o pericoli non adeguatamente affrontati a
livello nazionale e perciò irrisolti e strutturali.
Tale modifica ha inoltre condotto all’ampliamento della
nozione di sicurezza urbana, in cui vengono a confluire
non soltanto fenomeni di microcriminalità, ma situazioni
riconducibili al disagio sociale, al decoro, al degrado
urbano.
E’ utile
rammentare come, nonostante i persistenti vincoli
normativi e il riaffermato monopolio dello Stato
centrale in materia di sicurezza, negli ultimi quindici
anni anche in Italia i sindaci siano stati chiamati
direttamente in causa sui problemi della sicurezza
urbana, divenendo quindi, in una prima fase anche loro
malgrado, gli attori emergenti delle nuove politiche
della sicurezza urbana, in quanto, indipendentemente dai
loro poteri reali in materia, considerati dai cittadini
i responsabili primi della vivibilità urbana. Tale
condizione ha portato i sindaci ha fare largo uso dei
poteri di ordinanza sia per rivendicarne una estensione
in grado di meglio corrispondere alle esigenze di
sicurezza sentite dalla popolazione, sia per farne
applicazioni innovative.
Ciò tuttavia ha posto non pochi problemi in ordine al
rapporto tra i poteri ed organi dello Stato, ha creato
tensione nel sistema delle fonti, in particolare nel
caso di incidenza dei provvedimenti sindacali su diritti
e libertà individuali, per attività che pur non
considerabili di per sé illecite (si pensi al caso
dell’esercizio della prostituzione), finiscono con
l’essere sanzionate sulla base di provvedimenti locali
secondo presupposti e modalità anche profondamente
differenti nei vari contesti territoriali.
E’ utile sottolineare come il Tar Veneto, sez. III, 22
marzo 2010, n. 40 abbia contestato la legittimità
costituzionale dei caratteri propri del potere di
ordinanza come configurato dall’art. 54, comma 4, del
Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267 (modificato dal decreto
legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge 24
luglio 2008, n. 125). In primo luogo la disposizione,
nel prevedere un potere d’ordinanza così configurato,
viola i limiti costituzionali di legalità, tipicità e
delimitazione della discrezionalità enucleabili dagli
artt. 23, 97, 70, 76, 77 e 117 Cost. e chiaramente
sanciti dalle sentenze della Corte Costituzionale 2
luglio 1956, n. 8, 27 maggio 1961, n. 26 e 4 gennaio
1977, n. 4, e 28 maggio 1987 , n. 201. In base a tali
pronunce il potere di ordinanza si deve fondare sulla
contingibilità ed urgenza che costituiscono il
presupposto, la condizione e il limite per consentire di
derogare, nel rispetto dei soli principi generali
dell’ordinamento, alla disciplina vigente nei vari
settori di intervento, e per legittimare l’assunzione
delle competenze in capo ad un organo monocratico, in
luogo di quello ordinariamente deputato. Le norme che
prevedono il potere di ordinanza devono pertanto
mantenere indefettibilimente il contenuto
provvedimentale dell’atto, l’obbligo di motivazione,
l’efficacia limitata nel tempo delle ordinanze. Le
ordinanze inoltre, anche se e quando - eventualmente -
normative, non possono poi mai essere ricomprese tra le
fonti dell’ordinamento giuridico, non possono innovare
al diritto oggettivo, né, tanto meno, possono essere
equiparate ad atti con forza di legge, per il sol fatto
di essere eccezionalmente autorizzate a provvedere in
deroga alla legge. Sotto questo profilo l’art. 54, comma
4, avendo previsto una vera e propria fonte normativa
libera con valore equiparato a quello della legge, viola
pertanto la riserva di legge di cui agli artt. 23 e 97,
e gli artt. 70, 76, 77 e 117 che demandano in via
esclusiva alle assemblee legislative statali e regionali
il compito di emanare atti aventi forza e valore di
legge. Risultano altresì violati gli artt. 3, 23 e 97
Cost. quali norme che costituiscono il fondamento
costituzionale delle libertà individuali e del principio
di legalità sostanziale in materia di sanzioni
amministrative, cristallizzato, a livello di normazione
primaria, nell'art. 1 della legge 24 novembre 1981, n.
689. Infatti l'art. 23 della Costituzione prevede che le
prestazioni personali e patrimoniali non possono essere
imposte ai singoli se non in base alla legge, in quanto
solo il legislatore statale, col fine della protezione
della libertà e della proprietà individuale, può essere
interprete e custode dell'opera di bilanciamento tra
valori e beni costituzionalmente rilevanti e tra loro
confliggenti, mediante l’imposizione di obblighi,
divieti e sanzioni. Seppure si tratti di una riserva
relativa, tuttavia la giurisprudenza costituzionale, a
partire dalla sentenza n. 4 del 1957, ma altrettanto
significativa è la sentenza n. 447 del 1988, ha indicato
i limiti e le garanzie necessarie a far ritenere
rispettato il principio della riserva di legge relativa
stabilito dall’art. 23 Cost., precisando che la legge
deve stabilire i criteri idonei a regolare eventuali
margini di discrezionalità lasciati alla pubblica
amministrazione nella determinazione in concreto della
prestazione ed inoltre che, al fine di escludere che la
discrezionalità possa trasformarsi in arbitrio, la legge
deve determinare direttamente l’oggetto della
prestazione stessa ed i criteri per quantificarla. La
norma della cui legittimità costituzionale si dubita ha
invece attribuito un potere normativo che, dovendo
rispettare solo i principi generali dell’ordinamento ed
essendo disancorato da specifici e localizzati
presupposti fattuali insiti nei concetti della
contingibilità ed urgenza, è tendenzialmente illimitato
e, in quanto tale, autorizzato a dettare regole di
condotta e sanzioni che conculcano la sfera di libertà
dei singoli garantita invece dal principio «silentium
legis, libertas civium».
Tale è l’indeterminatezza che caratterizza la
disposizione che essa inevitabilmente finisce per
autorizzare l’arbitrio e la sistematica sovrapposizione
con norme penali incriminatici (è il caso ad esempio
delle ordinanze sulla vendita di alcolici a minori di
anni 16 o sullo spaccio di droga) oltre che
sconfinamenti in fattispecie che sono esercizio di
diritti di libertà, naturalmente attratte, per il
principio della riserva di legge assoluta o relativa,
alla competenza statuale, con conseguente violazione
degli artt. 13 sulla libertà personale, 16 sulla libertà
di circolazione e soggiorno, 17 sulla libertà di
riunione, e 41 in materia di disciplina dell’iniziativa
economica (ad esempio con i divieti generalizzati alla
vendita di alcolici in deroga alle norme statali e
regionali vigenti o i divieti che fissano limiti di
reddito per l’iscrizione all’anagrafe di cittadini
comunitari ed extracomunitari previa dimostrazione della
liceità delle loro risorse economiche), oltre che negli
ambiti di competenza legislativa regionale previsti
dall’art. 117 della Costituzione.
Infine tale disposizione autorizza una irragionevole e
ingiustificata frammentazione di discipline recanti
divieti, obblighi di fare e di non fare profondamente
diversificati (sotto il profilo della liceità o meno
delle condotte e della misura e della tipologia di
sanzioni irrogabili) tra i territori dei Comuni (che
nella Repubblica sono più di 8.000), in ambiti che,
essendo riconducibili a diritti e libertà individuali
costituzionalmente rilevanti, richiederebbero invece un
esercizio unitario a livello statuale. Ne risultano
vulnerati, in combinato disposto con il criterio della
ragionevolezza di cui all’art. 3, i principi di
uguaglianza di cui all’art. 2, di unità ed
indivisibilità della Repubblica di cui all’art. 5, di
legalità di cui all’art. 97, e di riparto delle funzioni
amministrative di cui all’art. 118 Cost.
Per comprendere in concreto il senso delle eccezioni di
costituzionalità sollevate dal Tribunale amministrativo,
vorrei richiamare qui alcune materie e provvedimenti
indicativi ed esplicativi del fenomeno di cui stiamo
parlando: a) le ordinanze sulla prostituzione,
bocciate dai giudici amministrativi in quanto
«l’ordinamento vigente [infatti] non consente la
repressione di per sé dell’esercizio dell’attività
riguardante le prestazioni sessuali a pagamento …» e
conseguentemente vietare «su tutto il territorio
comunale senza limiti […] condotte che, descritte in
modo approssimativo e generico, possono risultare in
concreto non lesive di interessi riconducibili alla
sicurezza urbana …» appare del tutto irragionevole. In
materia va peraltro ricordato come il diritto alla
libertà sessuale inteso come diritto di disporre
liberamente della propria sessualità, è da intendersi
come uno dei modi essenziali di espressione della
persona umana e della sua libertà personale,
riconosciuto dalla Corte costituzionale come «un diritto
soggettivo assoluto che va ricompreso tra le posizioni
soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed
inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana
che l’art. 2 impone di garantire» (Corte cost., sent.
561/1987); b) ordinanze in materia di religione -
Alcuni provvedimenti anche risalenti al periodo
precedente alla riformulazione dell’art. 54 T.u.e.l.
hanno interessato la delicata tematica dei luoghi e dei
simboli religiosi. Si tratta di provvedimenti non
riconducibili ad una tipologia unitaria, ma che tuttavia
rappresentano la coerente espressione di quella che è
stata definita come «politica della purezza» etnica e
religiosa, che si pone in contrasto con i valori
fondanti la nostra carta costituzionale. Tra questi
vanno ricomprese le recenti ordinanze che hanno imposto
di mantenere il crocefisso all’interno delle scuole del
territorio comunale, così come il provvedimento adottato
da un Comune bresciano che, al fine di salvaguardare i
valori cristiani, aveva disposto «il divieto ai non
professanti la religione cristiana di accedere ai luoghi
sacri e di culto della predetta religione», nonché
«l’istituzione di un’area di protezione e di sicurezza
pari a mt. 15 lineari intorno ai luoghi sacri e di
religione cristiani». Anche tali ordinanze sono state
oggetto di censura da parte dei giudici amministrativi,
in particolare come ricordato dal Consiglio di Stato, il
divieto di discriminazione religiosa comporta che nessun
effetto nell’ordinamento giuridico possa prodursi a
causa della professione di fede, che resta un fatto
personale pure tutelato dall’ordinamento ma privo di
riflessi giuridici. La religione non è uno dei fatti ai
quali un provvedimento amministrativo può ricollegare
degli effetti, restando l’ordinamento del tutto
indifferente rispetto alle credenze religiose dei propri
cittadini o residenti. E ciò vale sia per lo Stato sia,
a maggior ragione, per qualsiasi esercente pubbliche
funzioni; c) ordinanze in materia di requisiti per le
pubblicazioni matrimoniali - prima dell’approvazione
del decreto Maroni, alcuni sindaci avevano adottato atti
che in caso di richiesta di matrimonio da parte di un
cittadino extracomunitario, imponevano agli ufficiali di
stato civile di richiedere il permesso di soggiorno.
Qualora questi ne fosse sprovvisto, venivano proibiti il
ricevimento della domanda di matrimonio e la
celebrazione del matrimonio.
In altre ordinanze di simile contenuto si disponeva il
dovere di ricevere comunque le pubblicazioni,
riconoscendo che sposarsi è un diritto della persona, ma
nel momento in cui il richiedente fosse risultato
«irregolare» o semplicemente «presunto irregolare»,
rifiutandosi per esempio di esibire il permesso di
soggiorno, era prevista una segnalazione alle autorità
di polizia.
Al momento dell’approvazione di tali ordinanze la legge
non contemplava la regolarità del soggiorno tra i
requisiti per ottenere le pubblicazioni o per la
celebrazione del matrimonio, né la clandestinità
costituiva reato: alla richiesta delle pubblicazioni
l’ufficiale di stato civile avrebbe dovuto limitarsi a
chiedere i documenti prescritti e non invece richiedere
ulteriori requisiti non previsti dal legislatore. In
proposito va ricordato che il diritto di formare una
famiglia rientra fra i diritti fondamentali riconosciuti
dalla Costituzione (art. 29) e dalla Convenzione Europea
per i diritti dell’uomo (art. 12) a prescindere tanto
dalla cittadinanza quanto dalla regolarità del titolo di
soggiorno.
Stante la riserva di competenza in materia attribuita
allo Stato (ex art. 117, 2 co., lett. i) Cost.)
il Comune e quindi il sindaco avrebbero dovuto
esercitare un’attività vincolata nell’an e nel
quid, dovendo applicare la disciplina dettata dal
legislatore statale, senza intervenire con autonomi
poteri normativi volti a introdurre deroghe, modifiche o
limitazioni.
Su questa scia il cd. «Pacchetto sicurezza» (L n.
94/2009), modificando l’art. 116 c.c., ha introdotto per
gli stranieri che vogliono celebrare il loro matrimonio
in Italia l’obbligo di esibire un documento che dimostri
la regolarità del soggiorno nel territorio italiano.
Tale innovazione legislativa, frutto avvelenato della
stagione delle ordinanze, è stata oggetto di
impugnazione avanti la Corte costituzionale da parte del
Tribunale di Catania e del Giudice di Pace di Trento, i
quali, dopo aver rilevato che il diritto di contrarre
matrimonio costituisce un diritto fondamentale della
persona espressamente riconosciuto dalla Convenzione
dell’ONU sui diritti umani (art. 16), dalla Conv. eur.
dir. uomo e le libertà fondamentali (art. 12), dalla
Carta di Nizza (art. 9), hanno eccepito il contrasto
della novella con il diritto inviolabile dell’uomo a
contrarre matrimonio (art. 2), in quanto diretto a
garantire la piena espressione della persona umana,
inoltre con l’art. 3 Cost., in quanto tale diritto deve
essere garantito a tutti, in posizione di eguaglianza,
come aspetto essenziale della dignità umana ed infine ai
sensi dell’art. 31 Cost. che ascrivere tra i compiti
della Repubblica l’agevolare la formazione della
famiglia (oltre che l’adempimento dei compiti relativi).
Questo esempio dimostra come le ordinanze sindacali
abbiano rappresentato una sorta di «laboratorio»
normativo ove sperimentare nuove soluzioni per
rispondere alle problematiche della sicurezza urbana.
I contenuti di talune ordinanze, in una sorta di
fenomeno «ascensionale», sono stati riadattati e
adottati dal legislatore nazionale, che ha fatto propria
anche la filosofia di fondo che li ispirava.
Come anticipato, in particolare, la legge n. 94/2009 ha
rappresentato l’apice di questo processo, consentendo
l’inserimento di una congerie di micro-disposizioni in
ambiti disciplinari disparati, con l’intento di
contribuire al rafforzamento delle tutele contro la
criminalità organizzata, all’inasprimento delle sanzioni
contro il degrado urbano, alla stretta repressiva del
fenomeno migratorio
.
Anche tali provvedimenti sono espressione dello «spirito
del tempo» e confermano che il
valore della sicurezza sta scacciando quello della
libertà, «al fine di
difenderci da una
paura priva
di un indirizzo e di una causa chiari, che ci perseguita
senza una ragione, che prende la forma di una minaccia
che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non
si mostra mai chiaramente»
.
In questo quadro può essere
letto anche l’art. 1, 18 co. del «decreto
sicurezza»
,
che prevede per
l’iscrizione anagrafica e le relative richieste di
variazione la facoltà per i comuni di dar luogo alla
verifica delle condizioni igienico-sanitarie
dell’immobile in cui il richiedente intende fissare la
propria residenza
.
Al di là delle inconsistenti ragioni propagandate per
giustificare l’approvazione di tale norma, scopo della
modifica pare quello di utilizzare il
requisito igienico sanitario dell’alloggio come
strumento per selezionare le minoranze indesiderabili ed
escluderle dal circuito della cittadinanza, impedendone
l’iscrizione anagrafica
.
Si rammenta infatti come la residenza sia il presupposto
per accedere ai servizi sociali, sanitari, d’istruzione
e ai servizi elettorali e scolastici attivati nel
comune, ma anche per ottenere il rilascio della carta
d’identità e di tutte le certificazioni anagrafiche e
dello stato civile e per molte altre prestazioni e
servizi sociali erogati e previsti dalle leggi statali e
regionali
.
La perdita della residenzialità trascina con sé quindi
altre forme di esclusione dai processi di
riconoscibilità sociale e politica del soggetto,
significando una concreta e vasta mutilazione della sua
stessa capacità giuridica, che corrisponde, per alcuni
versi, ad una pallida, ma pur sempre odiosa, riedizione
della morte civile. L’individuo «errante»,
non collocabile, almeno formalmente, all’interno di un
dato contesto spaziale si presenta infatti come uno
«sradicato» che,
insieme ai diritti di cittadino, ha perso anche
progressivamente un’appartenenza culturale, l’ancoraggio
sociale al tessuto urbano di appartenenza
.Questa condizione non lede
soltanto un diritto della persona, ma anche un interesse
pubblico, in quanto l’itinerario del declino (povero,
non residente, sconosciuto, non aiutabile, estraneo,
nemico), se costituisce una condanna per il singolo, è
pure un pericolo per la comunità, che subirà l’acuirsi
del conflitto urbano e il diffondersi del danno sociale.
Quali prospettive ?
Come
ricorda Bauman,
una politica capace di affrontare i problemi della
post-modernità deve essere guidata dal triplice
principio di libertà, di differenza e di solidarietà; di
tali principi, però, quello che è decisivo è l’ultimo,
perché è la solidarietà che costituisce la condizione
essenziale per la vitalità ed il pieno sviluppo della
libertà e della differenza. La sicurezza, infatti, serve
a garantire l’esplicazione della nostra libertà e
l’affermazione delle nostre diversità individuali, ma
senza solidarietà, nessuna libertà è sicura.
È per tale
ragione che il Manifesto di Saragozza sulla
insicurezza urbana e la democrazia
ricorda che la sicurezza è un bene comune
essenziale, indissociabile da altri beni primari, quali
l’inclusione sociale, il diritto al lavoro, alla salute,
all’educazione, alla cultura, e che è l’accesso ai
diritti a facilitare e rendere possibile il diritto alla
sicurezza.
Per superare i rischi insiti nel fenomeno analizzato
credo sia necessario ritornare a dare priorità alla
«sicurezza dei diritti», riguardata in termini
promozionali, rispetto al presunto «diritto alla
sicurezza» e che si riverbera anche sul concetto stesso
di libertà: garantire lo Stato sociale significa
«rendere effettivi i diritti di libertà», assicurare
«agli individui un minimo di beni materiali, senza i
quali non potrebbero realizzare in pratica la loro
libertà», intesa sia come indipendenza sia come
autodeterminazione o autorealizzazione. In
ciò sta il principale «salto di qualità» del
costituzionalismo, che, «partendo da differenti matrici
culturali, risponde positivamente alle sollecitazioni
volte ad arricchire il suo ruolo, a recepire, cioè, le
domande che provengono dallo sviluppo storico-sociale».
La necessità di prevenire situazioni di rischio,
riguardata anche in termini dinamici come esigenza di
«garanzia della continuità nel tempo del godimento di
diritti e di aspettative future, attraverso la
prevenzione dei bisogni dell’esistenza», non può
comportare la regressione e la perdita del valore
prioritario di guida del principio di libertà.
Quest’ultimo deve «conservare la propria capacità di
orientamento nei confronti delle misure adottate in
situazioni di emergenza», imponendo, tra l’altro, sia
«un’interpretazione rigorosa dei canoni della necessità
e della proporzionalità, finalizzata a lasciare
off-limits molte misure estreme» sia «la
temporaneità delle misure straordinarie». Per concludere
sul punto con le parole di Paolo Ridola, «il risalto che
le costituzioni del pluralismo conferiscono al principio
libertà indirizza giocoforza verso ponderazioni
orientate dal canone che configura la libertà come la
regola e la sicurezza come l’eccezione».
Secondo L.
Ferrajoli (L’illusione della sicurezza,
Intervento al Festival del diritto, Piacenza,
26.09.2008), il messaggio, regressivo, trasmesso
dalle campagne sulla sicurezza punta al
mutamento, nel senso comune, del significato
stesso della parola “sicurezza”: che non
vuole più dire, nel lessico politico, “sicurezza
sociale”, cioè garanzia dei diritti sociali e
perciò sicurezza del lavoro, della salute, della
previdenza e della sopravvivenza, né tanto meno
sicurezza delle libertà individuali contro gli
arbitri polizieschi. Significa soltanto
“pubblica sicurezza”, declinata nelle forme
dell’ordine pubblico di polizia e degli
inasprimenti punitivi anziché in quelle dello
stato di diritto. Essendo stata la sicurezza
sociale aggredita dalle politiche di riduzione
dello stato sociale e di smantellamento del
diritto del lavoro e minacciata dal crescente
impoverimento economico, le campagne securitarie
valgono a soddisfare il sentimento diffuso
dell’insicurezza sociale mobilitandolo contro il
deviante e il diverso, preferibilmente di colore
o extra-comunitario. E’ il vecchio meccanismo
del capro espiatorio, che consente di scaricare
sul piccolo delinquente – o anche solo sul
povero e l’emarginato: si pensi alle campagne
dei sindaci contro i mendicanti e i lavavetri -
le paure, le frustrazioni e le tensioni sociali
irrisolte. Con un duplice effetto:
l’identificazione illusoria, nel senso comune,
tra sicurezza e diritto penale, quasi che il
diritto possa produrre magicamente la cessazione
della delinquenza, e la rimozione,
dall’orizzonte della politica, delle politiche
sociali di inclusione, certamente più costose e
impegnative ma anche le sole in grado di
aggredirne e ridurne le cause strutturali.
E’ questo un filone di analisi che concentra in
particolare l’attenzione sulla questione del
rapporto tra sistemazione del territorio urbano
e sicurezza dei cittadini. Partendo dalla
constatazione che esistono diversi gradi
all’interno del fenomeno dell’insicurezza, il
problema del rapporto con la programmazione del
territorio viene normalmente affrontato su tre
livelli: un primo livello relativo all’ambiente
personale, che concerne la sicurezza privata
dell’individuo nel suo habitat, un secondo
livello relativo all’ambiente più vasto del
quartiere di residenza, che interessa la
sicurezza collettiva, ed infine un terzo
livello, quello della città nella sua globalità,
all’interno della quale, si sostiene, ogni forma
di disequilibrio sociale costituisce un rischio
per la sicurezza collettiva.
La richiesta di sicurezza, che proviene dai
singoli ma più spesso da gruppi più o meno
consolidati, incorpora, in questa prospettiva,
la rivendicazione del diritto esclusivo di
costruire lo spazio sociale sulla base di
criteri propri e non negoziabili. Essa intende,
più precisamente, rivendicare un potere che
viene minacciato dalla presenza forestiera. In
questo caso la richiesta di sicurezza, in quanto
diritto di costruire il proprio spazio sociale,
può pure mettere a fuoco l’ansia diffusa,
unificare i timori in un concreto tangibile
pericolo - il criminale, l’immigrato, il drogato
- che ora si può combattere e tenere lontano.
Insomma, la condizione moderna è caratterizzata
strutturalmente da un senso di insicurezza
individuale e collettivo che non potrà mai
essere posto in maniera definitiva sotto
controllo, proprio perché è la società stessa
che lo alimenta continuamente.
In Italia, per esempio, il numero degli omicidi,
che nella seconda metà dell’Ottocento era di
circa 5.000 l’anno e negli anni 50 di quasi 2000
l’anno, è sceso l’anno scorso, con una
popolazione quasi doppia rispetto a un secolo fa
a 601; le lesioni volontarie sono diminuite
negli ultimi cinquanta anni di circa due terzi;
e lo stesso è avvenuto per le violenze sessuali,
nonostante sia sicuramente diminuita la cifra
nera degli stupri non denunciati. Perfino i
furti e le rapine sono diminuiti.
È interessante, per questo, considerare l’agenda dell’informazione
proposta dai telegiornali nell’edizione di prima
serata. Circa due terzi delle informazioni
“criminali”, negli ultimi quattro mesi del 2010,
sono state trasmesse da Studio Aperto (618), TG5
(512) e TG1 (440). Insieme, circa 1500 su 2300,
quindi. All’opposto, il TG3 e il TG di LA7
presentano il numero minimo di notizie sui
crimini. Circa 150 ciascuno. Meno rispetto al
TG4 e al TG2, che dedicano, entrambi, 239
servizi all’argomento. Il TG3 e il TG di LA7
sono anche quelli dove il caso Scazzi è stato
seguito di meno. Gli sono state riservate circa
50 notizie dal TG3, 40 dal TG7. Meno di metà di
ogni altro, ma un terzo del TG5 e un quinto
rispetto a Studio Aperto. Il TG di LA7 e il TG3,
sono, di conseguenza, quelli che affidano alla
criminalità lo spazio minore: l’11%. Al
contrario, la politica occupa al loro interno la
quota più ampia di notizie. Nel TG3: il 33%. Ma
soprattutto nel TG di LA7, dove copre il 45%
dello spazio complessivo. Mentre il TG1 e il TG5
dedicano alla politica uno spazio molto più
limitato, intorno al 16%. (La sicurezza in
Italia e in Europa . Significati, immagine e
realtà - IV Rapporto sulla rappresentazione
sociale e mediatica della sicurezza in Europa,
condotto da Demos&Pi, Osservatorio di Pavia e
Fondazione Unipolis, 2011, in
www.osservatorio.it).
La fear of crime è un sottoprodotto o
anche un modo per richiamare l’attenzione
istituzionale sul disagio crescente provocato da
ampie modificazione del vissuto sociale e delle
politiche pubbliche. Spesso, la paura del
crimine può dipendere da particolari condizioni
sociali ed esistenziali. Chi è anziano, chi ha
un basso reddito, chi si sente poco protetto,
manifesta con più frequenza sentimenti di
insicurezza e di paura. Strati sociali un tempo
“al sicuro”, come alcuni settori di middle
class, agitano ora la paura del crimine per
denunciare un crescente senso di incertezza
relativo alla propria collocazione sociale: alla
fear of crime si associa la fear of
falling.
Il metodo della network analysis si è
rapidamente diffuso tra gli studiosi della fear
of crime. L’analisi della qualità delle reti
di socialità nelle quali l’individuo è incluso,
è risultato utile per spiegare l’origine e
l’evoluzione sia dei sentimenti di insicurezza
sia della paura del crimine. Utilizzando la
tipologia delle reti sociali messa a punto da
C. Fischer
[To Dwell among Friends, University of
Chicago Press, Chicago, 1982], è stato notato
che la preoccupazione per la sicurezza pubblica
si autonomizza e si separa dall’insicurezza
vissuta individualmente man mano che l’individuo
è coinvolto in reti di socializzazione
multiplex, attributo che indica la densità e
la pluralità dei modi in cui l’individuo è
legato a un altro o ad altri attori sociali.
Questo tipo di relazioni di rete si incontrano
normalmente nell’ambiente comunitario delle
piccole città di provincia, dove si tende a
fissare dei precisi valori normativi da
condividere collettivamente. La connessione
invece tra l’apprensione vissuta individualmente
e la preoccupazione per la sicurezza pubblica si
rafforza in un contesto urbano, nel quale sono
prevalenti rapporti di carattere uniplex,
ossia relazioni funzionalmente differenziate,
elettive e dotate di più autonomia, condizione
che corrisponde all’autonomia individuale che si
acquisisce in ambiente urbano.
Questa politica, che punta ad assecondare e ad
alimentare la paura quale principale fonte di
consenso a misure penali in materia di
sicurezza, è stata chiamata, giustamente, “populismo
penale”. Con questa espressione si intende
qualunque strategia in tema di sicurezza diretta
a ottenere demagogicamente il consenso popolare
rispondendo alla paura generata dalla
criminalità di strada con un uso congiunturale
del diritto penale tanto duramente repressivo e
antigarantista quanto
inefficace
rispetto alle dichiarate finalità di
prevenzione.
Disposizione che richiama la famigerata
ordinanza del Comune di Cittadella 258 del 16
novembre 2007. Con riferimento al comune di
Palosco, un ordinanza di tale contenuto è stata
ritenuta discriminatoria con ordinanza del
Tribunale di Bergamo emessa in data 11 marzo
2011, in
www.asgi.it.
Va rilevato che, a causa della scadente qualità
media delle abitazioni italiane – specie nei
comuni o centri storici, nelle zone rurali e nei
quartieri popolari antecedenti ai piani
regolatori – questa previsione potrebbe condurre
al blocco in massa delle iscrizioni o variazioni
anagrafiche, ledendo il principio costituzionale
di buon andamento della pubblica amministrazione
(art. 87 Cost.), che si sostanzia
nell’efficienza, adeguatezza, ragionevolezza ed
efficacia dell’azione amministrativa ma anche e
soprattutto lasciando senza residenza un’ampia
porzione della popolazione pur legalmente
presente sul territorio. Diverrebbero di
conseguenza difficili il sostegno pubblico alle
famiglie in difficoltà, il controllo sulla
scolarizzazione dei minori, la programmazione
dei servizi, la notifica degli atti legali e
molte altre funzioni civiche e costituzionali,
rendendo improvvisamente non rintracciabili e
meno tutelate vaste fasce della popolazione,
incluse le persone senza fissa dimora, schedate
in un archivio non comunale e privo di oggettive
connessioni con le necessarie funzioni di
servizio sociale.
Ne era ben consapevole il Ministero
dell’interno, che infatti aveva segnalato, con
la circolare 29 maggio 1995 n. 8,
l’illegittimità di alcune prassi comunali
tendenti a condizionare l’iscrizione anagrafica
alla dimostrazione di alcuni requisiti del
domicilio, quali: lo svolgimento di un’attività
lavorativa, la disponibilità di abitazione, le
condizioni igienico-sanitarie della stessa,
l’iscrizione degli altri componenti il nucleo
familiare e in alcuni casi persino l’inesistenza
di precedenti penali. In questo senso «La
richiesta di iscrizione anagrafica, che
costituisce un diritto soggettivo del cittadino
– sostiene la circolare – non appare vincolata
ad alcuna condizione, nè potrebbe essere il
contrario, in quanto in tal modo si verrebbe a
limitare la libertà di spostamento e di
stabilimento dei cittadini sul territorio
nazionale in palese violazione dell’art. 16
della Carta costituzionale. Alla luce delle
suesposte considerazioni, appaiono pertanto
contrari alla legge e lesivi dei diritti dei
cittadini, quei comportamenti adottati da alcune
amministrazioni comunali che, nell’esaminare le
richieste di iscrizione anagrafica, chiedono una
documentazione comprovante lo svolgimento di
attività lavorativa sul territorio comunale,
ovvero disponibilità di un’abitazione, e magari,
nel caso di persone coniugate, la contemporanea
iscrizione di tutti i componenti il nucleo
famigliare, ovvero procedono all’accertamento
e/o dell’eventuale esistenza di precedenti
penali a carico del richiedente l’iscrizione.
Tali comportamenti sembrano richiamare in vigore
quei provvedimenti contro l’urbanesimo,
risalenti alla l. 6 luglio 1939 n. 1092, che
venne abrogata con successiva l. 10 febbraio
1961 n. 5». La circolare conclude rilevando che
«La funzione dell’anagrafe è essenzialmente di
rilevare la presenza stabile, comunque situata,
di soggetti sul territorio comunale, nè tale
funzione può essere alterata dalla
preoccupazione di tutelare altri interessi
anch’essi degni di considerazione, quali ad
esempio l’ordine pubblico, l’incolumità
pubblica, per la cui tutela dovranno essere
azionati idonei strumenti giuridici diversi
tuttavia da quello anagrafico».
Manifesto approvato dal “Forum europeo della
sicurezza urbana” in occasione dell’incontro
tenutosi a Saragozza nei giorni 2-4 novembre
2006.
P. Ridola,
Libertà e diritti nello sviluppo storico del
costituzionalismo, in
P. Ridola
– R. Nania (a cura di), I diritti
costituzionali, II ed., Torino, 2006, vol.
I, 133
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