Avv. Paolo Nesta


Palazzo Giustizia  Roma


Palazzo Giustizia Milano

Sede di Roma: C.so Vittorio Emanuele II,  252   00186 – Roma
Tel. (+39) 06.6864694 – 06.6833101 Fax (+39) 06.6838993
Sede di Milano:  Via Pattari,  6   20122 - Milano 
Tel. (+39) 02.36556452 – 02.36556453  Fax (+ 39) 02.36556454 

 

Regolamenti parlamentari e forma di governo di Carlo Cimenti-Amministrazione in cammino.it

 

Home page

Note legali e privacy

Dove siamo

Profilo e attività

Avvocati dello Studio

Contatti

Cassa di Previdenza e deontologia forense

Notizie di cultura e di utilità varie

 

 

 

 

1. Vorrei cominciare con l’evidenziare il legame fra la riforma dei Regolamenti del 1971 ed il regime

parlamentare da allora vigente in Italia, per poi valutare se possa bastare l’aggiustamento di quei testi per

supportare il regime parlamentare odierno, così diverso da quello di allora, o non occorra piuttosto una

riforma radicale di essi; ovvero se, in alternativa, non sia da considerare la convenienza di modificare, prima

di tutto, il regime parlamentare nelle forme ultimamente assunte.

2. Quanto alla definizione del parlamentarismo di allora, mi atterrò, senza farla troppo lunga, alla

ricostruzione delle forme di governo compiuta da Leopoldo Elia alla fine degli anni ’60, sulla quale in molti

all’epoca convennero (quorum ego); e che si fondava sul preliminare riconoscimento dei partiti come

elemento (metagiuridico o fattuale) costitutivo delle forme di governo, e non solo esplicativo del loro

funzionamento (sull’ovvio presupposto che le forme di governo, realisticamente considerate, risultano essere

un misto di elementi, o fattori, giuridici e non giuridici). Di qui, con particolare riferimento alle forme di

governo parlamentari, la loro tripartizione in bipartitiche, moderatamente multipartitiche, e a multipartitismo

estremo, proposta da Elia.

Dal canto mio – e chiedo venia dell’auto citazione, ma è funzionale agli sviluppi del ragionamento –

proponevo, a rinforzo dell’importanza dei partiti in questa materia, di distinguere i regimi parlamentari non

soltanto con riferimento al numero dei partiti, rilevanti sulla scena politica nazionale, ma anche e soprattutto

con riguardo alla formula di accesso/partecipazione al Governo, fra loro stabilita convenzionalmente, ossia

l’alternanza o la consociazione; nonché con riguardo al sistema elettorale ed all’equilibrio fra potere

Esecutivo e Legislativo. Il che mi conduceva alla distinzione fondamentale fra il parlamentarismo di

alternanza, accompagnato di solito da un sistema elettorale maggioritario (nonché da un Governo “direttivo”

e da un Parlamento “ratificatorio”); ed il parlamentarismo consociativo, accompagnato da sistemi elettorali

proporzionalistici (nonché da un Governo “esecutivo” e da un Parlamento “decisionale”).

Di qui la collocazione del nostro regime parlamentare dell’epoca fra quelli a multipartitismo

estremo, sostenuti da un sistema elettorale proporzionale; e tuttavia non accompagnato né da una

convenzione interpartitica di alternanza al potere, né da una convenzione consociativa (e quindi anomalo).

Vero è che ancora oggi si parla del parlamentarismo post Regolamenti del 1971 in termini di regime

consociativo, ma si tratta di un linguaggio sbrigativo, da polemica politica, e tecnicamente impreciso – un

esempio di quella neolingua su cui ironizza Gustavo Zagrebelsky (Sulla lingua del tempo presente, Torino,

2010) –, perchè in realtà l’allora vigente conventio ad excludendum delle sinistre, ed in particolare dei

comunisti, mentre rendeva impossibile l’alternanza al potere con la DC (partito di maggioranza relativa) e

con i suoi alleati, ideologicamente a lei vicini, impediva altresì la consociazione. La quale, nel significato

tecnico del termine, ricavato da varie esperienza straniere, avrebbe comportato l’inclusione nel Governo di

tutti i principali partiti, quantunque ideologicamente distanti. Mentre da noi dapprima tutte le sinistre, e poi il

Testo della relazione svolta al seminario di studio su “Origini, novelle e interpretazioni dei regolamenti parlamentari a

quarant'anni dal 1971”, organizzato dal Centro di studi sul Parlamento della Luiss Guido Carli e tenutosi il 28 marzo

2011 (atti in corso di pubblicazione).

2

solo PCI (che peraltro aveva, dopo la DC, il maggior seguito popolare), restava relegato in un ruolo di

opposizione: e non per ragioni contingenti, bensì di principio.

Con la conseguenza che, per decenni, il nostro regime parlamentare ha presentato la singolare

anomalia di non poter essere annoverato né fra quelli di alternanza, né fra quelli consociativi. Non di meno,

esso ha potuto tranquillamente “sopravvivere” – e non “senza governare” (come insinuava un saggio del

politologo statunitense Giuseppe De Palma, che ebbe all’epoca un notevole successo), visto che viceversa

un’azione di governo non mancò affatto, sia pure fra innegabili lentezze e difficoltà – in virtù di una sorta di

rimedio all’italiana rispetto all’anzidetta anomalia. Rimedio consistente nella valorizzazione delle funzioni

decisionali del Parlamento, a fianco e a fronte di quelle del Governo, favorita in particolare dai Regolamenti

parlamentari (riformati nel 1971, ma già da tempo avviati su un percorso di rinnovamento orientato nel senso

dell’anzidetta valorizzazione). E determinata da un tacito accordo fra le principali forze politiche in base al

quale le sinistre (comunisti in testa), escluse in via di principio dal Governo, venivano compensate con una

partecipazione rilevante e talora determinante alle decisioni governative: attraverso, appunto, il

potenziamento delle competenze della Camere dove le sinistre, ed i comunisti in ispecie, erano

massicciamente presenti e spesso decisivi (soprattutto nelle Commissioni). Sicchè, sebbene tecnicamente

impropria, la qualifica di consociativo per il parlamentarismo venutosi a creare in quegli anni corrispondeva

in qualche modo alla realtà.

3. Comunque, quanto al legame fra la riforma regolamentare del 1971 e gli studi di Leopoldo Elia sulla

forma di governo, sono in grado di confermare che esso è strettissimo, come del resto emerge dalla stessa

concomitanza temporale delle rispettive elaborazioni: se infatti la voce di Elia, Governo (forme di), è apparsa

sull’Enciclopedia del Diritto nel 1970, i lavori di riforma dei Regolamenti vennero avviati al Senato e alla

Camera nell’estate del 1968, ma già da parecchio di certe modifiche si era cominciato a parlare fra addetti ai

lavori.

Posso aggiungere che Leopoldo Elia – cattedratico di diritto costituzionale a Torino, dopo essere

stato assistente di Carlo Esposito nell’Università di Roma mentre lavorava nel Servizio studi del Senato –

abbandonò Palazzo Madama quando, col rientro dei socialisti nel Governo, una riforma dei Regolamenti

parlamentari iniziava a profilarsi all’orizzonte come necessaria; e posso precisare che, circa i temi in

discussione, egli restò in costante contatto, presumibilmente con vari membri delle Giunte di entrambe le

Camere, ma sicuramente con me, che ai lavori di riforma collaboravo per conto dell’Amministrazione

senatoriale. Tale legame, d’altronde, si radicava nella comune presa d’atto, da parte dello studioso e dei

riformatori, dell’ineluttabilità dello “Stato dei partiti”, e dunque di una realtà nella quale, a non tenere conto

del ruolo determinante dei partiti, la pretesa di concettualizzare la forma di governo sarebbe apparsa come un

ragionamento da Don Ferrante, e quella di disciplinare l’attività parlamentare un lavoro di ingegneria

costituzionale sprovvisto di fondamenta.

E allora, con la copertura di una dottrina autorevole come quella di Elia – che, prendendo spunto

anche da elaborazioni transalpine e politologiche, aveva superato il tabù della pura giuridicità nell’analisi dei

rapporti ai vertici della Repubblica – ecco che i Regolamenti riformati compiono una serie di scelte

innovative: demandando alla Conferenza dei Capigruppo (chiamata a deliberare tendenzialmente

all’unanimità) la predisposizione dell’agenda dei lavori parlamentari; decentrando nelle Commissioni (dove

la presenza delle opposizioni è più incisiva) le funzioni di indirizzo e di controllo; approvando una disciplina

limitativa, vuoi della questione di fiducia (specialmente alla Camera), vuoi della conversione in legge dei

decreti, ecc.

Tanto è bastato a dar vita, se non proprio al modello consociativo del regime parlamentare, quanto

meno ad una sorta di “cogoverno” fra maggioranza e opposizione, articolato fra un Governo che non è

meramente “esecutivo” (ma si rivela, secondo una terminologia dell’epoca, “evanescente”) ed un

Parlamento che non riesce ad essere “decisionale” (e risulta, secondo quella terminologia, solo “velleitario”).

Un sistema, peraltro, il cui principale difetto, traducendosi in un deficit di capacità di adozione tempestiva

delle scelte necessarie per il governo del paese, ossia in un deficit di “governabilità”, ha indotto nei partiti

l’aspirazione al superamento non tanto del difetto in sé, quanto del modello consociativo nel suo complesso.

3

4. Come è noto, l’ Enciclopedia del Diritto ha rinnovato, l’anno scorso, la voce Governo (forme di) per

la penna di Massimo Luciani; il quale, a distanza di una quarantina d’anni, ha sottoposto a critica radicale

l’analisi di Leopoldo Elia, mirando al cuore dell’analisi stessa, vale a dire negando che il sistema dei partiti –

in quanto entità metagiuridica – possa assurgere ad elemento costitutivo di un’attendibile classificazione

giuridica delle forme di governo.

Per arrivare in fine alla conclusione che – tenuta ferma la quadripartizione tradizionale delle forme di

governo, basata sulla relazione Parlamento/Governo (presidenziale, parlamentare, semipresidenziale,

direttoriale), sempre buona per un primo approccio all’argomento – le numerose variabili che ciascuna

forma tradizionale presenta impediscono una classificazione soddisfacente; e pertanto conviene accontentarsi

di una “tabella” contenente quelle variabili, capace di spiegare il diverso funzionamento di ciascuna delle

anzidette forme. Queste variabili sono: a) la struttura del Parlamento (mono o bicamerale); b) la struttura del

Governo (con particolare riguardo alla legittimazione popolare o parlamentare del Presidente del Consiglio

dei ministri); c) il rapporto Parlamento/Governo (con riferimento all’esistenza o meno di una relazione

fiduciaria ed alle sue modalità); d) i poteri del Capo dello Stato, a cominciare dallo scioglimento delle

Camere (accanto alla sua legittimazione parlamentare o popolare); e) il sistema elettorale (proporzionale o

maggioritario); f) gli istituti di partecipazione popolare (referendum, ecc.); g) i partiti e i sindacati (ma solo

in quanto attributari di formali funzioni di governo).

5. Ora, si può essere più o meno d’accordo con le conclusioni di Luciani circa l’impossibilità di

pervenire ad un’attendibile classificazione giuridica delle forme di governo, e quindi anche ad una sub

classificazione dei regimi parlamentari, ma – insieme al riconoscimento del pregio di qualche novità

introdotta dalla sua “tabella” (come la variabile Capo dello Stato) – c’è un’obiezione di fondo da muovere

alla critica nei confronti di Elia; e riguarda proprio l’espulsione dei partiti dal novero degli elementi

costitutivi delle forme di governo. Espulsione argomentata in base ad una duplice considerazione: anzitutto

che essi sono, come già accennato, elementi politologici (o fattuali) ai quali non può essere dato spazio in

una classificazione che si vuole giuridica; e poi che la crisi in cui da tempo versano i partiti ne ha ridotto la

rilevanza al punto tale da renderli secondari persino agli effetti del mero funzionamento della forma di

governo, e quindi del tutto inidonei a risultarne elementi costitutivi.

Senonchè – a parte la possibilità di ricavare dal sistema partitico la ricordata convenzione

(suscettibile di consolidarsi in consuetudine) relativa all’accesso e/o partecipazione dei partiti al Governo,

cioè alternanza/consociazione, sulla cui sostanziale giuridicità si dovrebbe facilmente convenire – si può

replicare che: sì, uno dei maggiori cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni nel nostro paese riguarda

proprio i partiti, nel senso che essi “non godono di buona salute”, come scrive Bernard Manin. Tanto che lo

stesso autore (Principi del Governo rappresentativo, Bologna, 2010), periodizzando l’evoluzione della

democrazia rappresentativa, ha rilevato che, dopo una fase iniziale costituita dal parlamentarismo

individualistico e notabilare (a suffragio ristretto), dapprima è nata (col suffragio universale) la “democrazia

dei partiti”, e successivamente (con la personalizzazione della politica e l’organizzazione della

comunicazione) si è diffusa la “democrazia del pubblico” – quella che Colin Crouch definisce “post

democrazia” –, nella quale il rapporto con la società e con gli elettori “avviene sempre più attraverso i

media ed il marketing politico”. E tuttavia, se è innegabile la diminuzione del numero di cittadini che si

iscrivono ad un partito, come pure il calo di lealtà duratura dei loro votanti e l’aumento della mobilità

dell’elettorato, tutto questo significa soltanto che lo “zoccolo duro” dei partiti si è ridotto, ma non che essi

sono divenuti obsoleti o irrilevanti. Al contrario, dice Manin, i partiti dominano tuttora due aspetti essenziali

della vita pubblica, come le campagne elettorali e la politica parlamentare.

4

6. Quanto alle campagne elettorali, premesso che le spese per il loro finanziamento sono aumentate

(anche in funzione della utilizzazione del mezzo televisivo a scopo propagandistico), si può costatare che –

restando i partiti quel che sono sempre stati, e cioè canali di veicolazione dei desideri dell’elettorato – la

differenza fra la “democrazia dei partiti” e la “democrazia del pubblico” non risiede affatto nell’irrilevanza in

cui i partiti attualmente verserebbero. E ciò perchè quel che accade nella democrazia del pubblico è che i

partiti “non costituiscono più unità ben definite, dotate di identità durature”, per cui diventano per i cittadini

“meri strumenti da impiegare a seconda delle circostanze”; ma ciò non toglie che sempre fondamentali sono.

Del resto, anche in epoca di “democrazia dei partiti” un personaggio come Enrico Mattei – a lungo

protagonista della politica energetica nazionale (e non solo) – sosteneva di servirsi dei partiti come di taxi da

cui farsi portare dove voleva lui....

Quanto poi all’arena parlamentare, è agevole vedere come nel funzionamento interno dei Parlamenti

siano relativamente scarsi i segni di declino, a proposito della disciplina di voto partitica. Sono i Regolamenti

parlamentari, approvati dai Gruppi e accettati dai partiti, che nel consentire e nel disciplinare l’impiego del

voto di fiducia, permettono al Governo, per il tramite dei vertici di partito, di garantirsi ad nutum

l’ubbidienza dei peones. D’altronde, sono sempre i Regolamenti parlamentari che, nel conferire vantaggi

procedurali ai Gruppi formati dai partiti – dalla designazione dei membri delle Commissioni, alla

formulazione dell’agenda dei lavori, alla disciplina degli strumenti ispettivi, e così via – fanno sì che

l’attività delle Camere risulti largamente governata dagli schieramenti partitici. Peraltro, se la “transumanza”

di parlamentari da un Gruppo all’altro – quando avviene – fa tanto rumore (come abbiamo visto anche

ultimamente), gli è perchè la fedeltà al partito continua ad apparire fisiologica, a indiretta riprova

dell’importanza del partito stesso confermata, del resto, dalla possibilità che nascano nuovi Gruppi, grazie ai

rinforzi che un nucleo originario di transfughi riceva da altri Gruppi, previa autorizzazione da parte dei

rispettivi partiti.

Infine, siccome nei regimi parlamentari la formazione e la caduta dei Governi sono tuttora

determinate dai partiti, si può dire che il cosiddetto core executive resta di pertinenza partitica. Con la

conseguenza ultima che “l’indirizzo politico rimane nelle mani dei partiti, almeno in quegli ambiti di politica

che sono organizzati in base a principi rappresentativi”. Altro che irrilevanza dei partiti, dunque (discorso

diverso, naturalmente, è quello che porta a rilevare che vi sono settori della politica, come quello monetario,

che sono stati allontanati, attraverso autorità indipendenti, dall’ambito della democrazia rappresentativa).

7. Tornando ora, per concludere, ai Regolamenti del 1971, vorrei ribadire che essi erano funzionali ad

una democrazia dei partiti, e più precisamente ad un sistema partitico molto frammentato, all’interno di una

forma di governo tendente alla consociazione; e che, anzi, avrebbe potuto/dovuto diventare totalmente

consociativa, mentre in realtà si rivelò tale solo in parte producendo – come s’è ricordato – una sorta di

“cogoverno” fra la maggioranza e il principale partito d’opposizione, il PCI: cogoverno realizzato grazie alla

valorizzazione del Parlamento, ed in virtù dello spazio che nelle Camere i Regolamenti e la prassi

accordavano al PCI.

Tutto questo, come si sa, finisce nel 1993-94 a seguito del cambiamento della legge elettorale,

nonché dalla scomparsa di tutti i principali partiti allora esistenti e dalla caduta delle vecchie esclusioni di

principio. In verità, non finisce proprio tutto, poiché la frammentazione partitica rimane o addirittura si

accentua. Ma viene meno una cosa molto importante, ossia la propensione e/o l’attitudine a compattare il

sistema mediante compromessi politici, emblematizzata dalla ripartizione fra maggioranza e opposizione dei

vertici delle Camere; propensione e attitudine che avevano contrassegnato – al di là della più o meno

compiuta consociazione – i decenni fra la fine degli anni ’60 ed i primi anni ’90. Entrambe sostituite, adesso,

da un animus competitivo ispirato alla filosofia dell’alternanza dei partiti al Governo, in un’ottica bipolare.

Intendiamoci: è vero che una sorta di bipolarismo si era prodotto anche nella prima Repubblica – con

la DC e i sui alleati sempre al potere, ed il PCI sempre all’opposizione – ma allora la conventio ad

excludendum ed il sistema elettorale facevano sì che la frammentazione partitica restasse circoscritta

nell’ambito della maggioranza. Viceversa, una volta riformata la legge elettorale, e diventato il PCI (o chi

per lui) un competitore abilitato a governare, la necessità di conquistare la maggioranza ha operato nel senso

5

che intorno a successori del PCI si materializzasse un arcipelago di forze politiche minori, che ha

moltiplicato la frammentazione partitica.

Ed i Regolamenti parlamentari, rimasti largamente quelli del 1971, con poche revisioni incisive

(come la generalizzazione del voto palese e la formazione dell’agenda dei lavori a Montecitorio), si stanno

rivelando, di legislatura in legislatura, sempre meno adeguati a supportare una forma di governo

parlamentare che – a prescindere dalle classificazioni – si vorrebbe comunque assai diversa da quella “para o

semi consociativa” sviluppatasi fra la fine degli anni ’60 ed i primi anni ’90.

Il fatto è, secondo me, che esiste una contraddizione di fondo fra l’aspirazione – condivisa

trasversalmente, da destra a sinistra, da buona parte delle forze politiche – ad una maggiore efficienza del

sistema di governo, ottenibile mediante le varie soluzioni indicate dall’ingegneria costituzionale (dal regime

del Premier, al semipresidenzialismo), ma comunque centrate sul potenziamento dei poteri dell’Esecutivo; e

la preoccupazione, anch’essa trasversalmente diffusa, di salvaguardare, se non pure di accrescere, il consenso

dei cittadini sulle scelte compiute in nome loro dal Legislativo. E dunque – semplificando – fra la crescita dei

poteri del Governo e la preservazione di quelli spettanti al Parlamento.

Anche perchè, come osserva Gustavo Zagrebelsky, la formula della “democrazia decidente” quale

traguardo universalmente condivisibile ed in grado di risolvere l’anzidetta contraddizione, è in realtà – al pari

di slogan come “Governo forte/Parlamento forte”, “modernizzazione del sistema”o anche “razionalizzazione

del parlamentarismo” – un espediente linguistico inteso a nascondere il potenziamento del Governo a scapito

del Parlamento (qualcosa di simile alla locuzione “diversamente abile” con cui si cerca di nascondere la

disabilità). Tant’è che Massimo Luciani, nel formulare la sua “tabella” di variabili nelle forme di governo, vi

include la figura del Capo dello Stato, pur trattandosi di un organo di garanzia e di controllo (e quindi

estraneo, in teoria, al circuito dell’indirizzo politico a cui dovrebbero appartenere gli elementi costitutivi

della forma di governo); ma che, nondimeno, viene costretto dalla contraddizione in parola a mettere la sua

fisionomia super partes ed i suoi compiti al servizio della “governabilità” del paese. Come d’altronde

accade anche, sebbene Luciani non ne tenga conto, per la Corte costituzionale e per la Magistratura.

Il che sta a significare, a mio parere, un bisogno profondo e diffuso di funzioni arbitrali (nel governo

del paese) che, in mancanza di politiche bipartisan, meriterebbe probabilmente di essere soddisfatto con

apposite riforme sia costituzionali che regolamentari. A meno che non si opti per la rinuncia al bipolarismo

del sistema politico, che è all’origine delle difficoltà alle quali stiamo andando incontro da quando ce lo

siamo voluto imporre, e che forse non fa per noi.

 

Legislazione e normativa nazionale

Dottrina e sentenze

Consiglio Ordine Roma: informazioni

Rassegna stampa del giorno

Articoli, comunicati e notizie

Interventi, pareri e commenti degli Avvocati

Formulario di atti e modulistica

Informazioni di contenuto legale

Utilità per attività legale

Links a siti avvocatura e siti giuridici