1. Vorrei cominciare
con l’evidenziare il legame fra la riforma dei
Regolamenti del 1971 ed il regime
parlamentare da allora
vigente in Italia, per poi valutare se possa bastare
l’aggiustamento di quei testi per
supportare il regime
parlamentare odierno, così diverso da quello di allora,
o non occorra piuttosto una
riforma radicale di
essi; ovvero se, in alternativa, non sia da considerare
la convenienza di modificare, prima
di tutto, il regime
parlamentare nelle forme ultimamente assunte.
2. Quanto alla
definizione del parlamentarismo di allora, mi atterrò,
senza farla troppo lunga, alla
ricostruzione delle
forme di governo compiuta da Leopoldo Elia alla fine
degli anni ’60, sulla quale in molti
all’epoca convennero (quorum
ego); e che si fondava sul preliminare
riconoscimento dei partiti come
elemento
(metagiuridico o fattuale) costitutivo delle forme di
governo, e non solo esplicativo del loro
funzionamento
(sull’ovvio presupposto che le forme di governo,
realisticamente considerate, risultano essere
un misto di elementi,
o fattori, giuridici e non giuridici). Di qui, con
particolare riferimento alle forme di
governo parlamentari,
la loro tripartizione in bipartitiche, moderatamente
multipartitiche, e a multipartitismo
estremo, proposta da
Elia.
Dal canto mio – e
chiedo venia dell’auto citazione, ma è funzionale agli
sviluppi del ragionamento –
proponevo, a rinforzo
dell’importanza dei partiti in questa materia, di
distinguere i regimi parlamentari non
soltanto con
riferimento al numero dei partiti, rilevanti sulla scena
politica nazionale, ma anche e soprattutto
con riguardo alla
formula di accesso/partecipazione al Governo, fra loro
stabilita convenzionalmente, ossia
l’alternanza o la
consociazione; nonché con riguardo al sistema elettorale
ed all’equilibrio fra potere
Esecutivo e
Legislativo. Il che mi conduceva alla distinzione
fondamentale fra il parlamentarismo di
alternanza,
accompagnato di solito da un sistema elettorale
maggioritario (nonché da un Governo “direttivo”
e da un Parlamento
“ratificatorio”); ed il parlamentarismo consociativo,
accompagnato da sistemi elettorali
proporzionalistici
(nonché da un Governo “esecutivo” e da un Parlamento
“decisionale”).
Di qui la collocazione
del nostro regime parlamentare dell’epoca fra quelli a
multipartitismo
estremo, sostenuti da
un sistema elettorale proporzionale; e tuttavia non
accompagnato né da una
convenzione
interpartitica di alternanza al potere, né da una
convenzione consociativa (e quindi anomalo).
Vero è che ancora oggi
si parla del parlamentarismo post Regolamenti del 1971
in termini di regime
consociativo, ma si
tratta di un linguaggio sbrigativo, da polemica
politica, e tecnicamente impreciso – un
esempio di quella
neolingua su cui ironizza Gustavo Zagrebelsky (Sulla
lingua del tempo presente, Torino,
2010) –, perchè in
realtà l’allora vigente conventio ad excludendum
delle sinistre, ed in particolare dei
comunisti, mentre
rendeva impossibile l’alternanza al potere con la DC
(partito di maggioranza relativa) e
con i suoi alleati,
ideologicamente a lei vicini, impediva altresì la
consociazione. La quale, nel significato
tecnico del termine,
ricavato da varie esperienza straniere, avrebbe
comportato l’inclusione nel Governo di
tutti i principali
partiti, quantunque ideologicamente distanti. Mentre da
noi dapprima tutte le sinistre, e poi il
∗
Testo della relazione
svolta al seminario di studio su “Origini, novelle e
interpretazioni dei regolamenti parlamentari a
quarant'anni dal
1971”, organizzato dal Centro di studi sul Parlamento
della Luiss Guido Carli e tenutosi il 28 marzo
2011 (atti in corso di
pubblicazione).
2
solo PCI (che peraltro
aveva, dopo la DC, il maggior seguito popolare), restava
relegato in un ruolo di
opposizione: e non per
ragioni contingenti, bensì di principio.
Con la conseguenza
che, per decenni, il nostro regime parlamentare ha
presentato la singolare
anomalia di non poter
essere annoverato né fra quelli di alternanza, né fra
quelli consociativi. Non di meno,
esso ha potuto
tranquillamente “sopravvivere” – e non “senza governare”
(come insinuava un saggio del
politologo
statunitense Giuseppe De Palma, che ebbe all’epoca un
notevole successo), visto che viceversa
un’azione di governo
non mancò affatto, sia pure fra innegabili lentezze e
difficoltà – in virtù di una sorta di
rimedio all’italiana
rispetto all’anzidetta anomalia. Rimedio consistente
nella valorizzazione delle funzioni
decisionali del
Parlamento, a fianco e a fronte di quelle del Governo,
favorita in particolare dai Regolamenti
parlamentari
(riformati nel 1971, ma già da tempo avviati su un
percorso di rinnovamento orientato nel senso
dell’anzidetta
valorizzazione). E determinata da un tacito accordo fra
le principali forze politiche in base al
quale le sinistre
(comunisti in testa), escluse in via di principio dal
Governo, venivano compensate con una
partecipazione
rilevante e talora determinante alle decisioni
governative: attraverso, appunto, il
potenziamento delle
competenze della Camere dove le sinistre, ed i comunisti
in ispecie, erano
massicciamente
presenti e spesso decisivi (soprattutto nelle
Commissioni). Sicchè, sebbene tecnicamente
impropria, la
qualifica di consociativo per il parlamentarismo
venutosi a creare in quegli anni corrispondeva
in qualche modo alla
realtà.
3. Comunque, quanto al
legame fra la riforma regolamentare del 1971 e gli studi
di Leopoldo Elia sulla
forma di governo, sono
in grado di confermare che esso è strettissimo, come del
resto emerge dalla stessa
concomitanza temporale
delle rispettive elaborazioni: se infatti la voce di
Elia, Governo (forme di), è apparsa
sull’Enciclopedia
del Diritto nel 1970, i lavori di riforma dei
Regolamenti vennero avviati al Senato e alla
Camera nell’estate del
1968, ma già da parecchio di certe modifiche si era
cominciato a parlare fra addetti ai
lavori.
Posso aggiungere che
Leopoldo Elia – cattedratico di diritto costituzionale a
Torino, dopo essere
stato assistente di
Carlo Esposito nell’Università di Roma mentre lavorava
nel Servizio studi del Senato –
abbandonò Palazzo
Madama quando, col rientro dei socialisti nel Governo,
una riforma dei Regolamenti
parlamentari iniziava
a profilarsi all’orizzonte come necessaria; e posso
precisare che, circa i temi in
discussione, egli
restò in costante contatto, presumibilmente con vari
membri delle Giunte di entrambe le
Camere, ma sicuramente
con me, che ai lavori di riforma collaboravo per conto
dell’Amministrazione
senatoriale. Tale
legame, d’altronde, si radicava nella comune presa
d’atto, da parte dello studioso e dei
riformatori,
dell’ineluttabilità dello “Stato dei partiti”, e dunque
di una realtà nella quale, a non tenere conto
del ruolo determinante
dei partiti, la pretesa di concettualizzare la forma di
governo sarebbe apparsa come un
ragionamento da Don
Ferrante, e quella di disciplinare l’attività
parlamentare un lavoro di ingegneria
costituzionale
sprovvisto di fondamenta.
E allora, con la
copertura di una dottrina autorevole come quella di Elia
– che, prendendo spunto
anche da elaborazioni
transalpine e politologiche, aveva superato il tabù
della pura giuridicità nell’analisi dei
rapporti ai vertici
della Repubblica – ecco che i Regolamenti riformati
compiono una serie di scelte
innovative: demandando
alla Conferenza dei Capigruppo (chiamata a deliberare
tendenzialmente
all’unanimità) la
predisposizione dell’agenda dei lavori parlamentari;
decentrando nelle Commissioni (dove
la presenza delle
opposizioni è più incisiva) le funzioni di indirizzo e
di controllo; approvando una disciplina
limitativa, vuoi della
questione di fiducia (specialmente alla Camera), vuoi
della conversione in legge dei
decreti, ecc.
Tanto è bastato a dar
vita, se non proprio al modello consociativo del regime
parlamentare, quanto
meno ad una sorta di
“cogoverno” fra maggioranza e opposizione, articolato
fra un Governo che non è
meramente “esecutivo”
(ma si rivela, secondo una terminologia dell’epoca,
“evanescente”) ed un
Parlamento che non
riesce ad essere “decisionale” (e risulta, secondo
quella terminologia, solo “velleitario”).
Un sistema, peraltro,
il cui principale difetto, traducendosi in un deficit di
capacità di adozione tempestiva
delle scelte
necessarie per il governo del paese, ossia in un deficit
di “governabilità”, ha indotto nei partiti
l’aspirazione al
superamento non tanto del difetto in sé, quanto del
modello consociativo nel suo complesso.
3
4. Come è noto, l’
Enciclopedia del Diritto ha rinnovato, l’anno
scorso, la voce Governo (forme di) per
la penna di Massimo
Luciani; il quale, a distanza di una quarantina d’anni,
ha sottoposto a critica radicale
l’analisi di Leopoldo
Elia, mirando al cuore dell’analisi stessa, vale a dire
negando che il sistema dei partiti –
in quanto entità
metagiuridica – possa assurgere ad elemento costitutivo
di un’attendibile classificazione
giuridica delle forme
di governo.
Per arrivare in fine
alla conclusione che – tenuta ferma la quadripartizione
tradizionale delle forme di
governo, basata sulla
relazione Parlamento/Governo (presidenziale,
parlamentare, semipresidenziale,
direttoriale), sempre
buona per un primo approccio all’argomento – le numerose
variabili che ciascuna
forma tradizionale
presenta impediscono una classificazione soddisfacente;
e pertanto conviene accontentarsi
di una “tabella”
contenente quelle variabili, capace di spiegare il
diverso funzionamento di ciascuna delle
anzidette forme.
Queste variabili sono: a) la struttura del
Parlamento (mono o bicamerale); b) la struttura
del
Governo (con
particolare riguardo alla legittimazione popolare o
parlamentare del Presidente del Consiglio
dei ministri); c)
il rapporto Parlamento/Governo (con riferimento
all’esistenza o meno di una relazione
fiduciaria ed alle sue
modalità); d) i poteri del Capo dello Stato, a
cominciare dallo scioglimento delle
Camere (accanto alla
sua legittimazione parlamentare o popolare); e) il
sistema elettorale (proporzionale o
maggioritario); f) gli
istituti di partecipazione popolare (referendum, ecc.);
g) i partiti e i sindacati (ma solo
in quanto attributari
di formali funzioni di governo).
5. Ora, si può essere
più o meno d’accordo con le conclusioni di Luciani circa
l’impossibilità di
pervenire ad
un’attendibile classificazione giuridica delle forme di
governo, e quindi anche ad una sub
classificazione dei
regimi parlamentari, ma – insieme al riconoscimento del
pregio di qualche novità
introdotta dalla sua
“tabella” (come la variabile Capo dello Stato) – c’è
un’obiezione di fondo da muovere
alla critica nei
confronti di Elia; e riguarda proprio l’espulsione dei
partiti dal novero degli elementi
costitutivi delle
forme di governo. Espulsione argomentata in base ad una
duplice considerazione: anzitutto
che essi sono, come
già accennato, elementi politologici (o fattuali) ai
quali non può essere dato spazio in
una classificazione
che si vuole giuridica; e poi che la crisi in cui da
tempo versano i partiti ne ha ridotto la
rilevanza al punto
tale da renderli secondari persino agli effetti del mero
funzionamento della forma di
governo, e quindi del
tutto inidonei a risultarne elementi costitutivi.
Senonchè – a parte la
possibilità di ricavare dal sistema partitico la
ricordata convenzione
(suscettibile di
consolidarsi in consuetudine) relativa all’accesso e/o
partecipazione dei partiti al Governo,
cioè
alternanza/consociazione, sulla cui sostanziale
giuridicità si dovrebbe facilmente convenire – si può
replicare che: sì, uno
dei maggiori cambiamenti intervenuti negli ultimi
decenni nel nostro paese riguarda
proprio i partiti, nel
senso che essi “non godono di buona salute”, come scrive
Bernard Manin. Tanto che lo
stesso autore (Principi
del Governo rappresentativo, Bologna, 2010),
periodizzando l’evoluzione della
democrazia
rappresentativa, ha rilevato che, dopo una fase iniziale
costituita dal parlamentarismo
individualistico e
notabilare (a suffragio ristretto), dapprima è nata (col
suffragio universale) la “democrazia
dei partiti”, e
successivamente (con la personalizzazione della politica
e l’organizzazione della
comunicazione) si è
diffusa la “democrazia del pubblico” – quella che Colin
Crouch definisce “post
democrazia” –, nella
quale il rapporto con la società e con gli elettori
“avviene sempre più attraverso i
media ed il marketing
politico”. E tuttavia, se è innegabile la diminuzione
del numero di cittadini che si
iscrivono ad un
partito, come pure il calo di lealtà duratura dei loro
votanti e l’aumento della mobilità
dell’elettorato, tutto
questo significa soltanto che lo “zoccolo duro” dei
partiti si è ridotto, ma non che essi
sono divenuti obsoleti
o irrilevanti. Al contrario, dice Manin, i partiti
dominano tuttora due aspetti essenziali
della vita pubblica,
come le campagne elettorali e la politica parlamentare.
4
6. Quanto alle
campagne elettorali, premesso che le spese per il loro
finanziamento sono aumentate
(anche in funzione
della utilizzazione del mezzo televisivo a scopo
propagandistico), si può costatare che –
restando i partiti
quel che sono sempre stati, e cioè canali di
veicolazione dei desideri dell’elettorato – la
differenza fra la
“democrazia dei partiti” e la “democrazia del pubblico”
non risiede affatto nell’irrilevanza in
cui i partiti
attualmente verserebbero. E ciò perchè quel che accade
nella democrazia del pubblico è che i
partiti “non
costituiscono più unità ben definite, dotate di identità
durature”, per cui diventano per i cittadini
“meri strumenti da
impiegare a seconda delle circostanze”; ma ciò non
toglie che sempre fondamentali sono.
Del resto, anche in
epoca di “democrazia dei partiti” un personaggio come
Enrico Mattei – a lungo
protagonista della
politica energetica nazionale (e non solo) – sosteneva
di servirsi dei partiti come di taxi da
cui farsi portare dove
voleva lui....
Quanto poi all’arena
parlamentare, è agevole vedere come nel funzionamento
interno dei Parlamenti
siano relativamente
scarsi i segni di declino, a proposito della disciplina
di voto partitica. Sono i Regolamenti
parlamentari,
approvati dai Gruppi e accettati dai partiti, che nel
consentire e nel disciplinare l’impiego del
voto di fiducia,
permettono al Governo, per il tramite dei vertici di
partito, di garantirsi ad nutum
l’ubbidienza dei
peones. D’altronde, sono sempre i Regolamenti
parlamentari che, nel conferire vantaggi
procedurali ai Gruppi
formati dai partiti – dalla designazione dei membri
delle Commissioni, alla
formulazione
dell’agenda dei lavori, alla disciplina degli strumenti
ispettivi, e così via – fanno sì che
l’attività delle
Camere risulti largamente governata dagli schieramenti
partitici. Peraltro, se la “transumanza”
di parlamentari da un
Gruppo all’altro – quando avviene – fa tanto rumore
(come abbiamo visto anche
ultimamente), gli è
perchè la fedeltà al partito continua ad apparire
fisiologica, a indiretta riprova
dell’importanza del
partito stesso confermata, del resto, dalla possibilità
che nascano nuovi Gruppi, grazie ai
rinforzi che un nucleo
originario di transfughi riceva da altri Gruppi, previa
autorizzazione da parte dei
rispettivi partiti.
Infine, siccome nei
regimi parlamentari la formazione e la caduta dei
Governi sono tuttora
determinate dai
partiti, si può dire che il cosiddetto core executive
resta di pertinenza partitica. Con la
conseguenza ultima che
“l’indirizzo politico rimane nelle mani dei partiti,
almeno in quegli ambiti di politica
che sono organizzati
in base a principi rappresentativi”. Altro che
irrilevanza dei partiti, dunque (discorso
diverso, naturalmente,
è quello che porta a rilevare che vi sono settori della
politica, come quello monetario,
che sono stati
allontanati, attraverso autorità indipendenti,
dall’ambito della democrazia rappresentativa).
7. Tornando ora, per
concludere, ai Regolamenti del 1971, vorrei ribadire che
essi erano funzionali ad
una democrazia dei
partiti, e più precisamente ad un sistema partitico
molto frammentato, all’interno di una
forma di governo
tendente alla consociazione; e che, anzi, avrebbe
potuto/dovuto diventare totalmente
consociativa, mentre
in realtà si rivelò tale solo in parte producendo – come
s’è ricordato – una sorta di
“cogoverno” fra la
maggioranza e il principale partito d’opposizione, il
PCI: cogoverno realizzato grazie alla
valorizzazione del
Parlamento, ed in virtù dello spazio che nelle Camere i
Regolamenti e la prassi
accordavano al PCI.
Tutto questo, come si
sa, finisce nel 1993-94 a seguito del cambiamento della
legge elettorale,
nonché dalla scomparsa
di tutti i principali partiti allora esistenti e dalla
caduta delle vecchie esclusioni di
principio. In verità,
non finisce proprio tutto, poiché la frammentazione
partitica rimane o addirittura si
accentua. Ma viene
meno una cosa molto importante, ossia la propensione e/o
l’attitudine a compattare il
sistema mediante
compromessi politici, emblematizzata dalla ripartizione
fra maggioranza e opposizione dei
vertici delle Camere;
propensione e attitudine che avevano contrassegnato – al
di là della più o meno
compiuta consociazione
– i decenni fra la fine degli anni ’60 ed i primi anni
’90. Entrambe sostituite, adesso,
da un animus
competitivo ispirato alla filosofia dell’alternanza dei
partiti al Governo, in un’ottica bipolare.
Intendiamoci: è vero
che una sorta di bipolarismo si era prodotto anche nella
prima Repubblica – con
la DC e i sui alleati
sempre al potere, ed il PCI sempre all’opposizione – ma
allora la conventio ad
excludendum
ed il sistema elettorale facevano sì che la frammentazione partitica
restasse circoscritta
nell’ambito della
maggioranza. Viceversa, una volta riformata la legge
elettorale, e diventato il PCI (o chi
per lui) un
competitore abilitato a governare, la necessità di
conquistare la maggioranza ha operato nel senso
5
che intorno a
successori del PCI si materializzasse un arcipelago di
forze politiche minori, che ha
moltiplicato la
frammentazione partitica.
Ed i Regolamenti
parlamentari, rimasti largamente quelli del 1971, con
poche revisioni incisive
(come la
generalizzazione del voto palese e la formazione
dell’agenda dei lavori a Montecitorio), si stanno
rivelando, di
legislatura in legislatura, sempre meno adeguati a
supportare una forma di governo
parlamentare che – a
prescindere dalle classificazioni – si vorrebbe comunque
assai diversa da quella “para o
semi consociativa”
sviluppatasi fra la fine degli anni ’60 ed i primi anni
’90.
Il fatto è, secondo
me, che esiste una contraddizione di fondo fra
l’aspirazione – condivisa
trasversalmente, da
destra a sinistra, da buona parte delle forze politiche
– ad una maggiore efficienza del
sistema di governo,
ottenibile mediante le varie soluzioni indicate
dall’ingegneria costituzionale (dal regime
del Premier, al
semipresidenzialismo), ma comunque centrate sul
potenziamento dei poteri dell’Esecutivo; e
la preoccupazione,
anch’essa trasversalmente diffusa, di salvaguardare, se
non pure di accrescere, il consenso
dei cittadini sulle
scelte compiute in nome loro dal Legislativo. E dunque –
semplificando – fra la crescita dei
poteri del Governo e
la preservazione di quelli spettanti al Parlamento.
Anche perchè, come
osserva Gustavo Zagrebelsky, la formula della
“democrazia decidente” quale
traguardo
universalmente condivisibile ed in grado di risolvere
l’anzidetta contraddizione, è in realtà – al pari
di slogan come
“Governo forte/Parlamento forte”, “modernizzazione del
sistema”o anche “razionalizzazione
del parlamentarismo” –
un espediente linguistico inteso a nascondere il
potenziamento del Governo a scapito
del Parlamento
(qualcosa di simile alla locuzione “diversamente abile”
con cui si cerca di nascondere la
disabilità). Tant’è
che Massimo Luciani, nel formulare la sua “tabella” di
variabili nelle forme di governo, vi
include la figura del
Capo dello Stato, pur trattandosi di un organo di
garanzia e di controllo (e quindi
estraneo, in teoria,
al circuito dell’indirizzo politico a cui dovrebbero
appartenere gli elementi costitutivi
della forma di
governo); ma che, nondimeno, viene costretto dalla
contraddizione in parola a mettere la sua
fisionomia super
partes ed i suoi compiti al servizio della
“governabilità” del paese. Come d’altronde
accade anche, sebbene
Luciani non ne tenga conto, per la Corte costituzionale
e per la Magistratura.
Il che sta a
significare, a mio parere, un bisogno profondo e diffuso
di funzioni arbitrali (nel governo
del paese) che, in
mancanza di politiche bipartisan, meriterebbe
probabilmente di essere soddisfatto con
apposite riforme sia
costituzionali che regolamentari. A meno che non si opti
per la rinuncia al bipolarismo
del sistema politico,
che è all’origine delle difficoltà alle quali stiamo
andando incontro da quando ce lo
siamo voluto imporre, e che forse non fa per noi. |