Con l’espressione
“Montesquieu dimezzato” si intende porre l’attenzione
sulle distorsioni
dell’assetto
istituzionale italiano, che vede un Parlamento
esautorato nelle sue funzioni, una crescita
dei poteri di fatto
dell’esecutivo, mentre gli organi di garanzia
costituzionale continuano nel
complesso a esercitare
le loro funzioni. Bisogna rendersi conto che queste
distorsioni danneggiano
seriamente il paese.
Devono capirlo tutti, a cominciare dalle forze
politiche.
«Più passa il tempo,
più si semplifica e insieme si aggroviglia l’eterna
transizione italiana e più
appare chiaro che la
Costituzione è la soglia cruciale tra presente e futuro,
la vera trincea dello
scontro, l’epicentro
consacrato di qualunque esito politico». Sono parole
scritte sette anni fa da un
acuto giornalista,[1]
ancora utili a dar conto dello stato del nostro
dibattito pubblico. Dove «la vera
trincea dello scontro»
è sempre lì, così come il contrasto tra le tesi del
“regime” e del governo
“scelto dal popolo” (e
perciò libero fra un’elezione e l’altra da ogni vincolo,
legalità compresa):
tutte e due
prospettate per far valere una superiore legittimazione
costituzionale sull’altra, e nello
stesso tempo incapaci
di avviare un qualunque scambio razionale, e
volutamente. Il contrasto deve
restare senza sbocco,
e abbastanza avvelenato da far sì che le opposte
tifoserie continuino a
monopolizzare la scena
e a garantirsi lunga vita nella “eterna transizione”.
Quanti non vi si
riconoscono stentano a
far sentire la loro voce, vengono scambiati per dei
moderati un po’
incanutiti, se non per
complici della parte avversa.
È uno dei risultati
perversi del bipolarismo che abbiamo sperimentato, e
soprattutto della coltre
mediatica che l’ha
avvolto. Come si potrebbe parlare, altrimenti, di
“ventennio berlusconiano” in
presenza di un ciclo
di alternanza finora perfetto fra centrodestra e
centrosinistra? Se ne può parlare
se ci si riferisce a
un’egemonia culturale e politica esercitata attraverso i
media, a torto o a ragione
ritenuta più
importante della stessa titolarità della funzione di
governo. Si dirà che la coltre
mediatica agisce oggi
su qualsiasi opinione pubblica, tende a imporre il suo
tempo, quello che viene
definito “l’eterno
presente”, sugli apprendimenti del passato e sulle
speranze future. Quando però
manca, come in Italia,
una memoria nazionale consolidata e condivisa, la
tendenza non incontra più
limiti, fino a far
deperire il senso della rappresentanza politica e del
dibattito pubblico. Allora,
anche le dinamiche
istituzionali si riducono a una giostra, in una
ossessiva e tuttavia, come abbiamo
visto, non
disinteressata coazione a ripetere.
I contributi qui
raccolti si propongono di squarciare il velo mediatico,
e aiutano da diverse
prospettive a
ricostruire un quadro di problemi magari perfino più
serio di quello che passa il
convento, e comunque
capace di restituire dignità di vicende reali a quanto
accaduto nella seconda
fase della Repubblica.
Possiamo partire dal corpo elettorale, per poi guardare
al rapporto governo-
Parlamento, e infine
agli organi di garanzia costituzionale.
Da tempo i citati
tifosi strattonano dalla loro parte le due proposizioni
di cui si compone l’articolo 1,
comma 2 della
Costituzione come se l’una potesse contrapporsi
all’altra, ora reclamando che «La
sovranità appartiene
al popolo», ora replicando che il popolo «la esercita
nelle forme e nei limiti
della Costituzione».
Solo che, nel frattempo, il corpo elettorale ha avuto
modo di esprimersi in due
occasioni cruciali
sulla questione. Da una lettura combinata del referendum
abrogativo della legge
elettorale del Senato
del 1993 e del referendum costituzionale di approvazione
della riforma della
Seconda Parte della
Costituzione del 2006, Michela Manetti ha ricavato la
conclusione che «la
volontà popolare non
abbia mai inteso dirottare la Costituzione verso approdi
plebiscitari o
populistici:
piuttosto, essa ha contestato la pretesa (avanzata dai
partiti fin dal tempo
dell’Assemblea
costituente) di porsi ad esclusivi garanti della
legalità dei procedimenti parlamentari
(oltre che della
gestione della cosa pubblica in generale) ». Di grazia,
stiamo parlando di un regime?
2
O forse un popolo che
così si pronuncia prende congedo dalla democrazia
costituzionale? Al
contrario, mostra che
il suo essere titolare della sovranità non ne
contraddice affatto l’esercizio nelle
forme e nei limiti
della Costituzione. Non a caso, occupandosi negli stessi
anni del nuovo Titolo V,
la Corte
costituzionale osservava che l’appartenenza al popolo
della sovranità «impedisce di
ritenere che vi siano
luoghi o sedi dell’organizzazione costituzionale nella
quale essa si possa
insediare
esaurendovisi. Le forme e i modi nei quali la sovranità
del popolo può svolgersi, infatti,
non si risolvono nella
rappresentanza, ma permeano l’intera intelaiatura
costituzionale: si rifrangono
in una molteplicità di
situazioni e di istituti ed assumono una configurazione
talmente ampia da
ricomprendere
certamente il riconoscimento e la garanzia delle
autonomie territoriali» (sentenza
106/02).
Per Costituzione, e
veniamo così alla seconda vicenda, nemmeno il Parlamento
è sede che esaurisca
la sovranità popolare.
Non lo era nella stagione del consociativismo – peraltro
molto più breve di
quanto spesso si dica:
dall’approvazione dei regolamenti parlamentari del 1971
alla fine dei governi
di unità nazionale
(1979) –, e non lo è all’epoca della cosiddetta
democrazia maggioritaria. Quando
si parla di crisi
della centralità del Parlamento è allora indispensabile,
lo avvertono Emanuele Rossi
e Michela Manetti,
distinguere il fisiologico dal patologico. Non si nega,
così, che il Parlamento sia
oggi l’organo
costituzionale più mortificato della Repubblica nella
sua identità profonda. Se ne
ricercano piuttosto le
cause effettive.
La dequotazione della
legge nazionale a seguito della redistribuzione di
potestà normativa a
vantaggio dell’Unione
europea e delle Regioni, o della traduzione sul terreno
delle fonti del
pluralismo sociale,
non solo non ha nulla di patologico, ma risponde
largamente a prescrizioni
costituzionali.
Aggiungo che, nella
patria della democrazia maggioritaria, la stessa
mancanza di potere decisionale
del parlamento
nell’esercizio della funzione legislativa è considerata
da tempo un dato pacifico: i
disegni di legge
governativi, che costituiscono la massima parte di
quelli approvati, passano a
Westminster con minimi
emendamenti, peraltro vietati sulle leggi di spesa.
Eppure le procedure
parlamentari
continuano a venire scrupolosamente rispettate, a
cominciare dagli spazi lasciati alle
opposizioni. È
l’effetto spietato di un modello parlamentare che esalta
il circuito
potere/responsabilità,
prima nel circuito governo-parlamento e poi di fronte
all’elettorato. Così
come l’ampio potere di
scelta politica del Congresso americano nella
legislazione riflette il
funzionamento di un
sistema presidenziale detto “puro” perché basato sulla
separazione fra
esecutivo e
legislativo, ciascuno dei quali gode di una propria
legittimazione democratica.
Se il Parlamento
votasse anche da noi i disegni di legge governativi
senza grandi mutamenti,
naturalmente nel
rispetto delle procedure, non ci sarebbe da gridare allo
scandalo, saremmo ancora
nella fisiologia del
modello parlamentare. Ma le cose non vanno affatto così.
Come documentano
Luciano Violante ed
Emanuele Rossi, si è avuta una continua ascesa degli
atti normativi del
governo a scapito
delle leggi, che inoltre, quando vengono approvate,
passano a prezzo di
stravolgimenti o di
aggiramenti della procedura, dai maxiemendamenti ai
ricorsi alla questione di
fiducia. Bisogna
spiegare perché ciò si verifica in piena democrazia
maggioritaria, anche in
presenza di
maggioranze molto ampie, per giunta con un “Parlamento
di nominati”, e dopo che le
riforme regolamentari
degli anni Novanta hanno potenziato il ruolo del governo
in Parlamento.
Anzi, le stesse
patologiche tendenze si sono fortemente accentuate nel
passaggio dalla prima alla
seconda fase della
Repubblica. Non è paradossale?
Il fatto è che quel
passaggio, se ha consentito per la prima volta una piena
alternanza al governo fra
due coalizioni
rappresentative di tutte le forze politico-parlamentari,
non ha assicurato quella
sufficiente omogeneità
interna alle coalizioni che già mancava nei decenni
precedenti, così
determinando una
permanente instabilità governativa. Le riforme
elettorali, del 1994 e ancor più del
2005, si sono rivelate
del tutto inidonee a risolvere il problema, che si è
cercato allora di affrontare
impropriamente, lo
osserva Oreste Massari, sul fronte della forma di
governo. Lo dimostra il
“premierato assoluto”
previsto dalla riforma costituzionale del 2006, che
insieme alla breve
stagione del “partito
potenzialmente maggioritario” (di cui, però, è rimasta
traccia negli statuti dei
3
due maggiori partiti),
ha costituito il tentativo di forzare il sistema
politico in direzione di un
bipartitismo che la
legislazione elettorale è ben lontana dall’incoraggiare.
I tentativi sono
andati a vuoto, ma nel frattempo si era generalizzata
tra le forze politiche la
convinzione della
illegittimità dei “ribaltoni”, che rendeva molto più
stretto il gioco politico dei
partiti minori della
maggioranza rispetto a quanto avveniva fino all’XI
legislatura. La necessità di
convivenza nelle
coalizioni richiedeva delle compensazioni, che si sono
trovate almeno su due
versanti. Prima di
tutto, le issues dei partiti minori su punti cruciali
dell’indirizzo politico di
governo (ad esempio il
federalismo) ottengono un trattamento privilegiato. Il
resto della coalizione
le accetta senza
fiatare per soddisfare la richiesta di massima
visibilità possibile di quei partiti di
fronte al corpo
elettorale. Diversamente dal passato, tali issues non
formano oggetto di mediazione
politica all’interno
della coalizione, ma vengono incorporate in quanto tali
nel programma di
governo.
In secondo luogo la
distribuzione delle cariche, oltre al governo, si
estende alla presidenza delle
camere: in
particolare, il segretario del secondo partito della
coalizione risulta quasi sempre
insediato sullo
scranno più alto di Montecitorio. Come osserva Nicola
Lupo, non si può negare che
la carica di
politicità di cui questo organo risulta così investito
determini tensioni rispetto al suo
ruolo istituzionale.
Le quali, quando si tratti del cofondatore di un partito
di maggioranza relativa in
aperto dissenso dalla
linea ufficiale, rischiano di varcare il punto di non
ritorno dalla legalità
costituzionale: mi
riferisco alla minaccia dei più scatenati, di fronte
alla scoperta che l’elezione di
un presidente
d’assemblea non equivale a instaurare un rapporto
fiduciario, di disertare la
Conferenza dei
capigruppo, prefigurando una sorta di Aventino alla
rovescia.
Un assetto simile non
solo finisce con il forzare le regole del gioco, ma non
riesce nemmeno a
garantire la pace
interna alle coalizioni. La diffidenza del governo verso
il Parlamento permane
dunque per tutta la
legislatura, anche quando i numeri della maggioranza
sarebbero nettamente dalla
sua parte. Se bisogna
trovare un accordo con il secondo partito della
coalizione, è sempre più
conveniente trattare
con tre ministri il testo di un decreto legge anziché di
un disegno di legge:
anche se vi sarà
bisogno della conversione, la trattativa sarà meno
gravata da incognite in
Parlamento, e si
porterà subito a casa il risultato con la immediata
entrata in vigore del
provvedimento. Le cose
andranno poi ancora meglio, in termini di assenza di
controlli e pubblicità,
se si potrà varare
un’ordinanza d’urgenza. Infine, se è proprio necessario
procedere in via
legislativa, per
vincolo costituzionale o politico, non mancano, come
accennato, gli strumenti per
impedire il libero
dibattito, se non addirittura l’approvazione del disegno
di legge “articolo per
articolo e con
votazione finale”, come richiede l’articolo 72 della
Costituzione. Nei casi in cui è
ancora chiamata a
legiferare, l’Assemblea somiglia così sempre più a una
caserma. Nulla a che
vedere con il
funzionamento dei Parlamenti nelle democrazie a forma di
governo parlamentare.
A bloccare le
possibilità di un bipolarismo virtuoso, imponendone una
versione costrittiva le cui
tensioni si scaricano
sui processi di produzione normativa, è stata
principalmente la legge elettorale.
Né l’obbligo imposto
alle liste o alle coalizioni di liste di indicare sulla
scheda elettorale il nome
del candidato alla
presidenza del Consiglio ha assicurato al governo o al
suo presidente un
supplemento di
legittimazione. Come ricorda opportunamente Emanuele
Rossi, la Corte
costituzionale ha
escluso che la legge elettorale, in quanto fonte di
rango ordinario, possa mutare la
posizione
costituzionale del presidente del Consiglio (sentenza
262/09), senza contare che essa
andrebbe comunque
interpretata in senso conforme alle regole
costituzionali sulla forma di governo
parlamentare e al
divieto di mandato imperativo dei membri del
parlamento.[2] Inoltre, ciò che più
conta malgrado le
favole ripetute dai giornali, la prassi smentisce la
teoria del mandato elettorale,
visto che cambi di
governo si sono più volte verificati nel corso delle
ultime legislature. Non solo,
cioè, la Costituzione,
ma neanche una pretesa “costituzione materiale” vale ad
accreditarla.
Osserva su un altro
piano Gianmario Demuro, riferendosi anche alle regioni,
che «la
sovrappresentazione
degli esecutivi non appare tanto il frutto di riforme
costituzionali, quanto la
conseguenza di un
lungo periodo di totale delegittimazione della politica
in Italia»: il saggio di
Leopoldo Elia, che
richiama a sostegno della sua tesi, risale in effetti al
1963.[3] E Luciano
4
Violante si chiede se
il bipolarismo che abbiamo sperimentato non riproduca
l’antico vizio italiano
della divisività,
«prolungandone l’esistenza e aggravandone i difetti».
D’altra parte Mauro Calise,
che invita a non
demonizzarla, nota giustamente che la personalizzazione
del potere accompagna da
tempo l’evoluzione dei
sistemi democratici: i primi saggi risalgono a mezzo
secolo fa,[4] come
anche lo scritto
pioneristico di Kircheimer sul partito pigliatutto, «i
cui dirigenti sono divenuti noti
ad ogni elettore
attraverso la televisione e i giornali», e che, una
volta al governo, «può
improvvisamente
diventare un simbolo negativo che incoraggia l’elettore
a passare ad un altro
partito, come un
consumatore passa ad una marca competitiva».[5]
Questi contributi, pur
da diverse posizioni, dimostrano che le cesure effettive
che abbiamo
conosciuto nella
storia repubblicana coincidono solo in piccola parte con
la nota separazione tra una
prima e una seconda
fase. Alcune la precedono, altre si rivelano apparenti o
aleatorie. Si può
giungere a diverse
periodizzazioni, a seconda che si consideri:
a) la strutturazione
bipolare del sistema politico, la personalizzazione del
potere e l’eclisse di partiti
organizzati, che
segnano il solo tratto di autentica discontinuità tra le
due fasi;
b) la crisi, assai
risalente, della politica come attività trasformativa,
capace di fornire risposte di
lungo periodo alle
attese collettive;
c) l’attuazione della
Costituzione, che anche in sede legislativa segue un
proprio percorso, non
interrotto nemmeno
dall’avvento della seconda fase della Repubblica;
d) la parabola della
legislazione elettorale, che dal maggioritario al
proporzionale con premio di
maggioranza e liste
bloccate aumenta i costi del bipolarismo in termini di
democraticità della
rappresentanza
politica;
e) l’andamento della
forma di governo, che nella seconda fase solo in alcuni
casi si regge su governi
di legislatura e nello
stesso tempo vede aggravarsi i già acuti problemi delle
coalizioni;
f) la formazione di un
sistema parallelo di atti normativi basati su finte
urgenze (decreti legge e
ordinanze d’urgenza)
che svincola in tutto o in parte il governo dal ricorso
alla deliberazione
parlamentare;
g) la crescita
esponenziale del potere del ministro dell’Economia
nell’ambito del governo, giunta da
ultimo a evidenti
forme di commissariamento dell’indirizzo politico;
h) l’occupazione
partitica delle amministrazioni e la corruzione
politica, tornate a prosperare più di
prima in presenza di
partiti ridotti a cartelli pre-elettorali;
i) il complessivo
potenziamento, a seguito della formazione di un sistema
politico bipolare, del
ruolo degli organi di
garanzia (presidente della Repubblica, Corte
costituzionale, giudici comuni), e
la perdurante
indipendenza della Banca d’Italia.
Il risultato di questi
andamenti, con un Parlamento esautorato dalle sue
funzioni ad opera
dell’esecutivo e gli
organi di garanzia che continuano ad esercitare le loro
in piena indipendenza,
giustifica in prima
approssimazione la formula del “Montesquieu dimezzato”.
È giusto ricordare,
come fa Antonio Ingroia, i tentativi di stravolgere
Costituzione e Stato di diritto
che si sono susseguiti
in questi anni, dal disegno di legge sulle
intercettazioni alle proposte di
sottoporre la polizia
giudiziaria all’esecutivo. E rimangono inaccettabili le
accuse di faziosità rivolte
ai giudici e alla
Corte dal presidente del Consiglio ogni volta che
emettano decisioni sfavorevoli
alle sue posizioni
giudiziarie, o peggio le intimidazioni alla vigilia di
una sentenza. Non si possono
negare queste e altre
minacce anche gravi alla legalità costituzionale, il
veleno mediatico che
vorrebbe delegittimare
un ordine giudiziario che continua a fare il suo dovere,
e soprattutto la
consapevole
sottovalutazione dei problemi effettivi della giustizia.
Ma se vogliamo stare ai fatti,
dobbiamo segnalare
almeno i casi di leggi ad personam bloccate anzitempo o
corrette dal capo dello
Stato in sede di
rinvio, e di quelle annullate dalla Corte
costituzionale, nonché l’esito della riforma
del Consiglio
superiore della magistratura, rivelatosi non esaltante
per i promotori. Di più, i continui
attacchi
dell’esecutivo alla magistratura impediscono di
affrontare con un minimo di serenità il
problema della
responsabilità dei giudici, che nei termini posti da
Gianni Di Cagno dovrebbe
corrispondere
all’espansione che il potere giudiziario ha ovunque
conosciuto, ma valere «all’interno
5
dei circuiti autonomi
delle magistrature» anziché come pretesto per diminuirne
l’indipendenza a
vantaggio
dell’esecutivo.
Certo è che, in mezzo
a tante difficoltà, gli organi di garanzia
costituzionale continuano a
funzionare
regolarmente. È il governo delle leggi, che non solo
impedisce di parlare di regime, ma
ancora ci trattiene
dall’assimilare l’Italia all’Argentina, come per il
resto già si potrebbe fare, fra
ricorsi a emergenze
fittizie, stato comatoso dei partiti, gestione
patrimonialistica della cosa
pubblica, e quel
ferreo controllo governativo del mezzo televisivo le cui
vicende legislative sono
ripercorse da Filippo
Donati.
Al di là di quanto
possa aver detto Max Weber, nelle esperienze
democratiche contemporanee il
governo delle leggi
non è il dominio di una macchina impersonale, ma è il
governo degli uomini
sulla base e nel
rispetto delle leggi, e di leggi che cittadini eletti
democraticamente possono
cambiare nel rispetto
di procedure fissate da una Costituzione democratica. La
formula contrapposta
del governo degli
uomini significa che queste leggi non ci sono oppure,
più plausibilmente, che non
vengono mai
rispettate.
L’ipotesi che la
personalizzazione del potere sia destinata a cancellare
il governo delle leggi non
trova riscontro nelle
democrazie costituzionali; lo trova, invece, nelle
democrazie illiberali che pure
di recente sono
fiorite nel mondo. Fatichiamo a mettere nella stessa
barca Putin e Obama, Chávez e
Zapatero. E non
vorremmo che l’Italia finisse fra non molto nel secondo
gruppo di democrazie. Non
lo vorremmo, non per
una nostalgia formalista per il governo delle leggi, ma
perché del governo
degli uomini
conosciamo già gli effetti. Sappiamo, infatti, che in
alcune regioni meridionali (e ora
anche in alcune aree
del Nord) l’assenza di legalità respinge gli investitori
stranieri, e tiene i
cittadini in uno stato
di perenne insicurezza. Essa blocca così quei processi
di incivilimento che i
nostri migliori
intellettuali, da Cattaneo in poi, posero alla base di
ogni autentica modernizzazione.
________________________________________
[1] F. Ceccarelli, La
Carta suprema contestata ma intramontabile, in “La
Stampa”, 6 gennaio 2003,
p. 9.
[2] A. Baldassarre, Il
Presidente della Repubblica nell’evoluzione della forma
di governo, in
www.associazionedeicostituzionalisti.it.
[3] L. Elia, Realtà e
funzioni del partito politico: orientamenti ideali,
interessi di categoria e
rappresentanza
politica (1963), in Costituzione, partiti, istituzioni,
il Mulino, 2009, p. 87.
[4] A.
Mabileau, La personalisation du pouvoir dans les régimes
démocratiques, in Revue française
de science politique,
10/1960, p. 39 e sgg.
[5] O. Kircheimer, La
trasformazione dei sistemi partitici dell’Europa
occidentale, in G. Sivini (a
cura di), Sociologia
dei partiti politici. Le trasformazioni nelle democrazie
rappresentative, il
Mulino, Bologna 1971, p. 259.
ITALIANIEUROPEI
Alcune considerazioni
su “Montesquieu dimezzato”
di Salvatore Biasco
La lettura della
rubrica “Montesquieu dimezzato” apparsa sul n. 1/2011 di
Italianieuropei mi induce
alcune
considerazioni.
1. |
Ritengo che un conto
sia la stigmatizzazione delle forzature e dei veri e
propri abusi che il governo
Berlusconi ha
determinato nel rapporto tra Esecutivo e Parlamento (dai
maxiemendamenti all’eccesso
di decreti legge
emanati senza motivi di urgenza e tant’altro, fino alla
rivendicazione dell’investitura
popolare), un altro
conto sia il disegno realisticamente e razionalmente
perseguibile per quel rapporto.
La giusta
stigmatizzazione degli abusi ha preso la mano nella
rubrica finendo per lasciare l’impressione
complessiva (con
l’ottima eccezione di Calise) che l’alternativa
rivendicata sia la centralità del
Parlamento nella
funzione legislativa, talvolta al di là delle intenzioni
degli autori. Il titolo stesso,
“Montesquieu
dimezzato”, rischia di celare (ma talvolta evidenzia)
un’opzione mentale di difesa del
ruolo
tradizionalmente attribuito dalla Costituzione al
Parlamento.
2. |
Prima di arrivare,
più avanti, a considerazioni generali, vorrei partire da
una testimonianza
personale di chi ha
seduto in Parlamento per una legislatura1 e lo ha visto
in azione. È un limite
personale, lo
confesso, di non riuscire – di fronte a accenni alla
“centralità” – a separare il Parlamento
in astratto dal
Parlamento quale è nella concreta composizione e prassi.
Il Parlamento che ho
frequentato non era in grado di produrre leggi se non
come mera ratifica
dell’iniziativa
governativa. Fosse stato lasciato a sé stesso, e non
guidato dal governo, avrebbe
prodotto disastri,
non avrebbe saputo organizzare la ben che minima
politica organica. E, anche nella
ratifica, il suo
intervento è stato quasi sempre di distorsione
(lobbistica) della ratio delle leggi.
Nonostante la
manifesta inadeguatezza dell’istituzione ad essere
centro di elaborazione normativa, i
parlamentari vivono
l’iniziativa governativa e il loro ruolo subalterno
all’esecutivo non come ovvia
necessità, ma con
frustrazione e come espropriazione, e si arrabbattano a
presentare leggi su tutte le
minutaglie, come se
queste avessero mai probabilità di venire discusse, a
meno che il governo non se
ne impadronisca
ricomprendendole in qualche provvedimento organico (ma
anche questo è vissuto
come frustrazione ed
espropriazione, non come soddisfazione). Quasi sempre
essi sono, in questa
funzione di
proponenti, passacarte di qualche centro di interessi,
locale o nazionale. La frustrazione si
riversa poi più o
meno con le stesse logiche nell’attività di emendamento.
Per i parlamentari della
maggioranza il ruolo
di spogliazione è vissuto ancora più drammaticamente,
perché devono far
quadrato e ricorrere
al sottogoverno per l’accoglimento delle loro istanze (o
al contatto informale, o al
rapporto personale
con qualche inafferrabile figura chiave nella gestione
di una legge). Il tutto, in
grande stridore con
la retorica della “centralità”, di cui tutti si
riempiono la bocca, spalleggiati dai
presidenti di turno.
Il Parlamento gira a
vuoto. Non sono i singoli l’anello debole, ma le logiche
in cui sono inseriti. I
regolamenti
parlamentari, con i loro rituali, ispirati alla funzione
ottocentesca del voto individuale e del
convincimento
reciproco, non aiutano. Solo perché non sono in grado di
osservarsi dall’esterno di
quelle logiche, i
parlamentari possono accettare come pezzo di normalità
(e non di grave patologia) che
vi siano discussioni
generali con la presenza in aula soltanto di chi ha
finito di parlare e si attarda a
raccogliere i fogli,
chi si accinge a parlare e chi deve prendere la parola
successivamente. Difficile
capire a che serva
tutto ciò e perché sia irrinunciabile. Che senso ha che
essi partecipino alla
formazione di leggi
senza sapere nemmeno su quale provvedimento si stia
votando? È una
insopportabile
diminutio (involontaria) della loro dignità. Per me
è qualcosa di difficile da accettare, ma
che avviene non per
cattiva volontà, bensì perché non è possibile fare
alcuna istruttoria.2
Se non si trova una
ratio a tutto ciò e, soprattutto, un modo di
rendere il Parlamento un partner vero del
governo, in un quadro
di gerarchie e ruoli dati che riconosca al governo la
preminenza, le istituzioni
rappresentative
deperiscono, introducono più caos che razionalità nel
governo del paese.
3. |
Mi attardo ancora su
un’annotazione. C’e un equivoco sul Parlamento
immaginato come luogo
politico per
eccellenza, quando in realtà è un luogo di scrutinio
tecnico, o che, almeno, solleciterebbe in
questa direzione la
funzione parlamentare e richiederebbe nel lavoro day
by day tipologie diverse di
approccio rispetto a
quelle prevalenti. La politica, quand’alche rimbalzi in
qualche momento
parlamentare, si
svolge ed è determinata dall’esterno di esso, che ne è
solo la cassa di risonanza.
Malgrado ciò, nella
selezione dei componenti l’expertise politica
(ammesso che sia una expertise e che
esista) fa premio su
tutto (con il corollario del cursus honorum,
vicinanza ai leader, fedeltà e peggio
ancora), producendo
uno iato fortissimo tra ciò che il Parlamento
richiederebbe e richiede in ogni
momento legislativo e
l’approccio che tende ad essere seguito. Anche l’essere
parlamentare è vissuto
(non a torto) come
condizione importante di legittimazione da far valere
essenzialmente fuori del
Parlamento per aver
voce nelle istanze di partito, nei media e nel
territorio.
In nessuno degli
intervenuti su “Italianieuropei” trovo citato Burns, a
cui si devono, a mio avviso, le più
lucide analisi sui
parlamenti moderni. Ed è un peccato che sia così, perché
egli solleva temi pregnanti,
che sarebbe stato
interessante vedere discussi. Il punto di partenza della
sua analisi è il deficit
sistematico che oggi
esiste tra la realtà della società moderna e la capacità
di captarla da parte delle
istituzioni
rappresentative dello Stato. Il che deriva dai limiti
cognitivi dei parlamenti (cioè, conoscenze
specialistiche
insufficienti e rappresentanza diretta di uno spettro
ristrettissimo di interessi) nonché da
limiti di
collocazione nel sistema istituzionale (operando dal
centro del sistema, per quello parlamentare
“è un’impresa eroica
monitorare anche una piccola parte dei processi
chiave”).3 Alla base di questi limiti
vi è l’oggettiva
complessità della società e le continue innovazioni di
natura tecnica e sociale che essa
subisce. Sono limiti
che il nostro condivide con altri (forse tutti) i
sistemi rappresentativi. Prendiamo solo
lo squilibrio che
esiste tra le capacità tecniche delle organizzazioni di
interessi e quelle
incommensurabilmente
minori che può mettere in campo il Parlamento, per
capire che non è un caso
che l’iniziativa
legislativa sia passata alle tecnostrutture ministeriali
o a quelle che il Governo può
mobilitare.
4. |
Fin qui le
considerazioni di fatto. Vengo, così al punto di
impostazione. La logica del sistema
bipolare è che uno
schieramento vinca le elezioni su un programma. Quindi
deve essere in grado di
esprimere un governo
che attui quel programma in modo coerente e compatto; un
governo che trovi
nella sua maggioranza
parlamentare una partnership, con meccanismi idonei per
cui questo si realizzi.
Quegli interventi di
legge in cui il programma si sostanzia e che investono
strutture, istituzioni e rapporti
sociali non
diverranno un disegno ordinato senza ordine nei tempi di
realizzazione, nella divisione del
lavoro e competenze,
nella gerarchia netta di responsabilità e delle
prerogative.
Ciò pone il problema
di uscire dalla retorica circa la divisione dei poteri
(alla Montesquieu) tra potere
esecutivo e potere
legislativo e cominciare a ragionare sul continuum
maggioranza-governo (a fronte
del quale vi è
l’opposizione).4 È un ragionamento che prescinde dal
tipo di investitura, parlamentare o
diretta, che possono
avere il premier e l’esecutivo e dalle prerogative del
premier in seno a
quest’ultimo; tipo di
investitura che pone un problema sovrapposto, anche se
non disgiunto.5
Anche se il
Parlamento rimanesse l’unico titolare della
legittimazione del governo (e quindi potesse
anche cambiarlo – una
funzione altamente politica), si dovrebbe non aver
equivoci sul fatto che, nel
momento in cui
concede la fiducia, affida al governo una missione e una
delega, spogliandosi della sua
“centralità”; da
allora entra in una condizione subalterna (o meglio, non
concorrente) rispetto al governo
nell’attuazione del
programma, mantenendo comunque quello di
controllo-ausilio nell’azione legislativa
di origine
governativa, che gli deriva dal suo potere di indirizzo,
ratifica, segnalazione. In definitiva: la
chiarezza dei ruoli,
la semplificazione, la razionalità del processo
decisionale, attorno ai quali va
riorganizzato il
quadro parlamentare, deve partire dal riconoscimento
inequivocabile che il potere
principale in campo
legislativo è del governo, anche se esercitato in
partnership con la maggioranza
parlamentare che lo
esprime (e salvo una funzione di sussidiarietà del
Parlamento nell’integrazione alla
legislazione di
settore o nelle macro questioni sulle quali il governo
intenda “rimettersi all’aula”).
L’evoluzione dei pesi
nel potere legislativo a favore del governo – che è
un’evoluzione naturale che il
sistema
rappresentativo italiano subisce in parallelo con altri
sistemi democratici – si è già verificata. Si
tratta di liberarla
dalle patologie berlusconiane, ma di codificarla senza
ambiguità istituzionali, che
danno luogo a
rivalse, recriminazioni e tentativi di rimonta da parte
del Parlamento.6 Qui parliamo del
rapporto tra
Parlamento ed esecutivo nella fase di legiferazione, ma
è ovvio che è già in atto una
cessione di potestà
legislativa e regolativa in alto, verso l’Unione europea
e in basso, verso le
authorities,
le assemblee territoriali e altri attori istituzionali e
semi-istituzionali (e perfino verso le
Agenzie governative).
Oggi dobbiamo pensare
ad un Parlamento sempre più concentrato sulla
definizione degli indirizzi e
sulle linee
fondamentali di intervento che il governo si propone di
seguire, ma che lasci a quest’ultimo la
libertà di riempire
le caselle in cui quelle linee si sostanziano, e si
riservi poi il controllo di come
l’esecutivo abbia
tradotto le indicazioni parlamentari in atti definitivi.
Un controllo non formale, ma
diretto anche a un
compito di segnalazione, che derivi dalla verifica di
come le leggi hanno funzionato o
sono passibili di
funzionare nei contesti specifici di loro applicazione,
alle correzioni che ciò comporta e
alla verifica sul
campo della base di consenso, dando luogo, in tal modo
ad ulteriori atti di indirizzo, più
che a effettive
modifiche di legge. Una funzione, quindi, altamente
politica, che il nostro Parlamento
svolge malvolentieri.
Si tratta di attività che si collocano a monte e a
valle rispetto a quella su cui si
concentra e si
organizza oggi il Parlamento nei suoi lavori (cioè,
l’esame minuzioso degli atti normativi
ai fini di
emendamento e ratifica) e che chiamano in causa non i
regolamenti parlamentari ma – come
affermato – una
modifica della sua funzione.7 Si tratta, quindi, di un
Parlamento sia con una diversa
configurazione della
mansione e missione del lavoro dei parlamentari sia con
una diversa distribuzione
dei tempi di lavoro
(la maggior parte dei quali dovrebbe essere dedicata
alle mozioni di indirizzo,
all’impostazione
delle deleghe e alla prova sul campo delle leggi).8 Se
ciò avvenisse davvero,
l’opposizione avrebbe
modo di concentrarsi sulle linee alternative da
presentare al paese, invece di
affidarsi, come è
strutturale che avvenga nell’attuale configurazione, al
potere di interdizione, all’attività
di rimessa (e, in
linea teorica, al consociativismo) che le concedono i
bizantinismi del meccanismo
parlamentare.
Finché il Parlamento
ritiene di avere la “centralità” in ogni fase del
processo legislativo che ancora gli
compete sarà sempre
un elemento di disordine (e di freno alla stessa
competitività del paese), perché
finisce per
invischiarsi in una microlegislazione che
inevitabilmente lo intasa, gli fa perdere il senso del
suo ruolo e rende
sempre più complicato e disordinato il varo delle leggi.
(Oltretutto, il ruolo è presunto
perché proprio le
farraginosità di funzionamento producono spontaneamente
lo spostamento della
centralità e la
perdita di iniziativa legislativa). Nella scarsa
trasparenza del processo di formazione della
normativa, nella
dispersione delle materie trattate, sempre con le stesse
procedure, nella
settorializzazione
delle competenze di giudizio, il Parlamento finisce per
essere strumento di
frammentazione dei
principi ordinativi. Da un altro punto di vista, finisce
per essere un Parlamento
permeabile suo
malgrado alle lobby piuttosto che predisposto
funzionalmente e autorevolmente al
rapporto strategico e
sistematico con gli interessi organizzati. Senza un
investimento istituzionale su un
Parlamento con
missione diversa, ai gruppi d’interesse conviene puntare
sull’attività di tipo lobbistico o
sullo scambio
politico di tipo strumentale e corporativo. È l’offerta
(lo spazio per questo tipo di attività)
che crea la domanda
(perché diviene redditizia dal punto di vista dei
risultati).
5. |
Due argomenti seguono
come note di appendice al corpo delle argomentazioni del
punto 4. Forse
spostano l’ottica
rispetto al punto di interesse della rubrica di
“Italianieuropei”, ma non sono del tutto
estranei al tema. Il
primo si collega proprio alla permeabilità al lobbismo,
che citavo da ultimo. Non
metto in questione
che, affrontando le ripartizioni di Montesquieu, ci
fosse alla ribalta un problema
costituzionale e che
come tale andasse affrontato. Ciononostante non avrebbe
guastato che, facendo i
conti con
l’evoluzione della società, ci fosse stata fra gli
articoli una qualche riflessione dedicata alle
modalità con cui
affrontare, nel disegno istituzionale, l’esposizione al
lobbismo e il deficit cognitivo (nel
senso di Burns) del
Parlamento (e del governo) e, al tempo stesso,
guadagnare un’agibilità alla
decisione
legislativa, migliorando il trade off tra
capacità di scelte incisive e consenso sociale.
Purtroppo è un
argomento in cui non si può procedere che per larghe
sintesi.9
È ragionevole
presunzione che un governo tanto più può far passare
anche linee radicali che incidano
sugli interessi
organizzati, quanto più (in un implicito scambio
politico) sia in grado di associare gli
stessi nella fase di
implementazione e verifica sul campo di quelle linee, e
consentir loro di adattarsi ad
esse liberamente e in
modo, in maggior misura possibile, autogovernato. Sono
pesi del tutto invertiti
rispetto a quelli
oggi in vigore, dove è più alta la presenza (e talvolta
l’associazione) di questi interessi
in fase di
elaborazione degli indirizzi di governo, mentre è
essenzialmente verticistica la fase di
implementazione e
assente il monitoraggio degli effetti della regolazione.
Il Parlamento può
aiutare molto in questa direzione se riesce a includere
tra le sue missioni la funzione
di inchiesta e
verifica dell’impatto che ha l’applicazione concreta
delle leggi. Il che rinvia alla necessità
che nel suo processo
cognitivo, decisionale e di segnalazione al governo sia
coadiuvato (e, in un certo
senso protetto) da
istituzioni, pubbliche e semipubbliche, che raccolgano
le testimonianze settoriali, ne
siano espressione e
le convoglino verso l’alto, gestendo al tempo stesso
l’intermediazione tra gli
organismi decisionali
e il mondo degli interessi economico-sociali. Ciò deve
avvenire in un processo
che lasci il
Parlamento libero (e, come detto, schermato) da
pressioni dirette e in forme tali che
consentano ad esso di
acquisire, nel rapporto con tali istituzioni, maggiore
consapevolezza della vasta
gamma di sviluppi
della società contemporanea e della notevole
frammentazione che in essa esiste.10
Non solo la
complessità del sistema, ma anche l’espansione della
tecnicità dei problemi e il loro
riverbero sul
processo legislativo spingono a rafforzare con
conoscenze sul campo (anche testimoniali)
i processi
decisionali.11
6. |
La seconda nota di
appendice si riferisce alla partnership che il Governo
deve trovare nel
Parlamento, che è tra
gli argomenti del punto 4. Ne è esempio una innovazione
istituzionale,
pochissimo
valorizzata e compresa dalla politica e dagli studiosi
del campo, ma che avrebbe potuto
essere acquisita come
un promettente cammino di sperimentazione.
Si tratta
dell’esperienza delle Commissioni bicamerali per le
deleghe sul fisco, la pubblica
amministrazione e la
riforma del bilancio dello Stato della XIII Legislatura
– che cito da testimone – che
lasciava trasparire
nuovi scenari nel rapporto legislativo-esecutivo come
tradizionalmente intesi,
prefigurando un modo
innovativo di affrontare la transizione dalla centralità
nell’esercizio della potestà e
iniziativa
legislativa alla centralità di indirizzo e controllo che
più propriamente attiene al Parlamento (e
che comunque si
sostanzia nell’ultima voce in capitolo sugli atti
legislativi).
Tali commissioni,
partite casualmente senza un compito ben stabilito se
non quello di vigilare sul
rispetto delle
deleghe, si sono strada facendo trasformate in veri e
propri partner del Governo
nell’elaborazione
delle norme delegate e nella loro messa a punto
definitiva, passando anche per una
simulazione della
operatività di quelle riforme attraverso la verifica
fatta con le categorie produttive e
professionali e
fornendo notevole input di riflessione al governo anche
per futuri indirizzi. Sono scaturiti,
dall’esame di merito,
elementi di correzione sostanziale, di riscrittura di
parti, di integrazione e di
valutazione di
opzioni alternative, non in contrapposizione al testo
governativo ma in dialogo costante,
anche se dialettico,
col governo.
È emerso un modello
interessante: il governo si presenta al Parlamento con
uno schema organico di
revisione di parti
della legislazione; il Parlamento ne discute (ma a
questo scopo deve darsi tempi
adeguati e,
altrettanto, il governo deve far precedere quello schema
organico da un Libro Bianco),12 e,
dopo l’approvazione,
il lavoro congiunto di rifinitura si produce in
Commissioni che sono sintesi del
Parlamento e che
lavorano con il governo per tradurre quello schema in
leggi, senza più interessare
l’Aula e raccogliendo
e valutando l’input cognitivo portato dall’esterno.13
Va aggiunto che la
riserva per il Governo ad intervenire con un semplice
decreto in modo correttivo,
entro un periodo
stabilito dall’entrata in vigore della legge, ha reso la
verifica, l’indagine, l’ascolto delle
testimonianze e la
segnalazione un’attività continua, oltre ad aver
contribuito a sdrammatizzare la
definitività delle
norme che entravano in vigore e a imporre la fase di
revisione e manutenzione delle
normative come
attività organica.14
L’innovazione, in
quanto non compresa, mancò di una proceduralizzazione e
una istituzionalizzazione,
nonostante che nel
suo svilupparsi si producesse una parte notevole della
riforma dello Stato (fisco,
pubblica
amministrazione, bilancio).15 L’esperienza non è mai più
stata ripetuta nella stessa forma nelle
legislature
successive.
1 La XIII, del
governo dell’Ulivo, ma è irrilevante dal punto di vista
delle considerazioni che seguono.
2 È emblematica la
storia vissuta della volta in cui arrivai in Aula in
ritardo e, sommerso dalle carte che
dovevo esaminare per
la Commissione che presiedevo, cominciai a votare su
articoli di legge ed
emendamenti seguendo
le istruzioni che venivano dal relatore a dal governo:
“si”, se pollice era in alto,
“no” con pollice
verso. Passata una buona mezz’ora chiesi ai vicini,
compagni di votazione: «ma che
stiamo votando?».
«Penso una ratifica di un trattato internazionale»
rispose prontamente uno dei vicini;
«Macché – gli diede
sulla voce un’altro – dovrebbe essere un provvedimento
sull’agricoltura». «Che
state dicendo?»,
intervenne un terzo «È un provvedimento sulla marina
mercantile”. A questo punto,
percorsi tutti da
stupefatta ilarità, era inevitabile prendere
informazioni attendibili. Niente di vicino a ciò
che era stato
menzionato.
3 Si veda T. R.
Burns, Evoluzione di parlamenti e società in Europa:
sfide e prospettive, Giornate in
memoria di Aldo Moro,
Camera dei deputati, 8-9 maggio 1998 (pubblicato in
inglese anche in
“European Journal of Social Theory”, 2/1999).
Sul tema si veda
anche S. S Andersen, T. R. Burns,
Societal
Decision-making: Democratic Challenges to State
Technocracy, Aldershot, Dartmouth 1992; P.
Kenis,
V. Schneider, Policy networks and policy analysis:
scrutinizing a new analytical toolbox, in B.
Martin,
R. Mayntz (a cura di), Policy Networks: Empirical
Evidence and Theoretical Considerations,
Campus Verlag,
Francoforte sul Meno 1991; J. Kooiman (a cura di),
Modern Governance: New
Government-Society Interactions, Sage, Londra 1993.
4 Quest’ultima
garantita da uno statuto apposito, che punti alla
correttezza delle procedure e del
rispetto dei patti
istituzionali (impliciti e espliciti) da parte di quel
continuum e alla visibilità delle
posizioni espresse in
alternativa, più che al potere di interdizione.
5 È un tema in sé che
non affronto e che andrebbe discusso congiuntamente ai
pesi e contrappesi
della democrazia
all’interno di ciascuno dei due modelli di
legittimazione.
6 Luciano Violante,
in un bilancio valutativo, scritto al termine della sua
esperienza come presidente
dell’Assemblea nella
XIII legislatura riconosce che questa è una componente
cruciale di un nuovo
equilibrio
istituzionale. (si veda L. Violante, Il futuro dei
parlamenti, in Violante (a cura di), Storia d’Italia,
Annali 17, Einaudi,
Torino 2001). Anche il suo intervento su
“Italianieuropei” ribadisce il punto. Leggo
ciò come un onesto
ripensamento rispetto al ruolo che egli svolse e che non
sempre denotò questi
convincimenti. Una
penetrante analisi dell’evoluzione nelle funzioni dei
parlamenti è contenuta in A.
Barbera, I
parlamenti, un’analisi comparativa, Laterza, Roma-Bari
1999.
7 Vi sono, tuttavia,
anche riforme dei regolamenti parlamentari da
considerare, ma non entro nel merito,
perché è tema in sé
da svolgere. Certamente, un Parlamento che si organizzi
attorno al compito di
mettere a punto
l’impostazione dei provvedimenti fondamentali e
l’indagine sul loro funzionamento non
è un Parlamento che
mantenga i rituali collettivi delle discussioni generali
di puro riempimento, che
preveda sempre il
plenum per il voto in Aula, senza ammettere deleghe di
voto, che discuta l’articolato
in Aula di tutte le
leggi, preveda un numero legale elevato, mantenga le
Commissioni di merito come
permanenti, preveda
l’emendabilità (se non come indirizzo) a tutto campo
delle leggi di bilancio, che
autogestisca l’agenda
dei lavori parlamentari.
8 Si può immaginare
che il Parlamento si riappropri di una funzione
direttamente politica (funzione che
il Parlamento sa
svolgere, al contrario della funzione normativa), in
momenti dedicati di controllo, che
possono essere
collocati nella previsione di una sessione annuale (o
con altra cadenza) obbligatoria di
verifica sulla
politica estera o in una sessione annuale (o con altra
cadenza) obbligatoria di verifica sulle
realizzazioni in
materia economico-sociale.
9 Ho avuto modo di
parlarne estesamente nel mio libro Per una sinistra
pensante, Marsilio, Venezia
2009 (cap. 4), da cui
traggo alcune argomentazioni, ma prima ancora nel saggio
preparato per
l’incontro di studio
del Gruppo DS-L’Ulivo della Camera dei deputati su “La
forma di Governo” del 21
novembre 2002
(disponibile su
http://www.astrid-online.it/il-sistema1/Studi-e-ri/Archivio-2/BIASCODinamiche-
della-transizione.PDF
), che ha fatto da antesignano a una serie di interventi
che ho
pubblicato
successivamente sull’argomento.
10 Nei testi citati
in nota 9 mi son sempre riferito a un CNEL radicalmente
riformato per questa finalità.
Lo scopo ultimo è
allontanare dal Parlamento – e per disegno istituzionale
– la pressione confusa dei
portatori di
interesse e l’esigenza per esso di barcamenarsi fra chi
strilla e chi no, chi riesce, invece,
silenziosamente a
trovare il deputato o senatore giusto che infila
l’emendamento giusto, chi conosce il
ministro e chi non lo
conosce, chi ha possibilità di avere rapporti del tutto
informali, ma efficaci, con la
filiera istituzionale
e chi non l’ha. E trovare un approdo costruendo un luogo
formale (dotato di
prerogative
istituzionali) in cui avvenga la raccolta e
l’elaborazione delle istanze dei soggetti della
produzione e in cui
trovino preliminarmente, se non proprio una risoluzione,
quanto meno una
definizione i
conflitti di interesse fra settori diversi della
società, in modo autogestito e sottoposto a
scrutinio reciproco.
11 «Le leggi odierne
non soltanto richiedono una maggiore varietà di input
tecnici e informativi (indagini
conoscitive;
analisi); ma, paradossalmente debbono essere considerate
sempre più come testo di
massima, i cui
effetti e la cui tenuta sono incerti in un mondo
complesso e dinamico come quello
attuale. In generale,
considerate queste condizioni, le leggi appaiono come
strumenti normativi
rudimentali. Ad
esempio, (a) le innovazioni tecniche possono rendere una
legge obsoleta in brevissimo
tempo. (b) Le leggi,
le normative, i programmi sono sempre sperimentali
quando vengono inseriti in un
contesto complesso, e
debbono sempre venire adattati e modificati in
considerazione di situazioni
complesse e
dinamiche. (c) Le situazioni a cui le leggi si applicano
sono molto diverse tra loro, in parte
a causa di un aumento
della complessità, e in parte perché gli attori hanno
maggiori conoscenze, sono
più consapevoli e
sensibili circa le diversità e le differenze (mentre
prima veniva prestata maggiore
attenzione alla
standardizzazione e alla semplificazione di ogni cosa.
In definitiva, le leggi formali non
sono l’unico modo per
strutturare e disciplinare le vita sociale». Si veda
Burns, Evoluzione, cit.
12 Mentre, nel caso
specifico, il Parlamento aveva discusso in modo
insoddisfacente, in pochissimo
tempo (e, anche in
un’aula semivuota per l’ostruzionismo dell’opposizione).
13 Una valutazione
dell’esperienza di queste Commissioni bicamerali può
trovarsi in V. Cerulli Irelli,
Parlamento e Governo
nella riforma amministrativa (mimeo) e I. Traversa, La
Commissione bicamerale
per la riforma
fiscale, in “Rassegna Parlamentare”, 4/2001. Si veda
anche S. Biasco, Senza la riforma
del Parlamento
essenziale il ruolo delle bicamerali, in “Il Sole 24
Ore”, 7 marzo 1999 e S. Biasco,
Intervento, in
Seminario sulle recenti iniziative della Camera per la
competitività italiana, Camera dei
deputati, 7 marzo
2000. Cerulli Irelli (a suo tempo presidente della
Commissione amministrativa), parla
dell’instaurazione di
una vera e propria convenzione costituzionale.
14 «La messa in opera
(implementation) di una legge è essa stessa una forma di
policy making. (...)
Nel corso
dell’implementazione, una legge o una politica è
completata o elaborata nei dettagli». Con la
loro mobilitazione, i
cittadini e le organizzazioni (e altri gruppi
importanti) finiscono per condividere
l’implementazione
delle politiche «e sono ovviamente più impegnati dei
parlamentari nella realtà
quotidiana
dell’implementazione». Si veda Burns, The future of
parliamentary democracy: transition and
challenge in European
governance, disponibile su
europa.eu.int/comm/governance/docs/doc3_en.pdf.
Perché non sarebbe
possibile affidare gli stessi compiti alle Commissioni
ordinarie come sono oggi? Il
mio giudizio,
maturato sul campo, ha molte motivazioni. Il processo di
emendamento delle leggi è
disordinato e svolto
di rimessa, come pura intrusione, nel testo governativo
ed è di facile accesso alle
lobby. La
composizione è quella rigida, spesso stabilita
all’inizio della legislatura, e non quella mirata
per l’occasione; le
competenze presenti sono o troppo specializzate o troppo
decentrate rispetto agli
interventi richiesti,
che sono il più delle volte di carattere
intersettoriale; le audizioni e memorie non
danno in sé una
capacità di interlocuzione con le categorie, la quale ha
bisogno di momenti più
informali di lavoro
comune, e di una missione specificamente dedicata; il
rapporto con il governo è più
frammentario e, in un
certo senso, più formale. In queste condizioni, anche il
potere di indirizzo è meno
efficace. Sorvolo poi
sul fatto specifico della patologia che si riproduce
nella formazione delle
Commissioni, dove
quella “Lavoro” è formata in prevalenza da sindacalisti,
quella “Trasporti” dagli eletti
a Livorno, Trieste,
La Spezia, Brindisi, Ancona (e altre città portuali),
quella “Cultura” da direttori e
direttrici
didattiche, professori di scuola media e universitari ,
quella “Giustizia” da avvocati, ecc. ecc..
Commissioni, quindi,
in partenza sensibili a istanze di tipo
particolaristico. Vi é, poi, nel procedimento
referente un
potenziale di deresponsabilizzazione, perché il
provvedimento ha il passaggio decisivo in
Aula. La prassi
parlamentare non rende, poi, le Commissioni permanenti
attuali idonee a curare
provvedimenti che
devono essere varati in blocco in una articolazione
organica di leggi (le leggi di
riforma strutturale).
15 In condizioni
eroiche. Basti pensare che queste Commissioni hanno
lavorato negli intervalli di
pranzo, o la sera
dalle 21 fino a mezzanotte, senza possibilità di
programmazione certa, in quanto
soggette a mutamenti
repentini di programma dell’Aula, senza che fosse loro
concessa la possibilità di
concentrarsi esclusivamente (quando necessario) sul loro
lavoro. |