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ITALIANIEUROPEI I 1/2011  

La Costituzione e Montesquieu dimezzato di Cesare Pinelli

 

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Con l’espressione “Montesquieu dimezzato” si intende porre l’attenzione sulle distorsioni

dell’assetto istituzionale italiano, che vede un Parlamento esautorato nelle sue funzioni, una crescita

dei poteri di fatto dell’esecutivo, mentre gli organi di garanzia costituzionale continuano nel

complesso a esercitare le loro funzioni. Bisogna rendersi conto che queste distorsioni danneggiano

seriamente il paese. Devono capirlo tutti, a cominciare dalle forze politiche.

«Più passa il tempo, più si semplifica e insieme si aggroviglia l’eterna transizione italiana e più

appare chiaro che la Costituzione è la soglia cruciale tra presente e futuro, la vera trincea dello

scontro, l’epicentro consacrato di qualunque esito politico». Sono parole scritte sette anni fa da un

acuto giornalista,[1] ancora utili a dar conto dello stato del nostro dibattito pubblico. Dove «la vera

trincea dello scontro» è sempre lì, così come il contrasto tra le tesi del “regime” e del governo

“scelto dal popolo” (e perciò libero fra un’elezione e l’altra da ogni vincolo, legalità compresa):

tutte e due prospettate per far valere una superiore legittimazione costituzionale sull’altra, e nello

stesso tempo incapaci di avviare un qualunque scambio razionale, e volutamente. Il contrasto deve

restare senza sbocco, e abbastanza avvelenato da far sì che le opposte tifoserie continuino a

monopolizzare la scena e a garantirsi lunga vita nella “eterna transizione”. Quanti non vi si

riconoscono stentano a far sentire la loro voce, vengono scambiati per dei moderati un po’

incanutiti, se non per complici della parte avversa.

È uno dei risultati perversi del bipolarismo che abbiamo sperimentato, e soprattutto della coltre

mediatica che l’ha avvolto. Come si potrebbe parlare, altrimenti, di “ventennio berlusconiano” in

presenza di un ciclo di alternanza finora perfetto fra centrodestra e centrosinistra? Se ne può parlare

se ci si riferisce a un’egemonia culturale e politica esercitata attraverso i media, a torto o a ragione

ritenuta più importante della stessa titolarità della funzione di governo. Si dirà che la coltre

mediatica agisce oggi su qualsiasi opinione pubblica, tende a imporre il suo tempo, quello che viene

definito “l’eterno presente”, sugli apprendimenti del passato e sulle speranze future. Quando però

manca, come in Italia, una memoria nazionale consolidata e condivisa, la tendenza non incontra più

limiti, fino a far deperire il senso della rappresentanza politica e del dibattito pubblico. Allora,

anche le dinamiche istituzionali si riducono a una giostra, in una ossessiva e tuttavia, come abbiamo

visto, non disinteressata coazione a ripetere.

I contributi qui raccolti si propongono di squarciare il velo mediatico, e aiutano da diverse

prospettive a ricostruire un quadro di problemi magari perfino più serio di quello che passa il

convento, e comunque capace di restituire dignità di vicende reali a quanto accaduto nella seconda

fase della Repubblica. Possiamo partire dal corpo elettorale, per poi guardare al rapporto governo-

Parlamento, e infine agli organi di garanzia costituzionale.

Da tempo i citati tifosi strattonano dalla loro parte le due proposizioni di cui si compone l’articolo 1,

comma 2 della Costituzione come se l’una potesse contrapporsi all’altra, ora reclamando che «La

sovranità appartiene al popolo», ora replicando che il popolo «la esercita nelle forme e nei limiti

della Costituzione». Solo che, nel frattempo, il corpo elettorale ha avuto modo di esprimersi in due

occasioni cruciali sulla questione. Da una lettura combinata del referendum abrogativo della legge

elettorale del Senato del 1993 e del referendum costituzionale di approvazione della riforma della

Seconda Parte della Costituzione del 2006, Michela Manetti ha ricavato la conclusione che «la

volontà popolare non abbia mai inteso dirottare la Costituzione verso approdi plebiscitari o

populistici: piuttosto, essa ha contestato la pretesa (avanzata dai partiti fin dal tempo

dell’Assemblea costituente) di porsi ad esclusivi garanti della legalità dei procedimenti parlamentari

(oltre che della gestione della cosa pubblica in generale) ». Di grazia, stiamo parlando di un regime?

2

O forse un popolo che così si pronuncia prende congedo dalla democrazia costituzionale? Al

contrario, mostra che il suo essere titolare della sovranità non ne contraddice affatto l’esercizio nelle

forme e nei limiti della Costituzione. Non a caso, occupandosi negli stessi anni del nuovo Titolo V,

la Corte costituzionale osservava che l’appartenenza al popolo della sovranità «impedisce di

ritenere che vi siano luoghi o sedi dell’organizzazione costituzionale nella quale essa si possa

insediare esaurendovisi. Le forme e i modi nei quali la sovranità del popolo può svolgersi, infatti,

non si risolvono nella rappresentanza, ma permeano l’intera intelaiatura costituzionale: si rifrangono

in una molteplicità di situazioni e di istituti ed assumono una configurazione talmente ampia da

ricomprendere certamente il riconoscimento e la garanzia delle autonomie territoriali» (sentenza

106/02).

Per Costituzione, e veniamo così alla seconda vicenda, nemmeno il Parlamento è sede che esaurisca

la sovranità popolare. Non lo era nella stagione del consociativismo – peraltro molto più breve di

quanto spesso si dica: dall’approvazione dei regolamenti parlamentari del 1971 alla fine dei governi

di unità nazionale (1979) –, e non lo è all’epoca della cosiddetta democrazia maggioritaria. Quando

si parla di crisi della centralità del Parlamento è allora indispensabile, lo avvertono Emanuele Rossi

e Michela Manetti, distinguere il fisiologico dal patologico. Non si nega, così, che il Parlamento sia

oggi l’organo costituzionale più mortificato della Repubblica nella sua identità profonda. Se ne

ricercano piuttosto le cause effettive.

La dequotazione della legge nazionale a seguito della redistribuzione di potestà normativa a

vantaggio dell’Unione europea e delle Regioni, o della traduzione sul terreno delle fonti del

pluralismo sociale, non solo non ha nulla di patologico, ma risponde largamente a prescrizioni

costituzionali.

Aggiungo che, nella patria della democrazia maggioritaria, la stessa mancanza di potere decisionale

del parlamento nell’esercizio della funzione legislativa è considerata da tempo un dato pacifico: i

disegni di legge governativi, che costituiscono la massima parte di quelli approvati, passano a

Westminster con minimi emendamenti, peraltro vietati sulle leggi di spesa. Eppure le procedure

parlamentari continuano a venire scrupolosamente rispettate, a cominciare dagli spazi lasciati alle

opposizioni. È l’effetto spietato di un modello parlamentare che esalta il circuito

potere/responsabilità, prima nel circuito governo-parlamento e poi di fronte all’elettorato. Così

come l’ampio potere di scelta politica del Congresso americano nella legislazione riflette il

funzionamento di un sistema presidenziale detto “puro” perché basato sulla separazione fra

esecutivo e legislativo, ciascuno dei quali gode di una propria legittimazione democratica.

Se il Parlamento votasse anche da noi i disegni di legge governativi senza grandi mutamenti,

naturalmente nel rispetto delle procedure, non ci sarebbe da gridare allo scandalo, saremmo ancora

nella fisiologia del modello parlamentare. Ma le cose non vanno affatto così. Come documentano

Luciano Violante ed Emanuele Rossi, si è avuta una continua ascesa degli atti normativi del

governo a scapito delle leggi, che inoltre, quando vengono approvate, passano a prezzo di

stravolgimenti o di aggiramenti della procedura, dai maxiemendamenti ai ricorsi alla questione di

fiducia. Bisogna spiegare perché ciò si verifica in piena democrazia maggioritaria, anche in

presenza di maggioranze molto ampie, per giunta con un “Parlamento di nominati”, e dopo che le

riforme regolamentari degli anni Novanta hanno potenziato il ruolo del governo in Parlamento.

Anzi, le stesse patologiche tendenze si sono fortemente accentuate nel passaggio dalla prima alla

seconda fase della Repubblica. Non è paradossale?

Il fatto è che quel passaggio, se ha consentito per la prima volta una piena alternanza al governo fra

due coalizioni rappresentative di tutte le forze politico-parlamentari, non ha assicurato quella

sufficiente omogeneità interna alle coalizioni che già mancava nei decenni precedenti, così

determinando una permanente instabilità governativa. Le riforme elettorali, del 1994 e ancor più del

2005, si sono rivelate del tutto inidonee a risolvere il problema, che si è cercato allora di affrontare

impropriamente, lo osserva Oreste Massari, sul fronte della forma di governo. Lo dimostra il

“premierato assoluto” previsto dalla riforma costituzionale del 2006, che insieme alla breve

stagione del “partito potenzialmente maggioritario” (di cui, però, è rimasta traccia negli statuti dei

3

due maggiori partiti), ha costituito il tentativo di forzare il sistema politico in direzione di un

bipartitismo che la legislazione elettorale è ben lontana dall’incoraggiare.

I tentativi sono andati a vuoto, ma nel frattempo si era generalizzata tra le forze politiche la

convinzione della illegittimità dei “ribaltoni”, che rendeva molto più stretto il gioco politico dei

partiti minori della maggioranza rispetto a quanto avveniva fino all’XI legislatura. La necessità di

convivenza nelle coalizioni richiedeva delle compensazioni, che si sono trovate almeno su due

versanti. Prima di tutto, le issues dei partiti minori su punti cruciali dell’indirizzo politico di

governo (ad esempio il federalismo) ottengono un trattamento privilegiato. Il resto della coalizione

le accetta senza fiatare per soddisfare la richiesta di massima visibilità possibile di quei partiti di

fronte al corpo elettorale. Diversamente dal passato, tali issues non formano oggetto di mediazione

politica all’interno della coalizione, ma vengono incorporate in quanto tali nel programma di

governo.

In secondo luogo la distribuzione delle cariche, oltre al governo, si estende alla presidenza delle

camere: in particolare, il segretario del secondo partito della coalizione risulta quasi sempre

insediato sullo scranno più alto di Montecitorio. Come osserva Nicola Lupo, non si può negare che

la carica di politicità di cui questo organo risulta così investito determini tensioni rispetto al suo

ruolo istituzionale. Le quali, quando si tratti del cofondatore di un partito di maggioranza relativa in

aperto dissenso dalla linea ufficiale, rischiano di varcare il punto di non ritorno dalla legalità

costituzionale: mi riferisco alla minaccia dei più scatenati, di fronte alla scoperta che l’elezione di

un presidente d’assemblea non equivale a instaurare un rapporto fiduciario, di disertare la

Conferenza dei capigruppo, prefigurando una sorta di Aventino alla rovescia.

Un assetto simile non solo finisce con il forzare le regole del gioco, ma non riesce nemmeno a

garantire la pace interna alle coalizioni. La diffidenza del governo verso il Parlamento permane

dunque per tutta la legislatura, anche quando i numeri della maggioranza sarebbero nettamente dalla

sua parte. Se bisogna trovare un accordo con il secondo partito della coalizione, è sempre più

conveniente trattare con tre ministri il testo di un decreto legge anziché di un disegno di legge:

anche se vi sarà bisogno della conversione, la trattativa sarà meno gravata da incognite in

Parlamento, e si porterà subito a casa il risultato con la immediata entrata in vigore del

provvedimento. Le cose andranno poi ancora meglio, in termini di assenza di controlli e pubblicità,

se si potrà varare un’ordinanza d’urgenza. Infine, se è proprio necessario procedere in via

legislativa, per vincolo costituzionale o politico, non mancano, come accennato, gli strumenti per

impedire il libero dibattito, se non addirittura l’approvazione del disegno di legge “articolo per

articolo e con votazione finale”, come richiede l’articolo 72 della Costituzione. Nei casi in cui è

ancora chiamata a legiferare, l’Assemblea somiglia così sempre più a una caserma. Nulla a che

vedere con il funzionamento dei Parlamenti nelle democrazie a forma di governo parlamentare.

A bloccare le possibilità di un bipolarismo virtuoso, imponendone una versione costrittiva le cui

tensioni si scaricano sui processi di produzione normativa, è stata principalmente la legge elettorale.

Né l’obbligo imposto alle liste o alle coalizioni di liste di indicare sulla scheda elettorale il nome

del candidato alla presidenza del Consiglio ha assicurato al governo o al suo presidente un

supplemento di legittimazione. Come ricorda opportunamente Emanuele Rossi, la Corte

costituzionale ha escluso che la legge elettorale, in quanto fonte di rango ordinario, possa mutare la

posizione costituzionale del presidente del Consiglio (sentenza 262/09), senza contare che essa

andrebbe comunque interpretata in senso conforme alle regole costituzionali sulla forma di governo

parlamentare e al divieto di mandato imperativo dei membri del parlamento.[2] Inoltre, ciò che più

conta malgrado le favole ripetute dai giornali, la prassi smentisce la teoria del mandato elettorale,

visto che cambi di governo si sono più volte verificati nel corso delle ultime legislature. Non solo,

cioè, la Costituzione, ma neanche una pretesa “costituzione materiale” vale ad accreditarla.

Osserva su un altro piano Gianmario Demuro, riferendosi anche alle regioni, che «la

sovrappresentazione degli esecutivi non appare tanto il frutto di riforme costituzionali, quanto la

conseguenza di un lungo periodo di totale delegittimazione della politica in Italia»: il saggio di

Leopoldo Elia, che richiama a sostegno della sua tesi, risale in effetti al 1963.[3] E Luciano

4

Violante si chiede se il bipolarismo che abbiamo sperimentato non riproduca l’antico vizio italiano

della divisività, «prolungandone l’esistenza e aggravandone i difetti». D’altra parte Mauro Calise,

che invita a non demonizzarla, nota giustamente che la personalizzazione del potere accompagna da

tempo l’evoluzione dei sistemi democratici: i primi saggi risalgono a mezzo secolo fa,[4] come

anche lo scritto pioneristico di Kircheimer sul partito pigliatutto, «i cui dirigenti sono divenuti noti

ad ogni elettore attraverso la televisione e i giornali», e che, una volta al governo, «può

improvvisamente diventare un simbolo negativo che incoraggia l’elettore a passare ad un altro

partito, come un consumatore passa ad una marca competitiva».[5]

Questi contributi, pur da diverse posizioni, dimostrano che le cesure effettive che abbiamo

conosciuto nella storia repubblicana coincidono solo in piccola parte con la nota separazione tra una

prima e una seconda fase. Alcune la precedono, altre si rivelano apparenti o aleatorie. Si può

giungere a diverse periodizzazioni, a seconda che si consideri:

a) la strutturazione bipolare del sistema politico, la personalizzazione del potere e l’eclisse di partiti

organizzati, che segnano il solo tratto di autentica discontinuità tra le due fasi;

b) la crisi, assai risalente, della politica come attività trasformativa, capace di fornire risposte di

lungo periodo alle attese collettive;

c) l’attuazione della Costituzione, che anche in sede legislativa segue un proprio percorso, non

interrotto nemmeno dall’avvento della seconda fase della Repubblica;

d) la parabola della legislazione elettorale, che dal maggioritario al proporzionale con premio di

maggioranza e liste bloccate aumenta i costi del bipolarismo in termini di democraticità della

rappresentanza politica;

e) l’andamento della forma di governo, che nella seconda fase solo in alcuni casi si regge su governi

di legislatura e nello stesso tempo vede aggravarsi i già acuti problemi delle coalizioni;

f) la formazione di un sistema parallelo di atti normativi basati su finte urgenze (decreti legge e

ordinanze d’urgenza) che svincola in tutto o in parte il governo dal ricorso alla deliberazione

parlamentare;

g) la crescita esponenziale del potere del ministro dell’Economia nell’ambito del governo, giunta da

ultimo a evidenti forme di commissariamento dell’indirizzo politico;

h) l’occupazione partitica delle amministrazioni e la corruzione politica, tornate a prosperare più di

prima in presenza di partiti ridotti a cartelli pre-elettorali;

i) il complessivo potenziamento, a seguito della formazione di un sistema politico bipolare, del

ruolo degli organi di garanzia (presidente della Repubblica, Corte costituzionale, giudici comuni), e

la perdurante indipendenza della Banca d’Italia.

Il risultato di questi andamenti, con un Parlamento esautorato dalle sue funzioni ad opera

dell’esecutivo e gli organi di garanzia che continuano ad esercitare le loro in piena indipendenza,

giustifica in prima approssimazione la formula del “Montesquieu dimezzato”.

È giusto ricordare, come fa Antonio Ingroia, i tentativi di stravolgere Costituzione e Stato di diritto

che si sono susseguiti in questi anni, dal disegno di legge sulle intercettazioni alle proposte di

sottoporre la polizia giudiziaria all’esecutivo. E rimangono inaccettabili le accuse di faziosità rivolte

ai giudici e alla Corte dal presidente del Consiglio ogni volta che emettano decisioni sfavorevoli

alle sue posizioni giudiziarie, o peggio le intimidazioni alla vigilia di una sentenza. Non si possono

negare queste e altre minacce anche gravi alla legalità costituzionale, il veleno mediatico che

vorrebbe delegittimare un ordine giudiziario che continua a fare il suo dovere, e soprattutto la

consapevole sottovalutazione dei problemi effettivi della giustizia. Ma se vogliamo stare ai fatti,

dobbiamo segnalare almeno i casi di leggi ad personam bloccate anzitempo o corrette dal capo dello

Stato in sede di rinvio, e di quelle annullate dalla Corte costituzionale, nonché l’esito della riforma

del Consiglio superiore della magistratura, rivelatosi non esaltante per i promotori. Di più, i continui

attacchi dell’esecutivo alla magistratura impediscono di affrontare con un minimo di serenità il

problema della responsabilità dei giudici, che nei termini posti da Gianni Di Cagno dovrebbe

corrispondere all’espansione che il potere giudiziario ha ovunque conosciuto, ma valere «all’interno

5

dei circuiti autonomi delle magistrature» anziché come pretesto per diminuirne l’indipendenza a

vantaggio dell’esecutivo.

Certo è che, in mezzo a tante difficoltà, gli organi di garanzia costituzionale continuano a

funzionare regolarmente. È il governo delle leggi, che non solo impedisce di parlare di regime, ma

ancora ci trattiene dall’assimilare l’Italia all’Argentina, come per il resto già si potrebbe fare, fra

ricorsi a emergenze fittizie, stato comatoso dei partiti, gestione patrimonialistica della cosa

pubblica, e quel ferreo controllo governativo del mezzo televisivo le cui vicende legislative sono

ripercorse da Filippo Donati.

Al di là di quanto possa aver detto Max Weber, nelle esperienze democratiche contemporanee il

governo delle leggi non è il dominio di una macchina impersonale, ma è il governo degli uomini

sulla base e nel rispetto delle leggi, e di leggi che cittadini eletti democraticamente possono

cambiare nel rispetto di procedure fissate da una Costituzione democratica. La formula contrapposta

del governo degli uomini significa che queste leggi non ci sono oppure, più plausibilmente, che non

vengono mai rispettate.

L’ipotesi che la personalizzazione del potere sia destinata a cancellare il governo delle leggi non

trova riscontro nelle democrazie costituzionali; lo trova, invece, nelle democrazie illiberali che pure

di recente sono fiorite nel mondo. Fatichiamo a mettere nella stessa barca Putin e Obama, Chávez e

Zapatero. E non vorremmo che l’Italia finisse fra non molto nel secondo gruppo di democrazie. Non

lo vorremmo, non per una nostalgia formalista per il governo delle leggi, ma perché del governo

degli uomini conosciamo già gli effetti. Sappiamo, infatti, che in alcune regioni meridionali (e ora

anche in alcune aree del Nord) l’assenza di legalità respinge gli investitori stranieri, e tiene i

cittadini in uno stato di perenne insicurezza. Essa blocca così quei processi di incivilimento che i

nostri migliori intellettuali, da Cattaneo in poi, posero alla base di ogni autentica modernizzazione.

________________________________________

[1] F. Ceccarelli, La Carta suprema contestata ma intramontabile, in “La Stampa”, 6 gennaio 2003,

p. 9.

[2] A. Baldassarre, Il Presidente della Repubblica nell’evoluzione della forma di governo, in

www.associazionedeicostituzionalisti.it.

[3] L. Elia, Realtà e funzioni del partito politico: orientamenti ideali, interessi di categoria e

rappresentanza politica (1963), in Costituzione, partiti, istituzioni, il Mulino, 2009, p. 87.

[4] A. Mabileau, La personalisation du pouvoir dans les régimes démocratiques, in Revue française

de science politique, 10/1960, p. 39 e sgg.

[5] O. Kircheimer, La trasformazione dei sistemi partitici dell’Europa occidentale, in G. Sivini (a

cura di), Sociologia dei partiti politici. Le trasformazioni nelle democrazie rappresentative, il

Mulino, Bologna 1971, p. 259.

 

ITALIANIEUROPEI  

Alcune considerazioni su “Montesquieu dimezzato”

di Salvatore Biasco

La lettura della rubrica “Montesquieu dimezzato” apparsa sul n. 1/2011 di Italianieuropei mi induce

alcune considerazioni.

1. | Ritengo che un conto sia la stigmatizzazione delle forzature e dei veri e propri abusi che il governo

Berlusconi ha determinato nel rapporto tra Esecutivo e Parlamento (dai maxiemendamenti all’eccesso

di decreti legge emanati senza motivi di urgenza e tant’altro, fino alla rivendicazione dell’investitura

popolare), un altro conto sia il disegno realisticamente e razionalmente perseguibile per quel rapporto.

La giusta stigmatizzazione degli abusi ha preso la mano nella rubrica finendo per lasciare l’impressione

complessiva (con l’ottima eccezione di Calise) che l’alternativa rivendicata sia la centralità del

Parlamento nella funzione legislativa, talvolta al di là delle intenzioni degli autori. Il titolo stesso,

“Montesquieu dimezzato”, rischia di celare (ma talvolta evidenzia) un’opzione mentale di difesa del

ruolo tradizionalmente attribuito dalla Costituzione al Parlamento.

2. | Prima di arrivare, più avanti, a considerazioni generali, vorrei partire da una testimonianza

personale di chi ha seduto in Parlamento per una legislatura1 e lo ha visto in azione. È un limite

personale, lo confesso, di non riuscire – di fronte a accenni alla “centralità” – a separare il Parlamento

in astratto dal Parlamento quale è nella concreta composizione e prassi.

Il Parlamento che ho frequentato non era in grado di produrre leggi se non come mera ratifica

dell’iniziativa governativa. Fosse stato lasciato a sé stesso, e non guidato dal governo, avrebbe

prodotto disastri, non avrebbe saputo organizzare la ben che minima politica organica. E, anche nella

ratifica, il suo intervento è stato quasi sempre di distorsione (lobbistica) della ratio delle leggi.

Nonostante la manifesta inadeguatezza dell’istituzione ad essere centro di elaborazione normativa, i

parlamentari vivono l’iniziativa governativa e il loro ruolo subalterno all’esecutivo non come ovvia

necessità, ma con frustrazione e come espropriazione, e si arrabbattano a presentare leggi su tutte le

minutaglie, come se queste avessero mai probabilità di venire discusse, a meno che il governo non se

ne impadronisca ricomprendendole in qualche provvedimento organico (ma anche questo è vissuto

come frustrazione ed espropriazione, non come soddisfazione). Quasi sempre essi sono, in questa

funzione di proponenti, passacarte di qualche centro di interessi, locale o nazionale. La frustrazione si

riversa poi più o meno con le stesse logiche nell’attività di emendamento. Per i parlamentari della

maggioranza il ruolo di spogliazione è vissuto ancora più drammaticamente, perché devono far

quadrato e ricorrere al sottogoverno per l’accoglimento delle loro istanze (o al contatto informale, o al

rapporto personale con qualche inafferrabile figura chiave nella gestione di una legge). Il tutto, in

grande stridore con la retorica della “centralità”, di cui tutti si riempiono la bocca, spalleggiati dai

presidenti di turno.

Il Parlamento gira a vuoto. Non sono i singoli l’anello debole, ma le logiche in cui sono inseriti. I

regolamenti parlamentari, con i loro rituali, ispirati alla funzione ottocentesca del voto individuale e del

convincimento reciproco, non aiutano. Solo perché non sono in grado di osservarsi dall’esterno di

quelle logiche, i parlamentari possono accettare come pezzo di normalità (e non di grave patologia) che

vi siano discussioni generali con la presenza in aula soltanto di chi ha finito di parlare e si attarda a

raccogliere i fogli, chi si accinge a parlare e chi deve prendere la parola successivamente. Difficile

capire a che serva tutto ciò e perché sia irrinunciabile. Che senso ha che essi partecipino alla

formazione di leggi senza sapere nemmeno su quale provvedimento si stia votando? È una

insopportabile diminutio (involontaria) della loro dignità. Per me è qualcosa di difficile da accettare, ma

che avviene non per cattiva volontà, bensì perché non è possibile fare alcuna istruttoria.2

Se non si trova una ratio a tutto ciò e, soprattutto, un modo di rendere il Parlamento un partner vero del

governo, in un quadro di gerarchie e ruoli dati che riconosca al governo la preminenza, le istituzioni

rappresentative deperiscono, introducono più caos che razionalità nel governo del paese.

3. | Mi attardo ancora su un’annotazione. C’e un equivoco sul Parlamento immaginato come luogo

politico per eccellenza, quando in realtà è un luogo di scrutinio tecnico, o che, almeno, solleciterebbe in

questa direzione la funzione parlamentare e richiederebbe nel lavoro day by day tipologie diverse di

approccio rispetto a quelle prevalenti. La politica, quand’alche rimbalzi in qualche momento

parlamentare, si svolge ed è determinata dall’esterno di esso, che ne è solo la cassa di risonanza.

Malgrado ciò, nella selezione dei componenti l’expertise politica (ammesso che sia una expertise e che

esista) fa premio su tutto (con il corollario del cursus honorum, vicinanza ai leader, fedeltà e peggio

ancora), producendo uno iato fortissimo tra ciò che il Parlamento richiederebbe e richiede in ogni

momento legislativo e l’approccio che tende ad essere seguito. Anche l’essere parlamentare è vissuto

(non a torto) come condizione importante di legittimazione da far valere essenzialmente fuori del

Parlamento per aver voce nelle istanze di partito, nei media e nel territorio.

In nessuno degli intervenuti su “Italianieuropei” trovo citato Burns, a cui si devono, a mio avviso, le più

lucide analisi sui parlamenti moderni. Ed è un peccato che sia così, perché egli solleva temi pregnanti,

che sarebbe stato interessante vedere discussi. Il punto di partenza della sua analisi è il deficit

sistematico che oggi esiste tra la realtà della società moderna e la capacità di captarla da parte delle

istituzioni rappresentative dello Stato. Il che deriva dai limiti cognitivi dei parlamenti (cioè, conoscenze

specialistiche insufficienti e rappresentanza diretta di uno spettro ristrettissimo di interessi) nonché da

limiti di collocazione nel sistema istituzionale (operando dal centro del sistema, per quello parlamentare

“è un’impresa eroica monitorare anche una piccola parte dei processi chiave”).3 Alla base di questi limiti

vi è l’oggettiva complessità della società e le continue innovazioni di natura tecnica e sociale che essa

subisce. Sono limiti che il nostro condivide con altri (forse tutti) i sistemi rappresentativi. Prendiamo solo

lo squilibrio che esiste tra le capacità tecniche delle organizzazioni di interessi e quelle

incommensurabilmente minori che può mettere in campo il Parlamento, per capire che non è un caso

che l’iniziativa legislativa sia passata alle tecnostrutture ministeriali o a quelle che il Governo può

mobilitare.

4. | Fin qui le considerazioni di fatto. Vengo, così al punto di impostazione. La logica del sistema

bipolare è che uno schieramento vinca le elezioni su un programma. Quindi deve essere in grado di

esprimere un governo che attui quel programma in modo coerente e compatto; un governo che trovi

nella sua maggioranza parlamentare una partnership, con meccanismi idonei per cui questo si realizzi.

Quegli interventi di legge in cui il programma si sostanzia e che investono strutture, istituzioni e rapporti

sociali non diverranno un disegno ordinato senza ordine nei tempi di realizzazione, nella divisione del

lavoro e competenze, nella gerarchia netta di responsabilità e delle prerogative.

Ciò pone il problema di uscire dalla retorica circa la divisione dei poteri (alla Montesquieu) tra potere

esecutivo e potere legislativo e cominciare a ragionare sul continuum maggioranza-governo (a fronte

del quale vi è l’opposizione).4 È un ragionamento che prescinde dal tipo di investitura, parlamentare o

diretta, che possono avere il premier e l’esecutivo e dalle prerogative del premier in seno a

quest’ultimo; tipo di investitura che pone un problema sovrapposto, anche se non disgiunto.5

Anche se il Parlamento rimanesse l’unico titolare della legittimazione del governo (e quindi potesse

anche cambiarlo – una funzione altamente politica), si dovrebbe non aver equivoci sul fatto che, nel

momento in cui concede la fiducia, affida al governo una missione e una delega, spogliandosi della sua

“centralità”; da allora entra in una condizione subalterna (o meglio, non concorrente) rispetto al governo

nell’attuazione del programma, mantenendo comunque quello di controllo-ausilio nell’azione legislativa

di origine governativa, che gli deriva dal suo potere di indirizzo, ratifica, segnalazione. In definitiva: la

chiarezza dei ruoli, la semplificazione, la razionalità del processo decisionale, attorno ai quali va

riorganizzato il quadro parlamentare, deve partire dal riconoscimento inequivocabile che il potere

principale in campo legislativo è del governo, anche se esercitato in partnership con la maggioranza

parlamentare che lo esprime (e salvo una funzione di sussidiarietà del Parlamento nell’integrazione alla

legislazione di settore o nelle macro questioni sulle quali il governo intenda “rimettersi all’aula”).

L’evoluzione dei pesi nel potere legislativo a favore del governo – che è un’evoluzione naturale che il

sistema rappresentativo italiano subisce in parallelo con altri sistemi democratici – si è già verificata. Si

tratta di liberarla dalle patologie berlusconiane, ma di codificarla senza ambiguità istituzionali, che

danno luogo a rivalse, recriminazioni e tentativi di rimonta da parte del Parlamento.6 Qui parliamo del

rapporto tra Parlamento ed esecutivo nella fase di legiferazione, ma è ovvio che è già in atto una

cessione di potestà legislativa e regolativa in alto, verso l’Unione europea e in basso, verso le

authorities, le assemblee territoriali e altri attori istituzionali e semi-istituzionali (e perfino verso le

Agenzie governative).

Oggi dobbiamo pensare ad un Parlamento sempre più concentrato sulla definizione degli indirizzi e

sulle linee fondamentali di intervento che il governo si propone di seguire, ma che lasci a quest’ultimo la

libertà di riempire le caselle in cui quelle linee si sostanziano, e si riservi poi il controllo di come

l’esecutivo abbia tradotto le indicazioni parlamentari in atti definitivi. Un controllo non formale, ma

diretto anche a un compito di segnalazione, che derivi dalla verifica di come le leggi hanno funzionato o

sono passibili di funzionare nei contesti specifici di loro applicazione, alle correzioni che ciò comporta e

alla verifica sul campo della base di consenso, dando luogo, in tal modo ad ulteriori atti di indirizzo, più

che a effettive modifiche di legge. Una funzione, quindi, altamente politica, che il nostro Parlamento

svolge malvolentieri. Si tratta di attività che si collocano a monte e a valle rispetto a quella su cui si

concentra e si organizza oggi il Parlamento nei suoi lavori (cioè, l’esame minuzioso degli atti normativi

ai fini di emendamento e ratifica) e che chiamano in causa non i regolamenti parlamentari ma – come

affermato – una modifica della sua funzione.7 Si tratta, quindi, di un Parlamento sia con una diversa

configurazione della mansione e missione del lavoro dei parlamentari sia con una diversa distribuzione

dei tempi di lavoro (la maggior parte dei quali dovrebbe essere dedicata alle mozioni di indirizzo,

all’impostazione delle deleghe e alla prova sul campo delle leggi).8 Se ciò avvenisse davvero,

l’opposizione avrebbe modo di concentrarsi sulle linee alternative da presentare al paese, invece di

affidarsi, come è strutturale che avvenga nell’attuale configurazione, al potere di interdizione, all’attività

di rimessa (e, in linea teorica, al consociativismo) che le concedono i bizantinismi del meccanismo

parlamentare.

Finché il Parlamento ritiene di avere la “centralità” in ogni fase del processo legislativo che ancora gli

compete sarà sempre un elemento di disordine (e di freno alla stessa competitività del paese), perché

finisce per invischiarsi in una microlegislazione che inevitabilmente lo intasa, gli fa perdere il senso del

suo ruolo e rende sempre più complicato e disordinato il varo delle leggi. (Oltretutto, il ruolo è presunto

perché proprio le farraginosità di funzionamento producono spontaneamente lo spostamento della

centralità e la perdita di iniziativa legislativa). Nella scarsa trasparenza del processo di formazione della

normativa, nella dispersione delle materie trattate, sempre con le stesse procedure, nella

settorializzazione delle competenze di giudizio, il Parlamento finisce per essere strumento di

frammentazione dei principi ordinativi. Da un altro punto di vista, finisce per essere un Parlamento

permeabile suo malgrado alle lobby piuttosto che predisposto funzionalmente e autorevolmente al

rapporto strategico e sistematico con gli interessi organizzati. Senza un investimento istituzionale su un

Parlamento con missione diversa, ai gruppi d’interesse conviene puntare sull’attività di tipo lobbistico o

sullo scambio politico di tipo strumentale e corporativo. È l’offerta (lo spazio per questo tipo di attività)

che crea la domanda (perché diviene redditizia dal punto di vista dei risultati).

5. | Due argomenti seguono come note di appendice al corpo delle argomentazioni del punto 4. Forse

spostano l’ottica rispetto al punto di interesse della rubrica di “Italianieuropei”, ma non sono del tutto

estranei al tema. Il primo si collega proprio alla permeabilità al lobbismo, che citavo da ultimo. Non

metto in questione che, affrontando le ripartizioni di Montesquieu, ci fosse alla ribalta un problema

costituzionale e che come tale andasse affrontato. Ciononostante non avrebbe guastato che, facendo i

conti con l’evoluzione della società, ci fosse stata fra gli articoli una qualche riflessione dedicata alle

modalità con cui affrontare, nel disegno istituzionale, l’esposizione al lobbismo e il deficit cognitivo (nel

senso di Burns) del Parlamento (e del governo) e, al tempo stesso, guadagnare un’agibilità alla

decisione legislativa, migliorando il trade off tra capacità di scelte incisive e consenso sociale.

Purtroppo è un argomento in cui non si può procedere che per larghe sintesi.9

È ragionevole presunzione che un governo tanto più può far passare anche linee radicali che incidano

sugli interessi organizzati, quanto più (in un implicito scambio politico) sia in grado di associare gli

stessi nella fase di implementazione e verifica sul campo di quelle linee, e consentir loro di adattarsi ad

esse liberamente e in modo, in maggior misura possibile, autogovernato. Sono pesi del tutto invertiti

rispetto a quelli oggi in vigore, dove è più alta la presenza (e talvolta l’associazione) di questi interessi

in fase di elaborazione degli indirizzi di governo, mentre è essenzialmente verticistica la fase di

implementazione e assente il monitoraggio degli effetti della regolazione.

Il Parlamento può aiutare molto in questa direzione se riesce a includere tra le sue missioni la funzione

di inchiesta e verifica dell’impatto che ha l’applicazione concreta delle leggi. Il che rinvia alla necessità

che nel suo processo cognitivo, decisionale e di segnalazione al governo sia coadiuvato (e, in un certo

senso protetto) da istituzioni, pubbliche e semipubbliche, che raccolgano le testimonianze settoriali, ne

siano espressione e le convoglino verso l’alto, gestendo al tempo stesso l’intermediazione tra gli

organismi decisionali e il mondo degli interessi economico-sociali. Ciò deve avvenire in un processo

che lasci il Parlamento libero (e, come detto, schermato) da pressioni dirette e in forme tali che

consentano ad esso di acquisire, nel rapporto con tali istituzioni, maggiore consapevolezza della vasta

gamma di sviluppi della società contemporanea e della notevole frammentazione che in essa esiste.10

Non solo la complessità del sistema, ma anche l’espansione della tecnicità dei problemi e il loro

riverbero sul processo legislativo spingono a rafforzare con conoscenze sul campo (anche testimoniali)

i processi decisionali.11

6. | La seconda nota di appendice si riferisce alla partnership che il Governo deve trovare nel

Parlamento, che è tra gli argomenti del punto 4. Ne è esempio una innovazione istituzionale,

pochissimo valorizzata e compresa dalla politica e dagli studiosi del campo, ma che avrebbe potuto

essere acquisita come un promettente cammino di sperimentazione.

Si tratta dell’esperienza delle Commissioni bicamerali per le deleghe sul fisco, la pubblica

amministrazione e la riforma del bilancio dello Stato della XIII Legislatura – che cito da testimone – che

lasciava trasparire nuovi scenari nel rapporto legislativo-esecutivo come tradizionalmente intesi,

prefigurando un modo innovativo di affrontare la transizione dalla centralità nell’esercizio della potestà e

iniziativa legislativa alla centralità di indirizzo e controllo che più propriamente attiene al Parlamento (e

che comunque si sostanzia nell’ultima voce in capitolo sugli atti legislativi).

Tali commissioni, partite casualmente senza un compito ben stabilito se non quello di vigilare sul

rispetto delle deleghe, si sono strada facendo trasformate in veri e propri partner del Governo

nell’elaborazione delle norme delegate e nella loro messa a punto definitiva, passando anche per una

simulazione della operatività di quelle riforme attraverso la verifica fatta con le categorie produttive e

professionali e fornendo notevole input di riflessione al governo anche per futuri indirizzi. Sono scaturiti,

dall’esame di merito, elementi di correzione sostanziale, di riscrittura di parti, di integrazione e di

valutazione di opzioni alternative, non in contrapposizione al testo governativo ma in dialogo costante,

anche se dialettico, col governo.

È emerso un modello interessante: il governo si presenta al Parlamento con uno schema organico di

revisione di parti della legislazione; il Parlamento ne discute (ma a questo scopo deve darsi tempi

adeguati e, altrettanto, il governo deve far precedere quello schema organico da un Libro Bianco),12 e,

dopo l’approvazione, il lavoro congiunto di rifinitura si produce in Commissioni che sono sintesi del

Parlamento e che lavorano con il governo per tradurre quello schema in leggi, senza più interessare

l’Aula e raccogliendo e valutando l’input cognitivo portato dall’esterno.13

Va aggiunto che la riserva per il Governo ad intervenire con un semplice decreto in modo correttivo,

entro un periodo stabilito dall’entrata in vigore della legge, ha reso la verifica, l’indagine, l’ascolto delle

testimonianze e la segnalazione un’attività continua, oltre ad aver contribuito a sdrammatizzare la

definitività delle norme che entravano in vigore e a imporre la fase di revisione e manutenzione delle

normative come attività organica.14

L’innovazione, in quanto non compresa, mancò di una proceduralizzazione e una istituzionalizzazione,

nonostante che nel suo svilupparsi si producesse una parte notevole della riforma dello Stato (fisco,

pubblica amministrazione, bilancio).15 L’esperienza non è mai più stata ripetuta nella stessa forma nelle

legislature successive.

1 La XIII, del governo dell’Ulivo, ma è irrilevante dal punto di vista delle considerazioni che seguono.

2 È emblematica la storia vissuta della volta in cui arrivai in Aula in ritardo e, sommerso dalle carte che

dovevo esaminare per la Commissione che presiedevo, cominciai a votare su articoli di legge ed

emendamenti seguendo le istruzioni che venivano dal relatore a dal governo: “si”, se pollice era in alto,

“no” con pollice verso. Passata una buona mezz’ora chiesi ai vicini, compagni di votazione: «ma che

stiamo votando?». «Penso una ratifica di un trattato internazionale» rispose prontamente uno dei vicini;

«Macché – gli diede sulla voce un’altro – dovrebbe essere un provvedimento sull’agricoltura». «Che

state dicendo?», intervenne un terzo «È un provvedimento sulla marina mercantile”. A questo punto,

percorsi tutti da stupefatta ilarità, era inevitabile prendere informazioni attendibili. Niente di vicino a ciò

che era stato menzionato.

3 Si veda T. R. Burns, Evoluzione di parlamenti e società in Europa: sfide e prospettive, Giornate in

memoria di Aldo Moro, Camera dei deputati, 8-9 maggio 1998 (pubblicato in inglese anche in

“European Journal of Social Theory”, 2/1999). Sul tema si veda anche S. S Andersen, T. R. Burns,

Societal Decision-making: Democratic Challenges to State Technocracy, Aldershot, Dartmouth 1992; P.

Kenis, V. Schneider, Policy networks and policy analysis: scrutinizing a new analytical toolbox, in B.

Martin, R. Mayntz (a cura di), Policy Networks: Empirical Evidence and Theoretical Considerations,

Campus Verlag, Francoforte sul Meno 1991; J. Kooiman (a cura di), Modern Governance: New

Government-Society Interactions, Sage, Londra 1993.

4 Quest’ultima garantita da uno statuto apposito, che punti alla correttezza delle procedure e del

rispetto dei patti istituzionali (impliciti e espliciti) da parte di quel continuum e alla visibilità delle

posizioni espresse in alternativa, più che al potere di interdizione.

5 È un tema in sé che non affronto e che andrebbe discusso congiuntamente ai pesi e contrappesi

della democrazia all’interno di ciascuno dei due modelli di legittimazione.

6 Luciano Violante, in un bilancio valutativo, scritto al termine della sua esperienza come presidente

dell’Assemblea nella XIII legislatura riconosce che questa è una componente cruciale di un nuovo

equilibrio istituzionale. (si veda L. Violante, Il futuro dei parlamenti, in Violante (a cura di), Storia d’Italia,

Annali 17, Einaudi, Torino 2001). Anche il suo intervento su “Italianieuropei” ribadisce il punto. Leggo

ciò come un onesto ripensamento rispetto al ruolo che egli svolse e che non sempre denotò questi

convincimenti. Una penetrante analisi dell’evoluzione nelle funzioni dei parlamenti è contenuta in A.

Barbera, I parlamenti, un’analisi comparativa, Laterza, Roma-Bari 1999.

7 Vi sono, tuttavia, anche riforme dei regolamenti parlamentari da considerare, ma non entro nel merito,

perché è tema in sé da svolgere. Certamente, un Parlamento che si organizzi attorno al compito di

mettere a punto l’impostazione dei provvedimenti fondamentali e l’indagine sul loro funzionamento non

è un Parlamento che mantenga i rituali collettivi delle discussioni generali di puro riempimento, che

preveda sempre il plenum per il voto in Aula, senza ammettere deleghe di voto, che discuta l’articolato

in Aula di tutte le leggi, preveda un numero legale elevato, mantenga le Commissioni di merito come

permanenti, preveda l’emendabilità (se non come indirizzo) a tutto campo delle leggi di bilancio, che

autogestisca l’agenda dei lavori parlamentari.

8 Si può immaginare che il Parlamento si riappropri di una funzione direttamente politica (funzione che

il Parlamento sa svolgere, al contrario della funzione normativa), in momenti dedicati di controllo, che

possono essere collocati nella previsione di una sessione annuale (o con altra cadenza) obbligatoria di

verifica sulla politica estera o in una sessione annuale (o con altra cadenza) obbligatoria di verifica sulle

realizzazioni in materia economico-sociale.

9 Ho avuto modo di parlarne estesamente nel mio libro Per una sinistra pensante, Marsilio, Venezia

2009 (cap. 4), da cui traggo alcune argomentazioni, ma prima ancora nel saggio preparato per

l’incontro di studio del Gruppo DS-L’Ulivo della Camera dei deputati su “La forma di Governo” del 21

novembre 2002 (disponibile su http://www.astrid-online.it/il-sistema1/Studi-e-ri/Archivio-2/BIASCODinamiche-

della-transizione.PDF ), che ha fatto da antesignano a una serie di interventi che ho

pubblicato successivamente sull’argomento.

10 Nei testi citati in nota 9 mi son sempre riferito a un CNEL radicalmente riformato per questa finalità.

Lo scopo ultimo è allontanare dal Parlamento – e per disegno istituzionale – la pressione confusa dei

portatori di interesse e l’esigenza per esso di barcamenarsi fra chi strilla e chi no, chi riesce, invece,

silenziosamente a trovare il deputato o senatore giusto che infila l’emendamento giusto, chi conosce il

ministro e chi non lo conosce, chi ha possibilità di avere rapporti del tutto informali, ma efficaci, con la

filiera istituzionale e chi non l’ha. E trovare un approdo costruendo un luogo formale (dotato di

prerogative istituzionali) in cui avvenga la raccolta e l’elaborazione delle istanze dei soggetti della

produzione e in cui trovino preliminarmente, se non proprio una risoluzione, quanto meno una

definizione i conflitti di interesse fra settori diversi della società, in modo autogestito e sottoposto a

scrutinio reciproco.

11 «Le leggi odierne non soltanto richiedono una maggiore varietà di input tecnici e informativi (indagini

conoscitive; analisi); ma, paradossalmente debbono essere considerate sempre più come testo di

massima, i cui effetti e la cui tenuta sono incerti in un mondo complesso e dinamico come quello

attuale. In generale, considerate queste condizioni, le leggi appaiono come strumenti normativi

rudimentali. Ad esempio, (a) le innovazioni tecniche possono rendere una legge obsoleta in brevissimo

tempo. (b) Le leggi, le normative, i programmi sono sempre sperimentali quando vengono inseriti in un

contesto complesso, e debbono sempre venire adattati e modificati in considerazione di situazioni

complesse e dinamiche. (c) Le situazioni a cui le leggi si applicano sono molto diverse tra loro, in parte

a causa di un aumento della complessità, e in parte perché gli attori hanno maggiori conoscenze, sono

più consapevoli e sensibili circa le diversità e le differenze (mentre prima veniva prestata maggiore

attenzione alla standardizzazione e alla semplificazione di ogni cosa. In definitiva, le leggi formali non

sono l’unico modo per strutturare e disciplinare le vita sociale». Si veda Burns, Evoluzione, cit.

12 Mentre, nel caso specifico, il Parlamento aveva discusso in modo insoddisfacente, in pochissimo

tempo (e, anche in un’aula semivuota per l’ostruzionismo dell’opposizione).

13 Una valutazione dell’esperienza di queste Commissioni bicamerali può trovarsi in V. Cerulli Irelli,

Parlamento e Governo nella riforma amministrativa (mimeo) e I. Traversa, La Commissione bicamerale

per la riforma fiscale, in “Rassegna Parlamentare”, 4/2001. Si veda anche S. Biasco, Senza la riforma

del Parlamento essenziale il ruolo delle bicamerali, in “Il Sole 24 Ore”, 7 marzo 1999 e S. Biasco,

Intervento, in Seminario sulle recenti iniziative della Camera per la competitività italiana, Camera dei

deputati, 7 marzo 2000. Cerulli Irelli (a suo tempo presidente della Commissione amministrativa), parla

dell’instaurazione di una vera e propria convenzione costituzionale.

14 «La messa in opera (implementation) di una legge è essa stessa una forma di policy making. (...)

Nel corso dell’implementazione, una legge o una politica è completata o elaborata nei dettagli». Con la

loro mobilitazione, i cittadini e le organizzazioni (e altri gruppi importanti) finiscono per condividere

l’implementazione delle politiche «e sono ovviamente più impegnati dei parlamentari nella realtà

quotidiana dell’implementazione». Si veda Burns, The future of parliamentary democracy: transition and

challenge in European governance, disponibile su europa.eu.int/comm/governance/docs/doc3_en.pdf.

Perché non sarebbe possibile affidare gli stessi compiti alle Commissioni ordinarie come sono oggi? Il

mio giudizio, maturato sul campo, ha molte motivazioni. Il processo di emendamento delle leggi è

disordinato e svolto di rimessa, come pura intrusione, nel testo governativo ed è di facile accesso alle

lobby. La composizione è quella rigida, spesso stabilita all’inizio della legislatura, e non quella mirata

per l’occasione; le competenze presenti sono o troppo specializzate o troppo decentrate rispetto agli

interventi richiesti, che sono il più delle volte di carattere intersettoriale; le audizioni e memorie non

danno in sé una capacità di interlocuzione con le categorie, la quale ha bisogno di momenti più

informali di lavoro comune, e di una missione specificamente dedicata; il rapporto con il governo è più

frammentario e, in un certo senso, più formale. In queste condizioni, anche il potere di indirizzo è meno

efficace. Sorvolo poi sul fatto specifico della patologia che si riproduce nella formazione delle

Commissioni, dove quella “Lavoro” è formata in prevalenza da sindacalisti, quella “Trasporti” dagli eletti

a Livorno, Trieste, La Spezia, Brindisi, Ancona (e altre città portuali), quella “Cultura” da direttori e

direttrici didattiche, professori di scuola media e universitari , quella “Giustizia” da avvocati, ecc. ecc..

Commissioni, quindi, in partenza sensibili a istanze di tipo particolaristico. Vi é, poi, nel procedimento

referente un potenziale di deresponsabilizzazione, perché il provvedimento ha il passaggio decisivo in

Aula. La prassi parlamentare non rende, poi, le Commissioni permanenti attuali idonee a curare

provvedimenti che devono essere varati in blocco in una articolazione organica di leggi (le leggi di

riforma strutturale).

15 In condizioni eroiche. Basti pensare che queste Commissioni hanno lavorato negli intervalli di

pranzo, o la sera dalle 21 fino a mezzanotte, senza possibilità di programmazione certa, in quanto

soggette a mutamenti repentini di programma dell’Aula, senza che fosse loro concessa la possibilità di

concentrarsi esclusivamente (quando necessario) sul loro lavoro.

 

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