1. - La doverosa
attenzione verso l’ormai lunga storia del nostro Stato
unitario, può
agevolare la
spiegazione del motivo per cui nella nostra Costituzione
sia stata
prevista la Corte
costituzionale, dotandola di tanti importanti poteri.
Nel marzo 1943, in
piena clandestinità, viene diffus†o un breve documento
politico
nel quale si comincia
a configurare quelle che potranno essere le
caratteristiche
fondamentali delle
future istituzioni democratiche (mi riferisco alle
“Linee di
ricostruzione”,
redatto da Alcide De Gasperi in collaborazione con
Giuseppe Spataro
e Giovanni Gronchi):
l’inizio è particolarmente incisivo, poiché di afferma
che “la
ventennale crisi
politica ha investito le basi costituzionali dello
Stato, rendendo
necessaria la
ricostruzione con nuove leggi fondamentali. Il popolo
italiano sarà
chiamato a deliberarle
ed a sanzionarle”. Subito dopo, si espongono in estrema
sintesi le
caratteristiche della futura democrazia e, in
particolare, si scrive: “Il nuovo
Stato democratico sarà
ricostruito in regime rappresentativo sulla base del
suffragio
universale,
espressione dei diritti politici del cittadino. Nella
netta distinzione dei
poteri, il primato
spetterà al Parlamento che solo potrà disporre della
guerra e della
pace. Saranno create
garanzie per la stabilità del governo, per la forza
dell’esecutivo
e per l’effettiva
indipendenza del potere giudiziario. Una Corte suprema
di garanzia
tutelerà lo spirito e
la lettera della costituzione, difendendola dagli abusi
del potere e
da quelli di partiti
che avessero in programma il ricorso alla forza”.
Non può non colpire
che in un contesto tanto tragico e difficile, ci si
riferisca anche
ad una corte
costituzionale, malgrado che in Italia non si fosse mai
avuta esperienza
di organi e procedure
riferibili alla giustizia costituzionale, né -tanto
meno- qualcosa
del genere fosse stato
previsto nello Statuto albertino, ancora formalmente
vigente
* Lectio
magistralis tenuta nell’Università degli studi di
Pavia il 29 marzo 2011, in occasione del 650° della
fondazione
dello Studium
generale di Pavia e del 150° dell’Unità d’Italia.
2
all’inizio degli anni
quaranta, seppur tanto modificato da leggi e prassi del
periodo
liberale e poi
radicalmente stravolto dal regime fascista.
2. - Come ben noto, le
istituzioni del Regno d’Italia, proclamato nel 1861,
sono
derivate ed hanno
tratto largamente la loro legittimazione e le loro
caratteristiche
fondamentali
dall’ordinamento del Regno di Sardegna, che era uno
Stato liberale
moderato, dotato di
una forma di governo tipica della “monarchia limitata” e
disciplinato nelle sue
linee fondamentali dallo Statuto albertino del 1848. Di
conseguenza, questo
Statuto è divenuto nel 1861 la carta costituzionale
dell’Italia
unita, a cui è
succeduta solo la Costituzione repubblicana, entrata in
vigore
esattamente un secolo
dopo.
Lo Statuto albertino
era, al pari di varie altre Carte europee del primo
liberalismo,
una Costituzione
sicuramente molto innovativa rispetto ai precedenti
regimi delle
monarchie assolute, ma
al tempo stesso non poco moderata e relativamente poco
garantista: sul primo
versante, si pensi, ad esempio, cosa significava di
rivoluzionario
rispetto alla fase
precedente il principio della tendenziale eguaglianza
fra tutti i
cittadini, la loro
eguale sottoposizione alla legge, l’affermazione delle
libertà
politiche e civili
(malgrado la loro succinta elencazione), il
riconoscimento della fine
della monarchia
assoluta ed, anzi, la previsione della necessaria
presenza, al vertice
dello Stato, di un
organo rappresentativo dei cittadini elettori, come la
Camera dei
deputati.
Sull’altro versante,
però, non si poteva certo sottovalutare che la Monarchia
appariva
ancora fortemente
dominante nel sistema dei poteri, a cominciare dal
Governo, e
tale da condizionare
profondamente il funzionamento dello stesso Parlamento,
che le
libertà affermate
erano in realtà garantite solo in modo alquanto generico
e che
comunque la loro
configurazione era affidata alla discrezionalità del
Parlamento e del
Governo, che la stessa
partecipazione democratica alla vita politica di
conseguenza
poteva essere ridotta
a limitatissime fasce sociali (si pensi che rispetto
all’unica
camera elettiva del
Parlamento gli aventi diritto al voto sono stati fino al
1880 pari a
circa il 2% della
popolazione, percentuale che sale poi a circa il 7% fino
al 1912).
3
Ma poi, al di sopra di
tutto ciò stavano tutte le notissime drastiche disparità
culturali,
sociali, economiche
dei cittadini, la grandissima maggioranza dei quali era
sostanzialmente del
tutto esclusa dai circuiti decisionali; queste
diseguaglianze
costituiranno –come
ben noto- le premesse per la nascita della questione
prima
sociale e poi
politica, con il conseguente faticoso sorgere dei
movimenti sindacali e
dei cosiddetti partiti
popolari.
Tutto ciò era reso
possibile sul piano istituzionale anche da una
caratteristica
strutturale dello
Statuto albertino, che era –come la maggior parte delle
altre
Costituzioni del
periodo- una Costituzione flessibile e cioè una
Costituzione il
primato delle cui
disposizioni era fondamentalmente affidato alla fedeltà
ad esso delle
istituzioni e delle
forze sociali dominanti, nonché alla reazione della
pubblica
opinione più
consapevole, mentre nulla si prevedeva relativamente a
poteri di
controllo e di veto di
appositi organi rispetto alle eventuali violazione dello
Statuto.
Si badi bene che la
flessibilità delle costituzioni di questa fase storica
non era il frutto
di una sorta di
sottovalutazione o di dimenticanza, quanto –in un
contesto politico e
sociale ancora molto
arretrato, nel quale le nuove élites borghesi erano in
una fase di
rapida affermazione,
mentre gli antichi poteri avevano appena iniziato a
ridurre i
propri precedenti
privilegi- la strumentazione più adatta per chi sperava
di poter in
tal modo
progressivamente conseguire risultati più soddisfacenti
di quelli ottenuti
con le prime Carte
liberali.
Da questo punto di
vista è significativo, ad esempio, notare che nei primi
decenni di
applicazione dello
Statuto albertino, prima nel Regno sardo e poi nel Regno
d’ Italia,
in realtà si consegue,
senza bisogno di alcuna modifica costituzionale, un
fortissimo
spostamento di potere
politico a favore delle classi politiche egemoni nel
Parlamento
rispetto ai poteri
formalmente attribuiti alla Monarchia (basti pensare al
Governo,
che da “Governo del
Re” diviene ormai espressivo della maggioranza politica
operante alla Camera,
o allo spostamento di tutta una serie di fondamentali
poteri
dalla Monarchia al
Governo ed in parte al Parlamento).
4
Al tempo stesso, però,
la misura dei diritti e, più in generale, la effettività
del
principio di
eguaglianza dipendono senza limite alcuno dalla volontà
dei
limitatissimi ceti
sociali rappresentati nel Parlamento e nel Governo,
senza che
neppure si pensi
seriamente a politiche sociali o di sviluppo culturale
delle enormi
masse escluse dal
circuito decisionale (solo per riferirsi alla pubblica
istruzione, si
ricordi che in un
contesto caratterizzato nel 1871 da un analfabetismo
pari, a livello
nazionale, al 69 %
della popolazione, la legislazione sull’obbligo
scolastico
comincia ad
intervenire proprio negli anni dell’unificazione
nazionale, ma riguarda
in origine le due sole
classi iniziali dell’istruzione elementare, con una
larghissima
evasione
dall’obbligo).
Ma poi questi anni
sono quelli decisivi nella costruzione del modello di
Stato e di
amministrazione
pubblica, dal momento che occorre evidentemente
edificare un
nuovo ordinamento dopo
la caduta dei tanti Stati pre-unitari : ed anche qui –
in un
contesto che
sicuramente era di estrema difficoltà- prevale quasi
naturalmente, in
classi politiche molto
elitarie ed anche fortemente preoccupate di non lasciare
spazi a
particolarismi
territoriali, la linea di adottare un modello
organizzativo molto
fortemente accentrato
e rigidamente uniforme: solo con un modello di questo
tipo ci
si poteva illudere di
procedere rapidamente ad una unificazione sostanziale
del paese
dopo la fulminea fase
delle annessioni degli Stati pre-unitari, superando in
radice
tutte le difficoltà
poste dalle tante enormi diversità culturali,
linguistiche, economiche
e sociali ereditate.
Inutile dire che sono
la legge del Parlamento od il regolamento del Governo
che
definiscono in
assoluta discrezionalità l’assetto ed i poteri dei
diversi organi pubblici,
sia dipendenti dal
governo che (raramente) espressivi delle classi
dirigenti delle
diverse comunità
locali. Ma anche qui forse qualche esempio, per quanto
limitato,
dice più di tanti
discorsi: in tema di autonomie locali, non solo il
modello federale è
fin dall’inizio
escluso, ma si respinge pure il modello di Regioni
dotate di limitati
poteri amministrativi
e perfino la proposta che Comuni e Province siano dotati
di forti
autonomie, in quanto
governati dai rappresentanti locali (comunque sempre
eletti da
5
ristretti ceti
sociali: gli elettori nelle amministrazioni locali
saranno il 3,9% nel 1865,
per salire a fine
secolo al 9% ). Come ben noto, le Province saranno
guidate dai
Prefetti fino al 1888
ed i Comuni avranno Sindaci elettivi solo alla fine del
secolo
XIX, mentre comunque
le loro sfere di autonomia resteranno estremamente
ridotte e
comunque sempre
subordinate ai fortissimi poteri governativi di
vigilanza e controllo.
In questo quadro, la
stessa autonomia delle magistrature era molto ridotta ed
i loro
poteri assai limitati
e comunque in balia della mera volontà del legislatore.
Qui si coglie bene il
nodo strutturale che caratterizza tutta l’esperienza
democratica
che pur faticosamente
si sviluppa sotto lo Statuto albertino fino all’avvento
del
fascismo: esiste uno
Stato di diritto con caratteristiche liberali, ma
l’effettività di
queste caratteristiche
dipende dalla volontà e dalla coerenza delle classi
politiche di
volta in volta
egemoni, certo ormai alla fine del secolo diciannovesimo
–dopo mezzo
secolo di vita
unitaria- più vincolate che nel passato da una società
divenuta più
esigente e
consapevole, a causa delle significative trasformazioni
politiche, culturali
ed economiche
intervenute. Ma poi, proprio la progressiva
trasformazione della base
sociale ormai
attivamente operante nello Stato produce inevitabilmente
una
pericolosa
contrapposizione nella vita istituzionale di visioni
sociali e di concezioni
ideali, con il
conseguente rischio di scontri irrimediabili e
devastanti. E ciò mentre la
larghissima
modificabilità dello stesso assetto degli organi
fondamentali dello Stato
legittimava quasi ogni
possibilità di evoluzione, da antistorici tentativi di
ritorno alla
lettera dello Statuto
all’evoluzione del sistema verso uno dei tanti modelli
che erano
ormai sperimentati da
alcune più moderne liberaldemocrazie europee, ormai
integralmente
democratizzate.
3. - Su tutto ciò in
Italia piomba la prima guerra mondiale, che se da una
parte
contribuisce
definitivamente a legittimare a livello popolare l’unità
nazionale,
dall’altra mette bene
in evidenza una crescente crisi istituzionale (un
improvviso
recupero di poteri da
parte della Monarchia, la riduzione e lo stravolgimento
dei
poteri parlamentari,
il peso anomalo dei vertici militari). Ma è il
dopoguerra che
denota plasticamente
l’insufficienza evidente della vecchia costituzione a
reggere un
6
paese tanto
profondamente mutato: da una parte, l’ammissione al voto
dell’intero
elettorato maschile
produce una vera e propria rivoluzione parlamentare, con
la
sostanziale
marginalizzazione del sistema politico in precedenza
egemone; dall’altro
le proposte di forte
mutamento istituzionale, si confrontano tra loro nel
vuoto di un
quadro condiviso di
riferimento: si pensi alle proposte in tema di riforma
delle
burocrazie e degli
strumenti di intervento nell’economia, di regionalismo,
di ruolo dei
sindacati, di
completamento e di miglioramento del sistema delle
giurisdizioni.
Anche l’avvento e
l’affermazione del fascismo confermano la sostanziale
impotenza,
se non inesistenza,
della Costituzione del 1848, che, per quanto deformata e
tante
volte disapplicata,
pur tuttavia ancora affermava principi e valori di
matrice liberale,
invece ora del tutto
negati e concretamente contraddetti dal nuovo regime. Il
fatto
stesso che il lungo
regime fascista, pur avendo radicalmente modificato
legislazioni
ed assetto
istituzionale, non abbia mai posto ufficialmente il
problema di adottare una
nuova Costituzione
indica -al di là dei suoi tatticismi nei riguardi della
Monarchiache
la totale flessibilità
dello Statuto permetteva in realtà ogni tipo di
modificazione,
anche la più estranea
alla lettera ed allo spirito del testo costituzionale.
4. - Se ciò avviene
nel nostro Paese, in quegli stessi anni in tanti altri
paesi europei le
grandi trasformazioni
sociali e politiche collegate alla partecipazione ai
circuiti
decisionali
dell’intera popolazione, la necessitata presenza di
grandi apparati
amministrativi, gli
stessi abusi posti in essere da maggioranze contingenti
o da
tendenze
“bonapartiste”, spingono a sperimentare trasformazioni
più o meno
profonde di tutta una
serie di Costituzioni, pur riconducibili alla tradizione
liberale
(ormai anche sfidata
dalla rivoluzione sovietica e dalle forti tendenze
illiberali, se non
totalitarie, di
destra), tanto da parlarsi di vere e proprie “nuove
tendenze del
costituzionalismo
europeo”. Anzitutto cambiano in profondo gli stessi
testi
costituzionali, ormai
assai più analitici e razionalizzanti dei testi
precedenti, con
particolare
riferimento ai reciproci rapporti fra gli organi supremi
delle diverse forme
di governo, alla
riconsiderazione delle tutele dei diritti, ora
decisamente rafforzati ed
7
anche estesi
all’ambito sociale, nonché alla previsione di forti
articolazioni territoriali
sul modello federale o
su quello regionale.
Il nuovo
costituzionalismo democratico europeo si riferisce ormai
ad uno Stato
rappresentativo
dell’intera realtà politica e sociale, che cerca di
garantire
effettivamente i
valori della tradizione liberale arricchendoli però con
il
riconoscimento di
diritti sociali, che configura che prevede e disciplina
forti forme di
autonomie
territoriali, che legittima e valorizza nuovi soggetti
collettivi. Quando poi
si prende
consapevolezza dei nuovi pericoli per le libertà
individuali prodotti da tante
grandi trasformazioni
sociali e tecniche, nonché soprattutto dei drammi
prodotti dai
totalitarismi, la
tutela effettiva dei diritti umani diviene oggetto
prioritario da
garantire nel concreto
funzionamento del nuovo Stato.
Ma tutto ciò
inevitabilmente impone che a queste nuove disposizioni
costituzionali
sia garantito, in modo
più o meno coerente ed organico, un vero e proprio
primato
giuridico rispetto
alle pur legittime scelte dei soggetti momentaneamente
dominanti
nelle istituzioni
rappresentative. Come l’antico principio di legalità ha
caratterizzato
lo Stato di diritto e
posto le premesse per il principio di eguaglianza, ora
il primato
delle disposizioni
costituzionali sulla volontà di ogni organo pubblico
(anche il più
rappresentativo),
garantendo concretamente il rispetto delle “regole del
gioco” da
parte di tutti,
permette anche ai soggetti individuali e collettivi
estranei alle forze
momentaneamente
egemoni di sentirsi cittadini del medesimo Stato, di
essere
legittimi abitanti
della “casa comune”.
Se vogliamo avere una
manifesta conferma di tutto ciò, possiamo riferirci ad
un
famoso dibattito
svoltosi fra importanti giuristi europei nel 1928,
citando brevemente
alcuni passaggi della
relazione introduttiva di Hans Kelsen: la giurisdizione
costituzionale ha
tanto più importanza “per una repubblica democratica,
della quale
le istituzioni di
controllo sono una condizione di esistenza”….”Più essa
si
democratizza, più deve
esservi rafforzato il controllo. La giurisdizione
costituzionale
… è un mezzo di
protezione efficace della minoranza contro gli abusi
della
maggioranza. Il
dominio di quest’ultima è sopportabile solo se viene
esercitato in
8
modo regolare” ………
“Qualunque minoranza –di classe, nazionale o religiosa-
i
cui interessi siano in
un modo qualunque protetti dalla costituzione ha quindi
un
interesse eminente
alla costituzionalità delle leggi”. Pertanto, “se
l’essenza della
democrazia risiede non
già nell’onnipotenza della maggioranza ma nel costante
compromesso tra i
gruppi che la maggioranza e la minoranza rappresentano
in
Parlamento e quindi
nella pace sociale, la giustizia costituzionale appare
strumento
idoneo a realizzare
questa idea”.
Quindi, quando noi
troviamo gli stessi concetti e perfino alcune
espressioni identiche
in una importante
relazione del 1945 di Egidio Tosato sulla rigidità
costituzionale da
conseguire nella
prossima Assemblea costituente, possiamo tranquillamente
prendere
atto che i giuristi
italiani –lungi da rinchiudersi in visioni provinciali-
si sono
consapevolmente
collegati al grande dibattito sul moderno
costituzionalismo liberaldemocratico:
“Il governo
democratico infatti è bensì il governo della
maggioranza,
non però di una
maggioranza onnipotente incontrastata ed
incontrastabile, ma di una
maggioranza che ha di
contro a sé, ineliminabile, una minoranza la quale ha
pure i
suoi diritti. E il
governo della maggioranza è sopportabile solo se i
diritti della
minoranza vengono
rispettati. Tali diritti non si esauriscono in quello
negativo di
critica e di
opposizione, ma comprendono anche positivamente tutti
gli interessi
costituzionalmente e
rigidamente garantiti. Che la costituzione sia rigida,
non possa
cioè essere modificata
se non attraverso un procedimento speciale, dato
generalmente
dalla esigenza di un
numero di voti superiore a quello necessario per la
legislazione
ordinaria, significa
appunto che la maggioranza non può far prevalere ed
imporre la
sua volontà in ogni
caso, ma che certe questioni fondamentali non possono
che essere
risolte se non con
l’accordo almeno di una parte della minoranza. Per
questo il regime
democratico viene
esattamente definito come regime di compromesso e quindi
di
pace sociale”.
5. Con l’opera
difficile dell’Assemblea costituente il nostro paese si
è inserito a pieno
titolo in questo
grande filone, elaborando una Costituzione giustamente
ammirata,
tanto da costituire
negli anni successivi un modello per molti paesi europei
che
9
(prima negli anni
settanta e poi negli anni novanta del secolo scorso) si
sono infine
potuti dotare di
costituzioni democratiche.
Ho detto opera
difficile, perché non era certo scontato che si potesse
giungere ad una
Costituzione
largamente condivisa e davvero significativa: in un
paese che era appena
uscito da un ventennio
di regime autoritario, militarmente sconfitto dopo una
guerra
dalla parte sbagliata
e largamente distrutto, per la prima volta si riuniva
un’assemblea
rappresentativa
dell’intero paese in un contesto di grandissime tensioni
e con forze
politiche largamente
nuove e comunque caratterizzate da forti
contrapposizioni ed
ideologismi. Ed è
evidente che darsi una Costituzione, specie se
fortemente
impegnativa e rigida,
è opera complessa e comunque assai difficile.
Non è certo questa la
sede per ripercorrere gli studi analitici fatti sul
periodo
costituente fino
all’approvazione del testo finale nel dicembre 1947 ,
con la
straordinaria
maggioranza a suo favore di circa il 90% dei
costituenti, malgrado le
violente tensioni
politiche allora esistenti sia a livello nazionale che
internazionale.
In questa sede basta
rammentarne gli esiti fondamentali, consistenti nella
adozione
di una Costituzione
che sul piano sostanziale possiamo definire, utilizzando
una
suggestiva espressione
di Aldo Moro del 1948, come “rigidamente democratica ed
arditamente sociale” e
cioè come una Costituzione che unisce a scelte esplicite
di
eguaglianza
sostanziale e quindi di trasformazione sociale, affidate
ad un ricco ed
efficace sistema di
istituzioni rappresentative a livello nazionale e
regionale, la
tutela più attenta
della autonomia e libertà dei cittadini e delle
formazioni sociali,
garantiti non solo
dalle diverse forme di partecipazione democratica al
potere , ma
anche da precisi
istituti a tutela del rispetto sia della legalità
ordinaria che della
perdurante vigenza dei
principi e valori costituzionali.
Scelte del genere
hanno prodotto –analogamente a quanto è avvenuto nella
totalità
delle moderne
Costituzioni democratiche- una carta costituzionale
analitica, rigida e
garantita, che mentre
assicura alle istituzioni rappresentative operanti ai
vari livelli
amplissimi poteri per
la disciplina e la gestione degli interessi collettivi,
tutela con
grande attenzione la
legalità ordinaria e costituzionale. E’, infatti,
antichissima
10
preoccupazione quella
di riuscire ad applicare senza aree privilegiate le
norme e, non
a caso, lo Stato di
diritto è sorto anche in polemica con Principi che si
ritenessero
“legibus soluti”.
Anche da ciò quindi tutte le disposizioni costituzionali
finalizzate a
garantire la piena
indipendenza della magistratura ordinaria e la
limitatezza alle
normative di
privilegio.
Ma innumerevoli
esperienze storiche hanno reso evidente l’ineludibile
necessità che
la tutela di
fondamentali diritti ed interessi individuali e
collettivi sia garantita anche
tramite la rigidità
costituzionale. Solo per riferirsi all’ opinione di un
altro autorevole
politico, pur
anch’esso cresciuto –come De Gasperi- in un assetto di
costituzionalismo
flessibile, mi sembra molto chiaro nella sua sintesi
quanto ha
scritto Luigi Sturzo
nel 1946: “il popolo pone una specie di limite a sé
stesso di non
violare il patto che
costituì in essere la democrazia. Questo patto è detto
costituzione
o statuto, e a guardia
di questo patto stanno organi speciali che hanno il
diritto di
annullare le leggi che
possono violarlo. E’ vero che lo stesso popolo che fissò
la
costituzione può farvi
cambiamenti o aggiunte, ma se gli emendamenti proposti
feriscono lo spirito
della costituzione e ledono il principio democratico,
allora il
popolo deve
respingerli …” .
Le scelte sul punto
della nostra Costituente sono state in questo senso (lo
riconobbe
come un dato pacifico
Meuccio Ruini nella relazione illustrativa del progetto
di
Costituzione), con la
previsione quindi di un apposito procedimento aggravato
per
modificare la
Costituzione e le leggi costituzionali, mentre il
rispetto del dettato
costituzionale è stato
affidato, oltre che ovviamente alla reattività del corpo
sociale
(peraltro sempre nel
rispetto delle forme e delle procedure previste dalla
stessa
Costituzione), ad
appositi organi di garanzia (in parte al Presidente
della Repubblica,
nonché alla Corte
costituzionale). Va peraltro notato che la rigidità
della procedura
di revisione
costituzionale prevista dall’art. 138 Cost. non rende
particolarmente
difficile la
modificazione o l’integrazione del dettato
costituzionale (non a caso,
finora sono state ben
34 le leggi costituzionali entrate in vigore dal 1948),
anche se
certamente modifiche
costituzionali che non conseguono la maggioranza dei due
terzi
11
dei voti nelle due
Camere possono essere agevolmente sottoposte allo
speciale
referendum popolare di
cui allo stesso art. 138 Cost. (come è avvenuto, ad
esempio,
con la grande riforma
costituzionale della seconda parte della Costituzione,
approvata
dal Parlamento nel
2005, ma respinta dal referendum del 2006).
Non vi è quindi – in
punto di diritto e facendo salvi i principi
costituzionali supremi
di cui alla sent.
n.1146 del 1988 - alcuna obiezione che possa essere
avanzata contro
proposte di modificare
la Costituzione secondo la procedura prescritta: semmai
occorre ribadire che
ovviamente fino all’ipotetica loro adozione e
promulgazione,
nulla muta nella
Costituzione vigente. Mi limito sul punto ad auspicare
che le
modifiche vengano
progettate ed elaborate con adeguata consapevolezza
tecnica ed
istituzionale di ciò
che si intende modificare. Certo, per lo specifico
settore della
giustizia
costituzionale, non bisognerebbe mai dimenticarsi che il
Presidente Aldo
Sandulli disse che
queste particolari norme costituzionali hanno lo scopo
fondamentale di
“difendere la democrazia da sé stessa”.
6. - Di recente ho
avuto occasione di rileggere nei lavori parlamentari che
portarono
(dopo quasi cinque
anni di intense discussioni) ad approvare al termine
della prima
legislatura
repubblicana due leggi (una costituzionale ed una
ordinaria) che
permisero il
funzionamento della Corte costituzionale una
interessante dichiarazione
di Adone Zoli (in
dialettica contro le ultime resistenze di Nitti e di
Vittorio Emanuele
Orlando a permettere
l’entrata in funzione della giustizia costituzionale)
che quelle
leggi ha infine
sottoscritto nel 1953 nella sua qualità di Ministro
Guardasigilli: egli
faceva notare che la
massima novità della nuova Costituzione era costituita
dal fatto
che ormai al di sopra
del Parlamento, del Presidente della Repubblica, del
Governo,
del Presidente del
Consiglio, sta la Costituzione (non certo la Corte
costituzionale).
Ma se ciò caratterizza
la Costituzione repubblicana, occorre garantire il buon
funzionamento della
Corte costituzionale, chiamata specificamente a
garantire il
primato della
Costituzione, poiché “nella tutela della Costituzione è
l’avvenire
pacifico del nostro
paese”.
12
Riemerge anche in
questo caso l’idea importante che nei grandi Stati
democratici
contemporanei, che
vedono la necessaria convivenza di innumerevoli soggetti
individuali e
collettivi, dotati inevitabilmente di culture, passioni
ed interessi
differenziati, nonché
la gestione comune delle tante potenti istituzioni che
sono
necessarie per la
difesa e lo sviluppo delle libere e pluraliste società
contemporanee,
occorre che esistano
Costituzioni effettivamente rispettate e condivise, come
fulcro
fondamentale di
identificazione di tutti, al di là del largo spazio
lasciato giustamente
ai soggetti di volta
in volta egemoni nella lotta politica, sociale,
culturale.
Voglio dire che anche
la nostra lunga storia nazionale dovrebbe aiutarci a
capire che
è assolutamente
prezioso conseguire la garanzia che, al di là delle
tante legittime
dialettiche
contingenti, esiste un tessuto comune di regole e di
valori essenziali
condivisi: e sia ben
chiaro che la fedeltà sostanziale alla Costituzione, che
appunto
queste regole e valori
esprime, spetta a tutti i soggetti istituzionali e
sociali, pubblici e
privati, appartenenti
ad ogni tendenza culturale e politica.
Ma mentre a tutti
questi soggetti spetta far vivere concretamente le
regole ed i
principi
costituzionali attraverso l’attività di ogni giorno,
alla Corte costituzionale
tocca soltanto
intervenire nei casi (puntualmente prescritti dalla
stessa Costituzione e
dalle sue leggi di
attuazione) di conflitto o di crisi, in cui viene posto
in dubbio il
rispetto delle regole
costituzionali da parte di alcuni soggetti
istituzionali. Ma anche
quando viene stimolata
ad intervenire, la Corte si guarda bene da invadere il
campo
proprio della politica
o della mera discrezionalità del legislatore (che in
genere resta
larghissima): ciò che
la Corte solo può sanzionare è la lesione di puntuali
disposizioni
costituzionali. Posso
anzi dire che fra coloro che hanno studiato l’attività
della Corte
costituzionale è molto
diffuso il giudizio che essa si è tradizionalmente mossa
con
grande senso di
responsabile prudenza prima di giungere a dichiarare
l’illegittimità
costituzionale (salvo
sempre il diritto di critica su singole decisioni o
anche la
possibilità di
errori).
Nella sua ormai lunga
storia la Corte costituzionale (oltre 18.000 decisioni
in
cinquantacinque anni),
ha dato risposta alla diffusa richiesta di giustizia
13
costituzionale anche
attraverso decisioni di dichiarazione di illegittimità
costituzionale o di
fondatezza di conflitti fra i poteri: ma questo è quanto
essa deve
appunto fare, ove si
constati la lesione di puntuali norme costituzionali da
parte dei
legislatori o dei
supremi organi dello Stato, al fine di garantire il
primato delle
disposizioni
costituzionali. Sempre i commentatori della
giurisprudenza
costituzionale (antica
e recente) hanno messo in luce che essa è riuscita anche
a
svolgere un ruolo di
forte stimolo, soprattutto in presenza di fasi di
immobilismo dei
vari Parlamenti di
volta in volta interessati, a metter mano a modifiche
legislative
necessarie per
adeguarsi ai nuovi principi costituzionali: potrebbe
pensarsi, ad
esempio, a quanto è
mutato in conseguenza della giurisprudenza
costituzionale in
tema di diritto di
famiglia, di diritto processuale penale, di diritto
penale, di
normative di polizia,
di diritto amministrativo. E ciò senza pensare al ruolo
molto
incisivo della
giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti fra
Stato e Regioni, sia
prima che dopo la
riforma del Titolo V della seconda parte della
Costituzione.
Ma ogni volta che la
Corte costituzionale accoglie una censura di
costituzionalità,
essa restaura un
diritto o riafferma un valore inserito nel patto
costituzionale, ovvero
richiama alla doverosa
correttezza o legalità costituzionale; in ultima
istanza, rende
attuale il patto
costituzionale che vincola e tutela tutti noi.
Dinanzi ad una
sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale di
una norma di
legge, non si può
quindi asserire che sarebbe con ciò negata la sovranità
popolare
rappresentata
dall’organo legislativo che quella legge ha voluto od ha
comunque
mantenuto in vigore,
ma occorrerebbe, invece, porsi il problema di come è
possibile
che un organo
rappresentativo non si sia reso conto di mantenere in
vita disposizioni
contrarie a principi
non disponibili o addirittura abbia consapevolmente
posto in
essere qualcosa di
vietato dalla Costituzione e cioè dalla fonte che è alla
base della
sua stessa
legittimazione.
Intendiamoci: la Corte
non è esente da errori o fraintendimenti, ma quello che
posso
assolutamente
garantire è che essa opera come un organo del tutto
indipendente,
tramite procedure
strettamente collegiali alle quali partecipano con
consapevolezza e
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piena informazione
tutti i suoi giudici. Ed i giudici sono –come ben noto-
scelti
all’interno di
categorie professionali particolarmente qualificate da
parte di alcuni
degli organi più
rappresentativi del nostro sistema democratico (il
Presidente della
Repubblica; il
Parlamento in seduta comune, tramite maggioranze
particolarmente
qualificate; le
massime autorità giurisdizionali) e sono dotati di uno
status speciale (a
cominciare dalla loro
eccezionale durata in carica, pari a nove anni) che è
finalizzato
proprio ad assicurare
la loro assoluta indipendenza. D’altra parte, che le
Corti
costituzionali debbano
essere autonome dal potere politico è un punto
assolutamente
ovvio, poiché se non
lo fossero sarebbero organi semplicemente inutili: un
grande
giudice costituzionale
come Vezio Crisafulli ha scritto che se nelle Corti vi
fosse un
forte grado di
omogeneità politica con gli organi rappresentativi, si
passerebbe in
realtà da un controllo
ad un autocontrollo, parole che si assomigliano ma che
esprimono concetti
totalmente diversi.
E’ naturale che
possano esservi incomprensioni in qualche misura
“fisiologiche” fra i
responsabili politici
e gli organi di giustizia costituzionali, tanto più in
fasi di
particolari tensioni
culturali e politiche: ovviamente non ammissibile è che,
invece, si
giunga a campagne di
disinformazione sull’attività svolta dall’organo di
giustizia
costituzionale o
addirittura a tentativi di denigrazione di singoli
giudici o dell’intero
organo.
Comunque, la Corte
deve continuare a rendere giustizia, certo con totale
rispetto dei
suoi limiti e con
grande senso di responsabilità, ma senza farsi
minimamente
intimorire. Una Corte
che non riuscisse ad eliminare atti o comportamenti
incostituzionali
anzitutto tradirebbe la sua funzione, rischiando anche
la sua
sostanziale
irrilevanza nel sistema istituzionale, ma si assumerebbe
pure una
grandissima
responsabilità sul piano “educativo” nei riguardi della
pubblica opinione,
che è già tanto
dubbiosa dell’effettiva vigenza del fondamentale
principio di legalità,
specie in riferimento ai soggetti ed agli organi più
forti. |