(Estratto
da
Diritto e Processo
formazione n. 3/2011)
Sommario:
1. Introduzione. – 2. Principi generali. – 3. Condizioni
per il riconoscimento e l’esecuzione in Italia della
sentenza straniera. – 4. I c.d “punitive damages”. – 5.
La sentenza della Corte di Cassazione, sez. III, 19
gennaio 2007, n. 1183
1.
Introduzione
La
sentenza della Cassazione Civile, Sez. III, 19 gennaio
2007, n. 1183 offre lo spunto per una disamina in tema
di delibazione in Italia di sentenze straniere, con
particolare riferimento alle sentenze di Tribunali degli
Stati Uniti d’America, contenenti statuizioni sui cd.
“punitive damages”.
La
pronuncia ha affermato il seguente principio di diritto:
Non conoscendo l'ordinamento italiano l'istituto dei
"danni punitivi", è contraria all'ordine pubblico
interno e non può, per l'effetto, essere delibata in
Italia la sentenza resa da un tribunale nordamericano
recante una tale condanna con finalità sanzionatoria e
afflittiva propria dell'istituto dei punitive damages”.
Questi i
fatti sui quali ha deciso la Suprema Corte.
In Alabama
si verifica il decesso di un motociclista in seguito
all’urto con una vettura che gli aveva tagliato la
strada.
Il
motociclista, che era munito di casco omologato e
regolarmente indossato, muore per trauma cranico.
Gli eredi
convengono dinanzi al Tribunale Americano il conducente
dell’autoveicolo, il produttore del motociclo e il
produttore del casco, italiano, assumendo, con
riferimento alla responsabilità di quest’ultimo, il
difetto di progettazione e realizzazione della fibbia.
Le
posizioni dell’automobilista e del produttore del
motociclo vengono chiuse in via stragiudiziale.
Così non
accade per la ditta vicentina, produttrice del casco.
Quest’ultima viene condannata dalla Corte distrettuale
di Jefferson in Alabama, al pagamento della somma di un
milione di dollari.
La vicenda
viene portata al vaglio della Corte d’Appello di
Vanezia, competente territorialmente e per materia, ai
fini della delibazione in Italia della sentenza di cui
sopra, sì da poter agire esecutivamente.
La Corte
d’Appello ha respinto al domanda, per contrarietà
all’ordine pubblico interno dei cd. “punitive damages”,
isituti di origine statunitense sconosciuti
all’ordinamento italiano.
Prima di
esaminare il decisum della Corte di Cassazione,
all’attenzione della quale è stata sottoposta in seguito
la vicenda, si delinea un breve excursus sulla
delibazione in Italia di sentenze straniere.
2.
Principi generali
La materia
è oggi disciplinata dalle norme di diritto
internazionale privato, di cui alla Legge 31 maggio
1995, n. 218, che hanno sostituito ed integrato le
scarne disposizioni in precedenza presenti in varie
fonti normative, quali gli artt. da 17 a 31 delle
disposizioni sulla legge in generale premesse al codice
civile, gli artt. 796 ss. del codice di procedura civile
e gli artt. da 1 a 14 del codice della navigazione.
Per
completezza di analisi, è importante rammentare, oltre
alla L. n. 218/1995, la Convenzione di Bruxelles del 27
settembre 1968, resa esecutiva in Italia con Legge 21
giugno 1971, n. 804 (oggi sostituita dal Regolamento
44/2001/CE), in materia civile e commerciale, che
peraltro non riguarda gli Stati Uniti d’America.
Prima
della novella legislativa, il riconoscimento in Italia
delle sentenze straniere, che pure era possibile, non
era automatico, ma presupponeva un ulteriore
procedimento giurisdizionale interno di controllo,
definito giudizio di delibazione, dinanzi alla Corte di
Appello del luogo di esecuzione.
In seguito
alla entrata in vigore della Legge 21 dicembre 1996, n.
649, sono divenute effettive, dal 31 dicembre 1996, le
nuove norme sulla efficacia di sentenze ed atti
stranieri, di cui al Titolo IV della L. 218/1995.
In
particolare, ai sensi dell’art. 64 L. 218/1995: “la
sentenza straniera è riconosciuta in Italia senza che
sia necessario il ricorso ad alcun procedimento”, purché
siano presenti i requisiti specificamente elencati in
detta disposizione, che si analizzeranno in prosieguo.
In via
preliminare, bisogna evidenziare che il principio
dell’automatico riconoscimento delle sentenze straniere
trova dei limiti, indicati dall’art. 67 L. 218/1995, e
segnatamente quando non via sia la volontaria
ottemperanza al provvedimento giurisdizionale straniero,
ovvero vi sia la contestazione di tale provvedimento o,
ancora e soprattutto, quando sia necessario procedere ad
esecuzione forzata.
In tali
evenienze, il medesimo art. 67 L. 218/1995 dispone che
“chiunque vi abbia interesse può chiedere alla corte
d’appello del luogo di attuazione l’accertamento dei
requisiti del riconoscimento”.
E’
evidente che in tal modo si reintroduce il c.d.
“giudizio di delibazione”, di cui agli abrogati artt.
696 ss. c.p.c..
La
differenza è che nel sistema ante riforma il giudizio di
delibazione costituiva condicio sine qua non del
riconoscimento, mentre oggi rappresenta un momento
eventuale e patologico della fase esecutiva.
E’
altrettanto evidente che di rado accade che il soggetto
condannato in ragione della sentenza straniera dia
volontaria esecuzione alla medesima, ragion per cui è
frequente la necessità del giudizio di delibazione, per
poter procedere ad esecuzione forzata.
Sicché un
procedimento delineato in via eventuale è divenuto la
costante per l’esecuzione delle sentenze straniere in
Italia.
Come si è
riferito addietro, la Convenzione di Bruxelles,
vincolante per i Paesi aderenti, tra i quali l’Italia ma
evidentemente non gli Stati Uniti, aveva già introdotto
un principio di riconoscimento automatico delle
decisioni giudiziarie adottate dai giudici di uno degli
Stati contraenti (Art. 26 Conv.), peraltro anche in tal
caso con alcune eccezioni: in materia di stato e
capacità delle persone, successioni e fallimento, regime
patrimoniale e coniugale, sentenze in materia civile e
commerciale.
Giova
ribadire, ai fini che interessano, che nella vicenda in
esame non trova applicazione la Convenzione di
Bruxelles, per cui la questione si risolve nella
applicazione della L. 218/1995.
Pertanto,
tornando all’analisi della predetta Legge, è ovvio che
in caso di contestazione, omessa ottemperanza e
necessità di esecuzione forzata della sentenza
straniera, “chiunque vi abbia interesse” e precipuamente
la parte attrice, dovrà avviare il procedimento di
delibazione, dinanzi alla Corte d’Appello del luogo di
attuazione.
L’azione
di delibazione è azione di mero accertamento, come tale
imprescrittibile.
L’azione
di delibazione introduce un giudizio ordinario di
cognizione, da avviare con atto di citazione, giudizio
che peraltro è di mera legittimità, non potendosi
riesaminare il merito della sentenza straniera.
Quanto
alla forma, è opportuno evidenziare che ai sensi della
Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, ratificata in
Italia con Legge 20 dicembre 1966, n. 1253, alla quale
hanno aderito anche gli Stati Uniti d’America, non è
necessaria la legalizzazione, da parte dell’autorità
italiana, di atti pubblici stranieri.
Vieppiù,
la dispensa dalla legalizzazione è condizionata al
rilascio, da parte dell'autorità designata dallo Stato
di formazione dell'atto, di apposita "apostille", da
apporre sull'atto stesso, o su un suo foglio di
allungamento, e secondo il modello allegato alla
Convenzione.
Nel caso
in cui manchi tale forma legale di autenticità del
documento, il giudice italiano non può attribuire
efficacia validante a mere certificazioni di cancelleria
dell'ufficio di provenienza dell'atto.
Neppure è
necessaria una traduzione certificata conforme
dall’autorità consolare o diplomatica dello Stato
estero, essendo sufficiente una traduzione dell’atto
tramite un pubblico ufficiale, nel rispetto dell’art.
122 c.p.c.
Dopo aver
analizzato le forme di introduzione del procedimento e
ricollegandoci a quanto affermato nell’incipit delle
presenti note, è necessario esaminare le condizioni
elencate all’art. 64 della L. 218/1995, in presenza
delle quali si prevede l’automatico riconoscimento della
sentenza straniera, ma che, in assenza di esecuzione
spontanea, sono le stesse la cui presenza può essere
contestata dal convenuto.
3.
Condizioni per il riconoscimento e l’esecuzione in
Italia della sentenza straniera.
Devono
sussistere tutti gli elementi qui di seguito elencati:
a) il giudice che ha pronunciato la sentenza
straniera poteva conoscere della causa secondo i
princìpi sulla competenza giurisdizionale propri dell'
ordinamento italiano.
In caso di
controversia, la Corte d’Appello competente dovrà
valutare se il giudice dello Stato nel quale la sentenza
è stata pronunciata potesse conoscere della causa in
base ai principi sulla giurisdizione propri
dell’ordinamento italiano, come espressi dagli artt. 3 e
4 della L. 218/1995.
In
particolare, ai sensi dell’art. 3 L.218/1995: “La
giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è
domiciliato o residente in Italia o vi ha un
rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio a
norma dell'articolo 77 del codice di procedura civile e
negli altri casi in cui è prevista dalla legge.
La
giurisdizione sussiste inoltre in base ai criteri
stabiliti dalle sezioni 2, 3 e 4 del titolo II della
Convenzione concernente la competenza giurisdizionale e
l'esecuzione delle decisioni in materia civile e
commerciale e protocollo, firmati a Bruxelles il 27
settembre 1968, resi esecutivi con la legge 21 giugno
1971, n. 804, e successive modificazioni in vigore per
l'Italia, anche allorché il convenuto non sia
domiciliato nel territorio di uno Stato contraente,
quando si tratti di una delle materie comprese nel campo
di applicazione della Convenzione. Rispetto alle altre
materie la giurisdizione sussiste anche in base ai
criteri stabiliti per la competenza per territorio”.
L’art. 4
L. 218/1995 così dispone: “Quando non vi sia
giurisdizione in base all'articolo 3, essa nondimeno
sussiste se le parti l'abbiano convenzionalmente
accettata e tale accettazione sia provata per iscritto,
ovvero il convenuto compaia nel processo senza eccepire
il difetto di giurisdizione nel primo atto difensivo.La
giurisdizione italiana può essere convenzionalmente
derogata a favore di un giudice straniero o di un
arbitrato estero se la deroga è provata per iscritto e
la causa verte su diritti disponibili”.
Dunque, la
Corte d’appello del luogo di attuazione dovrà verificare
se, in ossequio ai criteri di cui agli art. 3 e 4 L.
218/1995, il Giudice straniero avrebbe potuto
legittimamente dichiarare la propria giurisdizione in
base ai criteri di individuazione della medesima propri
dell’ordinamento italiano, così come, a parti invertite,
il Giudice italiano avrebbe potuto dichiarare la propria
giurisdizione, ove i fatti si fossero verificati in
Italia.
Si tratta,
ovviamente, di una valutazione a posteriori, che
comporta una applicazione di tali principi a parti
invertite.
Id est: la
Corte d’Appello competente dichiara la legittima
declaratoria di giurisdizione del Giudice straniero se
il convenuto è domiciliato o residente nel Paese
straniero o vi ha un rappresentante che sia autorizzato
a stare in giudizio…..e così di seguito.
Inoltre,
la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza a dire il
vero discutibile, ha affermato che a prescindere dal
criterio di collegamento della sede legale, si
applicherebbe in materia la Convenzione di Bruxelles,
anche se lo Stato il cui giudice ha emesso la sentenza
non via abbia aderito.
La Corte
riferisce testualmente: “Il presupposto della disciplina
dettata dall’art. 3, secondo comma della l. n. 218/1995
non è che la sentenza sia stata emessa dal giudice di
uno Stato aderente alla Convenzione di Bruxelles, quanto
la circostanza che essa attenga ad una delle materie
contemplate nella Convenzione”.
La
Convenzione di Bruxelles prevede, all’art. 5, n.3, che
in materia di illeciti extracontrattuali, i c.d.
“delitti o quasi.-delitti”, è competente il giudice del
luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto.
Da ultimo,
è opportuno precisare che il potere del giudice
straniero di conoscere la causa può essere sindacato in
sede di legittimità solo sotto il profilo
dell'individuazione del criterio di collegamento
stabilito dalla legge e della sua corretta applicazione,
e in relazione alla congruità della motivazione, mentre
non è consentito alcun riesame dei presupposti di fatto
sui quali detta competenza sia radicata.
b) l' atto introduttivo del giudizio è stato
portato a conoscenza del convenuto in conformità a
quanto previsto dalla legge del luogo dove si è svolto
il processo e non sono stati violati i diritti
essenziali della difesa.
c) le parti si sono costituite in giudizio
secondo la legge del luogo dove si è svolto il processo
o la contumacia è stata dichiarata in conformità a tale
legge.
d) La sentenza è passata in giudicato secondo
la legge del luogo in cui è stata pronunziata.
In
particolare, la Corte d’Appello deve valutare il
passaggio in giudicato del provvedimento, secondo la
legge straniera.
Nella
fattispecie, bisogna analizzare quando, secondo la Legge
statunitense, avviene il passaggio in giudicato.
Se la
normativa è simile alla nostra, potrà avvenire per
acquiescenza, e quindi per omessa impugnazione della
pronuncia di primo grado, ovvero per esaurimento dei
gradi di giudizio.
e) essa non è contraria ad altra sentenza
pronunziata da un giudice italiano passata in giudicato.
f) non pende un processo davanti a un
giudice italiano per il medesimo oggetto e fra le stesse
parti, che abbia avuto inizio prima del processo
straniero.
Il
legislatore ha subordinato l’effetto ostativo della
litispendenza italiana al requisito della priorità,
intendendo evitare che il riconoscimento della sentenza
straniera possa essere bloccato dalla parte soccobente
all’estero con la strumentale instaurazione di un
analogo processo in Italia.
4. I c.d “punitive damages”.
Ultima
condizione richiesta per il riconoscimento in Italia di
una sentenza straniera è che le disposizioni di quest’
ultima non producano effetti contrari all' ordine
pubblico.
Tale
condizione viene analizzata autonomamente nella presente
trattazione, poiché è determinante ai fini della
sentenza in commento.
In tema di
ordine pubblico, si passa in rassegna parte della
copiosa giurisprudenza, riferita a casi distinti ed agli
svariati fini per i quali tale eccezione è stata
sollevata:
“L’accertamento dell’eventuale falsità dei documenti
utilizzati dal giudice straniero non rientra nel
controllo del giudice italiano, sotto il profilo della
contraietà all’oriddne pubblico, in quanto quest’ultimo
concerne solo gli effetti concreti prodotti dalla
decisione e non l’attività processuale che ad essa ha
condotto”.
“Deve
escludersi che il rigetto da parte del giudice straniero
dell'istanza di ammissione di una consulenza tecnica
possa integrare circostanza idonea a rendere contraria
all'ordine pubblico italiano la sentenza successivamente
da quel giudice pronunciata, la cui statuizione si
assuma determinata dalla mancata dimostrazione di
circostanze che la consulenza avrebbe potuto
dimostrare..[..]..“Deve escludersi che una decisione di
un giudice straniero, la quale abbia rifiutato
l'assunzione di testi a mezzo di rogatoria
internazionale, possa ritenersi pronunciata in base ad
una disposizione contraria all'ordine pubblico
italiano”.
“Non è trascrivibile il matrimonio
celebrato all’estero tra omosessuali, in quanto
contrario alle norme di ordine pubblico”.
“In tema di delibazione di sentenze
straniere, il concetto di ordine pubblico di cui
all'art. 64 lett. g della legge n. 218 del 1995 non si
identifica con il cd. ordine pubblico interno - e, cioè,
con qualsiasi norma imperativa dell'ordinamento civile -
bensì con quello di ordine pubblico internazionale,
costituito dai (soli) principi fondamentali e
caratterizzanti l'atteggiamento etico - giuridico
dell'ordinamento in un determinato periodo storico.
(Nell'affermare il principio di diritto che precede la
S.C. ha, in fatto, escluso che la corresponsione di
interessi a tasso particolarmente elevato da parte di
debitore italiano nei confronti di una società estera
integrasse la violazione della norma sopra ricordata,
aggiungendo, in punto di fatto, che, comunque, detta
corresponsione non costituiva il corrispettivo di
un'operazione di natura creditizia - ossia di prestito
in denaro, come richiesto dalla normativa nazionale
antiusura - risultando per converso dovuta in
conseguenze di un accertato inadempimento
contrattuale)”.
“La sentenza statunitense che abbia
condannato un soggetto italiano al pagamento di somme
per danni "punitivi" per un ammontare di gran lunga
esorbitante rispetto al risarcimento dei danno non è
riconoscibile nel nostro ordinamento per contrasto con
principi di ordine pubblico”.
Dopo tale
breve disamina giurisprudenziale, per comprendere quale
sia, pur superficialmente, l’applicazione pratica del
principio di “ordine pubblico”, vediamo succintamente
cosa sono i c.d “punitive damages”, riportando alcuni
brani di una eloquente monografia sul tema:
“Le
diverse componenti della condanna pecuniaria inflitta al
responsabile di un illecito civile, sono abbastanza
simili in tutti i paesi di common law, poiché si possono
distinguere in base agli scopi che tendono a perseguire,
in risarcimenti aventi una finalità riparatoria e
restitutoria (compensatory damages) e in reintegrazioni
con un fine punitivo e deterrente o solamente simbolico
(non compensatory damages).
Infatti le
funzioni svolte dalla prima categoria di danni, vengono
soddisfatte con il ricorso agli “special damages” che
l’attore deve chiedere esplicitamente e di cui è tenuto
a provare l’ammontare e ai “general o presumptive
damages”, comprendenti le condanne per il danno morale
e soggettivo (damages for pain and suffering), che
invece non richiedono la riprova della loro concreta
entità.
Invece gli
“exemplary o vindicative damages”, mettono in atto una
risposta punitiva verso il responsabile della lesione
di un diritto e vengono concessi sia in funzione
satisfattoria dell’attore danneggiato, sia per prevenire
il ripetersi di uno stesso comportamento in futuro.
Mentre nel
Regno Unito le Corti hanno dettato alcuni criteri
restrittivi del campo d’applicazione dell’istituto, la
costante prassi giurisprudenziale statunitense ha
fornito un’ampia conferma della legittimità e della sua
forza espansiva, segnalando anche un allontanamento del
rimedio dagli originali caratteri strutturali e
funzionali.
L’azione
repressiva e special-preventiva svolta dai punitive
damages è subordinata alla verifica dello stato
soggettivo doloso o gravemente colposo dell’offensore,
accompagnato alla realizzazione di specifiche forme
lesive ritenute socialmente dannose, come quelle
appartenenti alle categoria degli illeciti civili.
I giudici
hanno costantemente affermato una doppia ragione
giustificatrice dei punitive damages, basata
sull’intento di impedire che il danneggiante torni a
ripetere il proprio comportamento lesivo, ma anche sulla
funzione retributiva rispetto alla condotta antisociale
attuata dall’offensore.
Mentre il
procedimento penale per l’affermazione della
responsabilità richiede la “prova sopra ogni
ragionevole dubbio”, il giudizio civile si basa sulla
dimostrazione di un’evidenza preponderante, ossia sulla
documentazione di una maggiore probabilità che il
comportamento del convenuto costituisca l’origine del
danno.
Invece il
carico probatorio richiesto dai punitive damages, pur
basandosi sul riscontro di un’alta probabilità della
responsabilità del convenuto, risulta intermedio
rispetto a quelli appena descritti, poiché richiede
un’evidenza chiara e convincente che l’accusato sia
colpevole di oppressione, frode o malevolenza”.
L’applicazione del rimedio si è spesso verificata a
danno delle compagnie assicurative, le quali con il loro
comportamento fraudolento giustificavano l’applicazione
del rimedio in base alla violazione di un impegno di
buona fede (covenant or implied duty of good faith),
impliciti in ogni regolamento negoziale, ma
particolarmente importanti nei rapporti caratterizzati
da profonda disparità economica delle parti, con la
conseguente necessità di verificare il c.d. “bargaining
power” posseduto dai contraenti al momento della
conclusione del contratto”.
5.
La sentenza della Corte di Cassazione, sez. III, 19
gennaio 2007, n. 1183
A questo
punto della disamina, si può tornare al caso concreto ed
alla decisione assunta della Suprema Corte con la
sentenza in commento.
Gli
ermellini hanno confermato la sentenza emessa dalla
Corte d’Appello di Venezia, che ha respinto l’istanza di
delibazione della sentenza emessa dal Tribunale
statunitense, sul presupposto della contrarietà dei
danni punitivi all’ordine pubblico.
Dal
ragionamento della Suprema Corte si evince che nel
nostro ordinamento la responsabilità civile è
decisamente orientata a svolgere una funzione
compensativa, ossia di riparazione della perdita subita
dal danneggiato, e solo indirettamente una funzione
preventiva o deterrente.
Pertanto,
sono contrari all’ordine pubblico e sconosciuti al
sistema romanistico danni che, come sopra riferito,
“mettono in atto una risposta punitiva verso il
responsabile della lesione di un diritto e vengono
concessi sia in funzione satisfattoria dell’attore
danneggiato, sia per prevenire il ripetersi di uno
stesso comportamento in futuro”.
Nè,
afferma la Corte, è possible desumere l’esistenza di
istituti di natura sanzionatoria ed afflittiva dalla
calusola penale o dal risarcimento del danno morale.
Infatti,
la clausola penale ha la funzione di rafforzare il
vincolo contrattuale e di liquidare in via preventiva la
prestazione risarcitoria, tant'è che se l'ammontare
fissato venga a configurare, secondo l'apprezzamento
discrezionale del giudice, un abuso o sconfinamento
dell'autonomia privata oltre determinati limiti di
equilibrio contrattuale, può essere equamente ridotta.
Quindi, se
la somma prevista a titolo di penale è dovuta
indipendentemente dalla prova del danno subito e da una
rigida correlazione con la sua entità, è in ogni caso da
escludere che la clausola penale possa essere ricondotta
all'istituto dei punitive damages proprio del diritto
nordamericano, istituto che non solo si collega, appunto
per la sua funzione, alla condotta dell'autore
dell'illecito e non al tipo di lesione del danneggiato,
ma si caratterizza per una sproporzione tra l'importo
liquidato e il danno effettivamente subito.
Quanto al
danno morale, la Corte afferma che in tale evenienza
l'accento è posto sulla sfera del danneggiato e non del
danneggiante: la finalità perseguita è soprattutto
quella di reintegrare la lesione, mentre nel caso dei
punitive damages non c'è alcuna corrispondenza tra
l'ammontare del risarcimento e il danno effettivamente
subito.
Nel
vigente ordinamento, continua la pronuncia, l'idea della
punizione e della sanzione è estranea al risarcimento
del danno, così come è indifferente la condotta del
danneggiante.
Alla
responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di
restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha
subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di
denaro che tenda ad eliminare le conseguenze del danno
arrecato. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il
danno non patrimoniale o morale, per il cui
risarcimento, proprio perchè non possono ad esso
riconoscersi finalità punitive, non solo sono
irrilevanti lo stato di bisogno del danneggiato e la
capacità patrimoniale dell'obbligato, ma occorre altresì
la prova dell'esistenza della sofferenza determinata
dall'illecito, mediante l'allegazione di concrete
circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso
che tale prova possa considerarsi "in re ipsa"
Le
motivazioni della sentenza in commento sono pienamente
condivisibili, de iure condito.
Peraltro,
volendo guardare oltre, non può non porsi il problema di
rivalutare i danni punitivi nell’ordinamento italiano.
Ciò non,
ovviamente, rebus
sic stantibus, bensì pro futuro ed in
un’ottica di politica legislativa in itinere.
E’ chiaro
che al questione attiene alla filosofia ed all’etica,
prima che sic et simpliciter al diritto.
E’ sin
troppo evidente che sino a quando mancherà nel nostro
ordinamento una politica legislativa che tenda ad avere
una funzione deterrente e punitiva nei confronti del
responsabile dell’illecito, il cittadino-consumatore
continuerà ad assistere inerme a forme indebite di
prevaricazione in tutti gli aspetti della vita
quotidiana, nei confronti del sistema sanitario,
bancario, assicurativo, delle società di
telecomunicazione, delle società fornitrici di energia
elettrica, di gas, delle società automobilistiche, etc..
Senza
dilungarsi oltre su aspetti che richiedono ampia,
esaustiva ed autonoma trattazione, sia sufficiente
riflettere sulle cronache quotidiane relative agli
innumerevoli casi di malasanità, a difetti di
componentistica del tal modello di autovettura, ai
difetti di informazione sugli investimenti azionari ed
obbligazionari, ai junk bonds, e così di seguito.
Sino a che
la funzione del sistema risarcitorio non sarà mirata in
ottica deterrente verso l’autore dell’illecito, i c.d.
“contraenti forti” potranno commettere ogni tipologia di
abuso nei confronti del cittadino, addirittura stimando
aprioristicamente ed in senso statistico e quantitativo
la irrisoria percentuale di danno che saranno tenuti a
corrispondere nel caso in cui siano “scoperti”.
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