Il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Firenze ha
pubblicato sul suo sito una "istanza di disapplicazione"
dell'art. 5, comma 1, del D.Lgs. 28/2010, onde
consentire ai Colleghi di utilizzarla nei procedimenti
giudiziari eventualmente instaurati senza il previo
esperimento del tentativo di conciliazione. L'OUA ha
fatto propria l'iniziativa. Doverosamente ringraziando
l'Avv. Gaetano Viciconte, consigliere dell'Ordine di
Firenze e redattore dell'istanza, si potrà ampiamente
utilizzare l'istanza di disapplicazione.
LEGGI DI SEGUITO L'ISTANZA DI DISAPPLICAZIONE DELL'ART.
5, COMMA 1, DEL D.LGS. 28/2010
ISTANZA DI DISAPPLICAZIONE DELL’ART. 5, COMMA 1, DEL
D.LG.VO 28/2010
1. Nel presente giudizio, l’attore non ha esperito il
procedimento di mediazione previsto dall’art. 5 del D.
Lgs. 4 marzo 2010, n. 28 , pur ricorrendone l’obbligo.
Le domande proposte non devono, tuttavia, essere
dichiarate improcedibili perché la disciplina che
introduce l’obbligatorietà della mediazione merita di
essere disapplicata per contrasto con l’art. 47 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la
cui portata, ai sensi dell’art. 52, terzo comma, della
Carta, corrisponde a quella dell’art. 6 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Le norme introdotte dal D.Lgs. n. 28/2010, riguardante
sia le liti transfrontaliere che quelle interne, pongono
seri problemi di compatibilità con l’articolo 47 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Per
alcuni aspetti normativi e per le difficoltà di
attuazione pratica che il predetto decreto legislativo
incontrerà, il “diritto a un ricorso effettivo dinanzi a
un giudice” viene limitato in modo grave e
sproporzionato rispetto allo scopo fatto valere di
ridurre il carico di lavoro degli uffici giudiziari.
2. La Corte di giustizia UE fin dalla sentenza
Johnston,C-22/84 del 15 maggio 1986 ha tratto dalla
tradizione costituzionale comune e dagli articoli 6 e 13
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il
principio generale del diritto al controllo
giurisdizionale (così anche tra le altre le sentenze
UNECTEF,C-222/86 del 15 ottobre1987; Oleificio
Borrelli,C-97/91 del 3 dicembre 1992 e Mono Car Styling,
C-12/08 del 16 luglio 2009).
La nozione di “ricorso effettivo dinanzi a un giudice ”
riconosciuto dall’articolo 47 della Carta dei diritti
fondamentali, corrisponde (articolo 52/3 della stessa
Carta) a quella elaborata dalla Corte europea dei
diritti dell’uomo. Con giurisprudenza costante dopo la
sentenza Golder c. Regno Unito del 21 febbraio 1975, la
CEDU ritiene che il diritto di effettivo accesso al
giudice, pur non espressamente menzionato all’art. 6
della Convenzione, sia un diritto presupposto rispetto a
quelli ivi elencati e costitutivi del processo equo. In
numerose sentenze tale diritto è stato ritenuto
particolarmente importante nel sistema della
Convenzione, poiché si tratta di una condizione
essenziale dello stato di diritto e della “preminenza
del diritto” menzionata nel Preambolo della Convenzione.
E si tratta di un diritto che deve essere “concreto ed
effettivo” e non come la CEDU spesso si esprime,“teorico
e illusorio ”.
A
tale diritto possono legittimamente essere poste
limitazioni, a condizione che però esse rispondano a uno
scopo legittimo, siano proporzionate rispetto allo scopo
e non colpiscano il diritto di accesso al giudice nella
sua essenza (tra le tante, Ashingdane c. Regno Unito del
28 maggio 1985,§ 57).
La Corte di Giustizia ha esaminato una fattispecie
simile a quella di cui qui si tratta, nella sentenza
R.A. del 18 marzo 2010, C-317, 318, 319, 320/08
concernente la normativa italiana (art. 84 D.Lgs.1
agosto 2003, n. 259) che prevede un tentativo
obbligatorio di conciliazione extragiudiziale davanti al
Co.re.com, come condizione di procedibilità dei ricorsi
giurisdizionali in talune controversie civili. La Corte
ha affermato che tale normativa non è tale da rendere
praticamente impossibile o eccessivamente difficile
l’esercizio dei diritti conferiti ai singoli dalla
direttiva “servizio universale” (direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio 7 marzo 2002,
2002/22/CE), in quanto:
-
il risultato della procedura di conciliazione non è
vincolante nei confronti delle parti interessate e non
incide sul loro diritto ad un ricorso giurisdizionale;
-
la procedura di conciliazione non comporta, di regola,
un ritardo sostanziale nella proposizione di un ricorso
giurisdizionale. Infatti, il termine per chiudere la
procedura di conciliazione è di trenta giorni a
decorrere dalla presentazione della domanda e, alla
scadenza di tale termine, le parti possono proporre un
ricorso giurisdizionale, anche ove la procedura non sia
stata conclusa;
-
la prescrizione dei diritti è sospesa per il periodo
della procedura di conciliazione;
-
i costi derivanti dalla procedura di conciliazione
dinanzi al Co.re.com sono inesistenti.
Quanto alla compatibilità con gli articoli 6 e 13
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la Corte di
Giustizia ha osservato che, subordinando la ricevibilità
dei ricorsi giurisdizionali proposti in materia di
servizi di comunicazioni elettroniche all’esperimento di
un tentativo obbligatorio di conciliazione, la normativa
nazionale sopra menzionata ha introdotto una tappa
supplementare per l’accesso al giudice e che tale
condizione potrebbe incidere sul principio della tutela
giurisdizionale effettiva.
Tuttavia, secondo una giurisprudenza costante, i diritti
fondamentali non si configurano come prerogative
assolute, ma possono soggiacere a restrizioni, a
condizione che queste rispondano effettivamente a
obiettivi d’interesse generale e non costituiscano,
rispetto allo scopo perseguito, un intervento
sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la
sostanza stessa dei diritti così garantiti. Le
disposizioni nazionali di cui trattasi hanno a oggetto
una definizione più spedita e meno onerosa delle
controversie in materia di comunicazioni elettroniche,
nonché un decongestionamento dei tribunali, e perseguono
quindi legittimi obiettivi di interesse generale.
Secondo la Corte di Giustizia,in considerazione della
disciplina specifica della procedura di risoluzione
extragiudiziale considerata, non sussiste una
sproporzione manifesta tra i legittimi obiettivi
perseguiti e gli eventuali inconvenienti causati dal suo
carattere obbligatorio.
I
criteri indicati dalla Corte di giustizia quali
condizioni necessarie ad escludere che l’introduzione di
un obbligo di partecipare da una procedura di
conciliazione, quale condizione di procedibilità della
successiva domanda giudiziale, si ritrovano anche nella
Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
2008/52/CE relativa a determinati aspetti della
mediazione in materia civile e commerciale. Si tratta
proprio della direttiva richiamata in premessa del
D.Lgs. 4 marzo 2010 n. 28.
3. Alla luce di quanto detto, la compatibilità del
D.Lgs.n.28/2010 con il “diritto al giudice” riconosciuto
dalla Carta dei diritti fondamentali della Unione
Europea e dalla Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, pare sotto diversi aspetti più che dubbia.
Il D.Lgs. n. 28/2010 all’art. 5 comma 1, introduce l
’obbligo, a pena di improcedibilità della domanda, di
esperire il procedimento di mediazione prima di
esercitare in giudizio un’azione relativa ad un
vastissimo ambito di materie. Non si tratta di una
qualunque procedura amministrativa prodromica alla
introduzione della causa avanti al giudice, ma di
procedura obbligatoria che riguarda controversie già in
atto e precede immediatamente l ’azione giudiziale cui
una parte (normalmente già assistita da un avvocato,
articolo 4 comma 3) ha ormai deliberato di far ricorso.
La procedura di mediazione, se ha successo, si conclude
con un accordo il cui verbale costituisce titolo
esecutivo (articolo 12 comma 2), assimilabile quanto
agli effetti alla sentenza del giudice (a differenza del
caso esaminato e ritenuto compatibile con il diritto di
accesso al giudice dalla Corte di Giustizia dell’Unione
europea nella sentenza sopra ricordata).
Sussiste, dunque, una analogia ed equivalenza evidente
tra la procedura di mediazione e quella giudiziaria. La
prima, tuttavia, non prevede che la parte sia assistita
da avvocato, pur trattandosi di una procedura
“alternativa ” (ADR –Alternative Dispute Resolution),
che, se la mediazione ha successo, conduce allo stesso
risultato di una decisione giudiziaria, vincolante per
le parti. E perfino la dichiarata irrilevanza nel
successivo giudizio di ciò che è avvenuto nella
procedura di mediazione infruttuosa, è solo parzialmente
vera, così come si ricava dalla disciplina delle spese
di giudizio delineata all’articolo 13.
Le considerazioni che precedono, inducono ad assimilare
la procedura di mediazione obbligatoria a quella
giudiziaria,di cui rappresenta un’alternativa (quanto a
risultato) e una fase antecedente obbligatoria (quanto a
procedura). Ma se così è, è necessario che le essenziali
garanzie procedurali siano assicurate anche nel
procedimento di mediazione, idoneo a definire la
controversia. In particolare, occorre che alle parti sia
assicurato l’esercizio della “facoltà di farsi
consigliare, difendere e rappresentare ” (articolo 47
comma 2 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione). In caso diverso il diritto di accesso al
giudice dovrebbe essere reso possibile prevedendo una
fase ulteriore giudiziaria (Corte europea dei diritti
dell’uomo, a partire dalla sentenza Le Compte,Van Leuven
e De Meyere c.Belgio,del 23 giugno 1981, §§ 44,51). Ma
questa ulteriore possibilità è esclusa, mentre la
procedura di omologa da parte del presidente del
Tribunale (articolo12 comma 1 del D.Lgs.n. 28/2010) non
assicura l’accesso al giudice, perché non corrisponde ai
requisiti propri del processo equo di cui agli articoli
47 della Carta dei diritti fondamentali e 6 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e perché, in
ogni caso, i limiti del controllo effettuato escludono
che si tratti della decisione di un giudice di piena
giurisdizione.
Né si può sostenere che la natura delle controversie
assoggettate all’obbligo di esperire il procedimento di
mediazione non richieda particolari garanzie
procedurali, in particolare quella derivante dalla
difesa tecnica. Le materie che il legislatore ha
indicato per definire il campo dell’obbligo di esperire
la procedura di mediazione, talora implicano complesse
valutazioni e concernono rilevanti interessi.
Della complessità delle necessarie valutazioni (per le
parti e per il mediatore) è consapevole lo stesso
legislatore, che, infatti, prevede la possibilità che il
mediatore ricorra ad esperti ed anche la possibilità
della nomina di mediatori ausiliari quando si tratti di
controversie che “richiedono specifiche competenze
tecniche ” (articolo 8).
Nel corso della procedura di mediazione, le parti non
assistite da avvocato non sono certo in grado di
consapevolmente determinarsi nei casi complessi e
specialmente in quelli in cui il mediatore ritiene
necessario il contributo dell’esperto (un significativo
esempio può essere quello delle cause in materia di
responsabilità professionale medica, in cui almeno una
delle parti non è esperta della specifica materia).
Merita di essere segnalato che, a differenza di ciò che
è stabilito per la procedura di mediazione di cui al
D.Lgs.n. 28/2010, nella normale procedura civile avanti
il Conciliatore, la legge comprensibilmente stabilisce
stretti limiti di valore della causa (euro 516,46),
perché la parte possa agire personalmente (art. 82
Codice di procedura civile). Ed anche a livello
comunitario l’assenza della difesa tecnica è ammessa
restrittivamente. Il Reg.CE 11 luglio 2007 n.861/2007,
all’articolo 10 ammette infatti che la rappresentanza da
parte di un avvocato o di altro professionista del
settore legale non sia obbligatoria, secondo il
Procedimento europeo per le controversie di modesta
entità (valore non eccedente euro 2.000), con esclusione
comunque di una serie di materie, tra le quali si
ritrovano alcune di quelle invece indicate all’art. 5
comma 1, del D.Lgs. n. 28/2010 (come quelle relative
alle successioni, locazioni, diffamazione). E proprio in
tema di “diffamazione a mezzo stampa o altro mezzo di
pubblicità ” è interessante ricordare che la Corte
europea dei diritti dell’uomo (sentenza Steel e Morris
c. Regno Unito del 15 febbraio 2005) ha ritenuto che la
natura della controversia civile instaurata richiedesse,
ai fini dell’equità del processo, la difesa tecnica dei
convenuti e che essa fosse loro assicurata mediante
l’ammissione al gratuito patrocinio. Nella procedura di
mediazione di cui si tratta, invece, la difesa tecnica
non trova alcuna menzione.
Gli interessi in gioco in gran parte delle procedure di
mediazione che il D.Lgs. n. 28/2010 rende obbligatorie e
nel corso delle quali la parte dispone del proprio
diritto, sono certo molto più gravi e sensibili di molti
di quelli che la legge ritiene richiedano l’assistenza
dell’avvocato nella procedura davanti al giudice. Senza
contare che il giudice offre alle parti una garanzia
maggiore rispetto al mediatore, il quale è imparziale
rispetto agli interessi delle parti, ma non rispetto
all’esito della mediazione (nell’ipotesi di successo
della mediazione le indennità previste sono aumentate.
(articolo 17, comma 4, lett.c).
Ma anche altri aspetti della disciplina della procedura
di mediazione,che il D.Lgs. n. 28 rende
obbligatoria,vanno segnalati perché tali da rendere
inaccettabilmente dispendioso e defatigante il percorso
da compiere prima di poter accedere al giudice.
La procedura non è gratuita (a differenza di quella
considerata dalla Corte di giustizia UE nella sentenza
sopra riportata). I costi della procedura sono ancora
imprecisati (articoli 16 e 17), ma è da credere che non
saranno irrilevanti, specialmente quando il mediatore si
avvalga di esperti (articolo 8 comma 2). La possibilità
di accedere al gratuito patrocinio (articolo 17) non
esclude il rilievo del costo della procedura ai fini
della valutazione della sua compatibilità con il diritto
di accesso al giudice.
Il termine stabilito per lo svolgimento del procedimento
di mediazione è di 4 mesi, più lungo quindi di quello
considerato accettabile nella sentenza sopra menzionata
della Corte di giustizia UE.
A
differenza di quanto avviene nella procedura di cui
all’articolo 410 Codice di procedura civile, l’effetto
interruttivo della prescrizione e della decadenza non è
legato al deposito della istanza di mediazione, ma alla
comunicazione alle altre parti dell’avvenuto deposito.
L’effetto, quindi, è condizionato dalla attività del
personale addetto alla segreteria dell’organismo di
mediazione e dalle prevedibili disfunzioni del servizio.
Vero è che la comunicazione a controparte può essere
effettuata anche a cura della parte istante (articolo 8
comma 1), ma solo dopo che il responsabile
dell’organismo di mediazione abbia designato il
mediatore e fissato la data del primo incontro tra le
parti. L’introduzione della domanda di mediazione,
quindi, non comporta di per sé stessa la sospensione del
decorso dei termini di prescrizione e di decadenza. Si
tratta di un profilo particolarmente grave perché
l’enorme campo di applicazione della nuova condizione di
procedibilità dell’azione – improvvisamente definito dal
legislatore senza alcuna considerazione dei costi e
tempi per la messa in opera di strutture operative
adeguate- rende facile prevedere che i tempi di azione
degli organismi di mediazione non potranno essere brevi.
In proposito, per il significato che assume rispetto al
tema qui affrontato, va ricordato che la Corte europea
dei diritti dell’uomo, con riferimento al diritto di
accesso al giudice ha ritenuto la violazione
dell’articolo 6 della Convenzione in casi nei quali la
irricevibilità dell’azione dichiarata dal giudice
derivava da un vizio dipendente non dal ricorrente, ma
dal personale dell’amministrazione pubblica (Platakou c.
Grecia dell ’11 gennaio 2001; Boulougouras c. Grecia del
27 maggio 2004) ed anche nel caso in cui la procedura
amministrativa da seguire obbligatoriamente si sia
rivelata inefficace per mancata risposta della
amministrazione nei termini di legge (Faimblat c.
Romania del 13 gennaio 2009; Maria Atanasiu c. Romania
del 12 ottobre 2010, non definitiva).
I
tempi di definizione della procedura di mediazione
saranno sicuramente molto più lunghi dei quattro mesi
considerati dal D.Lgs.n.28.2010 (articolo 6 comma1). Ma
in tale disciplina manca la disciplina espressa delle
conseguenze del superamento di tale termine ed anzi, con
interpretazione a contrario rispetto a quanto stabilito
all’articolo 410 bis del Codice di procedura civile per
le controversie in materia di lavoro, sembra doversi
ritenere che, prima di poter introdurre la domanda
avanti il giudice, occorra comunque attendere il
completamento del procedimento di mediazione.
Conclusione certo incompatibile con le esigenze proprie
dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo e dell’art. 47 Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione.
In questo quadro si può aggiungere che la rilevabilità
di ufficio dell’improcedibilità della domanda (articolo
5 comma 1), anche nel caso della mancata eccezione da
parte del convenuto, conferisce alla disciplina
dell’obbligo di cui si tratta il valore della
imposizione di un balzello irragionevole e di un’inutile
perdita di tempo.
In tal modo emergono evidenti la sproporzione tra la
soluzione adottata e lo scopo perseguito e, di nuovo,
quindi, l’incompatibilità con i citati articoli della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione.
4. Per le ragioni indicate, l’obbligatorietà della
mediazione, introdotta dagli artt.5 e ss. del D.Lgs.
n.28/2010, rappresenta un’interferenza non ragionevole e
non proporzionata rispetto allo scopo perseguito, tale
da rendere eccessivamente difficile ed oneroso
l’esercizio del diritto di accesso al giudice in
contrasto con il diritto fondamentale assicurato dagli
artt. 24 Cost., 6 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo e 47 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea.
5. Occorre ora argomentare sulla possibilità che possa
effettuarsi la disapplicazione della norma nazionale per
contrasto con un principio generale fondamentale
dell’ordinamento europeo.
La Corte di Giustizia, nella sentenza della Grande
Sezione del 19 gennaio 2010, nel procedimento C-555/07,
Kucukdeveci contro Sweedex GmbH & Co. KG, ha statuito
che dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ha lo
stesso valore giuridico dei trattati, nel senso che al
singolo giudice nazionale è concesso il potere di
disapplicazione della legge interna di fronte alla
violazione dei principi di derivazione comunitaria, e,
in particolare, non soltanto nei rapporti tra i singoli
e lo Stato (efficacia diretta verticale), ma anche nei
rapporti tra privati, consentendo a un singolo di
invocare una norma comunitaria nei confronti di un altro
(efficacia diretta orizzontale). Ciò senza alcuna
necessità di sollevare né una questione di legittimità
davanti alla Corte Costituzionale, né una questione
pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia UE.
La sentenza richiamata, pertanto, attribuisce
direttamente al giudice nazionale il potere di sindacare
la norma legislativa interna in contrasto con un diritto
fondamentale europeo.
Tale principio era già stato affermato in precedenza
dalla giurisprudenza europea. In particolare, nella
sentenza della Grande sezione della Corte di Giustizia,
del 22 novembre 2005, C-144/2004 Mangold, è stato
affermato che è compito del giudice nazionale, investito
di una controversia che metta in discussione un
principio generale di derivazione comunitaria,
assicurare, nell’ambito di sua competenza, la tutela
giuridica che il diritto comunitario attribuisce ai
soggetti dell’ordinamento, garantendone la piena
efficacia e disapplicando ogni contraria disposizione di
legge nazionale.
In tal senso, si è pronunciato anche il Tar Lazio, II
Sezione, con la sentenza del 18 maggio 2010, n. 11984,
secondo cui:” In seguito all'adesione dell'Unione
Europea alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo,
disposta dall'art. 6 del trattato Ue, come novellato dal
Trattato di Lisbona, entrato in vigore l'1 dicembre
2009, le norme della Convenzione divengono
immediatamente operanti negli ordinamenti nazionali
degli stati membri dell'Unione, e quindi vengono ora ad
operare nell'ordinamento italiano, in forza del diritto
comunitario, ai sensi dell'art. 11 cost., con il
conseguente obbligo per il giudice nazionale di
interpretare le norme interne in conformità al diritto
comunitario, ovvero di procedere in via immediata e
diretta alla loro disapplicazione, previa eventuale
pronuncia del giudice comunitario, senza più dover
transitare per il filtro dell'accertamento della loro
incostituzionalità sul piano interno.”
Pertanto, il rispetto del principio dell’accesso alla
giustizia, dopo il Trattato di Lisbona obbliga il
giudice nazionale a riconoscere a tale principio
efficacia immediata nel processo e per il principio di
primazia del diritto comunitario, a disapplicare la
norma interna difforme.
6. Conseguentemente, si richiede che il Giudice dichiari
la procedibilità della domanda, disapplicando l’art. 5
comma 1 del D.Lgs. n.28/2010, perché in contrasto con il
diritto di cui all’art. 47 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, anche, qualora fosse
ritenuto necessario, previo rinvio pregiudiziale alla
Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 267 TFUE |