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I DANNI RISARCIBILI PER RESPONSABILITÀ MEDICA PROFESSIONALE” – Marco ROSSETTI –Persona e danno.it

 

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Il presente scritto si occupa della natura, del tipo e della risarcibilità dei danni civili che il medico può causare nell’esercizio della propria attività.
Per chiarezza di esposizione, questi danni sono stati raggruppati in quattro categorie generali: danni biologici, morali, patrimoniali. La quarta categoria è quella dei danni che potremmo definire “emergenti”, cioè apparsi in epoca recente nel panorama giurisprudenziale, e tuttora oggetto di rilevanti incertezze.
In considerazione dei limiti del presente scritto, per ciascuna delle suddette categorie si esporranno unicamente le questioni più delicate o controverse, lasciando a degli accenni di ordine generale il compito di richiamare i princìpi o le questioni ormai pacifici e consolidati.

 

I danni risarcibili per responsabilità medica professionale contrattuale

ed extracontrattuale

***

SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Il danno biologico. - 2.1. Nozione. - 2.2. Caratteri. - 2.3.

Liquidazione. - 2.4. Il danno iatrogeno. - 2.5. La perdita delle chances di sopravvivenza.

- 2.6. Il c.d. danno biologico “da morte”. - 3. Il danno patrimoniale. - 3.1. Premessa

terminologica. - 3.2. Accertamento del danno. - 3.3. Liquidazione. - 4. il danno morale.

- 4.1. La nozione di danno morale nel diritto vivente. - 4.2. Questioni di legittimità

costituzionale. - 4.3. I soggetti legittimati. - 4.4. Danno morale e danno psichico. - 4.5. Il

danno sofferto in stato di incoscienza. - 4.6. Reati punibili a querela. - 5. I “nuovi

danni”. - 5.1. La lesione di diritti costituzionalmente protetti. - 5.2. Il danno

esistenziale. - 5.3. Il danno da nascita indesiderata.

***

1. Premessa.

Il presente scritto si occupa della natura, del tipo e della risarcibilità dei danni civili che

il medico può causare nell’esercizio della propria attività.

Per chiarezza di esposizione, questi danni sono stati raggruppati in quattro categorie

generali: danni biologici, morali, patrimoniali. La quarta categoria è quella dei danni

che potremmo definire “emergenti”, cioè apparsi in epoca recente nel panorama

giurisprudenziale, e tuttora oggetto di rilevanti incertezze.

In considerazione dei limiti del presente scritto, per ciascuna delle suddette categorie si

esporranno unicamente le questioni più delicate o controverse, lasciando a degli accenni

di ordine generale il compito di richiamare i princìpi o le questioni ormai pacifici e

consolidati.

2. Il danno biologico.

2.1. Nozione.

La nozione di “danno biologico” (o danno alla salute, secondo una formula ormai

consolidata) è frutto di una venticinquennale elaborazione giurisprudenziale, ormai

consolidata nel definire tale danno come la temporanea o definitiva compromissione

della complessiva integrità psicofisica dell’individuo, suscettibile di essere

positivamente accertata sotto il profilo medico-legale, dalla quale sia derivato un

peggioramento del complessivo stato di benessere e dell’efficienza psicofisica del

soggetto leso (ex plurimis, Cass., 9-12-1994, n. 10539, in Foro it. Rep. 1994, Danni

civili, 170).

La definizione elaborata dalla giurisprudenza è stata recepita dal legislatore, nei

seguenti testi normativi:

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(a) l’art. 13, comma 1, d. lgs. 23-2-2000 n. 38 (“Disposizioni in materia di

assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, a norma

dell'articolo 55, comma 1, della legge 17 maggio 1999, n. 144”); il quale disciplina

l’indennizzo da parte dell’Inail del danno biologico subito dal lavoratore, definito

quest’ultimo come “la lesione all'integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico

legale, della persona”;

(b) l’art. 5, comma 2, l. 5-3-2001, n. 57 (“Disposizioni in materia di apertura e

regolazione dei mercati”), il quale disciplina il risarcimento dei danni alla persona

causati dalla circolazione dei veicoli, il quale definisce il danno in esame come “la

lesione all'integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medicolegale”.

Le definizioni normative hanno quindi, sia pure nel rispettivo e non generalizzato

ambito di applicazione, confermato indirettamente la definizione elaborata dalla

giurisprudenza.

In sintesi, dunque, si può definire il danno biologico come una perdita: per l’esattezza,

esso consiste nella riduzione o nella soppressione della qualità della vita del

danneggiato, a sua volta causata da una compromissione dello stato di salute goduto

prima del verificarsi del danno, e deve essere valutata prescindendo dalle conseguenze

patrimoniali di essa.

2.2. Caratteri.

Il danno alla salute presenta quattro caratteristiche.

In primo luogo, ha fondamento medico legale. Ciò vuol dire che, affinché possa

ritenersi sussistente un danno alla salute, deve sussistere una lesione in corpore:

intendendo per tale una compromissione dell’integrità fisica o di quella psichica del

danneggiato. Non costituisce, quindi, danno biologico, il mero stress, o il fastidio, o

l’insofferenza, o la tristezza, se non sfociano in vere e proprie patologie psichiche.

Secondo la S.C., infatti, “il danno alla salute (…) presuppone pur sempre una lesione

dell'integrità psicofisica, di cui, quel peggioramento è solo la conseguenza. Non,

dunque, la minore godibilità della vita è in sé risarcibile a tale titolo, ma solo la

lesione della salute, costituente il bene giuridicamente tutelato dall'art. 32 della

Costituzione” (Cass. 17.11.1999 n. 12756, in Riv. giur. circolaz. trasp., 2000, 308; da

rimarcare che il grassetto è nell’originale della sentenza).

Il fondamento medico-legale del danno biologico, si rivela incidentalmente, appare

imprescindibile per salvaguardarne la identità concettuale. Diversamente, infatti, non

sarebbe possibile distinguere il pregiudizio in esame dal danno morale.

In secondo luogo, il danno biologico ha natura disfunzionale, nel senso che per

l’esistenza di esso non è sufficiente una qualsiasi compromissione dell’integrità

psicofisica, ma è necessario che da tale compromissione conseguano, per sempre oppure

per un certo periodo di tempo, ripercussioni negative per l’esistenza del leso. Frequente

e reiterato è, nella giurisprudenza di legittimità, il riferimento al danno biologico come

ad un danno che si sostanzia non già nella mera lesione dell’integrità psicofisica, ma

nella perdita di funzioni vitali che da quella lesioni sono derivati o possono derivare

(Cass., 13-1-1993, n. 357, in Foro it. 1993, I, 1897; Cass., 18-2-1993, n. 2008, in Riv.

giur. circ. trasp., 1993, 790).

In terzo luogo, il danno biologico è omnicomprensivo, nel senso che nella liquidazione

del risarcimento occorre tenere conto (mediante la c.d. “personalizzazione” del

risarcimento, cioè l’adattamento al caso di specie dei criteri standard normalmente

utilizzati per la aestimatio) di tutti gli aspetti, nessuno escluso, della vita concreta

dell’individuo che vengono alterati o soppressi in conseguenza delle lesioni causate

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dall’altrui illecito: e quindi del pregiudizio estetico, di quello alla vita sessuale, della

maggior pena o fatica provata nello svolgimento dell’attività lavorativa, ecc..

Infine, il danno biologico è areddituale, nel senso che sia l’accertamento, sia la

valutazione, sia la liquidazione debbono prescindere del tutto da ogni e qualsiasi

riferimento al reddito od al patrimonio del danneggiato.

2.3. Liquidazione.

Il criterio oggi più diffuso per la liquidazione del danno biologico è quello del c.d. punto

variabile, o “metodo milanese ” (in quanto adottato per primo dal tribunale di Milano

nel 1995).

Questo sistema si fonda sul principio secondo cui ad ogni punto di invalidità deve

corrispondere un valore monetario. Questo valore varia secondo una precisa funzione

matematica. Esso, cioè, cresce in modo matematicamente predeterminato, in funzione

crescente rispetto al crescere dell’invalidità, ed in funzione decrescente rispetto all’età

della vittima. Per l’esattezza, secondo questo criterio il valore del punto cresce

geometricamente col crescere dell’invalidità (sicché ad invalidità doppie

corrisponderanno risarcimenti più che doppi), mentre cresce in modo aritmetico rispetto

all’età del danneggiato (sicché ad età doppia, a parità di postumi, corrisponderà un

risarcimento dimezzato).

Gli elementi essenziali del criterio del punto variabile, da stabilire ex ante, sono:

(a) il valore monetario “iniziale” del singolo punto d’invalidità: vale a dire la somma

che, in teoria, deve essere liquidata per una invalidità dell’1% in un soggetto di 1 anno;

(b) la funzione di crescita del valore del punto.

Il valore iniziale del punto può essere stabilito o attraverso la media dei precedenti

giudiziari del medesimo o di altri uffici, ovvero attraverso la fissazione di una somma

equitativamente scelta dal giudice (il primo criterio è senz’altro da preferire, perché pur

sempre meno arbitrario rispetto al secondo).

La funzione di crescita del valore del punto, che deve rispondere a criteri di scientificità,

non può essere fissata dal giudice, ma deve essere demandata all’analisi di medici legali

ed esperti statistici.

In base al criterio del punto variabile d’invalidità, una volta stabilito il valore monetario

iniziale del singolo punto, e la funzione matematica di crescita, è possibile sviluppare

una sorta di “prontuario”, usualmente detta “tabella”, nella quale indicare l’ammontare

complessivo del risarcimento dovuto per ogni grado di invalidità e per ogni fascia di età

del danneggiato.

Naturalmente, resta sempre salva la possibilità per il giudice di adattare equitativamente

il risarcimento (con aumenti o riduzioni rispetto all’importo risultante dall’applicazione

“pura” del criterio ora descritto), al fine di tenere debito conto di tutte le circostanze del

caso concreto.

Il criterio “milanese” del punto variabile è stato ritenuto valido ed utile dalla Corte di

cassazione, la quale gli ha riconosciuto evidenti pregi: evitare disparità di trattamento,

dare un contenuto oggettivo al giudizio di equità, consentire la prevedibilità delle

decisioni giudiziarie: purché, naturalmente, si tratti di un “vero” criterio del punto

variabile, cioè fondato su una precisa funzione matematica di crescita del valore del

punto, il quale a sua volta sia stato ricavato dalla media dei precedenti giudiziari (Cass.,

24-1-2000, n. 748).

Pur affermando l’utilizzabilità del criterio a punto e la validità delle “tabelle” elaborate

dai vari uffici giudiziari, la Corte di legittimità ha però aggiunto alcune importanti

precisazioni, quasi delle “istruzioni per l’uso”. E’ stato affermato, in particolare, che

l’uso del metodo a punto non può mai servire a sollevare il giudice da due precisi

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munera: da un lato, adeguare in ogni caso il risarcimento al caso concreto, senza

limitarsi a convertire automaticamente in denaro il grado di invalidità permanente

fornito dal c.t.u.; dall’altro, fornire adeguata motivazione della liquidazione operata,

indicando i fattori che hanno consigliato nel caso di specie la misura ed il tipo di

personalizzazione del risarcimento (Cass. 24.4.2001 n. 6023, in Dir e giust., 2001, fasc.

20, 71; Cass., 19-5-1999, n. 4852, in Danno e resp., 1999, 1104; Cass., 17-3-1999, n.

2425, in Foro it. Rep. 1999, Danni civili, n. 248).

Ciò vuol dire che, anche quando la liquidazione del danno biologico avviene col criterio

del punto variabile, essa si articola concettualmente in due fasi: una prima fase di scelta

ed applicazione del parametro standard, cioè quello uguale per tutti a parità di postumi;

ed una seconda fase di personalizzazione del risarcimento, vale a dire di adeguamento

della somma risultante dall’applicazione del parametro standard al caso concreto (con

maggiorazioni o riduzioni). Quando il giudice adotta il criterio del punto variabile, egli

è di fatto sollevato dall’onere di motivare tale scelta, con riferimento alla prima fase

della liquidazione. Basterà, al riguardo la mera indicazione che il parametro standard

sia stato desunto dalla tabella uniforme adottata dall’ufficio giudiziario, e ricavata dalla

media dei precedenti. L’obbligo di motivazione permane invece con riferimento alla

seconda fase (concettuale) della liquidazione, cioè la personalizzazione del

risarcimento: in questo permane per il giudice l’obbligo di motivare sull’an e sul

quomodo abbia ritenuto di adattare i valori della tabella al caso concreto (Cass., 19-5-

1999, n. 4852, in Danno e resp., 1999, 1104; Cass., 25-5-2000, n. 6873; Cass., 22-5-

2000, n. 6616).

La fase della “personalizzazione” del risarcimento può tuttavia mancare in due ipotesi:

(a) quando le circostanze del caso concreto sono tali da rendere perfettamente

rispondente all’entità concreta del danno proprio il valore che risulta dall’applicazione

della “tabella”;

(b) quando la parte non abbia allegato o provato alcuna peculiarità o specificità, tale da

giustificare la personalizzazione del risarcimento.

Ovviamente, nelle due ipotesi ora ricordate il giudice ha pur sempre l’obbligo di

motivare sul perché ha ritenuto superflua o impossibile la personalizzazione del

risarcimento.

2.4. Il danno iatrogeno.

Una particolare ipotesi di danno da responsabilità sanitaria è quella del danno c.d.

iatrogeno.

Per danno iatrogeno si intende l’aggravamento, ascrivibile a condotta imperita del

medico, delle conseguenze di una patologia o di una lesione già esistenti, e non

imputabili al medico.

Nel caso di danno iatrogeno gli eventuali postumi permanenti possono quindi risultare

quindi prodotti dal concorso di due condotte umane: quella del terzo, che ha causato la

lesione originaria; e quella del medico, chiamato a curarla, che l’ha invece aggravata.

Il danno iatrogeno pone all’interprete due particolari problemi: uno relativo

all’accertamento del nesso causale tra la condotta dell’originario danneggiante ed il

danno finale; l’altro, relativo alla quantificazione del danno nel caso di regresso tra i

condebitori (il medico ed il responsabile della lesione originaria); ovvero nel caso in cui

l’attore decida di agire pro quota contro ciascuno di essi.

Per quanto attiene al primo problema, la giurisprudenza è propensa a ritenere che del

danno complessivo rispondano in solido, ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p., e dell’art. 2055

c.c., sia l’autore della lesione originaria (sebbene meno grave di quella finale); sia il

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medico (sebbene senza la lesione originaria la condotta del medico sarebbe stata

irrilevante).

In particolare, si è ritenuto che l’originario danneggiante risponda anche

dell’aggravamento causato dal medico, sulla base del rilievo secondo cui quest’ultimo

non può considerarsi un evento eccezionale ai sensi dell’art. 41, comma secondo, c.p.:

così, secondo Cass. 24.4.2001 n. 6023, in Dir e giust., 2001, fasc. 20, 71, l’autore delle

lesioni risponde anche dell’aggravamento di esse, causato dall’imperizia del medico o

della struttura sanitaria, quando tale aggravamento costituisca un rischio normale

rispetto all’intervento medico reso necessario dalle originarie lesioni (nello stesso senso

si vedano anche Cass. pen. 5.4.1986 n. 2589, in Dir. e prat. ass. 1988, 191, che ha

ascritto al responsabile di un sinistro stradale anche l’errore compiuto dai medici che

errarono nell’eseguire un intervento di craniotomia sulla vittima; Cass. pen. 1.9.1986 n.

8884, ivi, 1988, 190; Trib. Perugia 8.6.1991, in Resp. civ. prev., 1993, 630, che ha

ascritto al responsabile di un sinistro stradale il danno derivato alla vittima

dall’esecuzione di una trasfusione di sangue infetto).

Ovviamente, così come il responsabile della prima lesione risponde dell’intero danno,

come aggravato dal medico, allo stesso modo anche quest’ultimo risponderà dell’intero

danno.

La sussistenza di un danno iatrogeno può inoltre far sorgere problemi particolari nella

liquidazione, quando il danneggiato agisca nei confronti del medico chiedendo non il

risarcimento dell’intero danno patito, ma soltanto il risarcimento dell’ulteriore danno

iatrogeno; oppure quando uno dei corresponsabili, che abbia risarcito il danneggiato per

intero, agisca in regresso ex art. 2055 c.c. nei confronti dell’altro corresponsabile.

In questi casi, è prassi di alcuni uffici giudiziari chiedere al c.t.u. quale sia il grado di

invalidità permanente residuato al danneggiato, e quanta parte di esso sia stato causato

dalla lesione originaria. In questo modo, il c.t.u. è indotto a fornire al giudice due

valutazioni percentuali: una per il danno originario, l’altra per il danno iatrogeno.

Questa prassi però non appare condivisibile, almeno nei casi in cui la liquidazione del

danno avviene col sistema del calcolo a punto. Infatti il valore monetario del punto

d’invalidità cresce in modo esponenziale rispetto al crescere dell’invalidità, sicché altro

è liquidare - ad esempio - una invalidità del 10%, altro è liquidare due invalidità del 5%.

Per questo motivo è stato ritenuto che, in tutti i casi in cui sia necessario “scorporare” la

misura del danno iatrogeno, il calcolo differenziale va compiuto non sottraendo il grado

di invalidità permanente effettivamente residuato, da quello che sarebbe residuato se

non vi fosse stato l’aggravamento dovuto all’imperizia del medico, ma sottraendo il

risarcimento effettivamente dovuto, da quello che sarebbe stato dovuto se non vi fosse

stato il danno iatrogeno (Trib. Roma 6.10.1997, in Giurispr. romana, 1997, 391). Così,

ad esempio, si immagini che, in seguito ad un sinistro stradale, un soggetto ventenne

riporti lesioni dalle quali sarebbero derivati, verosimilmente, postumi permanenti nella

misura del 10%. Si immagini altresì che, in seguito ad una errata terapia, i postumi

effettivamente residuati ascendono invece al 15%.

Se per calcolare il danno “differenziale” iatrogeno si sottraessero le due misure

dell’invalidità, il danno in questione sarebbe pari all’equivalente monetario di una

invalidità del 5%, e quindi - utilizzando ad esempio le tabelle adottate dal Tribunale di

Roma - a € 4046.

Se, invece, si procede col metodo di cui alla sentenza da ultimo citata, occorre liquidare

dapprima il danno che sarebbe residuato se non ci fosse stato l’intervento imperito del

medico (10%, e quindi € 13.487); quindi occorre liquidare il danno effettivamente

residuato (15%, e quindi € 22.254); il danno iatrogeno sarà dato dalla differenza tra

questi due valori, e quindi € 8.767.

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Come si nota, l’adozione del primo criteri porta ad una liquidazione dimezzata rispetto

al secondo.

2.5. La perdita delle chances di sopravvivenza.

Può accadere che l’errore del medico impedisca al paziente di conoscere in tempo di

essere affetto da una certa patologia, e quindi di adottare cure che sarebbero efficaci

solo se tempestive; oppure aggravi una patologia preesistente, riducendo le possibilità di

guarigione.

In questi casi, l’errore del medico compromette la speranza di vita futura del paziente, e

gli causa un danno che è stato definito come “perdita delle chances di sopravvivenza”.

E’ bene ricordare che qualsiasi tipo di lesione della salute, specie se grave, può

comportare la riduzione delle speranze di vita futura. Quando, però, prima del danno la

vittima aveva un’aspettativa di vita futura del tutto normale, la perdita di chances di

sopravvivenza (recte, la riduzione della durata probabile della vita futura) non incide in

alcun modo sulla misura del risarcimento, che andrà liquidato secondo i criteri ordinari,

e quindi come se la vittima avrebbe vissuto tutti i giorni che la media statistica della

mortalità gli aveva assegnato. Diversamente, infatti, l’offensore beneficerebbe di una

riduzione del debito risarcitorio proprio nei casi in cui il danno è stato più grave.

La nozione di “perdita di chances di sopravvivenza” va quindi riservata a quei casi in

cui la vittima, già prima dell’evento dannoso, aveva una limitata speranza di

sopravvivenza, e quando tale speranza si sia ulteriormente ridotta a causa dell’imperizia

o della negligenza del medico (Ziviz, Il risarcimento per la perdita di chance di

sopravvivenza, in Resp. civ. prev., 1999, 708 e nota 9).

In questi casi, i problemi che si pongono sia all’interprete, sia (e forse soprattutto) al

medico legale, sono due, a seconda del decorso della malattia.

Se la vittima muore prima della liquidazione del danno, il vero problema è quello di

accertare l’esistenza d’un valido nesso causale tra l’errore del medico e la morte del

paziente: accertare, cioè, se in assenza dell’errore il paziente sarebbe sopravvissuto più a

lungo.

Se, invece, la vittima è ancora in vita al momento della liquidazione del danno, il

problema diventa quello di quantificare un danno (il rischio di morte anticipata) che è

futuro e probabile, ma non certo.

Nella prima ipotesi (vittima deceduta prima della liquidazione del danno), ove possa

ragionevolmente affermarsi che, senza l’intervento del medico, il danneggiato sarebbe

vissuto più a lungo, l’autore dell’illecito sarà tenuto a risarcire il danno biologico patito

dalla vittima, per avere vissuto meno e peggio di quanto il destino gli riservava (Cass.

9.5.2000 n. 5881, inedita). Si badi che, in questo caso, la vittima ha diritto al

risarcimento del danno (che, ovviamente, si trasmette agli eredi) anche nel caso in cui

l’errore del medico abbia soltanto anticipato, e non già causato, un evento letale già

certo e previsto.

In uno dei pochi precedenti editi sull’argomento, il tribunale di Monza era stato

chiamato a liquidare il danno subìto da un malato di tumore, il quale in conseguenza di

una errata diagnosi non aveva potuto curarsi tempestivamente, perdendo una speranza di

sopravvivenza che, secondo la statistica clinica, era di 5 anni nel 30% dei casi.

Il tribunale ha ritenuto di liquidare quest’ultimo tipo di danno come segue:

(a) determinando la somma che sarebbe spettata alla vittima, nel caso di invalidità

permanente pari al 100%;

(b) dividendo tale somma per il numero di anni della vittima;

(c) moltiplicando il risultato per 5 (cioè il numero di anni di vita probabilmente persi:

cfr. Trib. Monza 30.1.1998, in Resp. civ. prev., 1999, 701).

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Nella seconda delle ipotesi sopra descritte (vittima ancora in vita al momento di

liquidazione del danno), riesce ancora più difficile immaginare un criterio

scientificamente obiettivo per la liquidazione del danno alla salute.

In un precedente di merito (Trib. Monza 18.2.1997, in Resp. civ. prev., 1999, 697), sono

stati liquidati 240 milioni di lire (in via equitativa) ad una donna la quale, in

conseguenza di un errore del medico durante un intervento di mastectomia, era stata

costretta a sottoporsi ad un secondo intervento, perdendo la possibilità di rimuovere alla

radice il male da cui era afflitta, ed esponendosi al rischio di probabili recidivazioni. La

motivazione, tuttavia, nulla dice sul criterio seguito dal giudice nel determinare la cifra

suddetta.

Una soluzione razionale potrebbe essere quella di liquidare il danno sulla base del grado

di invalidità permanente causato dall’illecito, secondo i criteri ordinariamente adottati

dall’ufficio giudicante, ma maggiorando il valore monetario del singolo punto di

invalidità, al fine di tenere conto della minore speranza di vita futura.

2.6. Il danno biologico da morte.

Può ritenersi ormai pacificato in giurisprudenza il problema della trasmissibilità agli

eredi del diritto al risarcimento del danno biologico.

Secondo l’orientamento consolidato dalla corte di legittimità, nel caso di morte

immediata della vittima, di lesioni, non è neppure ipotizzabile l’acquisto in capo alla

vittima del diritto al risarcimento del danno alla salute, in quanto: (a) il diritto al

risarcimento presuppone l’esistenza in vita di colui che ne è titolare; (b) il danno

biologico non consiste nella mera lesione dell’integrità psicofisica, ma nella “perdita”

(in termini di invalidità) da quella causata.

Di conseguenza, la morte immediata della vittima non produce alcun danno biologico in

senso stretto, perché non causa alcuna forma di invalidità, né temporanea, né

permanente (la sentenza capostipite è rappresentata da Cass. 2-3-1995 n. 2450, in Foro

it. Rep., 1995, Danni civili, 120; nello stesso senso, ex plurimis, Cass. 25.2.2000 n.

2134; Cass. 14.2.2000 n. 1633; Cass. 29.11.1999 n. 13336; Cass. 17.11.1999 n. 12756;

Cass. 10.2.1999 n. 1131, in Arch. circolaz., 1999, 613; Cass. 20-1-1999 n. 491; Cass.

28-11-1998 n. 12083, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 166; Cass. 12-10-1998 n.

10085; Cass. 10-9-1998 n. 8970, in Riv. giur. circ. trasp., 1998, 951; Cass. 30-6-1998 n.

6404, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 168; Cass. 22-5-1998 n. 5136, in Foro it.

Rep., 1998, Danni civili, 170; Cass. 7-4-1998 n. 3561, in Arch. circolaz., 1998, 777;

Cass. 18-11-1997 n. 11439, in Riv. giur. circ. trasp., 1998, 58).

A conclusioni diverse la S.C. perviene invece nell’ipotesi in cui la morte della vittima di

lesioni non sia immediata, ma sopraggiunga dopo un certo periodo di tempo. In questo

caso, infatti, la vittima subisce una lesione della salute, giuridicamente rilevante,

nell’arco di tempo che va dall’infortunio alla morte. Il diritto al risarcimento di tale

lesione, di conseguenza, viene trasmesso agli eredi. In questo caso infatti la vittima è

ben in grado di avvertire la “perdita” (biologica) subita, e quindi patisce un danno

biologico risarcibile (Cass. 27-12-1994 n. 11169, in Foro it., 1995, I, 1852; Cass.

10.2.1999 n. 1131, in Arch. circolaz., 1999, 613; Cass. 10-9-1998 n. 8970, in Riv. giur.

circ. e trasp. 1998, pag. 951; Cass. 24-4-1997 n. 3592, in Arch. circolaz., 1997, 899;

Cass. 29-5-1996 n. 4991, in Foro it., 1996, I, 3107; in Arch. circolaz., 1996, 726; in

Giust. civ., 1996, I, 2889; Cass. 29-9-1995 n. 10271, in Arch. circolaz., 1996, 292).

Va segnalato che le conclusioni cui perviene la S.C. non sono condivise da alcuni

giudici di merito e da una parte della dottrina, in quali in vario modo utilizzano

l’argomento retorico dell’a fortiori per sostenere la risarcibilità iure haereditario del

danno biologico, anche nel caso di morte immediata della vittima. Si afferma, infatti,

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che se l’ordinamento appresta tutela risarcitoria alla lesione della salute, a fortiori dovrà

essere tutelata sul piano risarcitorio la lesione della vita, che è bene maggiore rispetto

alla salute (Monateri-Bona-Oliva, Il nuovo danno alla persona, Milano 1999, 130 e

seguenti). Questo orientamento dottrinario è stato condiviso da alcune isolate decisioni

di merito, come Trib. Massa Carrara 16-12-1997, in Riv. giur. circ. trasp., 2000, 122, in

Arch. circolaz., 1998, 165, ove si parla espressamente di “espropriazione del bene-vita”

nel caso di lesioni mortali; o come Trib. Civitavecchia 26.2.1996, in Riv. giur. circ.

trasp.,1996, 958, ove si afferma che “il diritto alla vita viene a costituire, in base al

combinato disposto dell'articolo 32 cost. e 2043 cod. civ., non oggetto di un riferimento

programmatico a copertura costituzionale, ma posizione soggettiva perfetta tutelata

nell'ambito dei rapporti interprivati, che impone il risarcimento nella ipotesi di sua

violazione”.

In definitiva, secondo l’orientamento assolutamente prevalente, per liquidare il danno

biologico da morte iure haereditario è necessario che il pregiudizio della salute sia stato

concretamente avvertito dalla vittima: solo in tal modo, infatti, questa può acquistare il

diritto al risarcimento, e trasmetterlo agli eredi.

A tal fine, tuttavia, non è decisivo accertare se la sopravvivenza della vittima, dopo il

verificarsi del fatto lesivo, sia stata più o meno lunga: una sopravvivenza assai breve

può fare acquisire il diritto al risarcimento, se la vittima si è conservata lucida e presente

a se stessa; mentre una sopravvivenza anche di qualche giorno non basta a fare

acquistare il diritto al risarcimento, se la vittima non ha mai riacquistato conoscenza.

Questo principio, già desumibile dalle motivazioni delle sentenze sopra richiamate, è

stato di recente ribadito ore rotundo da Cass. 2.4.2001 n. 4783, in Dir. e giust., 2001,

fasc. 15, 39.

La motivazione di quest’ultima sentenza, tuttavia, sembra avere alquanto complicato un

quadro che si presentava, per quanto esposto, lineare. La S.C. ha infatti affermato che il

danno biologico subìto dalla vittima, nelle more tra la lesione e la morte, può consistere

non solo in una lesione fisica, ma anche in una lesione psichica. Ed il danno psichico,

osserva la Corte, può sorgere anche in brevissimo tempo, sicché anche quattro ore di

agonia bastano per fare acquisire alla sventurata vittima il diritto al risarcimento del

danno biologico. Sulla base di tale motivazione, la corte ha cassato la decisione di

merito che aveva ritenuto inesistente il danno biologico in capo alla vittima, per effetto

del breve tempo trascorso tra lesioni ed exitus.

Il tentativo compiuto dalla Corte è quello, con evidenza, di evitare ogni connessione tra

esistenza del danno e durata dell’agonia. Anche un’agonia brevissima, dice in sostanza

la Corte, può essere sufficiente perché venga ad esistenza in capo alla vittima il diritto al

risarcimento del danno biologico, e ciò in particolar modo con riferimento al danno

psichico.

E’ tuttavia evidente che enormi sono le difficoltà di accertamento in concreto di un

simile danno. Infatti, nel caso di danno fisico, poiché la lesione è evidente, il giudice

potrebbe agevolmente argomentare ex art. 2727 c.c., sostenendo che, dai fatti noti

dell’esistenza della lesione e della coscienza vigile della vittima tra sinistro e morte, è

possibile desumere il fatto ignorato che la vittima abbia avvertito quella invalidità che è

l’essenza del danno biologico.

Ma nel caso di danno psichico, come accertarne l’esistenza? Qui non ci sono lesioni

evidenti, né dati oggettivamente misurabili con accertamenti strumentali. Una lesione

corporea può essere accertata e descritta anche su un cadavere, ma shock e nervous

distress possono essere accertati solo su una persona viva e vitale, perché essi sono per

lo più desumibili non da atti, ma da comportamenti del malato, e richiedono spesso una

lunga e diuturna osservazione (per tutti, v. Brondolo e Marigliano, Il danno psichico,

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1996, Milano). Né può ragionevolmente sostenersi che ogni lesione fisica generi sempre

e sistematicamente un danno psichico, perché altrimenti si perverrebbe ad una sorta di

danno in re ipsa, oltre che ad una vera e propria duplicazione risarcitoria del danno

morale.

Si suole parlare di danno biologico da morte (in questo caso definito “iure proprio”)

anche per designare il danno alla salute, subito dai congiunti di persona deceduta in

conseguenza dell’altrui atto illecito. Così, ad esempio, costituisce un danno biologico da

morte iure proprio l’apoplessia, o la sindrome depressiva acuta, da cui una madre viene

colpita dopo avere appreso della tragica scomparsa del figlio in un sinistro stradale.

Il danno biologico da morte c.d. iure proprio costituisce una ordinaria ipotesi di danno

alla salute, la cui unica particolarità è che di non essere corpore corpori illatum. Il

danno in esame, sia per il giudice di legittimità, sia per quelli di merito, è pacificamente

risarcibile ex art. 2043 c.c.. E’ infatti rimasta praticamente priva di ogni seguito la

singolare interpretazione adottata da Corte costit. 27-10-1994 n. 372, in Foro it., 1994, I,

3297, secondo la quale il danno psichico subìto dai congiunti della vittima potrebbe

essere risarcito soltanto ex art. 2059 c.c..

Vale comunque la pena ricordare, al riguardo , che il danno da perdita del congiunto (o

“da lutto”), in quanto danno biologico, presuppone sempre l’esistenza d’una malattia

psichica o fisica, che va accertata in concreto, e non può mai essere presunta (Cass.

25.2.2000 n. 2134).

Non sono mancati, però, giudici di merito che hanno ritenuto di liquidare (o meglio, che

hanno ritenuto di ravvisare comunque) il danno biologico subìto dai parenti della

vittima anche in assenza non solo di accertamenti medico legali, ma anche di

documentazione clinica. In questi casi, solitamente, i giudici motivano la decisione

attraverso il ricorso allo strumento della presunzione semplice (art. 2727 c.c.), ovvero

del fatto notorio (art. 115 c.p.c.), ma in realtà pervengono ad una autentica duplicazione

risarcitoria. Si vedano in tal senso:

(-) Trib. Latina 1.8.1994, in Giur. it., 1995, I, 2, 426, secondo il quale per la

liquidazione del danno biologico subìto dai congiunti della vittima sarebbe sufficiente

anche la prova presuntiva (nella specie, però, la domanda venne rigettata per difetto di

prova, anche se solo presuntiva);

(-) Trib. Alba 21.1.1992, in Giur. merito, 1994, 82, ove si afferma che per la

liquidazione del danno biologico ai congiunti della vittima è sufficiente la

dimostrazione che questi abbiano subìto un danno alla vita di relazione, consistente in

una difficoltà di inserimento nella vita sociale;

(-) Trib. Milano 1.2.93, in Foro it., 1994, I, 1954, ove si afferma che il danno biologico

subìto dai parenti della vittima rientra nel fatto notorio;

(-) e soprattutto Trib. Milano 2.9.93, Dir. fam., 1994, I, 657, il quale ha liquidato ai

genitori di una sedicenne tragicamente perita in un incidente stradale, a titolo di danno

biologico, la somma di £ 60.000.000 ciascuno, sulla base della seguente motivazione:

si ritiene che (…) che la morte della figlia abbia inciso sulla personalità degli attori, e

la personalità altro non è se non una espressione della psiche dell’individuo. Pertanto,

in ultima analisi, l’evento dannoso ha certamente intaccato l’integrità psichica e quindi

il bene salute degli attori”.

Queste tendenze giurisprudenziali non appaiono condivisibili, in quanto mettono capo a

delle autentiche duplicazioni risarcitorie, in quanto:

(a) liquidano danni soltanto presunti, ma indimostrati;

(b) risarciscono a titolo di danno psichico (il quale richiede pur sempre un accertamento

medico legale) un pregiudizio che fatalmente tende a coincidere con quello morale,

sicché quest’ultimo finisce per essere liquidato due volte.

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3. Il danno patrimoniale.

3.1. Premessa terminologica.

Il danno patrimoniale ascrivibile a responsabilità del medico normalmente è

rappresentato:

(a) dalle somme inutilmente erogate dal paziente per cure eseguite in modo imperito;

(b) dalle conseguenze patrimoniali del danno alla salute.

Queste ultime, a loro volta, possono consistere:

(b’) nelle spese di cura e di assistenza;

(b’’) nella perdita o nella riduzione del reddito (sia attuale che futuro).

Mentre la liquidazione del danno causato dalle spese sostenute per la cura e l’assistenza

non dà normalmente luogo a soverchi problemi, uno degli aspetti tuttora più controversi

in giurisprudenza è rappresentato dalla liquidazione del danno da perdita o riduzione del

reddito, o della capacità di produrlo.

L’esame della giurisprudenza di merito rivela infatti varie disparità di vedute sia in

ordine all’accertamento, sia in ordine alla liquidazione del danno in esame.

In particolare, per quanto riguardo l’accertamento del danno:

(a) alcuni giudici ritengono che il danno patrimoniale futuro (da perdita del reddito) sia

in re ipsa, sol che il grado di invalidità permanente superi una certa percentuale;

(b) altri giudici ritengono che il danno da perdita della capacità di produrre reddito

debba essere quantificato in termini percentuali dal consulente medico legale, cui

demandano la relativa indagine;

(c) altri giudici ancora si limitano a chiedere al medico legale un giudizio sul nesso

causale tra lesione e riduzione della capacità reddituale.

Per quanto concerne, invece, la liquidazione del danno in esame:

(a) alcuni giudici adottano il criterio equitativo puro, liquidando una somma di denaro

“a stralcio”;

(b) altri giudici usano un criterio tabellare, moltiplicando il reddito del danneggiato per

il grado percentuale di riduzione di una nozione scientificamente inesatta, quale quella

di “capacità lavorativa specifica”, la cui determinazione è rimessa al medico legale (e

quindi secondo la metodologia propria delle assicurazioni sociali);

(c) altri giudici capitalizzano il reddito perduto (o la parte di reddito perduto) in base

alla presumibile vita lavorativa futura che restava al danneggiato.

Le incertezze riguardano altresì il lessico da adottare, posto che in talune decisioni

appaiono utilizzati in modo promiscuo i concetti di invalidità, incapacità, inabilità,

capacità di guadagno, capacità lavorativa.

Per chiarezza metodologica, appare dunque opportuna una premessa di ordine generale.

Qualsiasi lesione della salute può produrre effetti sia personali (postumi permanenti,

malattia, forzosa rinuncia ad attività non remunerative), sia personali (perdita o

riduzione del lavoro, spese di cura).

Queste due serie di effetti vanno sempre tenute concettualmente distinte, anche se talora

possono presentarsi strettamente intrecciate.

Pertanto - sulla scorta della più accreditata dottrina medico-legale -, appare opportuno

indicare con il lemma invalidità (temporanea o permanente) le conseguenze, comunque

valutabili, di una compromissione della essenza “biologica” dell’individuo.

Il lemma incapacità (temporanea o permanente), designerà invece i riflessi patrimoniali

derivanti dalla momentanea o definitiva impossibilità, per il soggetto leso, di svolgere la

propria attività lavorativa.

Di conseguenza, si potranno esprimere le due categorie di effetti dannosi nella tabella e

con le definizioni seguenti:

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Durata degli effetti dannosi

Persona Perpetua Transeunte

Invalidità permanente Invalidità temporanea

Ambito degli

effetti

dannosi Patrimonio Incapacità (di guadagno)

permanente

Incapacità (di guadagno)

temporanea

(da Fiori, Evoluzione, problemi e prospettive del risarcimento del danno alla persona

da responsabilità civile, in Il danno alla persona: tutela civilistica e previdenziale a

confronto, Atti del convegno tenuto a Firenze, 17-19 ottobre 1996, Scuola di Sanità

Militare, Firenze, 1998, 49).

Alla luce di tali premesse generali, può osservarsi che ogni lesione della salute può

riverberare effetti sull'attività lavorativa in tre modi:

(1) precludendola del tutto, con conseguente soppressione totale del reddito;

(2) costringendo il soggetto leso a mutare funzioni o qualifica, ovvero a ridurre la

propria produttività, con conseguente riduzione del reddito;

(3) costringendo il soggetto leso, per svolgere le medesime attività cui attendeva prima

del sinistro, a sopportare sforzi maggiori, ovvero a subire una maggiore usura.

I primi due casi costituiscono altrettante ipotesi di danno patrimoniale; nella terza

ipotesi, invece, la limitata validità del danneggiato non contrae il suo reddito lavorativo,

ma sottopone la sua validità residua ad una maggiore usura (è questo il c.d. danno alla

cenestesi lavorativa). Quest’ultima è dunque di un’ipotesi di danno biologico, la quale

non può dare origine ad un autonomo risarcimento, ma deve essere valutata come una

soltanto delle molteplici componenti di quella valutazione complessa che è la

valutazione del danno alla salute (Trib. Roma 21.1.1997, Riv. giur. circ. trasp. 1997,

134; Trib. Roma 11.7.1995 n. 10077, Riv. giur. circ. trasp., 1996, 141).

Nel valutare gli effetti pregiudizievoli che una lesione della salute ha prodotto

sull’attività lavorativa del leso, occorre dunque tenere distinti due aspetti ben diversi:

(a) da un lato, la maggiore usura, fatica, o difficoltà incontrate nello svolgimento delle

attività lavorative;

(b) dall’altro, la perdita patrimoniale (riduzione o perdita del reddito).

I due tipi di danno possono coesistere, ed in questo caso dovrà tenersi conto di entrambi

nella aestimatio del danno.

3.2. Accertamento del danno.

Si è già detto che una considerevole parte dei giudici di merito liquida il danno in esame

(perdita o riduzione verosimile del reddito futuro, causata da una lesione della salute)

chiedendo al medico legale di accertare il grado percentuale di riduzione della “capacità

lavorativa specifica”, e quindi moltiplicando il reddito della vittima per tale valore

percentuale; il risultato viene capitalizzato in base ad un coefficiente per la costituzione

delle rendite vitalizie (o, in qualche caso, più correttamente, in base ad un coefficiente

per la costituzione delle rendite temporanee).

Non si deve esitare a definire tale prassi erronea, sia nei presupposti scientifici che nei

fondamenti giuridici.

E’ erronea nei presupposti scientifici, perché tutte le voci più autorevoli della medicina

legale sono assolutamente concordi nel ritenere che la compromissione della capacità di

produrre reddito possa essere solo descritta, dal medico legale, ma giammai valutata in

termini percentuali, per almeno quattro ragioni.

La prima ragione è che, nel momento in cui si chiede al c.t.u. di determinare in gradi

percentuali la riduzione della capacità di guadagno, si obbliga il medico legale ad

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accertare qualcosa che travalica il settore di specifica competenza, in quanto al medico

legale può chiedersi soltanto in che modo la prestazione lavorativa risulti o risulterà

impedita o resa difficoltosa, ma non di misurare in termini percentuali la perdita

patrimoniale futura.

La seconda ragione è che una misura percentuale può prestarsi a misurare l’invalidità,

che è in generale pensabile come identica per soggetti della stessa età, dello stesso sesso

e con identici postumi, ma non l’incapacità, la quale è estremamente soggettiva, e varia

a seconda del tipo di lavoro svolto dalla vittima (Norelli, Spunti dottrinari in tema di

riduzione della capacità lavorativa specifica, in Danno emergente-lucro cessante, atti

dei convegno tenuto a Vieste il 2-4 maggio 1997, 1998, 28-29); il che comporta che le

disabilità lavorative possono essere descritte, ma non valutate in termini percentuali dal

medico legale (Fallani, Accertamento della incapacità lavorativa specifica, in Il danno

alla persona: tutela civilistica e previdenziale a confronto, in Atti del convegno tenuto a

Firenze, 17-19 ottobre 1996, Firenze, 1998, 118).

La terza ragione è che non esiste alcun baréme medico legale dal quale ricavare la

riduzione di capacità produttiva, né sarebbe possibile costruirlo, in quanto la riduzione

di tale capacità è questione da valutare caso per caso, sfuggente ad ogni

generalizzazione (si veda, al riguardo, Fiori, Evoluzione, problemi e prospettive dei

risarcimento del danno alla persona da responsabilità civile, in Dir. econ. ass., 1997, 3,

il quale parla, riguardo alle valutazione della c.d. “incapacità lavorativa specifica” da

parte dei medici legali, di “anarchica eterogeneità”).

La quarta ragione è che, domandando al medico legale la determinazione in termini

percentuali del grado di riduzione della capacità di reddito, oltre al rischio di ingenerare

disparità di trattamento in considerazione della rilevata mancanza di un baréme di

riferimento, si corre altresì il pericolo di riproporre una riedizione mutato nomine del

vieto concetto di incapacità lavorativa generica.

Sarebbe pertanto preferibile che il giudice domandasse al medico legale non di misurare

percentualmente l’incapacità di guadagno, ma piuttosto di descrivere come ed in che

modo i postumi permanenti impediscano del tutto, limitino in parte o rendano più

oneroso lo svolgimento dell’attività lavorativa. Sulla base di tale esauriente descrizione,

sarà poi compito del giudice stabilire se nella specie si sia verificato soltanto un danno

alla cenestesi lavorativa (danno personale), di cui tenere conto nella liquidazione del

danno biologico, ovvero sussista anche il ragionevole ed attendibile pericolo di

riduzione del reddito futuro (danno patrimoniale).

La prassi qui in esame è anche, come si diceva, giuridicamente infondata, perché

consente di liquidare somme rilevanti a titolo di danno patrimoniale in assenza di

contrazioni reddituali attuali o potenziali, e per di più sulla base di illazioni e non di

prove (per tali aspetti sia consentito il rinvio a Rossetti, Il danno da lesione della salute,

Padova 2001, 918 e ss.).

Sulla delicata questione della liquidazione del danno patrimoniale da lesione della

salute, la S.C. non ha dato ancora indicazioni univoche.

Secondo un primo orientamento, attento alle indicazioni della medicina legale sopra

ricordate, la prova della riduzione della capacità di lavoro non può mai ritenersi, per ciò

solo, prova di una corrispondente riduzione della capacità di guadagno. Perché possa

essere liquidato il danno patrimoniale da perdita del reddito futuro, quindi, è sempre

necessario che il giudice accerti, sulla scorta delle prove fornite dal danneggiato:

(a) in quale misura la menomazione fisica abbia inciso sulla capacità di svolgimento

dell'attività lavorativa specifica;

(b) in quale misura la ridotta capacità di lavoro abbia inciso sulla capacità di guadagno;

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(c) se ed in quale misura nella vittima persista o residui, dopo e nonostante l'infortunio

subito, una capacità ad attendere ad altri lavori, confacenti alle sue attitudini e

condizioni personali ed ambientali, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di

reddito, in luogo di quelle perse o ridotte.

Solo se dall'esame di detti elementi risulti una riduzione della capacità di guadagno e

del reddito effettivamente percepito, questo (e non la causa di questo, cioè la riduzione

della capacità di lavoro specifica) è risarcibile sotto il profilo del lucro cessante (tra le

più recenti, in tal senso, Cass. civ., 29-10-2001, n. 13409, inedita; Cass. civ., 07-08-

2001, n. 10905, inedita; Cass. 27.7.2001 n. 10289, inedita; Cass. civ., sez. III, 22-06-

2001, n. 8599).

Vi è tuttavia un secondo orientamento, secondo il quale l’accertata sussistenza di

postumi permanenti di una certa entità fa presumere ipso facto l’esistenza di un danno

patrimoniale, che può essere liquidato anche se il danneggiato non abbia provato una

concreta ed attuale riduzione del reddito.

In tal senso, tra le ultime, si vedano Cass. 14.2.2002 n. 16076, in Dir. e giust., 2002,

fasc. 20, 29, la quale ha ritenuto che la semplice dimostrazione di un periodo di

malattia, da parte di un libero professionista, fosse sufficiente per liquidare a questi il

danno patrimoniale da riduzione (temporanea) del reddito; oppure Cass. civ., sez. III,

24-04-2001, n. 6023, ivi, 2001, fasc. 20, 71, la quale ha ritenuto che la perdurante

percezione del reddito (nella specie, da lavoro dipendente), da parte del danneggiato,

non preclude la liquidazione del danno da lucro cessante, quando “non possa escludersi”

che la vittima, nel periodo di malattia ed a causa dei postumi, abbia perso “ulteriori

occasioni di guadagno, normalmente connesse al tipo di impiego”.

3.3. Liquidazione.

(A) La liquidazione del danno da incapacità temporanea (totale o parziale) deve

avvenire:

(a) sommando e rivalutando i redditi (o la frazione di essi) perduti al momento della

liquidazione;

(b) sommando e scontando i redditi (o la frazione di essi) ancora non percepiti al

momento della liquidazione, ma che sarebbero stati acquisiti con certezza o con

verosimile certezza.

La rivalutazione, preferibilmente, deve avvenire utilizzando l’indice del costo della vita

elaborato mensilmente dall’ISTAT.

Lo sconto dei redditi futuri, ovviamente, deve essere compiuto quando è verosimile che

l’incapacità debba protrarsi per periodi superiori all’anno: in caso contrario, infatti, il

maggior valore ricavabile dal pagamento anticipato non sarebbe apprezzabile.

Lo sconto del reddito futuro deve avvenire secondo la nota formula matematica

S = C ×r ×t

1 0 0

Dove S è lo sconto, ovvero la somma da decurtare a causa del pagamento attuale; C è il

capitale liquidato; r è il tasso percentuale di sconto (pari al tasso d’inflazione); t è il

tempo.

Così, per fare un esempio, se il leso ha perduto la possibilità di svolgere una prestazione

d’opera professionale, per la quale avrebbe incassato la somma di € 5.000 soltanto fra

un anno, ipotizzando un tasso d’inflazione del 2%, lo sconto da applicare è:

100 100

5.000212

12 = = × × S

e dunque il debito del danneggiante sarà di € 4.900.

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Ovviamente, ove, l’anticipo sia inferiore all’anno, la lettera t nella formula che precede

andrà sostituita con la frazione di mesi che si intende calcolare (ad esempio, 3/12 per un

ritardo di 3 mesi).

(B) La liquidazione del danno derivante da lesioni che hanno prodotto una permanente

incapacità di lavoro, avviene in modo diverso a seconda che sia perduto l’intero reddito

od una frazione di esso, ed a seconda che il danneggiato possa o meno utilmente

reimpiegare la propria capacità di lavoro.

(A) Perdita totale del reddito.

La liquidazione del danno patrimoniale consistente nella perdita del reddito può

avvenire attraverso la costituzione di una rendita (art. 2057 c.c.), ma questo sistema è

scarsissimamente applicato.

Il metodo più seguito è quello della liquidazione di una somma di denaro che

rappresenta il valore capitale di una rendita vitalizia.

In applicazione di questo criterio, occorre attualizzare l’intero reddito perduto dal

danneggiato in base ad un coefficiente di capitalizzazione.

Normalmente, vengono adottati i coefficienti di capitalizzazione per la costituzione

delle rendite vitalizie immediate, di cui alla tabella allegata al r.d. 9.10.1922 n. 1403,

che ha approvato le tariffe della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali.

Si tenga tuttavia presente che il coefficiente di cui alla suddetta tabella è un coefficiente

per la costituzione di una rendita vitalizia, cioè di durata pari alla durata della residua

vita futura. Il soggetto danneggiato non avrebbe tuttavia percepito il reddito per tutta la

durata della vita, ma solo sino all’età pensionabile. Per tenere conto di questa

circostanza, possono in teoria adottarsi due sistemi:

(a) si può liquidare il capitale applicando il coefficiente di costituzione della rendita

vitalizia, applicando poi un abbattimento (normalmente il 10%) per tenere conto dello

scarto tra vita fisica e vita lavorativa. Alcuni giudici di merito però - ed il procedimento

in sé non può ritenersi scorretto - omettono di applicare l’abbattimento per lo scarto tra

vita fisica e vita lavorativa, in considerazione del fatto che la tabella allegata al r.d.

1403/22 è stata costruita in base alle tavole di sopravvivenza della popolazione italiana

calcolata in base ai censimenti del 1901 e del 1911, ed alle statistiche mortuarie del

biennio 1910-1912. Poiché da allora la durata della vita media è sensibilmente cresciuta,

il coefficiente indicato dalla tabella rende oggi un capitale leggermente inferiore a

quello che risulterebbe dall’applicazione di un coefficiente, per così dire, aggiornato

(b) Oppure si può liquidare il capitale applicando un coefficiente per costituzione di una

rendita temporanea (normalmente al tasso del 4,5%), cioè di una rendita di durata

predefinita. In questo caso la durata della rendita sarà pari all’età del danneggiato al

momento della liquidazione meno l’età massima pensionabile. La tabella di

capitalizzazione temporanea è stata pubblicata da Gentile, Tabelle di capitalizzazione

per la liquidazione del danno alla persona, Milano, 1950, 41).

In tutti e due i casi, la liquidazione del danno va effettuata sommando i redditi già

perduti dalla data dell’illecito alla data della liquidazione (e, se necessario,

rivalutandoli); e capitalizzando i redditi futuri prevedibilmente conseguibili, sulla base

della vita futura residua (Cass. 28-11-1988 n. 6403, Foro it. Mass. 1988; Cass.

18.11.1997 n. 11439, Riv. giur. circ. trasp. 1998, 58).

L’età del danneggiato da prenderne in considerazione per individuare il coefficiente di

costituzione sia della rendita vitalizia, sia di quella temporanea, deve essere quella del

momento della liquidazione, e non quella del momento del sinistro.

Le formule per la liquidazione di questo tipo di danno saranno dunque:

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(-) ove si adotti il coefficiente di capitalizzazione vitalizia,

D = å R1 ,R2 ,R3 ...Rn + (R×k ) -10%

ove D è il danno da lucro cessante; R1, R2, R3... Rn sono i redditi mensili maturati

prima della liquidazione, rivalutati in base all’indice ISTAT del costo della vita relativo

all’epoca della maturazione; R è il reddito al momento del sinistro rivalutato al

momento della liquidazione; k è il coefficiente di capitalizzazione per le rendite

vitalizie, desunto dall’allegato al r.d. 1403/22;

(-) ove si adotti il coefficiente di capitalizzazione temporanea,

D R R R R R n = å + × 1 2 3 , , ... t

ove t è il coefficiente di capitalizzazione per le rendite temporanee.

(B) Perdita parziale del reddito.

La liquidazione del danno da perdita parziale del reddito avviene con i medesimi criteri

indicati in precedenza. L’unica differenza consiste nel fatto che a base del calcolo andrà

posto non l’intero reddito, ma quella frazione di esso che è andata perduta.

(C) Perdita totale o parziale del reddito, con possibilità di reimpiego.

Un caso particolare è costituito dall’ipotesi in cui il lavoratore, a causa della lesione,

perda il proprio lavoro ed il reddito che da esso si procurava, ma non perda la possibilità

di impiegare proficuamente aliunde le proprie capacità di lavoro. E’ il caso, ad esempio,

del pilota di aerei il quale perda il posto a causa dell’abbassamento del visus di un

occhio, lesione che non gli preclude verosimilmente di reimpiegarsi in lavori d’ordine o

di concetto.

Ricorrendo una simile fattispecie, il danno da perdita del reddito non può essere

liquidato attraverso la capitalizzazione di una rendita calcolata sulla presumibile vita

futura del danneggiato. A meno che questi non sia molto anziano, deve infatti

presumersi sulla base dell’id quod plerumque accidit (art. 115 c.p.c.) che la persona

leso, entro un certo arco di tempo, potrà trovare una nuova occupazione. Dunque in

questi casi, per evitare sovracompensazioni, è opportuno liquidare il danno da perdita

del reddito capitalizzando il reddito perduto in base ad un coefficiente di

capitalizzazione temporanea, individuato in base al numero di anni presumibilmente

occorrenti al lavoratore per riconvertirsi e trovare un nuovo impiego (preferibilmente, in

numero non inferiore a 4-5).

(D) Perdita presumibile del reddito futuro, in assenza di contrazioni reddituali in atto.

Problemi particolari sorgono in quei casi in cui non viene dimostrata una riduzione del

reddito in atto, ma è verosimile (ex art. 2727 c.c.) che tale riduzione si verificherà nel

futuro.

In primo luogo, è opportuno ricordare a questo riguardo che il danno futuro va risarcito

non soltanto nelle ipotesi in cui esso si produrrà con assoluta certezza, ma anche quando

possa ritenersi - partendo dall'esame di situazioni già esistenti - che tale danno si

produrrà secondo una ragionevole e fondata previsione (Cass. 17-04-1996, n. 3629, Riv.

giur. circ. trasp. 1996, 321; Cass. 16-09-1996, n. 8281, Foro it. Mass. 1996).

Sulla liquidazione del danno da riduzione futura della capacità di reddito, quando non si

registra in atto una perdita patrimoniale, permangono tuttora – come già accennato -

disparità di vedute tra i giudici di merito.

Secondo un primo orientamento, la diminuzione della capacità di reddito può essere

misurata percentualmente, e tale determinazione percentuale va demandata ad un c.t.u.

medico legale. Ottenuta dal c.t.u. la quota percentuale di riduzione della capacità di

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reddito, basterà moltiplicare il reddito documentato per tale percentuale (Nannipieri, Il

concetto di capacità produttiva nel nuovo sistema di risarcimento del danno alla

persona, in Danno emergente-lucro cessante, atti del convegno tenuto a Vieste dal 2 al

4 maggio 1997, Pisa, 1998, 200).

A questo sistema possono muoversi le obiezioni già viste nel § precedente.

Appare pertanto preferibile, per liquidare il danno in esame, innanzitutto domandare al

c.t.u. una analitica descrizione del modo in cui la lesione ha inciso sul concreto

svolgimento dell’attività lavorativa. uindi, in primo luogo stabilire se sia verosimile che

i postumi residuati alla lesione, con l’andar del tempo, possano causare una riduzione

degli introiti. Accertato che i postumi residuati alla lesioni, anche se non hanno ridotto il

reddito in atto, lo ridurranno verosimilmente nel futuro, potrà stimarsi in via equitativa

l’aliquota di reddito che sarà perduta in futuro, e capitalizzarla secondo la formula già

descritta in precedenza, sub (B).

4.1. La nozione di danno morale nel diritto vivente.

Il legislatore del 1942 aveva usato l’espressione “danno non patrimoniale”, di cui all’art.

2059 c.c., nel senso amplissimo ed omnicomprensivo di qualsiasi pregiudizio diverso da

quelli strettamente economici.

Come emerge chiaramente dalla lettura della Relazione al codice, il legislatore

dell’epoca non concepiva un danno non patrimoniale diverso dal danno morale. Tutto

ciò che non era patrimoniale, era “non patrimoniale”, e se un’afflizione dell’animo

aveva anche conseguenze patrimoniali, essa veniva per ciò solo sussunta nell’area del

danno patrimoniale.

La dottrina, tuttavia, manifestò ben presto una acuta insofferenza nei confronti dell’art.

2059 c.c., il quale di fatto limitava la risarcibilità delle conseguenze non patrimoniali

della lesione di beni personali dell’individuo. Così, per ridurre l’area di applicabilità

dell’art. 2059 c.c., la dottrina ricorse alla “tecnica del travaso” (l’espressione è dovuta a

Busnelli, Interessi della persona e risarcimento del danno, in Riv. trim. dir. proc. civ.,

1996, 1). Si sostenne, cioè, che l’espressione “danno non patrimoniale”, utilizzata

dall’art. 2059 c.c., non facesse riferimento a tutti i danni patrimoniali, ma soltanto ad

una porzione ristretta di essa, e segnatamente al “danno morale soggettivo”, cioè alle

sofferenze morali. In questo modo, si disse, poiché la lesione della salute non si

sostanzia in un mera afflizione soggettiva, ma è causa anche di rinunce forzose alle

attività quotidiane, essa non è disciplinata dall’art. 2059 c.c., ma dall’art. 2043 c.c.

(Scognamiglio, Il danno morale (contributo alla teoria del danno extracontrattuale), in

Riv. dir. civ., 1957, 277, ma specialmente 287-297).

La tecnica del “travaso” venne fatta propria dalla giurisprudenza (dapprima di merito,

quindi legittimità e costituzionale) per affermare dapprima l’autonoma risarcibilità del

danno alla salute, quindi l’autonoma risarcibilità della lesione di altri diritti

costituzionalmente protetti, anche in assenza di conseguenze patrimoniali. Questa

giurisprudenza, oggi, può ritenersi “diritto vivente”. Al riguardo meritano di essere

ricordate, tra le altre:

- Corte costit., 14-07-1986, n. 184, in Foro it., 1986, I, 2053, la quale ha escluso

dall’area dell’art. 2059 c.c. il diritto al risarcimento del danno biologico;

- Cass., 11-11-1986, n. 6607, in Foro it., 1987, I, 833, la quale ha escluso dall’area

dell’art. 2059 c.c. il diritto al risarcimento del danno subito dal coniuge per la perdita

dello ius in corpus nei confronti del partner;

- Cass., sez. I, 07-06-2000, n. 7713, in Dir. e giust., 2000, fasc. 23, 23, la quale ha

escluso dall’area dell’art. 2059 c.c. il diritto al risarcimento del danno subito dal figlio

per la mancata fruizione dell’assistenza morale e materiale da parte della figura paterna;

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- da ultimo, e soprattutto, Cass. 10.5.2001 n. 6507, in Dir. e giust., 2001, fasc. 22, 15, la

quale ha escluso dall’area dell’art. 2059 c.c. il diritto al risarcimento del danno da

lesione della reputazione (su tali decisioni si veda anche infra, § 5).

In tutte le decisioni sopra riportate (molte altre se ne potrebbero citare, ma quelle che

precedono hanno valore paradigmatico), l’organo giudicante ha articolato un

ragionamento così riassumibile

Ø (ipotesi) l’art. 2059 c.c. e la limitazione ivi prevista concerne unicamente i danni

morali subiettivi, ovvero la sofferenza morale transeunte;

Ø (tesi) le norme della costituzione che riconoscono e tutelano i diritti fondamentali

dell’individuo hanno natura immediatamente precettiva e sono applicabili anche nei

rapporti tra privati (c.d. Drittwirkung);

Ø ergo, la lesione di un diritto costituzionalmente protetto genera un danno

immediatamente risarcibile, sol che sia dimostrata la lesione, ed il relativo

risarcimento si aggiungerà a quello del danno morale, là dove la lesione integra

altresì gli estremi di un reato.

Oggi, pertanto, l’area di operatività dell’art. 2059 c.c. appare irreversibilmente

circoscritta ai soli “danni morali soggettivi”. Qualsiasi diversa interpretazione dell’art.

2059 c.c., allo stato attuale del diritto vivente, non uscirebbe dalla seguente alternativa:

o porre in crisi l’affermata autonoma risarcibilità dei danni da lesione di diritti personali

costituzionalmente protetti; o rendere costituzionalmente illegittimo l’art. 2059 c.c..

Da questo punto di vista, pertanto, appare del tutto condivisibile l’opinione di quanti, sia

pure da prospettive diverse, hanno visto nella vicenda del danno biologico uno

strumento di reazione dell’ordinamento ai limiti risarcitori imposti dall’art. 2059 c.c.

(Forchielli, Danno morale e danno biologico, in Riv. dir. civ., 1990, 17; e soprattutto

Rossato, Considerazioni in tema di risarcimento del danno non patrimoniale. Una

comparazione economico-giuridica, in Riv. dir. civ., 2000, II, 60-61).

4.2. Questioni di legittimità costituzionale.

Le osservazioni che precedono circa l’ambito di operatività dell’art. 2059 c.c., tuttavia,

non risolvono affatto, ma anzi lasciano più che mai insoluto il problema dell’art. 2059

c.c., e del suo effettivo contenuto precettivo.

Infatti la lettura “costituzionalmente orientata” dell’art. 2059 c.c. (la tesi, cioè, secondo

cui la lesione di qualsiasi interesse non patrimoniale costituzionalmente protetto è

risarcibile ex se, ai sensi dell’art. 2043 c.c.), produce due pericolosi effetti collaterali.

In primo luogo, la duplicazione del risarcimento, quando il medesimo pregiudizio

(poniamo, una lesione dell’onore) viene risarcito sia a titolo di danno personale (lesione

del bene dell’onore in sé), sia di danno morale. Per quanti sforzi si faccia, infatti, appare

impossibile distinguere la sofferenza morale in senso stretto, dal danno “in sé”

rappresentato dalla lesione del diritto della personalità ex art. 2 cost..

In secondo luogo, la lettura corrente dell’art. 2059 c.c. conduce ad una interpretazione

abrogatrice della norma. Infatti, nel momento in cui si ammette la risarcibilità di

qualsiasi interesse non patrimoniale, invocando il combinato disposto dell’art. 2043 c.c.

e della norma costituzionale che si assume di volta in volta, violata, si perviene al

medesimo risultato che l’art. 2059 c.c. intendeva vietare: e cioè la risarcibilità del danno

morale senza limiti.

Sulla base di queste osservazioni, è stata assai di recente sollevata una nuova questione

di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c., per contrasto con gli artt. 2 e 3 cost.,

nella parte in cui non consente il risarcimento del danno morale da perdita del congiunto

(Trib. Roma (ord.) 11.5.2002, inedita).

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I dubbi di legittimità costituzionale, per come prospettati nell’ordinanza di rimessione,

si fondano su tre assunti.

In primo luogo, si osserva che il dolore causato dalla perdita di un prossimo congiunto

costituisce lesione di un diritto costituzionalmente protetto, ex art. 2 cost., come tale

meritevole di tutela risarcitoria in ogni caso, e non solo in quelli previsti dalla legge.

In secondo luogo, si nega che l’art. 2059 c.c. possa essere suscettibile di letture

“costituzionalmente orientate”, ad esempio espungendo dal suo ambito di applicazione

le lesioni di ritti costituzionalmente protetti. Ciò sul presupposto che la suddetta lettura

costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. si traduce, nella sostanza, in una

disapplicazione della norma, in quanto qualsiasi interesse morale, a causa dell’ampia

formulazione dell’art. 2 cost., è suscettibile di essere considerata costituzionalmente

protetta.

Da ciò, due conseguenze ritenute irrazionali nell’ordinanza di rimessione (con

conseguente violazione dell’art. 3 cost. sul piano della ragionevolezza): da un lato,

l’interpretatio abrogans dell’art. 2059 c.c.; dall’altro, la duplicazione del risarcimento

quando il fatto illecito integra pacificamente gli estremi di un reato. In questo caso,

infatti, la medesima sofferenza (morale) verrebbe risarcita al danneggiato due volte: sia

a titolo di risarcimento del danno da lesione dell’interesse costituzionalmente protetto,

sia a titolo di risarcimento del danno morale.

4.3. I soggetti legittimati.

Legittimato a domandare il risarcimento del danno morale, nel caso di malpractice

sanitaria, è innanzitutto la vittima della lesione della salute, ex artt. 2059 c.c. e 185 c.p..

E’ tuttora controverso se in questo caso il risarcimento del danno morale possa essere

domandato anche dai congiunti del leso. Tale questione ha dato origine ad un contrasto

in senso alla S.C..

Secondo l’orientamento più antico, e sino a poco tempo fa assolutamente prevalente, ai

congiunti della vittima di lesioni non spettava il risarcimento del danno morale, in

quanto solo il leso poteva considerarsi “vittima” del reato, e quindi solo quegli aveva

diritto al risarcimento del danno morale, ex art. 185 c.p. (Cass. 21.5.1996 n. 4671, in

Riv. giur. circolaz. trasp., 1996, 935; Cass. 17.11.1997 n. 11396, in Foro it. Rep., 1997,

Danni civili, 108; Cass. 17.10.1992 n. 11414, in Arch. circolaz., 1993, 158; Cass.

16.12.1988 n. 6854, in Giur. it., 1989, I, 1, 962; Cass. 21.5.1976 n. 1845, Giust. civ.,

1976, I, 1652).

Una considerevole parte della giurisprudenza di merito, tuttavia, si era sempre posta in

consapevole contrasto con l’orientamento del giudice di legittimità, osservando che il

tenore letterale dell’art. 185 c.p. non limitava affatto il diritto al risarcimento alla vittima

del reato (Trib. Udine 29.1.1998, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1999, 562; Trib. Napoli

31.12.1996, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1997, 837; App. Venezia 11.2.1993, in Giur.

merito, 1994, 37).

A questo secondo orientamento, negli ultimi anni, aveva aderito con uno storico

revirement anche la III sezione della Corte di cassazione. La sentenza che ha segnato il

mutamento di giurisprudenza (Cass. 23.4.98 n. 4186, in Danno e resp., 1998, 686. In

questa sentenza, la S.C. ha ritenuto che:

(a) la risarcibilità del danno morale ai congiunti del leso è consentita sia dall’art. 1223

c.c., sia dall’art. 40 c.p.;

(b) non è impedita dalle particolari norme che regolano il risarcimento del danno morale

(artt. 2059 c.c. e 185 c.p.), in quanto il danneggiato (civile) dal reato non è

necessariamente il titolare del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice;

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(c) non è impedita dalla particolare natura o dalla funzione del risarcimento del danno

morale, in quanto - che sia la funzione che si intenda assegnare al risarcimento del

danno morale (risarcitoria, satisfattiva, punitiva, mista) - comunque la risarcibilità del

danno morale ai congiunti del leso non contrasterebbe con essa.

La tesi della risarcibilità del danno morale ai congiunti del leso, successivamente alla

sentenza di cui si è detto, è stata costantemente ribadita dalla III sezione civile della

Corte di cassazione (si vedano, nello stesso senso, Cass. 1.12.1999 n. 13358, in Foro it.

Rep., 1999, Danni civili, n. 148; Cass. 19.5.1999 n. 4852, in Foro it., 1999, I, 2874).

Con questa tesi, invece, si è posta in consapevole contrasto la sezione lavoro della Corte

di cassazione, rimasta fedele all’orientamento tradizionale. Secondo la sezione lavoro

della S.C., il danno morale ai congiunti del leso non sarebbe risarcibile per il motivo che

esso non è una conseguenza diretta delle lesioni, ma solo mediata, e quindi rappresenta

un danno irrisarcibile ex art. 1223 c.c.. Quanto poi al nuovo orientamento inaugurato da

Cass. 4186/98, sopra riportata, la sezione lavoro ne ha ritenuto la insostenibilità,

osservando che “anche nella materia in oggetto deve trovare applicazione il generale

principio fissato dall'art. 1223 c.c. con la conseguente risarcibilità dei soli danni diretti

(tali dovendosi considerare per i congiunti unicamente i danni derivanti dalla morte

della vittima)” (Cass. 23.2.2000 n. 2037, in Riv. giur. circ. trasp., 2000, 520).

Legittimata, infine, è stata ritenuta la madre nel caso di aborto prematuro ed

involontario, causato dal fatto illecito del terzo (Cass. 11.3.1998 n. 2677, in Riv. giur.

circolaz. trasp., 1998, 564; Trib. Roma 27.10.1999, in Giurispr. romana, 1999, 402;

Trib. Roma 24.1.1995, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1995, 543; Trib. Camerino 17.2.90,

in Arch. circolaz., 1990, 783).

L’obbligo di risarcire il danno morale, oltre che nel caso di lesioni personali, può

sorgere ovviamente nel caso di morte della vittima.

In questo caso, il diritto al risarcimento può spettare ai congiunti di quest’ultima sia iure

proprio che iure successionis.

Il diritto al risarcimento del danno morale spetta iure successionis quando la vittima,

dopo avere subìto una compromissione dell’integrità psicofisica, muoia prima di essere

stata risarcita, purché sussista un apprezzabile lasso di tempo tra la lesione e la morte

(Cass. 25.2.1997 n. 1704, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1997, 316; Cass. 6-10-1994 n.

8177, in Foro it., 1995, I, 1852; Trib. Roma 13.10.1999, in Giurispr. romana, 2000, 156

- secondo cui, peraltro, la liquidazione del danno morale in questi casi deve tenere conto

del lasso di tempo trascorso tra la lesione e la morte -; Trib. Viterbo 24.1.1997, in

Giurispr. romana, 1997, 421; Trib. Trento 19.5.1995, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1995,

782). In questo caso il diritto al risarcimento del danno morale per le lesioni subìte,

entrato nel patrimonio della vittima al momento del fatto illecito, viene da questa

trasmesso ai propri eredi.

Ai congiunti di una persona deceduta in conseguenza dell’altrui atto illecito spetta poi,

iure proprio, il risarcimento del danno morale da essi direttamente sofferto, in

conseguenza della scomparsa della persona cara (Cass. 25.2.1997 n. 1704, in Riv. giur.

circolaz. trasp., 1997, 316).

Sono legittimati a domandare il risarcimento del danno morale per la morte del

congiunto i parenti più stretti della vittima (coniuge, genitori, figli, fratelli). Pacifica è

pure la risarcibilità del danno morale in favore del convivente more uxorio, purché

dimostri la stabilità e la durevolezza del rapporto (App. Milano 16-11-1993, in Foro it.,

1994, I, 3212; Trib. Roma 9-7-1991, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1992, 138). La

risarcibilità del danno morale è stata invece esclusa per il coniuge separato, quando sia

dimostrata l’esistenza tra i coniugi di un profondo dissidio al momento della morte di

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uno di essi (Cass. 20.12.2001 n. 16073, in Guida al dir., 2002, fasc. 2, 44; Trib. Venezia

22-1-94, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1994, 862).

La giurisprudenza ammette che il risarcimento possa essere domandato anche da altri

parenti, e pure se non conviventi, ma a condizione che dimostrino da essere legati allo

scomparso da un intenso vincolo affettivo (Trib. Roma (ord.) 25.11.1997, in Riv. giur.

circolaz. trasp., 1998, 90; Trib. Viterbo 24.1.1997, in Giurispr. romana, 1997, 421; in

ambedue le decisioni ora citate è stato liquidato il danno morale in favore del nipote ex

fratre).

4.4. Danno morale e danno psichico.

Secondo una formula tralatizia, spesso ricorrente nelle sentenze di legittimità, il danno

morale consisterebbe nel “turbamento psichico soggettivo e transeunte, causato dall’atto

illecito”. Il danno morale, più esattamente, viene identificato con la “sofferenza”, cioè

con lo stato di prostrazione ed abbattimento provocato dall’evento dannoso.

Il danno morale non va però confuso con il danno psichico, cioè con la compromissione

patologica dell’integrità psichica. Tra le due nozioni, infatti, sussistono due differenze

strutturali.

In primo luogo, il danno psichico deve fondarsi su una patologia, cioè su una alterazione

patologica delle funzioni psichiche dell’individuo, patologia che deve essere a sua volta

nota alla psichiatria, e medicolegalmente accertabile. Il danno morale al contrario, non

costituisce una malattia: esso è fonte di sofferenza per il danneggiato, ma non altera in

senso patologico le sue funzioni psichiche (Ziviz, Viaggio ai confini del danno psichico,

in Resp. civ. prev., 1996, 176).

In secondo luogo, diversi sono gli effetti (o, secondo altri, i “contenuti”) delle due

nozioni di danno. Il danno psichico, in quanto danno biologico, per definizione sussiste

quando il danneggiato, per effetto della lesione, è costretto a rinunciare, in tutto od in

parte, ad alcune tra le attività esistenziali cui era solitamente dedito prima del sinistro. Il

danno morale, al contrario, non comporta una perdita od una riduzione di attività

esistenziali, ma soltanto una sensazione di dolore (Giannini e Pogliani, Il danno da

illecito civile, Milano 1997, 186-187).

La differenziazione tra danno psichico e danno morale va dunque ricercata nei

presupposti (presenza d’una patologia nel primo caso; assenza di patologie nel secondo

caso) e nei contenuti (limitazione di attività esistenziali nel primo caso; nessuna

limitazione nel secondo caso), e non già nella mera quantità od intensità della sofferenza

provata dal danneggiato.

4.5. Il danno sofferto in stato di incoscienza.

Dal principio secondo cui il danno morale risarcibile soltanto nei casi in cui sia

dimostrata, anche in via presuntiva ex art. 2727 c.c., una sofferenza morale, dovrebbe

logicamente dedursi la irrisarcibilità del danno morale quando la vittima (ad esempio, di

lesioni personali) a causa del proprio stato di incoscienza, non abbia avvertito alcuna

sofferenza.

Su tale questione, tuttavia, deve registrarsi un contrasto (inconsapevole) di

giurisprudenza.

Secondo un primo orientamento, il danno morale è risarcibile anche quando la vittima

versi in stato di incoscienza. In questo caso, infatti, la distruzione della coscienza

preclude sì al danneggiato di avvertire le sensazioni dolorose causate dalle lesioni, ma

gli preclude altresì tutte le alte sensazioni gioiose della vita quotidiana, e quindi anche il

danno morale sopportato in stato di incoscienza è senz’altro risarcibile. Ha osservato, al

riguardo, la S.C., che “il danno non patrimoniale (o morale), che per il combinato

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disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p. è risarcibile nel solo caso in cui derivi da un

fatto illecito configurante gli estremi di un reato, ha il suo fondamento in un ingiusto

anche se non duraturo turbamento dello stato d'animo in diretta conseguenza

dell'offesa subita e può consistere nella riduzione e nello squilibrio delle capacità

intellettive del leso.

Conseguentemente il danno non patrimoniale è ipotizzabile anche nel caso di sofferenze

fisiche e morali sopportate in stato di incoscienza ed è risarcibile di regola, al pari di

quello economico, mediante un indennizzo pecuniario (pecunia doloris) inteso a dare al

danneggiato una soddisfazione in compenso del pregiudizio morale o psichico sofferto

(Cass., sez. III, 6-10-1994 n. 8177, in Resp. civ. prev., 1995, 309). Questa decisione, in

verità, aveva suscitato l’obiezione secondo cui costituirebbe una contradictio in adiecto

parlare di “sofferenze (…) sopportate in stato di incoscienza”, posto che se non v’è

coscienza, non vi può essere capacità di provare sensazioni di sorta. La tesi della S.C.,

nondimeno, era stata condivisa anche da diversi giudici di merito: ad esempio, da Trib.

Como 24-7-1991, in Riv. giur. circ. trasp., 1992, 134, il quale osservò che il

risarcimento del danno morale non comprende “le sole situazioni di dolore o di disagio,

ma comprende anche la lesione dei diritti soggettivi non caratterizzati da una valenza

economica, nonché la perdita della possibilità di fruire dei beni materiali e spirituali

che la natura riserva agli uomini e, quindi si estende anche alla distruzione della

coscienza, che è premessa necessaria per l'esercizio dei cennati diritti e della detta

possibilità”.

In altre decisioni, però, la Corte di legittimità è pervenuta conclusioni opposte, negando

la risarcibilità del danno morale ad un bimbo nato cerebroleso per colpa del ginecologo,

sul presupposto che le gravissime menomazioni psico-motorie subite dal neonato

avevano annullato la sua personalità psichica, rendendolo conseguentemente del tutto

dipendente dai suoi familiari, soltanto ai quali poteva pertanto riconoscersi il danno

morale per le sofferenze direttamente patite (Cass., sez. I, 05-12-1995, n. 12505, in Foro

it., 1996, I, 2494, ma si badi che lo specifico punto qui in discussione, trattato nel § 7

dei “motivi della decisione”, non ha formato oggetto di massimazione). Anche questo

orientamento risulta condiviso da alcuni giudici di merito, secondo i quali, se il danno

morale consiste nella sofferenza per una “privazione”, non può sussistere tale danno in

chi non abbia conosciuto il genitore, e quindi non abbia provato - verosimilmente - il

dolore del distacco (Trib. Casale Monferrato 11.11.1998, in Arc. giur. circ. sin. strad.,

1999, 132).

Più di recente, la S.C. sembra avere adottato una linea “empirica”, stabilendo che nel

caso di lesioni gravissime con perdita della coscienza, alla vittima di esse può spettare,

come può non spettare, il diritto al risarcimento del danno morale: tutto dipende da una

questione tecnica, e ciò stabilire da un punto di vista medico legale se la vittima,

nonostante la gravità delle lesioni, aveva perduto o conservato la capacità di avvertire

sensazioni dolorose fisiche o psichiche. La Corte aggiunge anche, incidenter tantum,

che la perduta capacità di provare sensazioni dolorose può concepirsi unicamente nel

caso in cui il leso sia ridotto ad una vita meramente vegetativa, con totale soppressione

di tutte le facoltà mentali (Cass. 4.4.2001 n. 4970, in Dir. e giust., 2001, fasc. 16, 28).

Il problema qui in esame appare di difficile soluzione, in quanto a sostegno di ciascuna

delle tesi contrapposte possono rinvenirsi validi argomenti.

A favore della tesi più permissiva (il danno morale è risarcibile anche nel caso di coma

od incoscienza) militano le ragioni del buon senso: diversamente, infatti, il responsabile

sarebbe esentato dal risarcimento del danno morale proprio nei casi in cui la condotta

illecita è stata di tale gravità da provocare l’incoscienza od il coma della vittima. Come

dire che una responsabilità più grave è premio a se stessa.

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Tuttavia anche la tesi più restrittiva ha dalla sua qualche argomento, ed in particolare la

pregressa giurisprudenza della Corte, ove si cerca di definire la nozione di danno

morale. Frequentissime sono infatti le decisioni nelle quali la sofferenza psichica, il

disagio psichico, il turbamento psichico, vengono considerati tout court danno morale:

si vedano ad esempio Cass. 14.6.1965 n. 1203, in Resp. civ. prev. 1965, 479 (secondo

cui il danno morale consiste nella riduzione o nello squilibrio delle capacità intellettive

del paziente); Cass. 10.1.1966 n. 198, in Resp. civ. prev. 1966, 254 (secondo cui il

danno morale costituisce una perturbazione psichica); Cass. 23.2.1968 n. 631, in Resp.

civ. prev. 1969, 107 (secondo cui il danno morale consiste nel perturbamento arrecato

dall’autore del fatto illecito alla sfera psichica del soggetto passivo); Cass. 25.3.1970 n.

829 e Cass. 23.5.1975 n. 2063, ambedue inedite (secondo cui il risarcimento del danno

morale serve a compensare il danneggiato delle sofferenze psichiche patite); Cass.

15.2.1972 n. 405, in Resp. civ. prev. 1972, 576, e Cass. 7.4.1979 n. 1996, inedita

(secondo cui il danno morale consiste nelle menomazioni che si ripercuotono sulla sfera

psichica del danneggiato); Cass. 6.4.1983 n. 2396, in Resp. civ. prev., 1983, 760

(secondo cui il danno non patrimoniale consiste nel turbamento determinatosi entro la

psiche del soggetto in conseguenza dell’illecito); ed infine Cass. 6.10.1994 n. 8177, cit.,

secondo cui il danno morale consiste in un turbamento ingiusto dello stato d'animo o in

uno squilibrio o riduzione delle capacita' intellettive della vittima. Tutte queste

definizioni fanno chiaramente riferimento al danno morale come ad un vulnus delle

capacità psichico-intellettive della vittima, sicché - a volere tenerle per ferme -, si

dovrebbe concludere che là dove la psiche è soppressa, non può concepirsi un danno

morale.

V’è, infine, da considerare il problema della liquidazione: se, cioè, il danno morale

sofferto in stato incoscienza debba essere liquidato con gli stessi criteri ordinariamente

adottati per la liquidazione del danno morale sofferto dal soggetto compos sui. Sul

punto si rinviene un solo, remoto precedente di legittimità, secondo cui l’eventuale

“ottundimento dell’animo” (per usare le parole della S.C.), preesistente all’evento di

danno, non vale ad escludere il risarcimento del danno morale, ma può essere “tenuto

presente” - secondo le circostanze del caso - dal giudice di merito al fine di

personalizzare la liquidazione del risarcimento (Cass. 4.7.1962 n. 1687, in Resp. civ.

prev., 1962, 632).

4.6. Reati punibili a querela.

Con la recente sentenza 10.4.2002 n. 5121, in Dir e giust., 2002, fasc. 19, le Sezioni

Unite della Cassazione hanno stabilito che “il danno da reato, derivante da delitti

perseguibili a querela quando questa non sia stata proposta, si prescrive non già nel

termine di cui all’art. 2947, comma terzo, c.c., ma nel più breve termine dettato dai

primi due commi dell’art. 2947 c.c.”. Nel corpo della motivazione di questa decisione la

Corte, per conciliare la soluzione adottata col disposto dell’art. 75 c.p.p., afferma obiter

dictum che: (a) la remissione della querela estingue il reato (art. 152 c.p.); (b) nel caso

di estinzione del reato per rimessione della querela si applicano i termini di prescrizione

brevi di cui ai primi due commi dell’art. 2947 c.c.; (c) ergo, sarebbe illogico

assoggettare il diritto al risarcimento al termine di prescrizione lungo, se la querela non

è mai stata proposta; ed a quello breve, se è stata proposta e poi rimessa.

Questa motivazione ha posto all’interprete un nuovo problema: sarà risarcibile il danno

morale in tutti i casi in cui la querela non sia stata proposta? Si potrebbe infatti

sostenere, in teoria, che la Corte ha sussunto la mancanza di querela tra le ipotesi di

estinzione del reato; e che l’estinzione del reato impedisce la liquidazione del danno

morale.

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Non sembra, tuttavia, che questa conclusione possa condividersi, per due ragioni.

Da un lato, perché la S.C. ha sempre consentito al giudice civile di accertare l’esistenza

del reato, ai fini della liquidazione del danno morale, anche quando sia estinto (ex

plurimis, Cass., sez. III, 23-06-1999, n. 6400, in RFI, 1999, Giudizio (rapporto), n. 19).

Dall’altro, perché le Sezioni Unite non hanno affatto affermato che la mancanza di

querela è causa di estinzione del reato, ma hanno affermato - il che è cosa ben diversa -

che ai soli fini dell’individuazione del termine di prescrizione applicabile, l’estinzione

del reato per remissione di querela è equiparabile in via interpretativa all’ipotesi di

mancanza ab origine della querela.

5. I “nuovi danni”.

5.1. La lesione di diritti costituzionalmente protetti.

Si è già accennato (supra, § 4.1) alla tendenza giurisprudenziale vòlta a ridurre sempre

più l’ambito di operatività della limitazione risarcitoria posta dall’art. 2059 c.c..

Secondo questo orientamento, la lesione di qualsiasi diritto costituzionalmente protetto,

quand’anche non dia luogo ad alcun pregiudizio patrimoniale, costituisce comunque un

danno risarcibile ex se, in base al combinato disposto dell’art. 2043 c.c. e della norma

che si assume di volta in volta violata.

Molteplici sono le sentenze, anche di legittimità, che hanno affermato tale principio, me

in epoca recente il “manifesto” di tale tendenza può essere a buon diritto individuato

nella motivazione di Cass. 10.5.2001 n. 6507, in Dir. e giust., 2001, fasc. 22, 15.

Con tale sentenza, la Corte ha esteso al danno da lesione della reputazione, così come a

tutti i danni da lesione di un diritto della personalità, la fortunata formula già

sperimentata con riguardo al danno biologico, e che può così sillogizzarsi:

(a) i diritti fondamentali della persona, costituzionalmente garantiti, sono altrettanti

diritti soggettivi perfetti;

(b) la lesione di tali diritti, in virtù del combinato disposto dell’art. 2043 c.c., e della

norma costituzionale che sancisce il diritto leso, genera un danno risarcibile;

(c) tale danno deve essere risarcito in aggiunta sia al danno morale, sia a quello

patrimoniale in senso stretto.

Per pervenire a questa conclusione, la Corte si rifà ampiamente alla celebre decisione

resa da Corte cost. 14/7/1986 n. 184 (in Giust. civ., 1986, I, 2324), con la quale la

Consulta proclamò che la lesione della salute è immediatamente risarcibile in base al

combinato disposto degli artt. 32 cost. e 2043 c.c. (peraltro il giudice delle leggi non

chiarì mai se tale applicazione dell’art. 2043 c.c. fosse diretta od in via analogica).

Come nella decisione del 1986, anche la sentenza 6507/01 parte dalla Costituzione,

affermando che il diritto alla reputazione è uno dei diritti fondamentali dell’individuo;

che esso rientra quindi nell’ “elenco aperto” di cui all’art. 2 cost.; che, pertanto, la

lesione di essa genera un danno risarcibile, accanto ed in aggiunto rispetto al danno

patrimoniale ed a quello patrimoniale. Su questo “nucleo duro”, rappresentato

dall’equazione “2 cost. + 2043 c.c. = danno risarcibile” la Corte innesta poi ulteriori

precisazioni, a maggior definizione della fattispecie.

La lesione di un diritto costituzionalmente protetto, secondo il giudice di legittimità, può

dunque generare tre pregiudizi diversi:

(a) un danno morale (ex art. 2059 c.c.), se il fatto lesivo integra gli estremi di un reato;

(b) un danno patrimoniale (ex art. 2043 c.c.), se per effetto della lesione la vittima ha

subito una deminutio patrimonii;

(c) un danno personale, il quale sussiste sempre e necessariamente, sol che sia provata la

lesione: all’attore dunque, per ottenere il risarcimento, sarà sufficiente dimostrare

soltanto la lesione del diritto (ad esempio, l’offesa alla reputazione), perché da questa

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consegue automaticamente la perdita o la riduzione di un valore della persona umana,

che dà diritto al risarcimento del danno”.

Sintetizzando, si potrebbe quindi dire che mentre la sola prova della condotta illecita

non è mai prova sufficiente, né del danno patrimoniale, né del danno personale, la prova

della lesione di un diritto della personalità è prova idonea e sufficiente per ottenere il

risarcimento del danno personale.

Questo nuovo orientamento della Cassazione, come già accennato, sembra porre

all’interprete diversi problemi.

In primo luogo, v’è da chiedersi se davvero lo schema dogmatico messo a punto dalla

sentenza n. 184/86 della Corte costituzionale, con riferimento al danno biologico, possa

essere “esportato” verso altri tipi di danno.

Il danno biologico ha infatti una peculiarità tutta sua, rappresentata dalla obiettiva

accertabilità e misurabilità in termini medico-legali. Ma tutti gli altri danni, anche

derivanti dalla lesione di diritti personalissimi, non accertabili obiettivamente, e che

incidono in senso ampio nella sfera emotiva del soggetto, sono danni morali belli e

buoni. Data un’offesa calunniosa, come distinguere la sofferenza morale causata da

essa, e risarcibile ex art. 2059 c.c., con il danno da “lesione del diritto “personalissimo”,

ex art. 2 cost.? Insomma, l’impressione è che la corte abbia attuato, anche in questo

caso, la tecnica dello “svuotamento”. Vale a dire che la Corte, non potendo o non

volendo rilevare quel che appare ormai evidente, e cioè che la limitazione posta dall’art.

2059 c.c. impedisce di apprestare adeguata tutela risarcitoria a diritti costituzionalmente

protetti, al fine di soddisfare le ragioni dei danneggiati “sottrae” dall’ambito di

applicazione dell’art. 2059 c.c. ora questo, ed ora quel diritto. Insomma, si lascia ferma

la noma limitatrice del risarcimento, ma si erode continuamente il suo raggio d’azione.

In secondo luogo, l’operazione compiuta dalla Corte (che potremmo intitolare “come il

danno biologico, così il danno alla reputazione”), riposa sul principio secondo cui,

quando viene leso un diritto costituzionalmente protetto, “ una volta provata detta

lesione, il danno è in re ipsa”. Questo principio, in effetti, venne formulato nella

sentenza 184/86 della Corte costituzionale. Tuttavia, in seguito, sia la Consulta, sia la

stessa Corte di cassazione, l’avevano espressamente abbandonato. Era stato infatti

proprio il giudice delle leggi che, interpretando “autenticamente” la sentenza 184/86,

aveva affermato: “là dove qualifica come «presunto» [il danno alla salute],

identificandolo col fatto (illecito) lesivo della salute, [la sentenza n. 184/86] intende

dire che la prova della lesione è, in re ipsa, prova dell'esistenza del danno (…), non già

che questa prova sia sufficiente ai fini del risarcimento. E' sempre necessaria la prova

ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una

perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione

o privazione di un valore personale (non patrimoniale)” (così Corte cost. 27.10.1994 n.

372, in Giust. civ., 1994, I, 3029).

Ora, se si compara questa motivazione con quella di Cass. 6507/01, ci si avvede che le

due sentenze affermano principi esattamente opposti: per la Consulta, la prova della

lesione non è sufficiente ai fini del risarcimento; per la Cassazione, invece, “una volta

provata detta lesione, il danno è in re ipsa”.

Un terzo aspetto problematico è rappresentato dalla possibilità che l’orientamento

manifestato da Cass. 6507/01, cit., possa prestarsi ad interpretazioni distorsive ed

“alluvionali”.

Infatti la Corte, nell’affermare che esiste un unico diritto della personalità, comprensivo

di tutti gli aspetti di quest’ultima, ha aggiunto che spetta agli interpreti “costruire tutte

le posizioni soggettive idonee a dare garanzia (…) ad ogni proiezione della persona

nella realtà sociale”. Ciò vuol dire che il singolo giudice potrà creare un nuovo danno,

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ogni volta che ritenga leso un diritto costituzionalmente garantito. A tale facoltà, la

Corte ha pensato di porre anche un limite: ed infatti, non tutte le “proiezioni della

persona nella realtà sociale” godono di pari tutela costituzionale e, perciò risarcitoria.

Ove sia leso un diritto personale, potrà farsi luogo al risarcimento soltanto ove

quest’ultimo “si ponga come conseguenza della tutela dei diritti inviolabili dell’uomo”.

Ma ecco allora il problema: come distinguere le ipotesi in cui l’impedimento

all’esercizio di una attività personale costituisce lesione di un diritto inviolabile, e

quindi danno, dalle ipotesi in cui, pur essendovi impedimento all’esercizio d’una attività

personale, non vi è lesione d’un diritto inviolabile, e quindi non vi è danno? I due rischi

opposti sono, da un lato, quello di dare tutela risarcitoria soltanto ai diritti primari (vita,

salute, onore); dall’altro, quello di attribuire il rango di “diritto inviolabile” a qualsiasi

bizzarra attività qualcuno abbia deciso di dedicarsi.

5.2. Il danno esistenziale.

Tra le nuove categorie di danno proposte all’attenzione degli interpreti, lo sforzo

attualmente più articolato è motivato è quello volto a sostenere la tesi del c.d. “danno

esistenziale”, inteso quale categoria unica ed unificante dei danni non patrimoniali

diversi da quelli morali, che necessariamente riassorbe in sé il danno biologico, quello

alla vita di relazione, quello alla serenità familiare, alla vita sessuale, eccetera (Ziviz,

Alla scoperta dal danno esistenziale, in Contr. e impr., 1994, 864-865).

Secondo i sostenitori della tesi in esame, il danno esistenziale si differenzia da tutti e tre

i consueti tipi di danno: da quello biologico, in quanto esiste a prescindere da una

lesione della psiche o del corpo; da quello morale, in quanto esso non consiste in una

sofferenza (la quale, ovviamente, può essere indotta dal danno, ma non si identifica con

esso), ma nella rinuncia ad una attività concreta; da quello patrimoniale, in quanto esso

può sussistere a prescindere da qualsiasi compromissione del patrimonio. E’ stato

icasticamente osservato, a questo riguardo, che il danno morale si identifica con “le

lacrime”, il danno esistenziale si identifica in una “rinuncia al fare” (Cendon, Non di

sola salute vive l’uomo, in Studi Rescigno, V, Milano 1999, 139).

Il danno esistenziale viene dunque configurato come un pregiudizio areddituale (in

quanto il relativo risarcimento prescinde del tutto dal reddito del danneggiato), non

patrimoniale (in quanto non ha ad oggetto la lesione di beni od interessi patrimoniali),

tendenzialmente omnicomprensivo, in quanto qualsiasi privazione, qualsiasi lesione di

attività esistenziali del danneggiato può dar luogo a risarcimento.

I sostenitori della nozione di danno esistenziale precisano altresì che la nuova figura non

viola (o meglio, non aggira) il disposto dell’art. 2059 c.c.. Si sostiene, infatti, che la

rigida dicotomia tra danno patrimoniale e danno morale, voluta dal legislatore del 1942

ed incentrata sugli artt. 2043-2059 c.c., è definitivamente entrata in crisi con

l’emersione della nozione di danno biologico: di un danno, cioè, tipicamente non

patrimoniale, ma ritenuto risarcibile e sottratto all’ambito di applicabilità dell’art. 2059

c.c.. L’affermata risarcibilità ex artt. 2043 c.c. e 32 cost. del danno biologico

dimostrerebbe che non esiste una irrisarcibilità assoluta dei danni non patrimoniali non

causati da reato. Insomma, il diritto vivente per come elaborato dalla giurisprudenza

costituzionale e da quella di legittimità ha sempre di più eroso l’ambito di applicazione

dell’art. 2059 c.c., sicché occorre prendere atto che esiste oggi non una, ma molteplici

categorie di danni non patrimoniali: di queste, sono soggette alla limitazione di cui

all’art. 2059 c.c. soltanto i danni non patrimoniali consistenti in sofferenze dell’animo (i

danni morali propriamente detti), mentre la suddetta limitazione non sussiste per le altre

categorie di danni non patrimoniali (Monateri, Alle soglie di una nuova categoria

risarcitoria: il danno esistenziale, in Danno e resp., 1999, 6).

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La risarcibilità del danno esistenziale viene fondata dunque puramente e semplicemente

sul disposto dell’art. 2043 c.c., secondo un sillogismo argomentativo che può così

riassumersi:

(a) lo svolgimento di attività non remunerative costituisce un interesse dell’individuo,

che l’ordinamento tutela;

(b) la lesione della possibilità di svolgere tali attività costituisce di conseguenza un

danno ingiusto ex art. 2043 c.c.;

(c) l’ingiustizia del danno ne comporta necessariamente la risarcibilità.

I sostenitori della categoria del danno esistenziale adducono, a sostegno della validità di

essa, una serie di decisioni giurisprudenziali, solitamente distinte in due gruppi: quelle

che hanno fatto espresso riferimento al “danno esistenziale”; quelle che hanno di fatto

liquidato un danno esistenziale (cioè un danno non patrimoniale asseritamente diverso

da quello morale), ma problematicamente etichettandolo con una categoria nota

(biologico, patrimoniale, ecc.) o creata ad hoc (danno edonistico, danno da perdita del

rapporto parentale, ecc.).

Alla nozione di danno esistenziale sono stati mossi in dottrina diversi rilievi, che

possono essere così riassunti:

(a) eccessiva indeterminatezza: infatti, intendendo per “danno” qualsiasi privazione,

qualsiasi rinuncia a qualsiasi attività anche non communis omnium, si renderebbe

risarcibile ogni e qualsiasi “capriccio” del danneggiato;

(b) il danno esistenziale, in quanto danno non patrimoniale, non potrebbe essere

risarcito se non nei casi di cui all’art. 2059 c.c., e cioè nella ricorrenza di una ipotesi di

reato. Affermare, pertanto, la risarcibilità di questo tipo di danno al di fuori dello

schema normativo di cui all’art. 2059 c.c. significa aggirare il contenuto di quest’ultima

norma;

(c) il danno esistenziale è spesso un danno imprevedibile, e come tale non imputabile al

danneggiante a titolo di colpa.

A queste critiche i sostenitori della nozione di danno esistenziale replicano che:

(a) per quanto concerne la pretesa indeterminatezza del danno esistenziale, essa è

davvero tale soltanto se si considerano le conseguenze del danno (ciò che non rileva ai

fini dell’inquadramento dogmatico), piuttosto che il danno stesso. Allo stesso modo del

danno esistenziale, anche il danno biologico può comportare una gamma indeterminata

ed indeterminabile di privazioni esistenziali: e nondimeno la giurisprudenza continua a

ripetere che di esse tutte, nessuna esclusa, il giudice deve tenere conto nella liquidazione

del danno alla salute.

(b) Per quanto concerne, invece, la pretesa sovrapponibilità concettuale tra danno

esistenziale e danno morale, si replica che il danno esistenziale consiste propriamente in

una rinuncia: una rinuncia, per l’esattezza, a compiere una qualsivoglia attività od atto

per l’innanzi frequentemente compiuto. Il danno esistenziale, pertanto, non è un soffrire,

un “lagrimare”, ma è propriamente un non facere forzosamente indotto dal fatto illecito

del terzo. Per quanto, poi, attiene al fondamento teorico della nozione, all’accusa di

surrettizio aggiramento dell’art. 2059 c.c. si replica che occorre - piaccia o non piaccia -

prendere atto che la dicotomia tradizionale danno biologico-danno patrimoniale è

definitivamente entrata in crisi con l’emersione del danno biologico. Anche

quest’ultimo, infatti, costituisce una ipotesi di danno patrimoniale risarcito al di fuori, e

nonostante, l’art. 2059 c.c.. Non varrebbe, pertanto, trincerarsi dietro il dettato dell’art.

2059 c.c. per negare legittimità alla nozione di danno esistenziale, perché proprio la

vicenda del danno biologico dimostrerebbe che l’ostacolo costituito dalla norma

codicistica non è insormontabile.

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(c) Per quanto concerne, infine, la pretesa imprevedibilità del danno (e quindi

l’impossibilità di imputarlo a titolo di colpa al danneggiante), i sostenitori della nozione

di danno esistenziale osservano che, ai fini dell’accertamento della sussistenza della

colpa, è necessario che sia prevedibile l’evento dannoso, e non le conseguenze dannose

di esso.

In conclusione, sul danno esistenziale si può osservare come le teorie che ne sostengono

la risarcibilità muovono tutte da un rilievo difficilmente contestabile: il nostro

ordinamento non prevede una tutela risarcitoria completa, a 360°, di qualsiasi tipo di

pregiudizio. Il danno biologico è sempre risarcibile; il danno patrimoniale è sempre

risarcibile; ma il danno morale è risarcibile soltanto nei limiti di cui all’art. 2059 c.c..

Questa tutela incompleta costituisce indubbiamente una irrazionalità del nostro sistema,

specialmente dopo che le Sezioni Unite della Cassazione hanno “riletto” il testo dell’art.

2043 c.c., stabilendo che tale norma non è affatto una norma in bianco, bisognevole

d’essere integrata con altre disposizioni, dalle quali desumere la natura “ingiusta del

danno”. Al contrario, l’art. 2043 c.c. è una norma completa, dotata di precetto e

sanzione, in virtù della quale deve ritenersi “danno ingiusto” qualsiasi lesione non solo

di diritto soggettivi, ma anche di interessi, comunque denominati, altrui, purché “presi

in considerazione” da una norma giuridica (Cass., 22-7-1999, n. 500/SU, in Foro it.,

1999, I, 2487).

Dopo tale sentenza, appare oggettivamente difficile conciliare, da un lato, la piena

risarcibilità della lesione di qualsiasi interesse, e dall’altro, la limitata risarcibilità del

danno morale. La tesi del danno esistenziale nasce quindi da una esigenza obiettiva, da

una difficoltà realmente esistente, al limite, vien fatto di dire, da una iniquità non più

tollerabile.

E tuttavia, non sembra che lo strumento prescelto per superare questa anomalia sia

consentaneo allo scopo.

Alla tesi del danno esistenziale, infatti, possono muoversi tre obiezioni, relative:

(a) all’imputabilità del danno;

(b) al contenuto del danno;

(c) - soprattutto - alla distinzione dal danno morale.

(A) L’imputabilità del danno.

Come noto, il nostro sistema della responsabilità civile si fonda sul criterio della colpa,

con poche (anche se non marginali) eccezioni (ad esempio, quelle di cui agli artt. 2048,

2050, 2052 c.c.). La nozione di colpa civile, distinta da quella di colpa penalmente

rilevante (Cass., 22-2-1996, n. 1375, in Arch. circolaz., 1996, 537; Pret. Forlì, 19-2-

1986, in Resp. civ. prev., 1986, 176), viene tradizionalmente fondata su due elementi:

da un lato l’idea di deviazione, di scostamento, di abbandono, di inosservanza di una

regola di condotta, sia essa frutto di una norma di legge, regolamentare, contrattuale,

deontologica, di comune prudenza (arg. ex art. 1176 c.c.). Dall’altro lato, la nozione di

colpa viene tradizionalmente fondata sull’idea della concreta prevedibilità ed evitabilità

dell’evento. Nella prevedibilità ed evitabilità, anzi, risiede la distinzione tra colpa e caso

fortuito: giacché non sarebbe giusto né condivisibile ascrivere ad un soggetto le

conseguenze di un fatto che egli non poteva né prevedere né evitare (per una recente ed

approfondita disamina di questo tema si veda Radé, L’impossibile divorce de la faute et

de la responsabilité civile, in Recueil Dalloz, 1998, 301). La necessaria prevedibilità

dell’evento dannoso è stata affermata anche dalla Corte costituzionale, la quale ha

espressamente affermato che, là dove essa manchi, non è possibile una valutazione

autonoma della colpa (Corte cost., 27-10-1994, n. 372, in Giust. civ., 1994, I, 3029).

Ovviamente, la prevedibilità o prevenibilità dell’evento non va confusa con la

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prevedibilità delle conseguenze dannosa da esso scaturite. Come noto, infatti, in materia

extracontrattuale il danneggiante risponde anche delle conseguenze imprevedibili della

propria condotta.

E’ a questo punto, però, che la nozione di danno esistenziale sembra entrare in

apparente collisione con la nozione di colpa come ora tratteggiata. Infatti delle due

l’una:

(a) se il danno esistenziale, come i suoi sostenitori mostrano di ritenere, va qualificato

“danno-conseguenza”, la prevedibilità o la prevenibilità dell’evento dannoso (fonte del

danno esistenziale, cioè il “danno-evento” propriamente detto) dovrà necessariamente

concernere una lesione ontologicamente diversa dalla perdita dell’attività esistenziale: e

quindi, ancora una volta, una lesione o biologica, o patrimoniale o morale. Insomma, se

il danno esistenziale è un danno-conseguenza, esso presuppone un danno-evento che

difficilmente potrebbe collocarsi al di fuori delle tre categorie tradizionali. Ma, se così è,

gli effetti della lesione dovranno essere retti dalle regole consuete, e quindi:

(-) in caso di lesione della salute, le perdite esistenziali da questa causate sono già oggi

risarcibili, ex artt. 32 cost. e 2043 c.c.;

(-) in caso di danno patrimoniale, le perdite esistenziali da esso causate non sono

risarcibili, ex artt. 1223 e 2056 c.c.;

(-) in caso di danno morale, le perdite esistenziali, in quanto fonte di sofferenza, sono

già oggi risarcibili ex art. 2059 c.c.;

(b) se invece, per evitare le secche del doppio nesso causale tra condotta illecita e

danno-evento, e tra quest’ultimo e danno-conseguenza, si volesse configurare il danno

esistenziale come danno-evento, allora verrebbe a mancare del tutto il requisito della

prevedibilità o prevenibilità dell’evento di danno, e con esso la configurabilità stessa

della colpa civile. Le attività esistenziali perdute in conseguenza dell’altrui illecito,

infatti, sono troppo varie e multiformi per potere essere ritenute prevedibili dal

danneggiante (come potere seriamente affermare, infatti, che l’offensore possa

astrattamente prefigurarsi che l’offeso, in conseguenza dell’illecito, non giocherà più a

scacchi, non tirerà più di scherma, non collezionerà più etichette di acqua minerale,

eccetera?).

Il primo nodo irrisolto della nozione di danno esistenziale appare dunque così

riassumibile: se questo danno è un danno-evento, esso è imprevedibile e dunque non

può essere ascritto all’offensore a titolo di colpa; se esso è un danno-conseguenza,

presuppone necessariamente un danno-evento, che dovrà essere biologico, patrimoniale

o morale, ed ubbidire alla regole risarcitorie normativamente poste o

giurisprudenzialmente elaborate per questi tre tipi di danno.

(B) Il contenuto del danno.

Come si è visto in precedenza, il danno esistenziale è tendenzialmente

omnicomprensivo: qualsiasi rinuncia, qualsiasi privazione, qualsiasi perdita di attività

dell’esistenza, rappresenterebbe una lesione astrattamente risarcibile. Anche qui,

dunque, la nozione di danno esistenziale deve affrontare una “scelta tragica”:

(a) o ammettere che persino la perduta possibilità - ad esempio - di fare schiamazzi,

imbrattare i muri, ed insomma di compiere qualsiasi insignificante gesto quotidiano

costituisca un danno risarcibile: ed in questo caso l’interprete deve spiegare perché mai

debba considerarsi “ingiusta” la perdita della possibilità di compiere un gesto od

un’attività insignificanti, inutili od illeciti;

(b) ovvero, ammettere che non qualsiasi perdita esistenziale possa costituire un danno

risarcibile: ed in questo caso l’interprete avrà il non agevole compito di individuare il

“selettore”, cioè il criterio in base al quale discernere le perdite esistenziali meritevoli di

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tutela risarcitoria da quelle non risarcibili, e non è difficile prevedere che l’attività

esistenziale meritevole di tutela sarà immancabilmente ancorata o a princìpi

costituzionali, o a norme di legge. Ma, in questo modo, viene a perdersi tutta la portata

innovativa del danno esistenziale: se infatti, perché il danno sia risarcibile, è necessario

individuare la norma costituzionale o la norma di legge alla quale “ancorare”

l’ingiustizia del danno, non c’è bisogno di mettere in campo una nuova figura, in quanto

già oggi la lesione di un interesse normativamente qualificato costituisce un danno

risarcibile, secondo quanto stabilito da Cass. S.U. 500/99. Secondo quest’ultima

decisione della Corte di legittimità, qualsiasi lesione, e quindi qualsiasi perdita

(patrimoniale, biologica, morale od esistenziale), può dar luogo a un risarcimento, a

condizione che l’interesse leso: (a) sia protetto da disposizioni specifiche; ovvero (b) sia

oggetto di norme che rivelano una esigenza di protezione. Nel primo caso, il

risarcimento sarà sempre dovuto, purché sussistano gli altri elementi dell’illecito; nel

secondo caso, il risarcimento sarà dovuto se il giudice accerti, nel caso concreto, la

prevalenza dell’interesse leso rispetto a quello, eventualmente concorrente,

dell’offensore.

La rilettura dell’art. 2043 c.c., proposta dalle Sezioni Unite, pare in qualche modo

“spiazzare” il danno esistenziale: infatti, nel momento in cui si proclama la risarcibilità

della lesione di qualsiasi interesse, purché “preso in considerazione dall’ordinamento”,

si ammette per ciò solo la risarcibilità anche di qualsiasi perdita esistenziale, a

condizione che essa abbia formato oggetto di tutela da parte di una norma positiva.

(C) La distinzione dal danno morale.

Ma il vero punctum dolens della tesi del danno esistenziale è, a parere di chi scrive, la

sua distinzione dal danno morale.

Secondo i sostenitori della tesi del danno esistenziale, quest’ultimo costituisce una

rinuncia ad un facere, ad una attività positiva, mentre il danno morale costituisce una

mera sofferenza soggettiva, interiore, inesprimibile, un pati.

In primo luogo, è pericoloso e controproducente sostenere che il danno morale

costituisce una sofferenza “interna”. Se così fosse, tale danno non potrebbe mai essere

dedotto né provato in giudizio, giacché i moti dell’animo sono noto solo a chi li prova.

Il risarcimento del danno morale diverrebbe così una pura e semplice sanzione, o - se si

preferisce - un grazioso regalo, che il danneggiato avrebbe sempre diritto di pretendere,

a prescindere da qualsiasi dimostrazione circa l’effettiva esistenza di esso.

In secondo luogo, non convince la distinzione tra danno morale e danno esistenziale

fondata sul rilievo secondo cui chi subisce un danno morale “soffre”, mentre chi subisce

un danno esistenziale “non fa”. La sofferenza morale causata dall’illecito, infatti, è

sempre una sofferenza causata da una rinuncia. Chi non può più andare a cavallo in

conseguenza dell’altrui illecito subisce un danno non già nella rinuncia alla cavalcata,

ma sofferenza causata da tale rinuncia: tanto è vero che nessuno potrebbe

ragionevolmente sostenere che costituisce un danno la rinuncia ad attività sgradite o

spiacevoli. Ma se così è, deve concludersi che il c.d. “danno esistenziale” non è che la

sofferenza causata da una rinuncia, cioè un pregiudizio d’affezione, e quindi un danno

morale.

Così, per fare un esempio: la vedova inconsolabile che non trova la forza di uscire di

casa dopo la perdita del coniuge, indubbiamente rinuncia a molteplici attività

esistenziali (andare al cinema, andare a passeggio, visitare musei e mostre, eccetera).

Ma questo tipo di danno, conseguenza della sofferenza morale, già oggi viene messo in

conto a valutato al momento della liquidazione del danno morale. Se si ammettesse,

accanto a quest’ultimo, la risarcibilità anche del danno esistenziale, delle due l’una: o si

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compie una duplicazione risarcitoria, liquidando due volte la pecunia doloris per le

medesime privazioni; oppure, se si “scomputa”, per così dire, il danno esistenziale da

quello morale, quest’ultimo corre il rischio di divenire davvero una entità sfuggente e

difficilmente valutabile.

Ove si condividano le osservazioni sin qui svolte, deve concludersi che il la teoria del

danno esistenziale non costituisce che un raffinatissimo tentativo di aggirare

(consapevolmente o meno) il divieto di cui all’art. 2059 c.c., secondo una tecnica che la

storia del nostro ordinamento ha già conosciuto.

5.3. Il danno da nascita indesiderata.

Una fattispecie peculiare di danno, che taluni giudici di merito ritengono costituisca una

ipotesi di danno alla salute, è rappresentata dal c.d. danno da nascita indesiderata.

Ricorre questo tipo di danno quando la nascita di un figlio avviene contro la volontà del

genitore (come nell’ipotesi di insuccesso di un intervento abortivo, ovvero nel caso di

insuccesso di un intervento di sterilizzazione); od anche oltre la volontà del genitore

(come nell’ipotesi di omessa informazione circa le malformazioni del feto, con

conseguente perdita della possibilità di interrompere la gravidanza).

In queste ipotesi, la giurisprudenza ha innanzitutto escluso che il concepito, una volta

venuto ad esistenza, possa accampare pretese risarcitorie. Il fatto di venire ad esistenza

non può infatti essere considerato un danno in sé, quale che sia la qualità dell’esistenza.

Di conseguenza, è stato negato che i genitori del bimbo venuto alla luce con gravi

malformazioni congenite, la cui esistenza non era stata rilevata per imperizia dei medici,

possano agire in giudizio, in rappresentanza di lui, per chiedere il risarcimento del

danno alla salute subìto dal proprio figlio (Trib. Roma 13.12.1994, in Dir. famiglia,

1995, 662).

La conclusione muta nel caso in cui il concepito abbia riportato un danno alla salute,

durante la vita prenatale, per imperizia del medico: ma in questo caso il danno che si

risarcisce è la lesione della salute, non già la nascita indesiderata.

Escluso dunque che l’evento “nascita” in quanto tale possa rappresentare un danno per

il nato, occorre esaminare se tale evento possa costituire un danno per i genitori. Al

riguardo la giurisprudenza è divisa tra due orientamenti: quello di chi ritiene che la

nascita indesiderata per i genitori non sia un danno in sé, ma ben possa costituire causa

di danno alla salute (specie psichica); e quello di chi ritiene che la nascita indesiderata

costituisca un danno in sé, diverso dalla lesione della salute, e consistente nella lesione

del diritto alla procreazione libera e cosciente.

Secondo il primo orientamento, la nascita in quanto tale non può assolutamente essere

considerata un evento dannoso, neppure nei casi in cui venga ad esistenza un bimbo

malato o malformato. Un danno risarcibile è ipotizzabile soltanto quando la nascita non

desiderata, ovvero la nascita di un bimbo malformato senza che i genitori siano stati

previamente avvertiti, costituisca un fattore traumatico che provochi nei genitori un

danno psichico, cioè una vera e propria malattia (Trib. Roma 13.12.1994, in Dir.

famiglia, 1995, 662; Trib. Bergamo 16.11.1995, in Giust. civ., 1996, I, 867; ma va detto

che, nella sentenza del tribunale lombardo ora citata, il richiamo alla lesione della salute

appare “di stile”, e compiuto al solo fine di giustificare la liquidazione del danno in un

caso in cui non era stata dimostrata alcuna lesione anatomo patologica dei genitori).

Questo orientamento, che è quello condiviso dalla Corte di cassazione, si fonda sulla

seguente argomentazione:

(a) una nascita indesiderata, dovuta all’imperizia del medico, costituisce una lesione del

diritto all’interruzione della gravidanza;

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(b) questo diritto, che spetta unicamente alla donna, non è però assoluto, in quanto la

legge consente l’interruzione volontaria della gravidanza soltanto nel caso in cui essa sia

necessaria per la tutela della salute, anche psichica, della madre;

(c) ergo, la violazione del diritto all’interruzione della gravidanza rileva solo quando da

essa derivi la lesione di quel bene che la norma intendeva proteggere, cioè la salute della

madre (Cass. 8-7-1994 n. 6464, in Corriere giur., 1995, 91; nonché in Giust. civ., 1995,

I, 767; in Giur. it., 1995, I, 1, 790; in Resp. civ. prev., 1994, 1029).

Le condizioni di risarcibilità del danno alla salute psichica, derivato da una nascita

indesiderata, mutano nel caso in cui quest’ultima sia ricollegabile non ad un errore

medico nell’esecuzione dell’intervento di interruzione della gravidanza, ma ad una

omessa informazione, da parte del medico, circa l’esistenza di malformazioni del feto,

con conseguente violazione del diritto della madre a praticare l’interruzione della

gravidanza. In questo caso la condotta del medico è stata ritenuta fonte di danno

risarcibile soltanto ove sia dimostrato che, se la madre fosse stata tempestivamente

informata, ella avrebbe potuto legittimamente esercitare il diritto all’aborto, in quanto

ricorrevano tutte le condizioni previste dalla l. 194/78. Queste condizioni sono, come

noto, diverse a seconda che l’interruzione della gravidanza avvenga nei primo 90 giorni,

ovvero successivamente.

Nel primo caso (art. 4 l. 22.5.1978 n. 194), per praticare l’aborto è sufficiente che

sussista il “serio pericolo” per la salute fisica o psichica della madre. Pertanto in caso di

nascita indesiderata, per ottenere il risarcimento del danno alla salute psichica, la madre

dovrà dimostrare soltanto che, se fosse stata informata delle malformazioni, questa

informazione avrebbe causato un “serio pericolo” per la sua salute.

Nel secondo caso (art. 6 l. 22.5.1978 n. 194), e cioè dopo il 90° giorno di gravidanza, la

gestante può esercitare il diritto all'aborto solo in presenza di due condizioni positive e

di una negativa, e cioè:

(a) sussista un processo patologico (fisico o psichico, anche indotto da accertate

malformazioni del feto) in atto per la madre;

(b) sussista il pericolo (da accertare con valutazione ex ante) che tale processo

patologico degeneri recando un danno grave alla salute della madre;

(c) non sussista possibilità di vita autonoma per il feto (così, ad litteram, Cass. 1-12-

1998 n. 12195, in Danno e resp., 1999, 522).

In questi casi, pertanto, per ottenere la condanna del medico al risarcimento del danno

biologico (psichico) causato dalla nascita indesiderata, la donna ha l’onere di dimostrare

che la tempestiva conoscenza delle malformazioni del feto avrebbe ingenerato in lei un

processo patologico fisico o psichico, dal quale poteva derivare un pericolo grave per la

salute della donna (Cass. 24.3.99 n. 2793, in Danno e resp., 1999, 766).

Ove sussistano tutti i requisiti sopra indicati, l’omessa informazione da parte del

medico, circa l’esistenza di malformazioni fetali, costituisce una condotta illecita, che

legittima la domanda di risarcimento del danno alla salute subìto sia dalla madre, in

conseguenza della nascita, sia dal padre, in conseguenza del danno alla salute sofferto

dal coniuge (Cass. 1.12.1998 n. 12195, cit.).

Vi è invece contrasto, nella giurisprudenza di legittimità, in merito alla risarcibilità delle

spese di mantenimento ed educazione del bimbo la cui nascita era indesiderata.

La soluzione negativa muove dal rilievo che la l. 194/78 è preordinata a tutelare la

salute, e non il patrimonio, della donna, e dunque la lesione del diritto all’aborto rileva

soltanto quando è violato il bene protetto dalla norma (Cass. 8-7-1994 n. 6464, cit.).

In senso esattamente contrario, invece, si è pronunciata Cass. 1.12.1998 n. 12195, cit.,

almeno con riferimento all’ipotesi in cui sia configurabile una responsabilità

contrattuale del medico (ma dopo il decisum di Cass., sez. III, 22-01-1999, n. 589, in

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Danno e resp., 1999, 294, l’atto illecito del medico è sempre disciplinato dalle norme

sulla responsabilità contrattuale, secondo la tesi della “responsabilità da contatto”).

Secondo Cass. 12195/98, dunque, poiché nel caso di wrongful birth si versa in tema di

inadempimento contrattuale, “il danno, al cui inadempimento il debitore inadempiente è

tenuto ex art. 1218 c.c., deve essere valutato secondo i criteri di cui agli artt. 1223,

1225, 1227 c.c. (…). In questo danno rientra non solo il danno alla salute in senso

stretto ma anche il danno biologico in tutte le sue forme ed il danno economico, che sia

conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento del sanitario, in termini di

causalità adeguata”.

Come si accennava più sopra, in tema di danno da nascita indesiderata vi è poi un

secondo orientamento, sinora registrato soltanto tra i giudici di merito, secondo il quale

la wrongful birth costituisce un danno risarcibile di per sé (in base al combinato

disposto degli artt. 2 e 13 cost., e 2043 c.c.), a prescindere dall’esistenza d’un danno alla

salute. Questa conclusione viene fondata sul presupposto che il danno da nascita

indesiderata costituisce, per entrambi i coniugi, lesione del diritto primario e

costituzionalmente all’autodeterminazione ed alla pianificazione familiare, e come tale

genera un danno (danno-evento) immediatamente risarcibile (Trib. Milano 20.10.1997,

in Danno e resp., 1999, 82).

L’individuazione di un “diritto a non avere figli”, e l’affermazione secondo cui la

lesione di tale diritto dà luogo ad un danno risarcibile in numerario, ha indotto parte

della dottrina a ravvisare nella pronuncia da ultimo citata un esempio di liquidazione del

c.d. “danno esistenziale”.

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Allegato 1

Una lettura “costituzionalmente orientata” dell’art. 2059 c.c.

Cassazione - Sezione terza civile - sentenza 24 gennaio-10 maggio 2001, n. 6507

Presidente Duva - relatore Segreto

Pm Marinelli, conforme - ricorrente Cancani – controricorrente Pagliarini

Svolgimento del processo

Con citazione notificata il 16 gennaio 1988 Nello Cancani conveniva in giudizio davanti

al tribunale di Roma, Bernardo Pagliarini e, premesso che il convenuto aveva inviato

all’Acea, datrice di lavoro dell’attore, una comunicazione in esito alla quale

quest’ultima aveva assunto provvedimenti nei suoi confronti, chiedeva la condanna del

Pagliarini al risarcimento dei danni.

Precisava in proposito l’attore che la lamentata missiva aveva fatto seguito all’invito che

egli, quale amministratore del condominio di via Amiterno 3, aveva inviato al

convenuto, quale amministratore del condominio di via Amiterno 1 e 5, di consentire i

lavori di sostituzione di una tubatura idrica. Aggiungeva che, a seguito dello scritto del

convenuto, la sua datrice di lavoro, adottando un provvedimento illegittimo ed

arbitrario, lo aveva messo a disposizione.

Si costituiva il convenuto, che resisteva alla domanda.

Il tribunale di Roma, con sentenza depositata il 15 luglio 1995 rigettava la domanda.

Proponeva appello il Cancani.

La Corte di appello di Roma, con sentenza depositata il 18 giugno 1998, rigettava

l’appello.

Riteneva la Corte che l’attore aveva ristretto la domanda, come posto in luce dal primo

giudice, ai danni patiti e patiendi in conseguenza della comunicazione del Pagliarini alla

Acea; che nemmeno in sede di appello l’attore aveva fornito la prova di detti danni; che

il procedimento disciplinare da lui subito era relativo ad addebito del 12 giugno 1986,

mentre gli scritti del Pagliarini risultavano inoltrati tra il dicembre del 1987 ed il 6

maggio 1988.

Conseguenzialmente riteneva la Corte di merito che l’attore non avesse fornito la prova

dei danni lamentati. Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il

Cancani.

Resiste con controricorso il Pagliarini.

Motivi della decisione

1.1. Preliminarmente va rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dal

resistente, per mancata esposizione sommaria del fatto, a norma dell’articolo 366, n. 3

Cpc.

Infatti, sebbene in modo estremamente sintetico, i fatti di causa sono stati esposti nel

ricorso.

1.2. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’articolo 112

Cpc.

Assume il ricorrente che la Corte di appello ha omesso di pronunciarsi in ordine

all’antigiuridicità del comportamento diffamatorio e denigratorio, posto arbitrariamente

in essere dal Pagliarini.

Assume il ricorrente che, avendo il convenuto riferito all’Acea presunte irregolarità

addebitabili ad esso attore, in qualità di amministratore di condominio, in contrasto con

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gli interessi dell’azienda, datrice di lavoro di esso ricorrente, aveva danneggiato la

reputazione personale e professionale di esso ricorrente.

Ritiene il ricorrente che, nella fattispecie non era in discussione il rapporto di lavoro di

esso ricorrente con l’Acea, ma doveva essere valutato anche il solo fatto

dell’antigiuridicità del comportamento del Pagliarini nell’inoltrare dette missive

all’Acea.

1.3. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’articolo

2043 Cc; assume il ricorrente che la Corte di merito «ha valutato in negativo il danno

sofferto dalla reputazione personale e professionale del Cancani, in conseguenza delle

iniziative epistolari denigratorie del Pagliarini» e questa perdita di reputazione

professionale e personale, costituiva il danno, che doveva liquidarsi equitativamente.

3.1. I due motivi, essendo strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.

Essi sono infondati e vanno rigettati.

Va, anzitutto, premesso che la sentenza impugnata ha esaminato la domanda del

Cancani nell’ottica della domanda di risarcimento del danno patrimoniale alla

reputazione professionale per responsabilità aquiliana ex articolo 2043 Cc e non del

danno non patrimoniale (morale) da reato di diffamazione (articolo 2059 Cc).

Lo stesso ricorrente, per quanto assuma anche l’esistenza di un danno alla reputazione

personale oltre che professionale, rimane nel paradigma dell’articolo 2043 Cc

(espressamente invocato), assumendo non l’esistenza di un reato e di un suo danno

morale ex articolo 2059 Cc (nell’atto di appello – pagina 2 – dà atto che il magistrato

penale aveva ritenuto non sussistere fatti di rilevanza penale), ma un comportamento

antigiuridico del Pagliarini che avrebbe procurato un «ingiusto danno» con riferimento

alla «posizione personale e professionale del Cancani».

Si rimane, quindi, sempre nell’ambito del danno patrimoniale ex articolo 2043 Cc, sia

pure nel diverso atteggiarsi di danno (evento) patrimoniale per lesione di un diritto della

persona umana – la reputazione personale – ovvero di danno (conseguenza)

patrimoniale consistente nel pregiudizio economico, conseguente alla lesione del diritto

alla reputazione professionale (o lavorativa), di cui si dirà più diffusamente in seguito.

Premesso ciò, osserva questa Corte che non può condividersi l’assunto del ricorrente

secondo cui il solo fatto dell’inoltro all’Acea, datrice di lavoro del Cancani, di una

missiva con cui venivano addebitati fatti non veritieri, sia causa di risarcimento del

danno perché lede la reputazione del soggetto, cui lo scritto si riferisce.

La linea logica svolta in questa doglianza, si fonda essenzialmente sul presupposto che,

una volta acquisita la certezza della non veridicità dei fatti addebitati e comunicati al

datore di lavoro e della riconducibilità del contenuto dello scritto stesso a colpa

dell’autore, la dimostrazione del danno sarebbe in re ipsa, per cui non ricadrebbe

sull’attore originario l’onere della dimostrazione delle singole situazioni di pregiudizio

subite e risarcibili.

Questa impostazione logica non è accettabile.

Ed invero, sostenere che, in presenza di uno scritto non veritiero, la prova del danno, ed

in particolare dei vari tipi di danno richiesti, è in re ipsa, significa affermare la

sussistenza di una presunzione in base alla quale, una volta verificatosi il fatto illecito,

appartiene alla regolarità causale la realizzazione del tipo di danno oggetto della

domanda risarcitoria, per cui la mancata conseguenza del pregiudizio debba ritenersi

come eccezionale.

Così operando si pone a carico del convenuto danneggiante l’onere della prova contraria

all’esistenza del danno, senza che esso sia stato provato dall’attore danneggiato,

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ritenendo che il fatto illecito costituisca di per sé, sulla base di un criterio di regolarità

causale, dimostrazione del danno.

3.2. Ritiene questa Corte che la sola comunicazione al datore di lavoro da parte di un

terzo di fatti attribuiti al lavoratore e non veritieri, anche se astrattamente idonei ad

influire negativamente sul rapporto di lavoro, integra solo pericolo di danno e non

costituisce da solo un elemento sufficiente a provarne l’esistenza, per cui compete

all’attore dimostrare nel singolo caso se da detta comunicazione sia derivato un

pregiudizio (Vedansi Cassazione sentenze 13002/97; 2873/77; 3065/75; 1750/71;

2452/65, che, per quanto attinenti al danno da illegittimo protesto di assegno,

distinguono tra fatto potenzialmente dannoso e l’effettiva sussistenza dello stesso).

3.3. In altri termini, sussumendo la questione nel paradigma dell’articolo 2043 Cc, la

prova della comunicazione non veritiera è solo la prova del fatto altrui, ma non ancora

la prova del danno ingiusto.

Il verificarsi del danno non è, tuttavia, automaticamente e necessariamente collegato

alla falsità di quanto comunicato. Tali fatti, benché ascrivibili a colpa, sono solo

potenzialmente produttivi di danno: implicano, cioè, il pericolo del suo verificarsi ma

non la certezza che lo stesso si sia, in concreto, prodotto e non esonerano quindi l’attore

dal fornire la prova delle conseguenze dannose che, in concreto, gli siano derivate. Tale

prova può essere data, indubbiamente, con ogni mezzo, ed anche attraverso presunzioni,

che debbono fondarsi, peraltro, su circostanze gravi, precise e concordanti (articolo

2729 Cc) e non sulla semplice «ragionevolezza» delle asserzioni dell’interessato circa il

pregiudizio all’immagine ed il discredito professionale o personale.

4.1. Secondo un più recente orientamento giurisprudenziale di questa Corte (Cassazione

11103/98; 2576/96), per quanto formatosi in tema di illegittimo protesto cambiario, il

fatto lesivo della reputazione, non può essere considerato in un’ottica esclusivamente

commerciale o imprenditoriale, perché esso può costituire causa di discredito sia

personale, che commerciale o professionale, e, pertanto, se illegittimo, è idoneo a

provocare un danno patrimoniale, anche sotto il profilo della lesione dell’onore e della

reputazione del debitore come persona, al di là dei propri interessi tipicamente

economici. Infatti nel caso in cui il fatto illegittimo abbia leso diritti della persona, come

quelli alla reputazione, per il discredito subito, il danno è in re ipsa e dovrà essere

risarcito senza che incomba sul danneggiato l’onere di fornire la prova dell’esistenza del

danno. Solo ove sia dedotta la lesione della reputazione commerciale – a causa

dell’illegittimità del fatto (nella specie del surricordato orientamento: il protesto) –

quest’ultima costituisce semplice indizio dell’esistenza del danno alla reputazione, da

valutare nel contesto di tutti gli altri elementi della situazione in cui si inserisce.

Si è, pertanto concluso che allorché il fatto illecito sia stato causa di discredito sia

personale che commerciale, il danno è in re ipsa quanto alla lesione della reputazione

personale e dovrà essere risarcito senza che incomba al danneggiato l’onere di fornire la

prova dell’esistenza del danno; del caso in cui, invece, sia dedotta la lesione della

reputazione commerciale quest’ultima costituisce semplice indizio dell’esistenza del

danno alla reputazione, da valutare nel contesto di tutti gli altri elementi della situazione

in cui si inerisce.

4.2. Ritiene questa Corte che quest’ultimo orientamento vada condiviso solo in parte,

dovendosi effettuare un adeguato coordinamento con i principi in precedenza esposti.

Anzitutto, come sopra detto, la sola falsità della comunicazione, effettuata da un terzo

al datore di lavoro, di comportamenti negativi relativi al lavoratore, non integra ancora

danno per quest’ultimo (sia alla reputazione personale o a quella professionale).

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La prova della falsità dello scritto costituisce, quindi, solo la prova del fatto altrui

potenzialmente generatore di un danno ingiusto.

Occorre provare che da detto fatto sia appunto conseguito l’evento della lesione della

reputazione personale o di quella professionale (o commerciale o lavorativa) del

lavoratore dipendente: e detta prova grava su quest’ultimo, secondo i principi di cui

all’articolo 2043 Cc.

5. Provata la lesione della reputazione professionale del lavoratore, poiché il danno

risarcibile a norma dell’articolo 2043 Cc è il danno-conseguenza patrimoniale,

occorrerà provare che detta lesione abbia cagionato al lavoratore una perdita

patrimoniale, senza la quale il risarcimento manca di oggetto.

Solo la prova dell’esistenza di detta perdita patrimoniale (che certamente può essere

data anche attraverso presunzioni, con le caratteristiche codicistiche di cui all’articolo

2729 Cc) integra la prova dell’esistenza di un danno risarcibile da lesione della

reputazione professionale.

6.1. Diverso è il discorso nel caso in cui il fatto illegittimo abbia dato luogo ad una

lesione della reputazione personale (intesa come reputazione che il soggetto gode come

persona umana, tra gli altri consociati; altrimenti detta, più impropriamente, onore o

prestigio).

Anche in questo caso andrà provato l’evento dannoso della detta lesione.

6.2. Sennonché, ai fini della risarcibilità secondo le regole ordinarie dei pregiudizi recati

ai diritti della persona, deve anche tenersi presente quanto affermato dalla Corte

costituzionale con la sentenza 184/86, che ha dichiarato infondata la questione di

costituzionalità dell’articolo 2059 Cc, nella parte in cui prevederebbe la risarcibilità del

danno per lesione del diritto alla salute solo quando sia conseguenza di un reato. La

Corte costituzionale ha infatti affermato che l’articolo 2059 riguarda soltanto i danni

non patrimoniali soggettivi, mentre il pregiudizio obiettivo ai diritti che rientrano nei

fondamentali attributi della personalità umana, come il decoro, il prestigio, la dignità e

la salute, deve trovare indefettibilmente ristoro, in applicazione dell’articolo 2043 Cc, al

di là dei limiti previsti per il risarcimento dei danni non patrimoniali derivanti da reati.

La più recente dottrina e lo stesso orientamento giurisprudenziale ritengono che esista

un vero e proprio diritto alla reputazione personale anche al di fuori delle ipotesi

espressamente previste dalla legge ordinaria, che va inquadrato nel sistema di tutela

costituzionale della persona umana, traendo nella Costituzione il suo fondamento

normativo, in particolare nell’articolo 2 e nel riconoscimento dei diritti inviolabili della

persona (in questo senso anche Corte costituzionale 479/87, secondo cui «l’articolo 2

Costituzione sancisce il valore assoluto della persona umana»).

In tale contesto si inserisce certamente la disciplina degli ambiti di tutela della

reputazione del soggetto, come persona, che sebbene non trovi espressa menzione nelle

disposizioni costituzionali, tuttavia si ricava dai principi di cui all’articolo 2

Costituzione (oltre che dall’articolo 3, che fa riferimento alla dignità sociale).

6.3. Infatti, superata ormai da anni la questione relativa alla funzione precettiva e non

programmatica dell’articolo 2 Costituzione, con conseguente affermazione della

rilevanza costituzionale della persona umana, in tutti i suoi aspetti, questa norma

comporta che l’interprete, nella ricerca degli spazi di tutela della persona, è legittimato a

costruire tutte le posizioni soggettive idonee a dare garanzia, sul terreno

dell’ordinamento positivo, ad ogni proiezione della persona nella realtà sociale, entro i

limiti in cui codesto risultato si ponga come conseguenza della tutela dei diritti

inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali nelle quali si esplica

la sua personalità.

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L’espresso riferimento alla persona come singolo (articolo 2 Costituzione) rappresenta

certamente valido fondamento normativo per dare consistenza di diritto soggettivo alla

reputazione del soggetto, con conseguente sua tutela da parte dell’ordinamento.

La considerazione del diritto alla reputazione quale diritto della personalità consente nel

contempo di individuare il correlativo fondamento giuridico, ancorandolo direttamente

nell’articolo 2 Costituzione: inteso quale precetto nella sua più ampia dimensione di

clausola generale, «aperta» all’evoluzione dell’ordinamento e suscettibile, per ciò

appunto, di apprestare copertura costituzionale ai nuovi valori emergenti della

personalità, in correlazione anche all’obiettivo primario di tutela «del pieno sviluppo

della persona umana», di cui al successivo articolo 3 Cpv (implicitamente su questo

punto Corte costituzionale 13/1994).

Quest’ultima puntualizzazione, che presuppone l’adesione ad una concezione

«monistica» dei diritti della personalità (in questo senso v. Cassazione 978/96;

5658/98), aiuta a definire, senza perplessità, in termini di diritto soggettivo perfetto, la

struttura della situazione soggettiva considerata.

7.1. Nell’ambito di questa concezione «monistica» dei diritti della personalità umana,

con fondamento costituzionale, il diritto all’immagine, al nome, all’onore, alla

reputazione, alla riservatezza non sono che singoli aspetti della rilevanza costituzionale

che la persona, nella sua unitarietà, ha acquistato nel sistema della Costituzione.

Trattasi quindi di diritti omogenei, essendo unico il titolare ed il bene protetto.

7.2. La reputazione si identifica con il senso della dignità personale in conformità

all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico (Cassazione pen.,

Sez. V, 3247/95). Essa va valutata in abstracto, cioè con riferimento al contenuto della

reputazione, quale si è formata nella comune coscienza sociale di un determinato

momento e non quam suis, e cioè alla considerazione che ciascuno ha della sua

reputazione («amor proprio»).

7.3. Sennonché una volta provata detta lesione, il danno è in re ipsa, in quanto si

realizza una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’articolo 1223 Cc, costituita

dalla diminuzione o dalla privazione di un valore (per quanto non patrimoniale) alla

quale il risarcimento deve essere commisurato, come osserva la Corte costituzionale

372/94, sia pure in tema di danno biologico.

Ciò, pur costituendo un più esatto inquadramento dogmatico degli schemi operativi del

risarcimento del danno, ai sensi dell’articolo 2043 Cc, di valori assoluti della persona

umana, in quanto tale, poiché non viene risarcito il fatto di lesione in sé (cioè, l’evento)

ma la riduzione (o la perdita) di tale valore, che l’evento lesivo ha prodotto, non

contraddice il principio che detto danno è in re ipsa.

7.4. Infatti con detta formula non si intende dire che viene risarcita la lesione in sé e non

la perdita o diminuzione del valore leso, secondo gli schemi operativi della

conseguenzialità giuridica, che, fissati dall’articolo 1223 Cc, sono applicabili anche in

tema di responsabilità aquiliana, giusto il rinvio a detta norma operato dall’articolo 2056

Cc.

Si intende solo dire che provata la lesione della reputazione personale, ciò comporta la

prova anche della riduzione o della perdita del relativo valore. In altri termini non si

contesta la distinzione ontologica tra lesione del valore e conseguenziale perdita o

diminuzione della stessa, ma si assume solo che provata la prima risulta provata anche

la seconda.

Trattasi, cioè di una formula sintetica, per quanto dogmaticamente probabilmente

inesatta, molto simile a quella che, soprattutto in passato, si è adottata in materia penale

in tema di dolus in re ipsa per alcune specie di reato (soprattutto in tema di falso). Per

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quanto anche lì l’espressione non fosse dogmaticamente esatta e fu sotto questo profilo

oggetto di accese critiche, non si voleva con essa significare che l’elemento soggettivo

doloso scomparisse nella sola esistenza del fatto cosciente e volontario, ma che, provato

questo, risultava provato anche il dolo, pur rimanendo lo stesso ontologicamente

differente, giusto quanto previsto dall’articolo 43 Cp, dalla mera coscienza e

volontarietà del fatto.

8.1. La conseguenza di quanto sopra detto è che per effetto della falsa comunicazione al

datore di lavoro da parte di un terzo di notizie negative attinenti al lavoratore può

verificarsi sia una lesione alla reputazione professionale del lavoratore, dalla quale può

conseguire un danno patrimoniale (oggetto di risarcimento), sia una lesione alla

reputazione del lavoratore quale persona, dalla quale consegue automaticamente la

perdita o la riduzione di un valore della persona umana, che dà diritto al risarcimento

del danno.

8.2. Da quanto sopra derivano ulteriori conseguenze.

Anzitutto varia l’estensione degli oneri probatori, a seconda che si versi in ipotesi di

lesione di reputazione personale o di reputazione professionale.

In entrambi i casi, come detto al punto 3, non è sufficiente la prova del «fatto altrui»

(dichiarazione non veritiera o offensiva) per ritenersi provato anche l’evento. Infatti una

cosa è la condotta del danneggiante ed altra è l’evento lesivo subito dal danneggiato.

Inoltre, se il danno di cui si chiede il risarcimento, ha natura patrimoniale (dannoconseguenza),

il danneggiante deve anche provare il pregiudizio economico

conseguente alla lesione della reputazione.

8.3. Soprattutto, per quanto interessa ai fini del presente motivo di ricorso, il soggetto

danneggiato, con la sua domanda giudiziale, può richiedere sia il risarcimento per il

danno da lesione della reputazione professionale, sia quello da lesione della reputazione

personale, sia entrambi.

8.4. Quanto al risarcimento del danno da perdita o diminuzione della reputazione

professionale, trattandosi di tipico danno patrimoniale-conseguenza, l’esistenza di esso

andrà valutata dal giudice con espresso riferimento ai singoli pregiudizi economici che

l’attore danneggiato assume aver subito per effetto dell’evento lesivo.

9. Nella fattispecie, la sentenza impugnata, dopo aver premesso (pag. 3) che l’attore

assumeva che a seguito della non veritiera comunicazione era stato «messo a

disposizione» dal suo datore di lavoro, ritiene (pag. 4) che il Cancani «non ha offerto la

prova dei danni lamentati non potendosi in alcun modo desumere dalla documentazione

prodotta che egli abbia, a causa delle comunicazioni anzidette, subito le conseguenze

che assume di aver patito». Osserva, infatti, la Corte di merito che il procedimento

disciplinare nei suoi confronti risale al giugno 1986, mentre gli scritti del Pagliarini,

oggetto di causa sono successivi (dicembre 1987 e maggio 1988):

In altri termini il giudice di appello ha ritenuto che la domanda risarcitoria fosse stata

proposta solo con riferimento ai pregiudizi economici subiti dall’attore nel suo rapporto

di lavoro, pregiudizi espressamente indicati.

Da ciò consegue che la sentenza impugnata, avendo ristretto la sua decisione agli

specifici pregiudizi conseguenziali (danno risarcibile) assunti dall’attore, nell’ambito

dei rapporti di lavoro, ha ritenuto che la domanda fosse limitata al solo risarcimento dei

danni economici, conseguenti alla lesione della reputazione professionale, poiché solo

questi erano stati prospettati con la domanda.

Pagina 39 di 51

10.1. L’interpretazione della domanda, come è noto, compete al giudice di merito, come

l’interpretazione dell’atto di appello (Cassazione 5829/95) e non è censurabile in

Cassazione se adeguatamente motivata.

Ne consegue che, nella fattispecie solo dopo aver rilevato l’erroneità di detta

interpretazione riduttiva della domanda, poteva farsi valere il vizio dell’omessa

pronuncia, ai sensi dell’articolo 112 Cpc, relativamente a quelle richieste, che, pur

avanzate nell’atto introduttivo, ove correttamente interpretato, non erano state oggetto di

pronuncia da parte del giudice.

Sennonché nell’atto di citazione il ricorrente lamenta che, per effetto delle

comunicazioni effettuate dal convenuto all’Acea, quest’ultima l’aveva privato delle

funzioni fino a quel momento espletate ed, al di fuori di questo evento dannoso, non ne

indica altri. Infatti egli ha notificato l’atto di citazione anche all’Acea, perché mettesse a

disposizione del giudice istruttore queste comunicazioni, di cui ignorava il contenuto

(per cui l’unico pregiudizio che egli aveva potuto constatare era quello relativo alla sua

attività professionale, e cioè alla privazione delle funzioni fino ad allora espletate).

Ne consegue che non appare viziata l’interpretazione della sentenza impugnata che ha

ritenuto che la domanda di risarcimento attenesse ai soli danni relativi alla reputazione

professionale dell’attore. Lo stesso ricorrente non indica quali fossero i vizi di

interpretazione dell’atto introduttivo in cui era incorso il giudice di merito.

10.2. Peraltro i ricorrenti lamentano nel primo motivo la violazione dell’articolo 112

Cpc, ma l’oggetto di tale assunta omessa pronuncia attiene all’omessa decisione

sull’accertamento dell’antigiuridicità del comportamento del Pagliarini.

Sennonché, a parte il rilievo relativo a quanto detto in tema di potere del giudice di

merito nell’interpretazione dell’atto introduttivo del giudizio con solo riferimento ai

danni da lesione della reputazione professionale, in ogni caso nella struttura dell’azione

ex articolo 2043 Cc non era autonomamente rilevante che fosse da qualificare

antigiuridico il fatto in sé del Pagliarini, ma era anche necessario che da detto fatto si

fosse realizzato un danno, consistente o nella lesione della reputazione personale o nei

pregiudizi economici conseguenti alla lesione della reputazione professionale (la cui

prova gravava sull’attore danneggiato).

Avendo il giudice di merito ritenuto non provato il danno lamentato, correttamente si è

limitato a rigettare la domanda, non emettendo alcuna specifica pronuncia sul punto se il

comportamento del Pagliarini fosse, in ogni caso, antigiuridico, non avendo tale

elemento una specifica autonomia nella struttura normativa dell’articolo 2043 Cc, tale

da giustificare una pronuncia sullo stesso, pur in assenza di un (provato) danno.

Infatti l’ingiustizia, cui fa riferimento detta norma, è esclusivamente quella che connota

il danno («danno ingiusto») e non il fatto generatore dello stesso.

Se il danno ingiusto manca (id est: non è provato), è irrilevante che il fatto dell’agente

possa essere in sé antigiuridico.

11. Infondata è anche la censura, secondo cui erroneamente il giudice di appello non

avrebbe provveduto alla liquidazione equitativa del danno.

Infatti le problematiche relative alla forma di liquidazione equitativa del danno, ai sensi

degli articoli 2056 e 1226 Cc, presuppongono che sia fornita la prova certa che un

danno si sia verificato e che siano forniti gli elementi ed i dati di fatto sui quali il

giudice possa fondare il proprio apprezzamento atto a colmare le ineliminabili lacune

probatorie derivanti dalla natura della fattispecie (ciò vale in particolare per i danni ai

diritti assoluti ed inalienabili della persona umana), mentre se ne deve escludere la

possibilità allorché quella prova manchi.

Pagina 40 di 51

Nella fattispecie, avendo il giudice di appello ritenuto che non fosse stata provata

l’esistenza del danno assunto, correttamente non ha provveduto ad alcuna liquidazione,

neppure equitativa, del danno.

12. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Esistono giusti motivi per compensare per intero tra le parti le spese di questo giudizio

di legittimità.

PQM

rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese di questo giudizio di legittimità.

Pagina 41 di 51

Allegato 2

L’ultima questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c.

R E P U B B L I C A I T A L I A N A

IL TRIBUNALE DI ROMA

- Sez. XIII Civile -

in persona del giudice unico, dott. Marco Rossetti, ha pronunciato la seguente

O R D I N A N Z A

nella causa civile in primo grado iscritta al n° 30772/98 del R.G.A.C., trattenuta in

decisione all'udienza del 14.1.2002, vertente

tra

- Luciano Manetti, Tiziana Manetti, Grazia Scolamacchia, Vito Scolamacchia,

Giuseppina Floris, elettivamente domiciliati in Roma, p.za Mazzini 27, presso l'Avv.

Pierpaolo De Angelis e Per Francesco Sica che li rappresenta e difende per procura

apposta in margine all’atto di citazione;

- attori -;

e

-) Daniela Ingretolli, elettivamente domiciliata in Roma, v.le Angelico 193, presso

l'Avv. Maria Cristina Manni che la rappresenta e difende per procura apposta in

margine alla comparsa di risposta;

- convenuta -;

nonché

-) Assitalia s.p.a. , in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in Roma, v.le delle Medaglie d'Oro 199, presso l'Avv. Alessandro Italo

Masucci e Maria Masucci che la rappresentano e difendono per procura apposta in calce

alla copia notificata dell’atto di citazione;

- convenuta -;

nonché

-) Aurora Assicurazioni s.p.a. , in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, v. Nomentana 231, presso l'Avv. Carlo Magaldi che

la rappresenta e difende per procura apposta in calce alla copia notificata dell’atto di

citazione;

- chiamato in causa -;

nonché

-) Catia Ingretolli, elettivamente domiciliata in Roma, v.le Angelico 193, presso l'Avv.

Maria Cristina Manni che la rappresenta e difende per procura apposta in margine alla

comparsa di intervento;

- intervenuta -;

nonché

-) Mauro Mastrofini, Mario Mastrofini, Giuliana Ciuffa, Alberto Ciuffa,

elettivamente domiciliati in Roma, p.za Verbano 8, presso l'Avv. Antonio Paparatti che

li rappresenta e difende per procura apposta in margine alla comparsa di intervento;

- intervenuti -;

nonché

-) Alessandro Ingretolli, elettivamente domiciliato in Roma, v. A. Genovesi 29, presso

l'Avv. Armando Tatafiore che lo rappresenta e difende per procura apposta in margine

alla comparsa di costituzione in prosecuzione;

- intervenuto -.

***

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1. Fatto.

Nella tarda serata dell’11 maggio 1997, all’altezza del km 3+900 della via Maremmana

III, si verificava uno scontro frontale tra due autoveicoli: una Alfa 33, assicurata per la

r.c.a. dalla Siad s.p.a., ed una Fiat Uno, assicurata per la r.c.a. dalla Assitalia s.p.a..

In conseguenza del violentissimo urto, perdevano la vita quattro persone.

Gli eredi di una di esse (il conducente dell’Alfa 33) convenivano in giudizio il

proprietario e l’assicuratore del veicolo Fiat Uno, il cui conducente veniva indicato

come unico responsabile del sinistro.

Il proprietario della Fiat Uno si costituiva e, oltre chiedere il rigetto della domanda

attorea, allegava che la responsabilità dell’evento andava ascritta al congiunto degli

attori, dei quali chiedeva in via riconvenzionale la condanna al risarcimento dei danni

patiti in conseguenza della morte della propria madre, che al momento del fatto si

trovava alla guida della Fiat Uno.

Nel giudizio intervenivano anche gli eredi delle altre persone decedute nel tragico

scontro, ciascuno chiedendo la condanna “di chi di dovere” al risarcimento dei danni

rispettivamente patiti.

Nel giudizio interveniva, altresì, una persona trasportata sul veicolo Fiat Uno al

momento del sinistro, la quale chiedeva anch’essa nei confronti “di chi di dovere” il

risarcimento del danno biologico, patrimoniale e morale subito in conseguenza del

sinistro.

In esito all’istruzione, dopo avere trattenuto la causa in decisione, questo Tribunale

ritiene che nessuna delle parti sia riuscita a superare la presunzione posta a carico di

ciascuno dei conducenti dall’art. 2054, comma secondo, c.c.. Ciascuno dei conducenti,

pertanto si dovrebbe presumere corresponsabile del sinistro, nella misura del 50%.

Di conseguenza, essendo stata la responsabilità accertata non in base alla ricostruzione

obiettiva del fatto, ma in base ad una presunzione, dovrebbero essere rigettate tutte le

domande di risarcimento del danno morale.

L’art. 2059 c.c., infatti, consente il risarcimento del danno non patrimoniale solo nei

casi previsti dalla legge, tra i quali rientra in primis l’ipotesi di commissione di un reato,

l’unica che nel caso di specie potrebbe legittimare il risarcimento del danno suddetto.

E’ noto tuttavia che, per “diritto vivente”, si ritiene che il danno non patrimoniale

derivante da fatto illecito astrattamente costituente reato non possa essere liquidato,

quando la responsabilità dell’autore sia stata accertata in base ad una presunzione, e non

in base all’oggettiva ricostruzione del fatto.

Questo Tribunale, nondimeno, ritiene che il suddetto art. 2059 c.c. non sia conforme a

Costituzione, ed intende pertanto sollevare incidente di costituzionalità, nei termini che

seguono.

2. Sulla rilevanza della questione.

Nel caso di specie, il collegamento giuridico, e non di mero fatto, tra la regiudicanda e

la norma della cui costituzionalità si dubita, appare in re ipsa.

Infatti, ove si ritenesse l’art. 2059 c.c. conforme a Costituzione, tutte le domande di

risarcimento del danno morale, formulate nel presente giudizio, andrebbero rigettate.

Danno che, nel caso di perdita del congiunto per fatto illecito altrui, costituisce di norma

l’aliquota principale (se non unica) dell’intera aestimatio.

Ove, per contro, si ritenesse l’art. 2059 c.c. in contrasto con la Costituzione, le suddette

domande dovranno essere accolte.

3. Sulla non manifesta infondatezza.

Pagina 43 di 51

Per ritenere conforme a Costituzione l’art. 2059 c.c. occorrerebbe affermare che la

limitata risarcibilità del danno morale non violi alcun precetto costituzionale.

Questo assunto, nell’attuale congerie economico-sociale, non sembra possa essere più

condiviso, per due motivi:

(a) perché lede un diritto fondamentale dell’individuo, come quello alla serenità morale,

e talora produce disparità di trattamento inique ed ingiustificate, violando gli artt. 2 e 3

cost., quest’ultimo sotto il profilo della uguaglianza;

(b) perché talaltra produce - per effetto degli orientamenti giurisprudenziali che si sono

venuti consolidando negli ultimi anni, sino a divenire “diritto vivente” - ingiustificate

duplicazioni risarcitorie, violando l’art. 3 cost. sotto il profilo della ragionevolezza

(rispetto al tertium comparationis rappresentato dall’art. 2043 c.c.).

Questi due profili saranno esaminati partitamente.

3.1. Violazione dell’art. 2, e dell’art. 3 cost. sotto il profilo dell’uguaglianza.

Per circa 2100 anni non si è mai dubitato che il pregiudizio morale causato dal fatto

illecito altrui potesse costituire fonte di una obbligazione civile, della quale l’offeso era

creditore, e l’offensore debitore. Talora l’oggetto di tale obbligazione era concepito

come una sanzione, ma restava comunque una “sanzione” ben strana, in quanto versata

non allo Stato, ma all’offeso od ai suoi congiunti. E basterà richiamare, al riguardo,

Ulpiano, secondo cui utraque actio concurrit et legis Aquiliae et iniuriarum, sed duales

erunt aestimationes, alia damni, alia contumeliae (Dig. 9, 2, 23, 9); o Paolo, secondo

cui qui servum alienum iniuriose verberat, ex uno facto incidit et in Aquiliam, et in

actionem iniuriarum. Iniuriam enim ex affectu sit; damnum, ex culpa (Dig. 44, 7, 33,

pr.).

Princìpi non infirmati da Dig. 9, 3, 1, 5 (Ulpiano), secondo cui in homine libero, nulla

corporis aestimatio fieri potest. Quest’ultimo principio, citato spesso a sproposito, va

infatti rettamente inteso non già nel senso che il danno (morale) da lesione della salute

fosse nel diritto romano irrisarcibile, ma piuttosto nel senso che la persona lesa

dall’altrui illecito, se non avesse subìto o dimostrato alcuna perdita patrimoniale, non

poteva ricorrere all’actio utilis legis Aquiliae (nella cui formula era necessario inserire

la aestimatio rei), ma poteva pur sempre contare sul pagamento della somma richiesta o

statuita dal pretore per l’iniuria.

Tali principi, tenuti fermi da Glossatori e Commentatori, vennero ripresi e ribaditi dai

giusnaturalisti: Grozio, ad esempio, definì espressamente il danno come omnem

laesionem, corruptionem, diminutionem aut sublationem eius quod nostrum est, aut

interceptionem eius quod ex jure perfecto debeamus habere, sive id datum sit a natura

sive accidente facto humano aut lege attributum, sive denique omissionem aut

degenerationem alicuius praestationis quam nobis alter ex obligatione perfecta

exhibere teneatur (De iure belli ac pacis, II, 17, 1), non limitandone in alcun modo la

risarcibilità alle sole ipotesi di reato.

Ed anche altri giuristi del Seicento e del Settecento non dubitarono mai del fatto che

tanto i pregiudizi patrimoniali, quanto quelli morali, potessero e dovessero essere

riparati in denaro, sempre e comunque, quale che ne fosse l’eziogenesi: così Jean Louis

Domat, secondo cui toutes les pertes et tous les domrnages qui peuvent arriver par le

fait de quelque personne, soit imprudence, légéreté, ignorance de ce qu'on doit savoir,

ou autres fautes semblables, si légères qu'elles puissent étre, doivent étre réparées par

celui dont l'imprudence ou la faute y a donnez lieu (Le lois civiles, I, 2, XX); o

Melchiorre Gioia, secondo cui il soddisfacimento è completo (…) quando somministra

compenso sì per le sensazioni dolorose accompagniate [sic] da apparenze sensibili, che

per le sensazioni dolorose scevre di esse. In somma, poiché la parola danno non

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inchiude solamente le alterazioni nel sistema visibile delle cose, ma anche le alterazioni

nel sistema invisibile de' sentimenti, perciò se il soddisfacimento debb'essere completo,

alle une debbesi estendere e alle altre (Dell’ingiuria, I, 260).

La complessa e risalente esperienza giuridica, sopra sommariamente descritta, venne

recepita nella prima delle codificazioni moderne, il Code Napoleon del 1805, il cui

articolo 1382 stabilì che tout fait quelconque de l’homme, qui cause à autrui un

dommage, oblige celui par le faute duquel il est arrivé à le réparer. E quel legislatore,

nell’introdurre tale norma, volle che essa abbracciasse “nella sua vasta estensione tutte

le specie di danni, e li sottopone[sse] ad una riparazione uniforme, la quale ha per

misura il valore del pregiudizio sofferto. Dall’omicidio fino alla più lieve ferita,

dall’incendio di un edifizio fino alla rottura di uno spregevole mobile, tutto è sottoposto

alla stessa legge; tutto è dichiarato capace di un prezzo che indennizzerà la persona

offesa da qualsivoglia danno sofferto” (così il tribuno Tarrible illustrò all’assemblea, il

19 piovoso (9 febbraio) 1803, “la legge relativa alle obbligazioni che si formano senza

convenzione”).

La dottrina formatasi sul Code napoleon, sin dal XIX sec., non dubitò mai della piena e

totale risarcibilità dei danni patrimoniali e di quelli morali: così, ad esempio, il Laurent,

il quale alla domanda se il danno morale dà luogo a riparazione pecuniaria, rispondeva

che “la soluzione affermativa è ammessa dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Essa si

fonda sulla lettera e sullo spirito della legge: l’art. 1382 parla di “danno” in termini

assoluti, che non comportano alcuna distinzione; qualsiasi danno deve perciò essere

risarcito, il danno morale come quello materiale” (Principii di diritto civile, n. 359).

L’art. 1382 Code Napoleon venne recepito, in forma pressoché identica, nell’art. 1151

del Codice civile italiano del 1865, ed anche la giurisprudenza formatasi su quest’ultimo

corpus normativo, fino alla fine del XIX sec., rimase costante nell’affermare la

risarcibilità assoluta del danno morale, quale che fosse la natura dell’atto illecito che

l’aveva arrecato: in tal senso, ex multis, Cass. Palermo 23.2.1895, in Foro it., 1896, I,

685; App. Torino 20.1.1900, in Foro it. Rep., 1900, Responsabilità civile, 156; Cass.

Napoli 18.1.1900, Filangieri, 1900, 769; App. Torino 4.6.1880, in Foro it. Rep. 1880,

Danni penali, 23; Cass. Roma 10.3.1890, in Foro it. Rep., 1890, Danno, 22; Trib.

Genova 19.2.1900, Mon. trib. mil., 1900, 556; App. Palermo 16.3.1903, in Foro it.,

1903, I, 944; Trib. Roma 29.5.05, Pal. giust., 1905, 325; Cass. Napoli 23.2.05, Riv. giur.

sociale, 1905, 214; Trib. Napoli 27.10.1909, Dir. e giur., XXV, 292; Cass. Napoli

11.12.1908, in Giur. it., 1909, I, 2, 624; App. Palermo 22.3.1910, in Foro sic., 1910,

202; App. Trani 25.6.1910, in Riv. dir. civ., 1911, II, 240; App. Venezia 20.4.1911,

Foro ven., 1911, 399; App. Genova 19.4.1913, in Riv. dir. comm., 1913, II, 800; Trib.

Messina 9.7.1914, Trib. giud., 1915, 250; App. Trani 30.1.1915, Filangieri 1915, 631;

App. Trani 24.11.1919, in Foro it. Rep., 1920, Responsabilità civile, 79; App. Milano

21.1.21, in Riv. dir. comm., 1921, II, 448; App. Catania 3.4.1925, Foro sic., 1925, 34).

Fu soltanto alla fine dell’ ‘800 che cominciò ad emergere, prima in dottrina, poi in

giurisprudenza, l’idea che l’art. 1151 c.c. del 1865 consentisse soltanto il risarcimento

del danno patrimoniale, e mai di quello morale. Tale idea, allora, veniva giustificata con

l’assunto secondo cui i danni morali non sarebbero veri danni: e ciò in quanto “il diritto

ha (…) per sua natura ad oggetto sempre un oggetto esteriore e sensibile. Non hanno

questa natura, e non si possono neppure propriamente dire diritti personali, né

tampoco diritti, od elementi del patrimonio giuridico personale, gli oggetti dell’offesa e

del danno morale, come p. es. l'onore, la pudicizia. Essi sono bensì elementi integranti

dell’umana personalità, e intangibili e inviolabili come questa, ma appunto

l’intangibilità e inviolabilità dell’umana persona non è per sé medesima un diritto

civile o privato, perché non ha oggetto esteriore sensibile, non è pretensione di nessun

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atto o fatto esteriore determinato, che un'altra persona determinata debba porre in

essere od evitare. E’ un diritto al certo (…), ma, perché non si traduce di sua natura e

necessariamente in esteriori determinate prestazioni, non è un vero elemento del

patrimonio giuridico-privato dell'individuo, neppure personale. E’ un diritto la cui

tutela è prestata propriamente dal diritto pubblico penale. Or se i danni morali non

sono veri danni in senso civile, cioè giuridico-privato, egli è chiaro che già per questo

motivo essi non possono dar fondamento e materia a risarcimento in senso civile, o

giuridico-privato, cioè pecuniario” (così lo scritto che può considerarsi il “manifesto”

della nuova tesi della irrisarcibilità del danno morale, in Foro it., 1896, I, 685; il passo

sopra trascritto è in 701).

Questo nuovo orientamento venne fatto proprio da parte della giurisprudenza e, dopo

aspri contrasti, definitivamente consacrato dalla Cassazione di Roma a sezioni unite

(Cass. Roma 27.4.1912, in Giur. it., 1913, I, 1, 837), e quindi dalla nuova Cassazione

(unica) del Regno (Cass. 20.10.1924, in Giur. it., 1924, I, 1, 952).

La giurisprudenza, nell’aderire alla tesi che negava la risarcibilità del danno morale,

recepì puntualmente i concetti elaborati della dottrina e sopra ricordati, aggiungendo

altri motivi: (a) il codice civile disciplina unicamente i rapporti giuridico-patrimoniali, e

quindi l’art. 1151 c.c., inserito in tale codice, non può concernere i rapporti morali; (b)

non esistono criteri certi per la liquidazione del danno morale; (c) il pagamento di una

somma di denaro all’offeso non può mai costituire un “risarcimento” in senso tecnico,

in quanto non è possibile che l’offeso “si conforti nella contemplazione dell’oro del suo

offensore”.

Questo fu lo “stato delle cose”, ovvero l’esperienza giuridica concreta, rinvenuto dal

codificatore del 1942. Egli quindi, allorché introdusse l’art. 2059 dell’attuale codice

civile, non fece che recepire il “diritto vivente”. Tale diritto vivente, in base al

combinato disposto degli artt. 1151 c.c. del 1865; e 185 c.p. del 1930, consentiva la

risarcibilità del danno morale soltanto nel caso in cui l’illecito integrasse gli estremi di

un reato.

Non era, dunque, affatto vero quanto si legge nella relazione al c.c., e cioè che la

resistenza della giurisprudenza alla estensione della risarcibilità dei danni morali “può

considerarsi limpida espressione della nostra coscienza giuridica”. E non era vero per

tre motivi:

(a) perché la limitazione suddetta, al momento della promulgazione del codice, si era

affermata in giurisprudenza da poco più di vent’anni, mentre in precedenza la tesi

opposta aveva dominato incontrastata per due millenni;

(b) perché, comunque, si era affermata dopo asperrimi contrasti;

(c) perché era una tesi sorta nel chiuso dei gabinetti dove si forma l’opinio doctorum, e

non nella palpitante dialettica delle aule giudiziarie: onde, quand’anche si volesse

ammettere il concetto di “coscienza giuridica”, la tesi della limitata risarcibilità del

danno morale era stata suggerita dall’alto, e non scaturita dal Volksgeist.

3.2. Da quanto sinora esposto emerge che l’art. 2059 c.c., nel limitare ai casi previsti

dalla legge la risarcibilità del danno morale, ha recepito una “idea ordinante”, fondata

sull’assunto secondo cui i diritti della personalità non costituiscono elementi del

patrimonio del titolare, e la loro lesione non dà perciò luogo a risarcimento.

Ma se davvero questo - come si spera di avere dimostrato - è il fondamento logico della

norma, ovvero il suo nucleo primigenio, appare evidente come esso non possa avere

alcuna cittadinanza nell’ordinamento costituzionale.

I diritti della personalità, nessuno escluso, sono riconosciuti e tutelati dagli artt. 2 e 3

cost.. Insostenibile, quindi, sarebbe oggi la tesi secondo cui “il diritto ha (…) per sua

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natura ad oggetto sempre un oggetto esteriore e sensibile”, e che quindi “non si

possono (…) propriamente dire diritti personali, né tampoco diritti, od elementi del

patrimonio giuridico personale, gli oggetti dell’offesa e del danno morale”.

Ed infatti sia la giurisprudenza di legittimità, sia quella di merito, sia la migliore

dottrina, da tempo ritengono che i diritti della personalità costituiscano elemento del

patrimonio dell’individuo, e la loro lesione dà diritto al risarcimento del danno: così, ad

esempio, si è ritenuta risarcibile la lesione dell’integrità personale o della reputazione,

anche a prescindere dalla commissione di un fatto reato (ex permultis, per brevità,

basterà richiamare la motivazione di Cass., sez. I, 07-02-1996, n. 978, in Foro it., 1996,

I, 1253).

Orbene, questo tribunale ritiene impossibile continuare a fingere di ritenere che la

sofferenza morale causata dalla perdita di un prossimo congiunto non sia tutelata da

alcun precetto costituzionale, e quindi - non costituendo un diritto della personalità -

non possa essere risarcita se non nei casi di cui all’art. 2059 c.c..

Nel caso sottoposto all’esame di questo tribunale, due genitori hanno perso un figlio,

una figlia ha perso la propria madre, un fratello ha perso la propria sorella. Il devastante

dolore causato da tali perdite, secondo l’attuale legislazione, potrebbe essere risarcito

solo nei casi in cui l’atto illecito integri gli estremi di un reato, e quindi mai quando la

responsabilità dell’autore sia dichiarata in base ad una presunzione di legge.

Si dovrebbe quindi ammettere, per ritenere conforme a costituzione l’art. 2059 c.c., che

le persone sopra indicate non abbiano subìto alcun vulnus nei propri diritti della

personalità, o meglio, nel proprio diritto della personalità, in conseguenza della perdita

del congiunto.

Ma quanto assurda sia questa conclusione emerge già soltanto da una considerazione di

fatto, e non giuridica: e cioè che, come bene scrisse Miguel de Unamuno, “quel che

distingue l’uomo dagli altri animali è che veglia sui suoi morti”.

Il senso di inconsolata prostrazione che sorge dalla scomparsa della persona cara è

talmente fisiologico e connaturale all’essenza umana, che il mito e l’arte ne forgiarono

esempi indimenticati: così nel mito di Antigone, in quello di Castore e Polluce, in quello

di Orfeo ed Euridice od in quello di Admeto ed Alcesti; così nel “Lamento” di Jacopone

da Todi; così nella Pietà di Michelangelo; così nella Mamma Roma di Pier Paolo

Pasolini.

La conclusione qui contestata (la perdita del congiunto non vulnera alcun diritto della

personalità) non è meno assurda sul piano più strettamente giuridico.

Secondo l’orientamento prevalente della dottrina, della giurisprudenza di legittimità e di

quella costituzionale, l’art. 2 cost. “sancisce il valore assoluto della persona umana

(Corte cost. 10.12.1987 n. 479), ed è norma a contenuto precettivo e non

programmatico.

Di conseguenza, “ogni proiezione della persona nella realtà sociale, entro i limiti in cui

codesto risultato si ponga come conseguenza della tutela dei diritti inviolabili

dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali nelle quali si esplica la sua

personalità”, è suscettibile di assurgere al rango di diritto soggettivo perfetto, con la

conseguente configurabilità di una tutela risarcitoria in caso di lesione (così Cass.

10.5.2001 n. 6507, §§ 6.2. e 6.3 dei “Motivi della decisione”).

Ebbene, è indubbio che: (a) la famiglia è una delle formazioni sociali nelle quali

l’individuo esplica la propria personalità; (b) l’affetto e, più in generale, i vincoli di

sodalitas che sorgono dall’esistenza del rapporto parentale, costituiscono “proiezione

della persona nella realtà sociale”; (c) ergo, i suddetti vincoli costituiscono, ex art. 2

cost., oggetto di un diritto soggettivo perfetto, secondo l’iter logico seguito dalla S.C.

nella sentenza da ultimo citata.

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La conseguenza è che l’art. 2059 c.c., impedendo la risarcibilità del dolore che

scaturisce dalla lesione dei suddetti vincoli se non nei casi previsti dalla legge, viola nel

contempo sia l’art. 2 cost., in quanto frustra uno dei diritti fondamentali dell’individuo;

sia l’art. 3 cost., in quanto ingiustamente differenzia la condizione di chi perde il

congiunto in conseguenza di un illecito accertato, e chi perde il congiunto in

conseguenza di un illecito presunto ex art. 2054 c.c. (ovvero in base ad altra

presunzione di legge).

4. Dell’impossibilità di una lettura dell’art. 2059 c.c. costituzionalmente corretta

(violazione dell’art. 3 cost. sotto il profilo della ragionevolezza).

Si potrebbe sostenere, e vi è stato in giurisprudenza chi l’ha fatto, che l’art. 2059 c.c. sia

suscettibile di una lettura costituzionalmente orientata, in grado di salvarlo dal dubbio di

illegittimità.

Secondo tale orientamento, la lesione di un diritto costituzionalmente protetto, anche in

presenza di una norma come l’art. 2059 c.c., sarebbe comunque risarcibile in base al

combinato disposto dell’art. 2043 c.c., e della norma che si assume di volta in volta

violata. Questa ricostruzione è stata adottata dallo stesso giudice delle leggi, al fine di

escludere che l’art. 2059 c.c. precludesse la piena risarcibilità del danno biologico

(Corte cost. 14.7.1986 n. 184).

Nondimeno, questo tribunale ritiene che la tesi del “combinato disposto” (secondo cui i

pregiudizi non patrimoniali sarebbero risarcibili anche se non derivanti da illecito

costituente reato, se lesivi di diritti costituzionalmente protetti), nel caso di specie, non

valga a salvare l’art. 2059 c.c. dai dubbi di legittimità costituzionale, con riferimento

all’art. 3 cost., sotto il profilo della ragionevolezza, e ciò per tre motivi.

4.1. Il primo motivo è che la tesi del “combinato disposto”, sopra riassunta, sta e cade

con l’assunto (postulato, più che dimostrato) su cui si fonda: e cioè che l’art. 2043 c.c. è

una norma in bianco. Tale norma, si dice, contiene solo la sanzione (il risarcimento del

danno), mentre il precetto andrebbe ricercato in altre norme dell’ordinamento, e prime

fra tutte quelle costituzionali.

Tuttavia l’autorevolezza delle Sezioni Unite, alla cui opinione questo Tribunale si

uniforma convintamente, ha ormai abbandonato l’idea secondo cui l’art. 2043 c.c. sia

una norma in bianco.

La Corte di cassazione ha infatti espressamente definito il danno risarcibile come

“lesione di interesse”, e per l’esattezza come “la lesione dell'interesse al bene della vita

al quale l'interesse [leso], secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto,

effettivamente si collega” (Cass., sez. un., 22-07-1999, n. 500, in Giust. civ., 1999, I,

2261).

Per la Corte, dunque, costituisce danno risarcibile non soltanto la lesione di interessi

costituzionalmente protetti, ma anche quella di qualsiasi interesse “rilevante per

l’ordinamento”, cioè preso in considerazione da una norma o da un blocco normativo.

Ne consegue che se l’interesse leso è rilevante per l’ordinamento, esso sarà senz’altro

risarcibile, senza necessità di ricorrere all’argomentazione costituzionale; se, per contro,

quell’interesse non è rilevante per l’ordinamento, esso sarà irrisarcibile per tale motivo,

e non perché non contemplato dalla costituzione.

Ebbene, non vi è dubbio che l’interesse alla propria serenità morale sia preso in

considerazione dall’ordinamento, come evidenziato da numerosissimi indici normativi:

per tutti, basterà ricordare l’art. 2087 c.c., il quale impone al datore di lavoro le misure

necessarie a tutelare la personalità morale dei prestatori di lavoro; l’art. 342 bis c.c.

(introdotto dalla l. 4.4.2001 n. 154), il quale consente al giudice di adottare “ordini di

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protezione”, quando la condotta del coniuge è causa di grave pregiudizio all'integrità

fisica o morale dell’altro coniuge; l’art. 1 l. 27.12.1956 n. 1423, come modificato dalla

l. 3.8.1988 n. 327, il quale consente l’adozione di misure di prevenzione nei confronti di

chi mette in pericolo l’integrità morale dei minorenni; od ancora i delitti di cui agli artt.

564 e 565 c.p. (raccolti in un capo rubricato “dei delitti contro la morale famigliare”);

ovvero quelli di cui agli artt. 610-613 c.p. (delitti contro la libertà morale).

Se dunque l’interesse alla propria integrità morale (ricomprendendo in tale concetto

anche l’interesse a non subire turbative dell’animo) è preso in considerazione

dall’ordinamento, appare irrazionalmente discriminatoria la limitazione risarcitoria di

cui all’art. 2059 c.c., prevista soltanto per la lesione del suddetto interesse morale. Tutti

gli altri interessi presi in considerazione dall’ordinamento, infatti, non sono soggetti a

limitazioni risarcitorie analoghe, e sono sempre risarcibili, quale che sia la condotta

ilelcita per mezzo della quale vengono violati.

4.2. Il secondo motivo è che la tesi del “combinato disposto” prova troppo. Essa, infatti,

perviene ad un risultato ermeneutico non consentito all’interprete, ma solo al legislatore:

e cioè l’interpretatio abrogans dell’art. 2059 c.c..

Si consideri, al riguardo, che la nostra costituzione è una costituzione “lunga”, e che

l’art. 2 cost. è ritenuto elenco “aperto”, suscettibile di essere integrato di volta in volta

con tutti i nuovi diritti che l’evoluzione sociale dovesse fare emergere.

Ne consegue che, di fatto, qualsiasi pregiudizio alla serenità morale dell’individuo

sarebbe in astratto risarcibile ex art. “x” cost. e 2043 c.c., anche in assenza di una

dimostrata perdita patrimoniale: così, ad esempio, la perduta possibilità di scrivere

lettere d’amore (ex art. 15 cost. e 2043 c.c.); di andare a passeggio (ex art. 16 cost. e

2043 c.c.); di incontrarsi con gli amici (ex art. 17 cost. e 2043 c.c.); di scrivere romanzi

d’appendice (ex art. 21 cost. e 2043 c.c.).

Il che potrebbe anche essere un risultato auspicabile, ma che di fatto aggirerebbe, salvis

legis verbis, il divieto di cui all’art. 2059 c.c., rendendo quest’ultima norma un guscio

vuoto, una fattispecie priva di descrizione, posto che in nulla si distinguerebbe il

pregiudizio morale “puro”, da quello derivante da una lesione di interessi

costituzionalmente protetti.

Si consideri, a questo riguardo, che la sofferenza causata dalla morte di un prossimo

congiunto, in rerum natura, è una soltanto, ed a meno di coonestare il contrario con

circonvoluti sofismi, non è possibile distinguere il pregiudizio derivante dalla turbativa

dell’animo, dal pregiudizio derivante dalla lesione del diritto della personalità. Una è la

persona lesa, una è la fonte della sofferenza, uno è il pregiudizio da questa patito.

Ne consegue che, se si volesse sottrarre l’art. 2059 c.c. ai dubbi di legittimità

costituzionale, sostenendo che la turbativa dell’animo causata dall’altrui illecito

costituisce lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale fa sorgere ipso iure

il diritto al risarcimento del relativo pregiudizio (in aggiunta al danno morale

propriamente detto), si perverrebbe al risultato di rendere inoperante lo sbarramento di

cui all’art. 2059 c.c., in quanto di qualsiasi pregiudizio morale potrebbe facilmente

predicarsi la sussumibilità in questo o quel diritto costituzionalmente protetto. Il che

vuol dire abrogare, di fatto, l’art. 2059 c.c..

Così ad esempio, nel caso di specie, se si ritenesse che la perdita del prossimo congiunto

costituisca lesione di un diritto costituzionalmente protetto, di fatto si risarcirebbe la

sofferenza provata dal superstite, anche in assenza dell’accertamento di un reato. Si

perverrebbe, cioè, proprio all’esito che l’art. 2059 c.c. voleva scongiurare.

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Tuttavia l’obbligo, per il giudice di merito, di preferire sempre l’interpretazione

conforme a costituzione, sussiste soltanto là dove la scelta fosse tra due interpretazioni

che consentissero parimenti alla norma di produrre effetti.

Ma, per un evidente principio di corretta ermeneutica, tra una interpretatio abrogans

conforme a costituzione, ed una interpretatio utilis difforme da costituzione, l’interprete

deve scegliere necessariamente la seconda, altrimenti finirebbe per sostituirsi

inammissibilmente non solo al legislatore, ma anche alla Corte costituzionale. Se,

infatti, fosse possibile al giudice di merito addivenire ad interpretazioni sostanzialmente

disapplicative della norma, come quella qui contestata, questi finirebbe per esercitare in

proprio il controllo di costituzionalità, il che gli è vietato dall’art. 134 cost..

E poiché, come si è visto, la pretesa interpretazione adeguatrice dell’art. 2059 c.c.

conduce alla sostanziale disapplicazione di esso, tale interpretazione non può essere

seguita.

4.3. Il terzo motivo, strettamente connesso al precedente, è che se si ritenesse il

pregiudizio morale risarcibile in base al combinato disposto degli artt. 2 cost. (o altra

norma di rango costituzionale) e 2043 c.c., nei casi in cui il fatto illecito integra

comunque gli estremi di un reato, si risarcirebbe due volte il medesimo danno.

Così, nel caso di morte del congiunto causata dall’altrui illecito, ove si ritenesse che la

rottura del vincolo familiare costituisca lesione di un diritto costituzionalmente protetto,

la vittima avrebbe certamente diritto al risarcimento del danno ingiusto, ex art. 2 cost. e

2043 c.c.. E tuttavia, là dove l’illecito integrasse pacificamente gli estremi di un reato, la

medesima vittima potrebbe legittimamente pretendere anche il risarcimento del danno

morale. In questo modo un pregiudizio assolutamente identico (la sofferenza per la

morte del congiunto) verrebbe risarcito due volte: sia a titolo di lesione di un diritto

costituzionalmente protetto; sia a titolo di danno morale.

Il che costituisce un esito interpretativo non solo in contrasto col generale canone di

ragionevolezza di cui all’art. 3 cost., ma anche col principio di uguaglianza di cui alla

medesima norma, in quanto privilegerebbe ingiustificatamente la vittima di un illecito

accertato, rispetto alla vittima di un illecito presunto (ad esempio, ex art. 2054 c.c.),

quali sono gli attori e gli intervenuti nel giudizio a quo.

4.4. Alla soluzione qui prospettata non sembra potersi obiettare che anche nel caso di

lesione della salute il medesimo fatto lesivo fa sorgere il diritto al risarcimento sia del

danno biologico, sia del danno morale, e ciò per due motivi.

In primo luogo, perché il danno biologico, per effetto della promulgazione della l.

57/2001, può ben farsi rientrare nei “casi previsti dalla legge” di cui all’art. 2059 c.c..

Sicché il cumulo, in questa ipotesi, sarebbe normativamente previsto.

In secondo luogo, quel che più rileva, perché nel caso di danno biologico il pregiudizio

incide su un elemento (la complessiva validità dell’individuo) concettualmente distinto

dalla “serenità morale” del leso. Sicché, sia pure a livello soltanto logico, è possibile

concepire e valutare separatamente la ridotta validità biopsichica della vittima, dalla sua

sofferenza morale.

Per contro, nel caso di perdita di un prossimo congiunto (come pure nel caso di qualsiasi

pregiudizio morale causato dall’altrui illecito), il pregiudizio morale del superstite non

potrebbe distinguersi in nulla dal pregiudizio asseritamente derivante dalla lesione del

diritto costituzionalmente protetto all’integrità della famiglia. Pretendere di distinguere

l’uno dall’altro tipo di danno sarebbe operazione puramente definitoria, che sfocerebbe

in una ingiustificata duplicazione dei risarcimenti nei casi di illeciti costituenti reato.

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E neppure varrebbe obiettare che, nei casi in questione, l’art. 2059 c.c. conserverebbe

una propria autonomia, in quanto il risarcimento del danno morale avrebbe la funzione

di sanzionare il responsabile.

Che il danno morale possa avere una funzione anche sanzionatoria, non vi è dubbio; che

tale funzione possa essere l’unica, deve radicalmente escludersi: la S.C., infatti, è

assolutamente costante nel ritenere che il risarcimento del danno morale deve essere

liquidato non tenendo conto della capacità patrimoniale dell’offensore: “è (…)

irrilevante - osserva la S.C. -, in relazione alla funzione consolatoria-satisfattiva della

corresponsione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno non

patrimoniale conseguente a lesioni personali (…), la considerazione dello stato di

«bisogno del danneggiato» e, ancor di più, della «capacità patrimoniale

dell'obbligato», che potrebbe logicamente correlarsi solo ad una finalità

prevalentemente «punitiva» del risarcimento in relazione al particolare disvalore

sociale della condotta cui l'evento si ricollega, da escludersi in caso di lesioni personali

colpose (Cass. 14-10-1997 n. 10024, in Arch. circolaz., 1998, 149; Cass. 14.2.2000 n.

1633). Con analoga ratio decidendi, più recentemente, anche Cass. 20.12.2001 n.

16073, in Guida al dir., 2002, fasc. 2, 44, ha escluso la risarcibilità del danno morale da

morte del congiunto (nella specie, del coniuge separato), ove l’attore non dimostri di

avere provato una effettiva e reale sofferenza. Affermazione, quest’ultima, che si spiega

soltanto attribuendo al ristoro del danno morale natura di vero e proprio risarcimento,

poiché la sanzione per un atto illecito oggettivamente commesso non potrebbe essere

esclusa in base alla mera circostanza che la vittima non ha provato dolore.

Se dunque il risarcimento del danno morale non è una sanzione, resta confermato

quanto già esposto in precedenza, e cioè che il risarcimento di esso non può affiancarsi,

a pena di inammissibili duplicazioni risarcitorie, alla liquidazione di pretesi danni da

lesione di interessi costituzionalmente protetti, quando questi ultimi in nulla si

distinguano dai pregiudizi puramente morali, come appunto nel caso di danno morale da

perdita del prossimo congiunto.

5. In via subordinata.

Qualora la Corte costituzionale ritenesse l’art. 2059 c.c. non in contrasto con i parametri

costituzionali indicati, questo Tribunale ritiene di dovere sollevare una questione

subordinata di legittimità costituzionale della norma ora citata, per contrasto con l’art. 3

cost., là dove non consente la liquidazione del danno morale nei casi in cui la

responsabilità dell’offensore sia stata affermata in base ad una presunzione di legge (ad

es., ex art. 2054 c.c.).

Si è già detto che tale interpretazione della norma è talmente risalente, consolidata e

monolitica da costituire diritto vivente (ex permultis, Cass. 2-10-1998 n. 9794, in Foro

it. Rep., Responsabilità civile, 315; Cass. 25-9-1998 n. 9598, in Foro it. Rep., 1998,

Danni civili, 137; Cass. 21-4-1998 n. 4030, in Arch. circolaz., 1998, 774; Cass. 11-3-

1998 n. 2674, in Foro it. Rep., 1998, Danni civili, 139; Cass. 18-7-1997 n. 6632, in Foro

it. Rep., 1997, Danni civili, 154; Cass. 27-6-1997 n. 5781, in Foro it. Rep., 1997, Danni

civili, 153; Cass. 28-8-1995 n. 9045, in Foro it. Rep., 1995, Danni civili, 159; Cass. 14-

3-1995 n. 2932, in Foro it. Rep., 1995, Danni civili, 160; Cass. 3-12-1993 n. 11999, in

Arch. circolaz., 1994, 226, per citare solo alcune tra le più recenti decisioni).

L’orientamento in esame, tuttavia, sorse in un’epoca storica in cui, vigendo l’art. 3

c.p.p. del 1930, e la conseguente necessità di sospendere obbligatoriamente il processo

civile nell’attesa della definizione di quello penale, l’accertamento dell’illecito in sede

civile era necessariamente subordinato all’accertamento del fatto reato in sede penale.

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In quel sistema, pertanto, giustamente si escludeva la risarcibilità del danno morale nei

casi di responsabilità presunta: l’inesistenza del reato, stabilita nell’esercizio della

giurisdizione penale, per la preminenza logica e giuridica di quest’ultima non poteva

essere contraddetta dagli esiti del processo civile.

Il rapporto tra il processo civile e quello penale, tuttavia, è radicalmente mutato per

effetto dell’introduzione del nuovo art. 75 c.p.p., il quale consente che l’azione di

risarcimento possa avere un iter del tutto scisso da quello del procedimento penale, ed

anzi tollera addirittura esiti contrastanti tra il giudizio penale e quello civile.

Ciò vuol dire che la vittima, qualora decida di azionare la propria pretesa risarcitoria

dinanzi al giudice civile, deve poter contare sull’intero strumentario probatorio messole

a disposizione del legislatore; e quindi anche sulle presunzioni semplici previste dalla

legge.

E tuttavia l’orientamento della cui legittimità si dubita impedisce alla parte, che abbia

deciso di promuovere l’azione risarcitoria dinanzi al giudice civile, di avvalersi di uno

dei mezzi di prova più tipici e risalenti del processo civile, cioè la presunzione.

In tal modo, il suddetto orientamento si pone in contrasto con l’art. 3 cost., in quanto -

in modo irrazionale rispetto al dettato dell’art. 75 c.p.p., considerato quale tertium

comparationis -, ad onta della conclamata parità delle giurisdizioni, di fatto disincentiva

il danneggiato che promuova l’azione risarcitoria dinanzi al giudice civile,

precludendogli il ricorso ai mezzi di prova previsti dall’ordinamento per il giudizio

civile di risarcimento del danno.

P.q.m.

il Tribunale, visti gli art. 134 Cost. e 23 l. 87/1953, ritenutane la rilevanza e la non

manifesta infondatezza, solleva d’ufficio la questione di legittimità costituzionale

dell’art. 2059 c.c., per contrasto con gli artt. 2 e 3 cost., nei sensi di cui in motivazione;

- in via subordinata, solleva d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art.

2059 c.c., per contrasto con l’art. 3 cost., nella parte in cui non cosnente la risarcibilità

del danno morale, là dove la responsabilità dell’autore dell’illecito sia stata ritenuta in

base ad una presunzione semplice;

- sospende il presente giudizio;

- manda alla Cancelleria di provvedere alla immediata trasmissione degli atti alla Corte

Costituzionale.

- manda alla Cancelleria di notificare la presente ordinanza alle parti costituite ed al

Presidente del Consiglio dei Ministri;

- manda alla Cancelleria di comunicare la presente ordinanza ai Presidenti delle due

Camere del Parlamento.

Roma, 11.5.2002.

Il Giudice

(dott. Marco Rossetti)

 

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