Il presente scritto si occupa della
natura, del tipo e della risarcibilità dei danni civili
che il medico può causare nell’esercizio della propria
attività.
Per chiarezza di esposizione, questi danni sono stati
raggruppati in quattro categorie generali: danni
biologici, morali, patrimoniali. La quarta categoria è
quella dei danni che potremmo definire “emergenti”, cioè
apparsi in epoca recente nel panorama giurisprudenziale,
e tuttora oggetto di rilevanti incertezze.
In considerazione dei limiti del presente scritto, per
ciascuna delle suddette categorie si esporranno
unicamente le questioni più delicate o controverse,
lasciando a degli accenni di ordine generale il compito
di richiamare i princìpi o le questioni ormai pacifici e
consolidati.
I danni risarcibili per responsabilità medica
professionale contrattuale
ed extracontrattuale
***
SOMMARIO:
1. Premessa. - 2. Il danno biologico. - 2.1.
Nozione. - 2.2. Caratteri. - 2.3.
Liquidazione. - 2.4. Il danno
iatrogeno. - 2.5. La perdita delle chances di
sopravvivenza.
- 2.6. Il c.d. danno biologico
“da morte”. - 3. Il danno patrimoniale. - 3.1.
Premessa
terminologica. - 3.2.
Accertamento del danno. - 3.3. Liquidazione. - 4. il
danno morale.
- 4.1. La nozione di danno
morale nel diritto vivente. - 4.2. Questioni di
legittimità
costituzionale. - 4.3. I
soggetti legittimati. - 4.4. Danno morale e danno
psichico. - 4.5. Il
danno sofferto in stato di
incoscienza. - 4.6. Reati punibili a querela. - 5. I
“nuovi
danni”.
- 5.1. La lesione di diritti costituzionalmente
protetti. - 5.2. Il danno
esistenziale. - 5.3. Il danno da
nascita indesiderata.
***
1. Premessa.
Il presente scritto si occupa
della natura, del tipo e della risarcibilità dei danni
civili che
il medico può causare
nell’esercizio della propria attività.
Per chiarezza di esposizione,
questi danni sono stati raggruppati in quattro categorie
generali: danni biologici,
morali, patrimoniali. La quarta categoria è quella dei
danni
che potremmo definire
“emergenti”, cioè apparsi in epoca recente nel panorama
giurisprudenziale, e tuttora
oggetto di rilevanti incertezze.
In considerazione dei limiti del
presente scritto, per ciascuna delle suddette categorie
si
esporranno unicamente le
questioni più delicate o controverse, lasciando a degli
accenni
di ordine generale il compito di
richiamare i princìpi o le questioni ormai pacifici e
consolidati.
2. Il danno biologico.
2.1. Nozione.
La nozione di “danno biologico”
(o danno alla salute, secondo una formula ormai
consolidata) è frutto di una
venticinquennale elaborazione giurisprudenziale, ormai
consolidata nel definire tale
danno come la temporanea o definitiva compromissione
della complessiva integrità
psicofisica dell’individuo, suscettibile di essere
positivamente accertata sotto il
profilo medico-legale, dalla quale sia derivato un
peggioramento del complessivo
stato di benessere e dell’efficienza psicofisica del
soggetto leso (ex plurimis,
Cass., 9-12-1994, n. 10539, in Foro it. Rep. 1994,
Danni
civili,
170).
La definizione elaborata dalla
giurisprudenza è stata recepita dal legislatore, nei
seguenti testi normativi:
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51
(a) l’art. 13, comma 1, d. lgs.
23-2-2000 n. 38 (“Disposizioni in materia di
assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le
malattie professionali, a norma
dell'articolo 55, comma 1, della legge 17 maggio
1999, n. 144”);
il quale disciplina
l’indennizzo da parte dell’Inail
del danno biologico subito dal lavoratore, definito
quest’ultimo come “la lesione
all'integrità psicofisica, suscettibile di valutazione
medico
legale, della persona”;
(b) l’art. 5, comma 2, l.
5-3-2001, n. 57 (“Disposizioni in materia di apertura
e
regolazione dei mercati”),
il quale disciplina il risarcimento dei danni alla
persona
causati dalla circolazione dei
veicoli, il quale definisce il danno in esame come “la
lesione all'integrità
psicofisica della persona, suscettibile di accertamento
medicolegale”.
Le definizioni normative hanno
quindi, sia pure nel rispettivo e non generalizzato
ambito di applicazione,
confermato indirettamente la definizione elaborata dalla
giurisprudenza.
In sintesi, dunque, si può
definire il danno biologico come una perdita: per
l’esattezza,
esso consiste nella riduzione o
nella soppressione della qualità della vita del
danneggiato, a sua volta causata
da una compromissione dello stato di salute goduto
prima del verificarsi del danno,
e deve essere valutata prescindendo dalle conseguenze
patrimoniali di essa.
2.2. Caratteri.
Il danno alla salute presenta
quattro caratteristiche.
In primo luogo, ha fondamento
medico legale. Ciò vuol dire che, affinché possa
ritenersi sussistente un danno
alla salute, deve sussistere una lesione in corpore:
intendendo per tale una
compromissione dell’integrità fisica o di quella
psichica del
danneggiato. Non costituisce,
quindi, danno biologico, il mero stress, o il
fastidio, o
l’insofferenza, o la tristezza,
se non sfociano in vere e proprie patologie psichiche.
Secondo la S.C., infatti, “il
danno alla salute (…) presuppone pur sempre una lesione
dell'integrità psicofisica, di cui, quel peggioramento è
solo la conseguenza. Non,
dunque, la minore godibilità della vita è in sé
risarcibile a tale titolo, ma solo la
lesione della salute, costituente il bene giuridicamente
tutelato dall'art. 32 della
Costituzione”
(Cass. 17.11.1999 n. 12756, in Riv. giur. circolaz.
trasp., 2000, 308; da
rimarcare che il grassetto è
nell’originale della sentenza).
Il fondamento medico-legale del
danno biologico, si rivela incidentalmente, appare
imprescindibile per
salvaguardarne la identità concettuale. Diversamente,
infatti, non
sarebbe possibile distinguere il
pregiudizio in esame dal danno morale.
In secondo luogo, il danno
biologico ha natura disfunzionale, nel senso che per
l’esistenza di esso non è
sufficiente una qualsiasi compromissione dell’integrità
psicofisica, ma è necessario che
da tale compromissione conseguano, per sempre oppure
per un certo periodo di tempo,
ripercussioni negative per l’esistenza del leso.
Frequente
e reiterato è, nella
giurisprudenza di legittimità, il riferimento al danno
biologico come
ad un danno che si sostanzia non
già nella mera lesione dell’integrità psicofisica, ma
nella perdita di funzioni vitali
che da quella lesioni sono derivati o possono derivare
(Cass., 13-1-1993, n. 357, in Foro it. 1993, I, 1897;
Cass., 18-2-1993, n. 2008, in Riv.
giur. circ. trasp., 1993, 790).
In terzo luogo, il danno
biologico è omnicomprensivo, nel senso che nella
liquidazione
del risarcimento occorre tenere
conto (mediante la c.d. “personalizzazione” del
risarcimento, cioè l’adattamento
al caso di specie dei criteri standard
normalmente
utilizzati per la aestimatio)
di tutti gli aspetti, nessuno escluso, della vita
concreta
dell’individuo che vengono
alterati o soppressi in conseguenza delle lesioni
causate
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dall’altrui illecito: e quindi
del pregiudizio estetico, di quello alla vita sessuale,
della
maggior pena o fatica provata
nello svolgimento dell’attività lavorativa, ecc..
Infine, il danno biologico è
areddituale, nel senso che sia l’accertamento, sia la
valutazione, sia la liquidazione
debbono prescindere del tutto da ogni e qualsiasi
riferimento al reddito od al
patrimonio del danneggiato.
2.3. Liquidazione.
Il criterio oggi più diffuso per
la liquidazione del danno biologico è quello del c.d.
punto
variabile, o “metodo milanese ”
(in quanto adottato per primo dal tribunale di Milano
nel 1995).
Questo sistema si fonda sul
principio secondo cui ad ogni punto di invalidità deve
corrispondere un valore
monetario. Questo valore varia secondo una precisa
funzione
matematica. Esso, cioè, cresce
in modo matematicamente predeterminato, in funzione
crescente rispetto al crescere
dell’invalidità, ed in funzione decrescente rispetto
all’età
della vittima. Per l’esattezza,
secondo questo criterio il valore del punto cresce
geometricamente col crescere
dell’invalidità (sicché ad invalidità doppie
corrisponderanno risarcimenti
più che doppi), mentre cresce in modo aritmetico
rispetto
all’età del danneggiato (sicché
ad età doppia, a parità di postumi, corrisponderà un
risarcimento dimezzato).
Gli elementi essenziali del
criterio del punto variabile, da stabilire ex ante,
sono:
(a) il valore monetario
“iniziale” del singolo punto d’invalidità: vale a
dire la somma
che, in teoria, deve essere
liquidata per una invalidità dell’1% in un soggetto di 1
anno;
(b) la funzione di crescita
del valore del punto.
Il valore iniziale del punto può
essere stabilito o attraverso la media dei precedenti
giudiziari del medesimo o di
altri uffici, ovvero attraverso la fissazione di una
somma
equitativamente scelta dal
giudice (il primo criterio è senz’altro da preferire,
perché pur
sempre meno arbitrario rispetto
al secondo).
La funzione di crescita del
valore del punto, che deve rispondere a criteri di
scientificità,
non può essere fissata dal
giudice, ma deve essere demandata all’analisi di medici
legali
ed esperti statistici.
In base al criterio del punto
variabile d’invalidità, una volta stabilito il valore
monetario
iniziale del singolo punto, e la
funzione matematica di crescita, è possibile sviluppare
una sorta di “prontuario”,
usualmente detta “tabella”, nella quale indicare
l’ammontare
complessivo del risarcimento
dovuto per ogni grado di invalidità e per ogni fascia di
età
del danneggiato.
Naturalmente, resta sempre salva
la possibilità per il giudice di adattare
equitativamente
il risarcimento (con aumenti o
riduzioni rispetto all’importo risultante
dall’applicazione
“pura” del criterio ora
descritto), al fine di tenere debito conto di tutte le
circostanze del
caso concreto.
Il criterio “milanese” del punto
variabile è stato ritenuto valido ed utile dalla Corte
di
cassazione, la quale gli ha
riconosciuto evidenti pregi: evitare disparità di
trattamento,
dare un contenuto oggettivo al
giudizio di equità, consentire la prevedibilità delle
decisioni giudiziarie: purché,
naturalmente, si tratti di un “vero” criterio del punto
variabile, cioè fondato su una
precisa funzione matematica di crescita del valore del
punto, il quale a sua volta sia
stato ricavato dalla media dei precedenti giudiziari
(Cass.,
24-1-2000, n. 748).
Pur affermando l’utilizzabilità
del criterio a punto e la validità delle “tabelle”
elaborate
dai vari uffici giudiziari, la
Corte di legittimità ha però aggiunto alcune importanti
precisazioni, quasi delle
“istruzioni per l’uso”. E’ stato affermato, in
particolare, che
l’uso del metodo a punto non può
mai servire a sollevare il giudice da due precisi
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51
munera:
da un lato, adeguare in ogni caso il risarcimento al
caso concreto, senza
limitarsi a convertire
automaticamente in denaro il grado di invalidità
permanente
fornito dal c.t.u.; dall’altro,
fornire adeguata motivazione della liquidazione operata,
indicando i fattori che hanno
consigliato nel caso di specie la misura ed il tipo di
personalizzazione del
risarcimento (Cass. 24.4.2001 n. 6023, in Dir e giust.,
2001, fasc.
20, 71; Cass., 19-5-1999, n.
4852, in Danno e resp., 1999, 1104; Cass., 17-3-1999, n.
2425, in Foro it. Rep. 1999, Danni civili, n.
248).
Ciò vuol dire che, anche quando
la liquidazione del danno biologico avviene col criterio
del punto variabile, essa si
articola concettualmente in due fasi: una prima fase di
scelta
ed applicazione del parametro
standard, cioè quello uguale per tutti a parità di
postumi;
ed una seconda fase di
personalizzazione del risarcimento, vale a dire di
adeguamento
della somma risultante
dall’applicazione del parametro standard al caso
concreto (con
maggiorazioni o riduzioni).
Quando il giudice adotta il criterio del punto
variabile, egli
è di fatto sollevato dall’onere
di motivare tale scelta, con riferimento alla prima fase
della liquidazione. Basterà, al
riguardo la mera indicazione che il parametro
standard
sia stato desunto dalla tabella
uniforme adottata dall’ufficio giudiziario, e ricavata
dalla
media dei precedenti. L’obbligo
di motivazione permane invece con riferimento alla
seconda fase (concettuale) della
liquidazione, cioè la personalizzazione del
risarcimento: in questo permane
per il giudice l’obbligo di motivare sull’an e
sul
quomodo
abbia ritenuto di adattare i valori della tabella al
caso concreto (Cass., 19-5-
1999, n. 4852, in Danno e resp.,
1999, 1104; Cass., 25-5-2000, n. 6873; Cass., 22-5-
2000, n. 6616).
La fase della
“personalizzazione” del risarcimento può tuttavia
mancare in due ipotesi:
(a) quando le circostanze del
caso concreto sono tali da rendere perfettamente
rispondente all’entità concreta
del danno proprio il valore che risulta
dall’applicazione
della “tabella”;
(b) quando la parte non abbia
allegato o provato alcuna peculiarità o specificità,
tale da
giustificare la
personalizzazione del risarcimento.
Ovviamente, nelle due ipotesi
ora ricordate il giudice ha pur sempre l’obbligo di
motivare sul perché ha ritenuto
superflua o impossibile la personalizzazione del
risarcimento.
2.4. Il danno iatrogeno.
Una particolare ipotesi di danno
da responsabilità sanitaria è quella del danno c.d.
iatrogeno.
Per danno iatrogeno si intende
l’aggravamento, ascrivibile a condotta imperita del
medico, delle conseguenze di una
patologia o di una lesione già esistenti, e non
imputabili al medico.
Nel caso di danno iatrogeno gli
eventuali postumi permanenti possono quindi risultare
quindi prodotti dal concorso di
due condotte umane: quella del terzo, che ha causato la
lesione originaria; e quella del
medico, chiamato a curarla, che l’ha invece aggravata.
Il danno iatrogeno pone
all’interprete due particolari problemi: uno relativo
all’accertamento del nesso
causale tra la condotta dell’originario danneggiante ed
il
danno finale; l’altro, relativo
alla quantificazione del danno nel caso di regresso tra
i
condebitori (il medico ed il
responsabile della lesione originaria); ovvero nel caso
in cui
l’attore decida di agire pro
quota contro ciascuno di essi.
Per quanto attiene al primo
problema, la giurisprudenza è propensa a ritenere che
del
danno complessivo rispondano in
solido, ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p., e dell’art.
2055
c.c., sia l’autore della lesione
originaria (sebbene meno grave di quella finale); sia il
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medico (sebbene senza la lesione
originaria la condotta del medico sarebbe stata
irrilevante).
In particolare, si è ritenuto
che l’originario danneggiante risponda anche
dell’aggravamento causato dal
medico, sulla base del rilievo secondo cui quest’ultimo
non può considerarsi un evento
eccezionale ai sensi dell’art. 41, comma secondo, c.p.:
così, secondo Cass. 24.4.2001 n.
6023, in Dir e giust., 2001, fasc. 20, 71, l’autore
delle
lesioni risponde anche
dell’aggravamento di esse, causato dall’imperizia del
medico o
della struttura sanitaria,
quando tale aggravamento costituisca un rischio normale
rispetto all’intervento medico
reso necessario dalle originarie lesioni (nello stesso
senso
si vedano anche Cass. pen.
5.4.1986 n. 2589, in Dir. e prat. ass. 1988, 191, che ha
ascritto al responsabile di un
sinistro stradale anche l’errore compiuto dai medici che
errarono nell’eseguire un
intervento di craniotomia sulla vittima; Cass. pen.
1.9.1986 n.
8884, ivi, 1988, 190; Trib.
Perugia 8.6.1991, in Resp. civ. prev., 1993, 630, che ha
ascritto al responsabile di un
sinistro stradale il danno derivato alla vittima
dall’esecuzione di una
trasfusione di sangue infetto).
Ovviamente, così come il
responsabile della prima lesione risponde dell’intero
danno,
come aggravato dal medico, allo
stesso modo anche quest’ultimo risponderà dell’intero
danno.
La sussistenza di un danno
iatrogeno può inoltre far sorgere problemi particolari
nella
liquidazione, quando il
danneggiato agisca nei confronti del medico chiedendo
non il
risarcimento dell’intero danno
patito, ma soltanto il risarcimento dell’ulteriore danno
iatrogeno; oppure quando uno dei
corresponsabili, che abbia risarcito il danneggiato per
intero, agisca in regresso ex
art. 2055 c.c. nei confronti dell’altro corresponsabile.
In questi casi, è prassi di
alcuni uffici giudiziari chiedere al c.t.u. quale sia il
grado di
invalidità permanente residuato
al danneggiato, e quanta parte di esso sia stato causato
dalla lesione originaria. In
questo modo, il c.t.u. è indotto a fornire al giudice
due
valutazioni percentuali: una per
il danno originario, l’altra per il danno iatrogeno.
Questa prassi però non appare
condivisibile, almeno nei casi in cui la liquidazione
del
danno avviene col sistema del
calcolo a punto. Infatti il valore monetario del punto
d’invalidità cresce in modo
esponenziale rispetto al crescere dell’invalidità,
sicché altro
è liquidare - ad esempio - una
invalidità del 10%, altro è liquidare due invalidità del
5%.
Per questo motivo è stato
ritenuto che, in tutti i casi in cui sia necessario
“scorporare” la
misura del danno iatrogeno, il
calcolo differenziale va compiuto non sottraendo il
grado
di invalidità permanente
effettivamente residuato, da quello che sarebbe
residuato se
non vi fosse stato
l’aggravamento dovuto all’imperizia del medico, ma
sottraendo il
risarcimento effettivamente
dovuto, da quello che sarebbe stato dovuto se non vi
fosse
stato il danno iatrogeno (Trib.
Roma 6.10.1997, in Giurispr. romana, 1997, 391). Così,
ad esempio, si immagini che, in
seguito ad un sinistro stradale, un soggetto ventenne
riporti lesioni dalle quali
sarebbero derivati, verosimilmente, postumi permanenti
nella
misura del 10%. Si immagini
altresì che, in seguito ad una errata terapia, i postumi
effettivamente residuati
ascendono invece al 15%.
Se per calcolare il danno
“differenziale” iatrogeno si sottraessero le due misure
dell’invalidità, il danno in
questione sarebbe pari all’equivalente monetario di una
invalidità del 5%, e quindi -
utilizzando ad esempio le tabelle adottate dal Tribunale
di
Roma - a € 4046.
Se, invece, si procede col
metodo di cui alla sentenza da ultimo citata, occorre
liquidare
dapprima il danno che sarebbe
residuato se non ci fosse stato l’intervento imperito
del
medico (10%, e quindi € 13.487);
quindi occorre liquidare il danno effettivamente
residuato (15%, e quindi €
22.254); il danno iatrogeno sarà dato dalla differenza
tra
questi due valori, e quindi €
8.767.
Pagina 6 di
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Come si nota, l’adozione del
primo criteri porta ad una liquidazione dimezzata
rispetto
al secondo.
2.5. La perdita delle chances di sopravvivenza.
Può accadere che l’errore del
medico impedisca al paziente di conoscere in tempo di
essere affetto da una certa
patologia, e quindi di adottare cure che sarebbero
efficaci
solo se tempestive; oppure
aggravi una patologia preesistente, riducendo le
possibilità di
guarigione.
In questi casi, l’errore del
medico compromette la speranza di vita futura del
paziente, e
gli causa un danno che è stato
definito come “perdita delle chances di
sopravvivenza”.
E’ bene ricordare che qualsiasi
tipo di lesione della salute, specie se grave, può
comportare la riduzione delle
speranze di vita futura. Quando, però, prima del danno
la
vittima aveva un’aspettativa di
vita futura del tutto normale, la perdita di chances
di
sopravvivenza (recte, la
riduzione della durata probabile della vita futura) non
incide in
alcun modo sulla misura del
risarcimento, che andrà liquidato secondo i criteri
ordinari,
e quindi come se la vittima
avrebbe vissuto tutti i giorni che la media statistica
della
mortalità gli aveva assegnato.
Diversamente, infatti, l’offensore beneficerebbe di una
riduzione del debito
risarcitorio proprio nei casi in cui il danno è stato
più grave.
La nozione di “perdita di
chances di sopravvivenza” va quindi riservata a quei
casi in
cui la vittima, già prima
dell’evento dannoso, aveva una limitata speranza di
sopravvivenza, e quando tale
speranza si sia ulteriormente ridotta a causa
dell’imperizia
o della negligenza del medico
(Ziviz, Il risarcimento per la perdita di chance di
sopravvivenza,
in Resp. civ. prev., 1999, 708 e nota 9).
In questi casi, i problemi che
si pongono sia all’interprete, sia (e forse soprattutto)
al
medico legale, sono due, a
seconda del decorso della malattia.
Se la vittima muore prima
della liquidazione del danno, il vero problema è
quello di
accertare l’esistenza d’un
valido nesso causale tra l’errore del medico e la morte
del
paziente: accertare, cioè, se in
assenza dell’errore il paziente sarebbe sopravvissuto
più a
lungo.
Se, invece, la vittima è ancora
in vita al momento della liquidazione del danno,
il
problema diventa quello di
quantificare un danno (il rischio di morte anticipata)
che è
futuro e probabile, ma non
certo.
Nella prima ipotesi (vittima
deceduta prima della liquidazione del danno), ove possa
ragionevolmente affermarsi che,
senza l’intervento del medico, il danneggiato sarebbe
vissuto più a lungo, l’autore
dell’illecito sarà tenuto a risarcire il danno biologico
patito
dalla vittima, per avere vissuto
meno e peggio di quanto il destino gli riservava (Cass.
9.5.2000 n. 5881, inedita). Si
badi che, in questo caso, la vittima ha diritto al
risarcimento del danno (che,
ovviamente, si trasmette agli eredi) anche nel caso in
cui
l’errore del medico abbia
soltanto anticipato, e non già causato, un evento letale
già
certo e previsto.
In uno dei pochi precedenti
editi sull’argomento, il tribunale di Monza era stato
chiamato a liquidare il danno
subìto da un malato di tumore, il quale in conseguenza
di
una errata diagnosi non aveva
potuto curarsi tempestivamente, perdendo una speranza di
sopravvivenza che, secondo la
statistica clinica, era di 5 anni nel 30% dei casi.
Il tribunale ha ritenuto di
liquidare quest’ultimo tipo di danno come segue:
(a) determinando la somma che
sarebbe spettata alla vittima, nel caso di invalidità
permanente pari al 100%;
(b) dividendo tale somma per il
numero di anni della vittima;
(c) moltiplicando il risultato
per 5 (cioè il numero di anni di vita probabilmente
persi:
cfr. Trib. Monza 30.1.1998, in
Resp. civ. prev., 1999, 701).
Pagina 7 di
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Nella seconda delle ipotesi
sopra descritte (vittima ancora in vita al momento di
liquidazione del danno), riesce
ancora più difficile immaginare un criterio
scientificamente obiettivo per
la liquidazione del danno alla salute.
In un precedente di merito
(Trib. Monza 18.2.1997, in Resp. civ. prev., 1999, 697),
sono
stati liquidati 240 milioni di
lire (in via equitativa) ad una donna la quale, in
conseguenza di un errore del
medico durante un intervento di mastectomia, era stata
costretta a sottoporsi ad un
secondo intervento, perdendo la possibilità di rimuovere
alla
radice il male da cui era
afflitta, ed esponendosi al rischio di probabili
recidivazioni. La
motivazione, tuttavia, nulla
dice sul criterio seguito dal giudice nel determinare la
cifra
suddetta.
Una soluzione razionale potrebbe
essere quella di liquidare il danno sulla base del grado
di invalidità permanente causato
dall’illecito, secondo i criteri ordinariamente adottati
dall’ufficio giudicante, ma
maggiorando il valore monetario del singolo punto di
invalidità, al fine di tenere
conto della minore speranza di vita futura.
2.6. Il danno biologico da morte.
Può ritenersi ormai pacificato
in giurisprudenza il problema della trasmissibilità agli
eredi del diritto al
risarcimento del danno biologico.
Secondo l’orientamento
consolidato dalla corte di legittimità, nel caso di
morte
immediata della vittima, di
lesioni, non è neppure ipotizzabile l’acquisto in capo
alla
vittima del diritto al
risarcimento del danno alla salute, in quanto: (a) il
diritto al
risarcimento presuppone
l’esistenza in vita di colui che ne è titolare; (b) il
danno
biologico non consiste nella
mera lesione dell’integrità psicofisica, ma nella
“perdita”
(in termini di invalidità) da
quella causata.
Di conseguenza, la morte
immediata della vittima non produce alcun danno
biologico in
senso stretto, perché non causa
alcuna forma di invalidità, né temporanea, né
permanente (la sentenza
capostipite è rappresentata da Cass. 2-3-1995 n. 2450,
in Foro
it. Rep., 1995, Danni civili,
120; nello stesso senso, ex plurimis, Cass.
25.2.2000 n.
2134; Cass. 14.2.2000 n. 1633; Cass. 29.11.1999 n.
13336; Cass. 17.11.1999 n. 12756;
Cass. 10.2.1999 n. 1131, in Arch. circolaz., 1999, 613;
Cass. 20-1-1999 n. 491; Cass.
28-11-1998 n. 12083, in Foro it.
Rep., 1998, Danni civili, 166; Cass. 12-10-1998 n.
10085; Cass. 10-9-1998 n. 8970, in Riv. giur. circ.
trasp., 1998, 951; Cass. 30-6-1998 n.
6404, in Foro it.
Rep., 1998, Danni civili, 168; Cass. 22-5-1998 n. 5136,
in Foro it.
Rep., 1998, Danni civili, 170;
Cass. 7-4-1998 n. 3561, in Arch. circolaz., 1998, 777;
Cass. 18-11-1997 n. 11439, in
Riv. giur. circ. trasp., 1998, 58).
A conclusioni diverse la S.C.
perviene invece nell’ipotesi in cui la morte della
vittima di
lesioni non sia immediata, ma
sopraggiunga dopo un certo periodo di tempo. In questo
caso, infatti, la vittima
subisce una lesione della salute, giuridicamente
rilevante,
nell’arco di tempo che va
dall’infortunio alla morte. Il diritto al risarcimento
di tale
lesione, di conseguenza, viene
trasmesso agli eredi. In questo caso infatti la vittima
è
ben in grado di avvertire la
“perdita” (biologica) subita, e quindi patisce un danno
biologico risarcibile (Cass.
27-12-1994 n. 11169, in Foro it., 1995, I, 1852; Cass.
10.2.1999 n. 1131, in Arch.
circolaz., 1999, 613; Cass. 10-9-1998 n. 8970, in Riv.
giur.
circ. e trasp. 1998, pag. 951;
Cass. 24-4-1997 n. 3592, in Arch. circolaz., 1997, 899;
Cass. 29-5-1996 n. 4991, in Foro
it., 1996, I, 3107; in Arch. circolaz., 1996, 726; in
Giust. civ., 1996, I, 2889;
Cass. 29-9-1995 n. 10271, in Arch. circolaz., 1996,
292).
Va segnalato che le conclusioni
cui perviene la S.C. non sono condivise da alcuni
giudici di merito e da una parte
della dottrina, in quali in vario modo utilizzano
l’argomento retorico dell’a
fortiori per sostenere la risarcibilità iure
haereditario del
danno biologico, anche nel caso
di morte immediata della vittima. Si afferma, infatti,
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51
che se l’ordinamento appresta
tutela risarcitoria alla lesione della salute, a
fortiori dovrà
essere tutelata sul piano
risarcitorio la lesione della vita, che è bene maggiore
rispetto
alla salute
(Monateri-Bona-Oliva, Il nuovo danno alla persona,
Milano 1999, 130 e
seguenti). Questo orientamento
dottrinario è stato condiviso da alcune isolate
decisioni
di merito, come Trib. Massa
Carrara 16-12-1997, in Riv. giur. circ. trasp., 2000,
122, in
Arch. circolaz., 1998, 165, ove
si parla espressamente di “espropriazione del bene-vita”
nel caso di lesioni mortali; o
come Trib. Civitavecchia 26.2.1996, in Riv. giur. circ.
trasp.,1996, 958, ove si afferma
che “il diritto alla vita viene a costituire, in base
al
combinato disposto dell'articolo 32 cost. e 2043 cod.
civ., non oggetto di un riferimento
programmatico a copertura costituzionale, ma posizione
soggettiva perfetta tutelata
nell'ambito dei rapporti interprivati, che impone il
risarcimento nella ipotesi di sua
violazione”.
In definitiva, secondo
l’orientamento assolutamente prevalente, per liquidare
il danno
biologico da morte iure
haereditario è necessario che il pregiudizio della
salute sia stato
concretamente avvertito dalla
vittima: solo in tal modo, infatti, questa può
acquistare il
diritto al risarcimento, e
trasmetterlo agli eredi.
A tal fine, tuttavia, non è
decisivo accertare se la sopravvivenza della vittima,
dopo il
verificarsi del fatto lesivo,
sia stata più o meno lunga: una sopravvivenza assai
breve
può fare acquisire il diritto al
risarcimento, se la vittima si è conservata lucida e
presente
a se stessa; mentre una
sopravvivenza anche di qualche giorno non basta a fare
acquistare il diritto al
risarcimento, se la vittima non ha mai riacquistato
conoscenza.
Questo principio, già desumibile
dalle motivazioni delle sentenze sopra richiamate, è
stato di recente ribadito ore
rotundo da Cass. 2.4.2001 n. 4783, in Dir. e giust.,
2001,
fasc. 15, 39.
La motivazione di quest’ultima
sentenza, tuttavia, sembra avere alquanto complicato un
quadro che si presentava, per
quanto esposto, lineare. La S.C. ha infatti affermato
che il
danno biologico subìto dalla
vittima, nelle more tra la lesione e la morte, può
consistere
non solo in una lesione fisica,
ma anche in una lesione psichica. Ed il danno psichico,
osserva la Corte, può sorgere
anche in brevissimo tempo, sicché anche quattro ore di
agonia bastano per fare
acquisire alla sventurata vittima il diritto al
risarcimento del
danno biologico. Sulla base di
tale motivazione, la corte ha cassato la decisione di
merito che aveva ritenuto
inesistente il danno biologico in capo alla vittima, per
effetto
del breve tempo trascorso tra
lesioni ed exitus.
Il tentativo compiuto dalla
Corte è quello, con evidenza, di evitare ogni
connessione tra
esistenza del danno
e durata dell’agonia. Anche un’agonia brevissima,
dice in sostanza
la Corte, può essere sufficiente perché venga ad
esistenza in capo alla vittima il diritto al
risarcimento del danno
biologico, e ciò in particolar modo con riferimento al
danno
psichico.
E’ tuttavia evidente che enormi
sono le difficoltà di accertamento in concreto di un
simile danno. Infatti, nel caso
di danno fisico, poiché la lesione è evidente, il
giudice
potrebbe agevolmente argomentare
ex art. 2727 c.c., sostenendo che, dai fatti noti
dell’esistenza della lesione e
della coscienza vigile della vittima tra sinistro e
morte, è
possibile desumere il fatto
ignorato che la vittima abbia avvertito quella
invalidità che è
l’essenza del danno biologico.
Ma nel caso di danno psichico,
come accertarne l’esistenza? Qui non ci sono lesioni
evidenti, né dati oggettivamente
misurabili con accertamenti strumentali. Una lesione
corporea può essere accertata e
descritta anche su un cadavere, ma shock e
nervous
distress
possono essere accertati solo su una persona viva e
vitale, perché essi sono per
lo più desumibili non da atti,
ma da comportamenti del malato, e richiedono
spesso una
lunga e diuturna osservazione
(per tutti, v. Brondolo e Marigliano, Il danno
psichico,
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51
1996, Milano). Né può
ragionevolmente sostenersi che ogni lesione fisica
generi sempre
e sistematicamente un danno
psichico, perché altrimenti si perverrebbe ad una sorta
di
danno in re ipsa, oltre
che ad una vera e propria duplicazione risarcitoria del
danno
morale.
Si suole parlare di danno
biologico da morte (in questo caso definito “iure
proprio”)
anche per designare il danno
alla salute, subito dai congiunti di persona deceduta in
conseguenza dell’altrui atto
illecito. Così, ad esempio, costituisce un danno
biologico da
morte iure proprio
l’apoplessia, o la sindrome depressiva acuta, da cui una
madre viene
colpita dopo avere appreso della
tragica scomparsa del figlio in un sinistro stradale.
Il danno biologico da morte c.d.
iure proprio costituisce una ordinaria ipotesi di
danno
alla salute, la cui unica
particolarità è che di non essere corpore corpori
illatum. Il
danno in esame, sia per il
giudice di legittimità, sia per quelli di merito, è
pacificamente
risarcibile ex art. 2043 c.c..
E’ infatti rimasta praticamente priva di ogni seguito la
singolare interpretazione
adottata da Corte costit.
27-10-1994 n. 372, in Foro it., 1994, I,
3297, secondo la quale il danno
psichico subìto dai congiunti della vittima potrebbe
essere risarcito soltanto ex
art. 2059 c.c..
Vale comunque la pena ricordare,
al riguardo , che il danno da perdita del congiunto (o
“da lutto”), in quanto danno
biologico, presuppone sempre l’esistenza d’una malattia
psichica o fisica, che va
accertata in concreto, e non può mai essere presunta
(Cass.
25.2.2000 n. 2134).
Non sono mancati, però, giudici
di merito che hanno ritenuto di liquidare (o meglio, che
hanno ritenuto di ravvisare
comunque) il danno biologico subìto dai parenti della
vittima anche in assenza non
solo di accertamenti medico legali, ma anche di
documentazione clinica. In
questi casi, solitamente, i giudici motivano la
decisione
attraverso il ricorso allo
strumento della presunzione semplice (art. 2727 c.c.),
ovvero
del fatto notorio (art. 115
c.p.c.), ma in realtà pervengono ad una autentica
duplicazione
risarcitoria. Si vedano in tal
senso:
(-) Trib. Latina 1.8.1994, in
Giur. it., 1995, I, 2, 426, secondo il quale per la
liquidazione del danno biologico
subìto dai congiunti della vittima sarebbe sufficiente
anche la prova presuntiva (nella
specie, però, la domanda venne rigettata per difetto di
prova, anche se solo
presuntiva);
(-) Trib. Alba 21.1.1992, in
Giur. merito, 1994, 82, ove si afferma che per la
liquidazione del danno biologico
ai congiunti della vittima è sufficiente la
dimostrazione che questi abbiano
subìto un danno alla vita di relazione, consistente in
una difficoltà di inserimento
nella vita sociale;
(-) Trib. Milano 1.2.93, in Foro
it., 1994, I, 1954, ove si afferma che il danno
biologico
subìto dai parenti della vittima
rientra nel fatto notorio;
(-) e soprattutto Trib. Milano
2.9.93, Dir. fam., 1994, I, 657, il quale ha liquidato
ai
genitori di una sedicenne
tragicamente perita in un incidente stradale, a titolo
di danno
biologico, la somma di £
60.000.000 ciascuno, sulla base della seguente
motivazione:
“si ritiene che (…) che la
morte della figlia abbia inciso sulla personalità degli
attori, e
la personalità altro non è se non una espressione della
psiche dell’individuo.
Pertanto,
in ultima analisi, l’evento dannoso ha certamente
intaccato l’integrità psichica e quindi
il bene salute degli attori”.
Queste tendenze
giurisprudenziali non appaiono condivisibili, in quanto
mettono capo a
delle autentiche duplicazioni
risarcitorie, in quanto:
(a) liquidano danni soltanto
presunti, ma indimostrati;
(b) risarciscono a titolo di
danno psichico (il quale richiede pur sempre un
accertamento
medico legale) un pregiudizio
che fatalmente tende a coincidere con quello morale,
sicché quest’ultimo finisce per
essere liquidato due volte.
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3. Il danno patrimoniale.
3.1. Premessa terminologica.
Il danno patrimoniale
ascrivibile a responsabilità del medico normalmente è
rappresentato:
(a) dalle somme inutilmente
erogate dal paziente per cure eseguite in modo imperito;
(b) dalle conseguenze
patrimoniali del danno alla salute.
Queste ultime, a loro volta,
possono consistere:
(b’) nelle spese di cura e di
assistenza;
(b’’) nella perdita o nella
riduzione del reddito (sia attuale che futuro).
Mentre la liquidazione del danno
causato dalle spese sostenute per la cura e l’assistenza
non dà normalmente luogo a
soverchi problemi, uno degli aspetti tuttora più
controversi
in giurisprudenza è
rappresentato dalla liquidazione del danno da perdita o
riduzione del
reddito, o della capacità di
produrlo.
L’esame della giurisprudenza di
merito rivela infatti varie disparità di vedute sia in
ordine all’accertamento, sia in
ordine alla liquidazione del danno in esame.
In particolare, per quanto
riguardo l’accertamento del danno:
(a) alcuni giudici ritengono che
il danno patrimoniale futuro (da perdita del reddito)
sia
in re ipsa,
sol che il grado di invalidità permanente superi una
certa percentuale;
(b) altri giudici ritengono che
il danno da perdita della capacità di produrre reddito
debba essere quantificato in
termini percentuali dal consulente medico legale, cui
demandano la relativa indagine;
(c) altri giudici ancora si
limitano a chiedere al medico legale un giudizio sul
nesso
causale tra lesione e riduzione
della capacità reddituale.
Per quanto concerne, invece, la
liquidazione del danno in esame:
(a) alcuni giudici adottano il
criterio equitativo puro, liquidando una somma di denaro
“a stralcio”;
(b) altri giudici usano un
criterio tabellare, moltiplicando il reddito del
danneggiato per
il grado percentuale di
riduzione di una nozione scientificamente inesatta,
quale quella
di “capacità lavorativa
specifica”, la cui determinazione è rimessa al medico
legale (e
quindi secondo la metodologia
propria delle assicurazioni sociali);
(c) altri giudici capitalizzano
il reddito perduto (o la parte di reddito perduto) in
base
alla presumibile vita lavorativa
futura che restava al danneggiato.
Le incertezze riguardano altresì
il lessico da adottare, posto che in talune decisioni
appaiono utilizzati in modo
promiscuo i concetti di invalidità, incapacità,
inabilità,
capacità di guadagno, capacità
lavorativa.
Per chiarezza metodologica,
appare dunque opportuna una premessa di ordine generale.
Qualsiasi lesione della salute
può produrre effetti sia personali (postumi permanenti,
malattia, forzosa rinuncia ad
attività non remunerative), sia personali (perdita o
riduzione del lavoro, spese di
cura).
Queste due serie di effetti
vanno sempre tenute concettualmente distinte, anche se
talora
possono presentarsi strettamente
intrecciate.
Pertanto - sulla scorta della
più accreditata dottrina medico-legale -, appare
opportuno
indicare con il lemma invalidità
(temporanea o permanente) le conseguenze, comunque
valutabili, di una
compromissione della essenza “biologica” dell’individuo.
Il lemma incapacità (temporanea
o permanente), designerà invece i riflessi patrimoniali
derivanti dalla momentanea o
definitiva impossibilità, per il soggetto leso, di
svolgere la
propria attività lavorativa.
Di conseguenza, si potranno
esprimere le due categorie di effetti dannosi nella
tabella e
con le definizioni seguenti:
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Durata degli effetti dannosi
Persona Perpetua Transeunte
Invalidità permanente Invalidità
temporanea
Ambito degli
effetti
dannosi
Patrimonio Incapacità (di guadagno)
permanente
Incapacità (di guadagno)
temporanea
(da Fiori, Evoluzione,
problemi e prospettive del risarcimento del danno alla
persona
da responsabilità civile,
in Il danno alla persona: tutela civilistica e
previdenziale a
confronto,
Atti del convegno tenuto a Firenze, 17-19 ottobre 1996,
Scuola di Sanità
Militare, Firenze, 1998, 49).
Alla luce di tali premesse
generali, può osservarsi che ogni lesione della salute
può
riverberare effetti
sull'attività lavorativa in tre modi:
(1) precludendola del tutto, con
conseguente soppressione totale del reddito;
(2) costringendo il soggetto
leso a mutare funzioni o qualifica, ovvero a ridurre la
propria produttività, con
conseguente riduzione del reddito;
(3) costringendo il soggetto
leso, per svolgere le medesime attività cui attendeva
prima
del sinistro, a sopportare
sforzi maggiori, ovvero a subire una maggiore usura.
I primi due casi costituiscono
altrettante ipotesi di danno patrimoniale; nella terza
ipotesi, invece, la limitata
validità del danneggiato non contrae il suo reddito
lavorativo,
ma sottopone la sua validità
residua ad una maggiore usura (è questo il c.d. danno
alla
cenestesi lavorativa).
Quest’ultima è dunque di un’ipotesi di danno biologico,
la quale
non può dare origine ad un
autonomo risarcimento, ma deve essere valutata come una
soltanto delle molteplici
componenti di quella valutazione complessa che è la
valutazione del danno alla
salute (Trib. Roma 21.1.1997, Riv. giur. circ. trasp.
1997,
134; Trib. Roma 11.7.1995 n.
10077, Riv. giur. circ. trasp., 1996, 141).
Nel valutare gli effetti
pregiudizievoli che una lesione della salute ha prodotto
sull’attività lavorativa del
leso, occorre dunque tenere distinti due aspetti ben
diversi:
(a) da un lato, la maggiore
usura, fatica, o difficoltà incontrate nello svolgimento
delle
attività lavorative;
(b) dall’altro, la perdita
patrimoniale (riduzione o perdita del reddito).
I due tipi di danno possono
coesistere, ed in questo caso dovrà tenersi conto di
entrambi
nella aestimatio del
danno.
3.2. Accertamento del danno.
Si è già detto che una
considerevole parte dei giudici di merito liquida il
danno in esame
(perdita o riduzione verosimile
del reddito futuro, causata da una lesione della salute)
chiedendo al medico legale di
accertare il grado percentuale di riduzione della
“capacità
lavorativa specifica”, e quindi
moltiplicando il reddito della vittima per tale valore
percentuale; il risultato viene
capitalizzato in base ad un coefficiente per la
costituzione
delle rendite vitalizie (o, in
qualche caso, più correttamente, in base ad un
coefficiente
per la costituzione delle
rendite temporanee).
Non si deve esitare a definire
tale prassi erronea, sia nei presupposti scientifici che
nei
fondamenti giuridici.
E’ erronea nei presupposti
scientifici, perché tutte le voci più autorevoli della
medicina
legale sono assolutamente
concordi nel ritenere che la compromissione della
capacità di
produrre reddito possa essere
solo descritta, dal medico legale, ma giammai valutata
in
termini percentuali, per almeno
quattro ragioni.
La prima ragione è che, nel
momento in cui si chiede al c.t.u. di determinare in
gradi
percentuali la riduzione della
capacità di guadagno, si obbliga il medico legale ad
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accertare qualcosa che travalica
il settore di specifica competenza, in quanto al medico
legale può chiedersi soltanto in
che modo la prestazione lavorativa risulti o risulterà
impedita o resa difficoltosa, ma
non di misurare in termini percentuali la perdita
patrimoniale futura.
La seconda ragione è che una
misura percentuale può prestarsi a misurare
l’invalidità,
che è in generale pensabile come
identica per soggetti della stessa età, dello stesso
sesso
e con identici postumi, ma non
l’incapacità, la quale è estremamente soggettiva, e
varia
a seconda del tipo di lavoro
svolto dalla vittima (Norelli, Spunti dottrinari in
tema di
riduzione della capacità lavorativa specifica,
in Danno emergente-lucro cessante, atti
dei convegno tenuto a Vieste il
2-4 maggio 1997, 1998, 28-29); il che comporta che le
disabilità lavorative possono
essere descritte, ma non valutate in termini percentuali
dal
medico legale (Fallani,
Accertamento della incapacità lavorativa specifica,
in Il danno
alla persona: tutela civilistica e previdenziale a
confronto, in Atti del convegno tenuto a
Firenze, 17-19 ottobre 1996,
Firenze, 1998, 118).
La terza ragione è che non
esiste alcun baréme medico legale dal quale
ricavare la
riduzione di capacità
produttiva, né sarebbe possibile costruirlo, in quanto
la riduzione
di tale capacità è questione da
valutare caso per caso, sfuggente ad ogni
generalizzazione (si veda, al
riguardo, Fiori, Evoluzione, problemi e prospettive
dei
risarcimento del danno alla persona da responsabilità
civile,
in Dir. econ. ass., 1997, 3,
il quale parla, riguardo alle
valutazione della c.d. “incapacità lavorativa specifica”
da
parte dei medici legali, di
“anarchica eterogeneità”).
La quarta ragione è che,
domandando al medico legale la determinazione in termini
percentuali del grado di
riduzione della capacità di reddito, oltre al rischio di
ingenerare
disparità di trattamento in
considerazione della rilevata mancanza di un baréme
di
riferimento, si corre altresì il
pericolo di riproporre una riedizione mutato nomine
del
vieto concetto di incapacità
lavorativa generica.
Sarebbe pertanto preferibile che
il giudice domandasse al medico legale non di misurare
percentualmente l’incapacità di
guadagno, ma piuttosto di descrivere come ed in che
modo i postumi permanenti
impediscano del tutto, limitino in parte o rendano più
oneroso lo svolgimento
dell’attività lavorativa. Sulla base di tale esauriente
descrizione,
sarà poi compito del giudice
stabilire se nella specie si sia verificato soltanto un
danno
alla cenestesi lavorativa (danno
personale), di cui tenere conto nella liquidazione del
danno biologico, ovvero sussista
anche il ragionevole ed attendibile pericolo di
riduzione del reddito futuro
(danno patrimoniale).
La prassi qui in esame è anche,
come si diceva, giuridicamente infondata, perché
consente di liquidare somme
rilevanti a titolo di danno patrimoniale in assenza di
contrazioni reddituali attuali o
potenziali, e per di più sulla base di illazioni e non
di
prove (per tali aspetti sia
consentito il rinvio a Rossetti, Il danno da lesione
della salute,
Padova 2001, 918 e ss.).
Sulla delicata questione della
liquidazione del danno patrimoniale da lesione della
salute, la S.C. non ha dato
ancora indicazioni univoche.
Secondo un primo orientamento,
attento alle indicazioni della medicina legale sopra
ricordate, la prova della
riduzione della capacità di lavoro non può mai
ritenersi, per ciò
solo, prova di una
corrispondente riduzione della capacità di guadagno.
Perché possa
essere liquidato il danno
patrimoniale da perdita del reddito futuro, quindi, è
sempre
necessario che il giudice
accerti, sulla scorta delle prove fornite dal
danneggiato:
(a) in quale misura la
menomazione fisica abbia inciso sulla capacità di
svolgimento
dell'attività lavorativa
specifica;
(b) in quale misura la ridotta
capacità di lavoro abbia inciso sulla capacità di
guadagno;
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51
(c) se ed in quale misura nella
vittima persista o residui, dopo e nonostante
l'infortunio
subito, una capacità ad
attendere ad altri lavori, confacenti alle sue
attitudini e
condizioni personali ed
ambientali, ed altrimenti idonei alla produzione di
altre fonti di
reddito, in luogo di quelle
perse o ridotte.
Solo se dall'esame di detti
elementi risulti una riduzione della capacità di
guadagno e
del reddito effettivamente
percepito, questo (e non la causa di questo, cioè la
riduzione
della capacità di lavoro
specifica) è risarcibile sotto il profilo del lucro
cessante (tra le
più recenti, in tal senso, Cass.
civ., 29-10-2001, n. 13409, inedita; Cass. civ., 07-08-
2001, n. 10905, inedita; Cass.
27.7.2001 n. 10289, inedita; Cass. civ., sez. III,
22-06-
2001, n. 8599).
Vi è tuttavia un secondo
orientamento, secondo il quale l’accertata sussistenza
di
postumi permanenti di una certa
entità fa presumere ipso facto l’esistenza di un
danno
patrimoniale, che può essere
liquidato anche se il danneggiato non abbia provato una
concreta ed attuale riduzione
del reddito.
In tal senso, tra le ultime, si
vedano Cass. 14.2.2002 n. 16076, in Dir. e giust., 2002,
fasc. 20, 29, la quale ha
ritenuto che la semplice dimostrazione di un periodo di
malattia, da parte di un libero
professionista, fosse sufficiente per liquidare a questi
il
danno patrimoniale da riduzione
(temporanea) del reddito; oppure Cass. civ., sez. III,
24-04-2001, n. 6023, ivi, 2001,
fasc. 20, 71, la quale ha ritenuto che la perdurante
percezione del reddito (nella
specie, da lavoro dipendente), da parte del danneggiato,
non preclude la liquidazione del
danno da lucro cessante, quando “non possa escludersi”
che la vittima, nel periodo di
malattia ed a causa dei postumi, abbia perso “ulteriori
occasioni di guadagno,
normalmente connesse al tipo di impiego”.
3.3. Liquidazione.
(A)
La liquidazione del danno da incapacità temporanea
(totale o parziale) deve
avvenire:
(a) sommando e rivalutando i
redditi (o la frazione di essi) perduti al momento della
liquidazione;
(b) sommando e scontando i
redditi (o la frazione di essi) ancora non percepiti al
momento della liquidazione, ma
che sarebbero stati acquisiti con certezza o con
verosimile certezza.
La rivalutazione,
preferibilmente, deve avvenire utilizzando l’indice del
costo della vita
elaborato mensilmente
dall’ISTAT.
Lo sconto dei redditi futuri,
ovviamente, deve essere compiuto quando è verosimile che
l’incapacità debba protrarsi per
periodi superiori all’anno: in caso contrario, infatti,
il
maggior valore ricavabile dal
pagamento anticipato non sarebbe apprezzabile.
Lo sconto del reddito futuro
deve avvenire secondo la nota formula matematica
S
=
C
×r
×t
1 0 0
Dove S è lo sconto,
ovvero la somma da decurtare a causa del pagamento
attuale; C è il
capitale liquidato; r è
il tasso percentuale di sconto (pari al tasso
d’inflazione); t è il
tempo.
Così, per fare un esempio, se il
leso ha perduto la possibilità di svolgere una
prestazione
d’opera professionale, per la
quale avrebbe incassato la somma di € 5.000 soltanto fra
un anno, ipotizzando un tasso
d’inflazione del 2%, lo sconto da applicare è:
100
100
5.000212
12
= =
× ×
S
e dunque il debito del
danneggiante sarà di € 4.900.
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Ovviamente, ove, l’anticipo sia
inferiore all’anno, la lettera t nella formula
che precede
andrà sostituita con la frazione
di mesi che si intende calcolare (ad esempio, 3/12 per
un
ritardo di 3 mesi).
(B)
La liquidazione del danno derivante da lesioni che hanno
prodotto una permanente
incapacità di lavoro, avviene in
modo diverso a seconda che sia perduto l’intero reddito
od una frazione di esso, ed a
seconda che il danneggiato possa o meno utilmente
reimpiegare la propria capacità
di lavoro.
(A) Perdita totale del reddito.
La liquidazione del danno
patrimoniale consistente nella perdita del reddito può
avvenire attraverso la
costituzione di una rendita (art. 2057 c.c.), ma questo
sistema è
scarsissimamente applicato.
Il metodo più seguito è quello
della liquidazione di una somma di denaro che
rappresenta il valore capitale
di una rendita vitalizia.
In applicazione di questo
criterio, occorre attualizzare l’intero reddito perduto
dal
danneggiato in base ad un
coefficiente di capitalizzazione.
Normalmente, vengono adottati i
coefficienti di capitalizzazione per la costituzione
delle rendite vitalizie
immediate, di cui alla tabella allegata al r.d.
9.10.1922 n. 1403,
che ha approvato le tariffe
della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali.
Si tenga tuttavia presente che
il coefficiente di cui alla suddetta tabella è un
coefficiente
per la costituzione di una
rendita vitalizia, cioè di durata pari alla durata della
residua
vita futura. Il soggetto
danneggiato non avrebbe tuttavia percepito il reddito
per tutta la
durata della vita, ma solo sino
all’età pensionabile. Per tenere conto di questa
circostanza, possono in teoria
adottarsi due sistemi:
(a) si può liquidare il capitale
applicando il coefficiente di costituzione della rendita
vitalizia, applicando poi un
abbattimento (normalmente il 10%) per tenere conto dello
scarto tra vita fisica e vita
lavorativa. Alcuni giudici di merito però - ed il
procedimento
in sé non può ritenersi
scorretto - omettono di applicare l’abbattimento per lo
scarto tra
vita fisica e vita lavorativa,
in considerazione del fatto che la tabella allegata al
r.d.
1403/22 è stata costruita in
base alle tavole di sopravvivenza della popolazione
italiana
calcolata in base ai censimenti
del 1901 e del 1911, ed alle statistiche mortuarie del
biennio 1910-1912. Poiché da
allora la durata della vita media è sensibilmente
cresciuta,
il coefficiente indicato dalla
tabella rende oggi un capitale leggermente inferiore a
quello che risulterebbe
dall’applicazione di un coefficiente, per così dire,
aggiornato
(b) Oppure si può liquidare il
capitale applicando un coefficiente per costituzione di
una
rendita temporanea (normalmente
al tasso del 4,5%), cioè di una rendita di durata
predefinita. In questo caso la
durata della rendita sarà pari all’età del danneggiato
al
momento della liquidazione meno
l’età massima pensionabile. La tabella di
capitalizzazione temporanea è
stata pubblicata da Gentile, Tabelle di
capitalizzazione
per la liquidazione del danno alla persona,
Milano, 1950, 41).
In tutti e due i casi, la
liquidazione del danno va effettuata sommando i redditi
già
perduti dalla data dell’illecito
alla data della liquidazione (e, se necessario,
rivalutandoli); e capitalizzando
i redditi futuri prevedibilmente conseguibili, sulla
base
della vita futura residua (Cass.
28-11-1988 n. 6403, Foro it.
Mass. 1988; Cass.
18.11.1997 n. 11439, Riv. giur. circ. trasp.
1998, 58).
L’età del danneggiato da
prenderne in considerazione per individuare il
coefficiente di
costituzione sia della rendita
vitalizia, sia di quella temporanea, deve essere quella
del
momento della liquidazione, e
non quella del momento del sinistro.
Le formule per la liquidazione
di questo tipo di danno saranno dunque:
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51
(-) ove si adotti il
coefficiente di capitalizzazione vitalizia,
D
= å
R1
,R2
,R3
...Rn
+
(R×k
)
-10%
ove D è il danno da lucro
cessante; R1, R2, R3... Rn sono i redditi mensili
maturati
prima della liquidazione,
rivalutati in base all’indice ISTAT del costo della vita
relativo
all’epoca della maturazione;
R è il reddito al momento del sinistro rivalutato al
momento della liquidazione; k
è il coefficiente di capitalizzazione per le rendite
vitalizie, desunto dall’allegato
al r.d. 1403/22;
(-) ove si adotti il
coefficiente di capitalizzazione temporanea,
D R R R R R
n
= å
+ ×
1 2 3
, , ...
t
ove t è il coefficiente
di capitalizzazione per le rendite temporanee.
(B) Perdita parziale del
reddito.
La liquidazione del danno da
perdita parziale del reddito avviene con i medesimi
criteri
indicati in precedenza. L’unica
differenza consiste nel fatto che a base del calcolo
andrà
posto non l’intero reddito, ma
quella frazione di esso che è andata perduta.
(C) Perdita totale o parziale
del reddito, con possibilità di reimpiego.
Un caso particolare è costituito
dall’ipotesi in cui il lavoratore, a causa della
lesione,
perda il proprio lavoro ed il
reddito che da esso si procurava, ma non perda la
possibilità
di impiegare proficuamente
aliunde le proprie capacità di lavoro. E’ il caso,
ad esempio,
del pilota di aerei il quale
perda il posto a causa dell’abbassamento del visus
di un
occhio, lesione che non gli
preclude verosimilmente di reimpiegarsi in lavori
d’ordine o
di concetto.
Ricorrendo una simile
fattispecie, il danno da perdita del reddito non può
essere
liquidato attraverso la
capitalizzazione di una rendita calcolata sulla
presumibile vita
futura del danneggiato. A meno
che questi non sia molto anziano, deve infatti
presumersi sulla base dell’id
quod plerumque accidit (art. 115 c.p.c.) che la
persona
leso, entro un certo arco di
tempo, potrà trovare una nuova occupazione. Dunque in
questi casi, per evitare
sovracompensazioni, è opportuno liquidare il danno da
perdita
del reddito capitalizzando il
reddito perduto in base ad un coefficiente di
capitalizzazione temporanea,
individuato in base al numero di anni presumibilmente
occorrenti al lavoratore per
riconvertirsi e trovare un nuovo impiego
(preferibilmente, in
numero non inferiore a 4-5).
(D) Perdita presumibile del
reddito futuro, in assenza di contrazioni reddituali in
atto.
Problemi particolari sorgono in
quei casi in cui non viene dimostrata una riduzione del
reddito in atto, ma è
verosimile (ex art. 2727 c.c.) che tale riduzione si
verificherà nel
futuro.
In primo luogo, è opportuno
ricordare a questo riguardo che il danno futuro va
risarcito
non soltanto nelle ipotesi in
cui esso si produrrà con assoluta certezza, ma anche
quando
possa ritenersi - partendo
dall'esame di situazioni già esistenti - che tale danno
si
produrrà secondo una ragionevole
e fondata previsione (Cass. 17-04-1996, n. 3629, Riv.
giur. circ. trasp. 1996, 321; Cass. 16-09-1996, n. 8281,
Foro it.
Mass. 1996).
Sulla liquidazione del danno da
riduzione futura della capacità di reddito, quando non
si
registra in atto una perdita
patrimoniale, permangono tuttora – come già accennato -
disparità di vedute tra i
giudici di merito.
Secondo un primo orientamento,
la diminuzione della capacità di reddito può essere
misurata percentualmente,
e tale determinazione percentuale va demandata ad un
c.t.u.
medico legale. Ottenuta dal
c.t.u. la quota percentuale di riduzione della capacità
di
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51
reddito, basterà moltiplicare il
reddito documentato per tale percentuale (Nannipieri,
Il
concetto di capacità produttiva nel nuovo sistema di
risarcimento del danno alla
persona,
in Danno emergente-lucro cessante, atti del
convegno tenuto a Vieste dal 2 al
4 maggio 1997, Pisa, 1998, 200).
A questo sistema possono
muoversi le obiezioni già viste nel § precedente.
Appare pertanto preferibile, per
liquidare il danno in esame, innanzitutto domandare al
c.t.u. una analitica descrizione
del modo in cui la lesione ha inciso sul concreto
svolgimento dell’attività
lavorativa. uindi, in primo luogo stabilire se sia
verosimile che
i postumi residuati alla
lesione, con l’andar del tempo, possano causare una
riduzione
degli introiti. Accertato che i
postumi residuati alla lesioni, anche se non hanno
ridotto il
reddito in atto, lo ridurranno
verosimilmente nel futuro, potrà stimarsi in via
equitativa
l’aliquota di reddito che sarà
perduta in futuro, e capitalizzarla secondo la formula
già
descritta in precedenza, sub
(B).
4.1. La nozione di danno morale nel diritto vivente.
Il legislatore del 1942 aveva
usato l’espressione “danno non patrimoniale”, di cui
all’art.
2059 c.c., nel senso amplissimo
ed omnicomprensivo di qualsiasi pregiudizio diverso da
quelli strettamente economici.
Come emerge chiaramente dalla
lettura della Relazione al codice, il legislatore
dell’epoca non concepiva un
danno non patrimoniale diverso dal danno morale. Tutto
ciò che non era patrimoniale,
era “non patrimoniale”, e se un’afflizione dell’animo
aveva anche conseguenze
patrimoniali, essa veniva per ciò solo sussunta
nell’area del
danno patrimoniale.
La dottrina, tuttavia, manifestò
ben presto una acuta insofferenza nei confronti
dell’art.
2059 c.c., il quale di fatto
limitava la risarcibilità delle conseguenze non
patrimoniali
della lesione di beni personali
dell’individuo. Così, per ridurre l’area di
applicabilità
dell’art. 2059 c.c., la dottrina
ricorse alla “tecnica del travaso” (l’espressione è
dovuta a
Busnelli, Interessi della
persona e risarcimento del danno, in Riv. trim. dir.
proc. civ.,
1996, 1). Si sostenne, cioè, che
l’espressione “danno non patrimoniale”, utilizzata
dall’art. 2059 c.c., non facesse
riferimento a tutti i danni patrimoniali, ma soltanto ad
una porzione ristretta di essa,
e segnatamente al “danno morale soggettivo”, cioè alle
sofferenze morali. In questo
modo, si disse, poiché la lesione della salute non si
sostanzia in un mera afflizione
soggettiva, ma è causa anche di rinunce forzose alle
attività quotidiane, essa non è
disciplinata dall’art. 2059 c.c., ma dall’art. 2043 c.c.
(Scognamiglio, Il danno
morale (contributo alla teoria del danno
extracontrattuale), in
Riv. dir. civ., 1957, 277, ma
specialmente 287-297).
La tecnica del “travaso” venne
fatta propria dalla giurisprudenza (dapprima di merito,
quindi legittimità e
costituzionale) per affermare dapprima l’autonoma
risarcibilità del
danno alla salute, quindi
l’autonoma risarcibilità della lesione di altri diritti
costituzionalmente protetti,
anche in assenza di conseguenze patrimoniali. Questa
giurisprudenza, oggi, può
ritenersi “diritto vivente”. Al riguardo meritano di
essere
ricordate, tra le altre:
- Corte costit., 14-07-1986, n.
184, in Foro it., 1986, I, 2053, la quale ha escluso
dall’area dell’art. 2059 c.c. il
diritto al risarcimento del danno biologico;
- Cass., 11-11-1986, n. 6607, in
Foro it., 1987, I, 833, la quale ha escluso dall’area
dell’art. 2059 c.c. il diritto
al risarcimento del danno subito dal coniuge per la
perdita
dello ius in corpus nei
confronti del partner;
- Cass., sez. I, 07-06-2000, n.
7713, in Dir. e giust., 2000, fasc. 23, 23, la quale ha
escluso dall’area dell’art. 2059
c.c. il diritto al risarcimento del danno subito dal
figlio
per la mancata fruizione
dell’assistenza morale e materiale da parte della figura
paterna;
Pagina 17 di
51
- da ultimo, e soprattutto,
Cass. 10.5.2001 n. 6507, in Dir. e giust., 2001, fasc.
22, 15, la
quale ha escluso dall’area
dell’art. 2059 c.c. il diritto al risarcimento del danno
da
lesione della reputazione (su
tali decisioni si veda anche infra, § 5).
In tutte le decisioni sopra
riportate (molte altre se ne potrebbero citare, ma
quelle che
precedono hanno valore
paradigmatico), l’organo giudicante ha articolato un
ragionamento così riassumibile
Ø
(ipotesi) l’art. 2059 c.c. e la limitazione ivi
prevista concerne unicamente i danni
morali subiettivi, ovvero la
sofferenza morale transeunte;
Ø
(tesi) le norme della costituzione che
riconoscono e tutelano i diritti fondamentali
dell’individuo hanno natura
immediatamente precettiva e sono applicabili anche nei
rapporti tra privati (c.d.
Drittwirkung);
Ø
ergo,
la lesione di un diritto costituzionalmente protetto
genera un danno
immediatamente risarcibile, sol
che sia dimostrata la lesione, ed il relativo
risarcimento si aggiungerà a
quello del danno morale, là dove la lesione integra
altresì gli estremi di un reato.
Oggi, pertanto, l’area di
operatività dell’art. 2059 c.c. appare irreversibilmente
circoscritta ai soli “danni
morali soggettivi”. Qualsiasi diversa interpretazione
dell’art.
2059 c.c., allo stato attuale
del diritto vivente, non uscirebbe dalla seguente
alternativa:
o porre in crisi l’affermata
autonoma risarcibilità dei danni da lesione di diritti
personali
costituzionalmente protetti; o
rendere costituzionalmente illegittimo l’art. 2059 c.c..
Da questo punto di vista,
pertanto, appare del tutto condivisibile l’opinione di
quanti, sia
pure da prospettive diverse,
hanno visto nella vicenda del danno biologico uno
strumento di reazione
dell’ordinamento ai limiti risarcitori imposti dall’art.
2059 c.c.
(Forchielli, Danno morale e
danno biologico, in Riv. dir. civ., 1990, 17; e
soprattutto
Rossato, Considerazioni in
tema di risarcimento del danno non patrimoniale. Una
comparazione economico-giuridica,
in Riv. dir. civ., 2000, II, 60-61).
4.2. Questioni di legittimità costituzionale.
Le osservazioni che precedono
circa l’ambito di operatività dell’art. 2059 c.c.,
tuttavia,
non risolvono affatto, ma anzi
lasciano più che mai insoluto il problema dell’art. 2059
c.c., e del suo effettivo
contenuto precettivo.
Infatti la lettura
“costituzionalmente orientata” dell’art. 2059 c.c. (la
tesi, cioè, secondo
cui la lesione di qualsiasi
interesse non patrimoniale costituzionalmente protetto è
risarcibile ex se, ai
sensi dell’art. 2043 c.c.), produce due pericolosi
effetti collaterali.
In primo luogo, la duplicazione
del risarcimento, quando il medesimo pregiudizio
(poniamo, una lesione
dell’onore) viene risarcito sia a titolo di danno
personale (lesione
del bene dell’onore in sé), sia
di danno morale. Per quanti sforzi si faccia, infatti,
appare
impossibile distinguere la
sofferenza morale in senso stretto, dal danno “in sé”
rappresentato dalla lesione del
diritto della personalità ex art. 2 cost..
In secondo luogo, la lettura
corrente dell’art. 2059 c.c. conduce ad una
interpretazione
abrogatrice della norma.
Infatti, nel momento in cui si ammette la risarcibilità
di
qualsiasi interesse non
patrimoniale, invocando il combinato disposto dell’art.
2043 c.c.
e della norma costituzionale che
si assume di volta in volta, violata, si perviene al
medesimo risultato che l’art.
2059 c.c. intendeva vietare: e cioè la risarcibilità del
danno
morale senza limiti.
Sulla base di queste
osservazioni, è stata assai di recente sollevata una
nuova questione
di legittimità costituzionale
dell’art. 2059 c.c., per contrasto con gli artt. 2 e 3
cost.,
nella parte in cui non consente
il risarcimento del danno morale da perdita del
congiunto
(Trib. Roma (ord.) 11.5.2002,
inedita).
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I dubbi di legittimità
costituzionale, per come prospettati nell’ordinanza di
rimessione,
si fondano su tre assunti.
In primo luogo, si osserva che
il dolore causato dalla perdita di un prossimo congiunto
costituisce lesione di un
diritto costituzionalmente protetto, ex art. 2 cost.,
come tale
meritevole di tutela
risarcitoria in ogni caso, e non solo in quelli previsti
dalla legge.
In secondo luogo, si nega che
l’art. 2059 c.c. possa essere suscettibile di letture
“costituzionalmente orientate”,
ad esempio espungendo dal suo ambito di applicazione
le lesioni di ritti
costituzionalmente protetti. Ciò sul presupposto che la
suddetta lettura
costituzionalmente orientata
dell’art. 2059 c.c. si traduce, nella sostanza, in una
disapplicazione della norma, in
quanto qualsiasi interesse morale, a causa dell’ampia
formulazione dell’art. 2 cost.,
è suscettibile di essere considerata costituzionalmente
protetta.
Da ciò, due conseguenze ritenute
irrazionali nell’ordinanza di rimessione (con
conseguente violazione dell’art.
3 cost. sul piano della ragionevolezza): da un lato,
l’interpretatio abrogans
dell’art. 2059 c.c.; dall’altro, la duplicazione del
risarcimento
quando il fatto illecito integra
pacificamente gli estremi di un reato. In questo caso,
infatti, la medesima sofferenza
(morale) verrebbe risarcita al danneggiato due volte:
sia
a titolo di risarcimento del
danno da lesione dell’interesse costituzionalmente
protetto,
sia a titolo di risarcimento del
danno morale.
4.3. I soggetti legittimati.
Legittimato a domandare il
risarcimento del danno morale, nel caso di
malpractice
sanitaria, è innanzitutto la
vittima della lesione della salute, ex artt. 2059 c.c. e
185 c.p..
E’ tuttora controverso se in
questo caso il risarcimento del danno morale possa
essere
domandato anche dai congiunti
del leso. Tale questione ha dato origine ad un contrasto
in senso alla S.C..
Secondo l’orientamento più
antico, e sino a poco tempo fa assolutamente prevalente,
ai
congiunti della vittima di
lesioni non spettava il risarcimento del danno morale,
in
quanto solo il leso poteva
considerarsi “vittima” del reato, e quindi solo quegli
aveva
diritto al risarcimento del
danno morale, ex art. 185 c.p. (Cass. 21.5.1996 n. 4671,
in
Riv. giur. circolaz. trasp.,
1996, 935; Cass. 17.11.1997 n. 11396, in Foro it. Rep.,
1997,
Danni civili, 108; Cass.
17.10.1992 n. 11414, in Arch. circolaz., 1993, 158;
Cass.
16.12.1988 n. 6854, in Giur.
it., 1989, I, 1, 962; Cass. 21.5.1976 n. 1845, Giust.
civ.,
1976, I, 1652).
Una considerevole parte della
giurisprudenza di merito, tuttavia, si era sempre posta
in
consapevole contrasto con
l’orientamento del giudice di legittimità, osservando
che il
tenore letterale dell’art. 185
c.p. non limitava affatto il diritto al risarcimento
alla vittima
del reato (Trib. Udine
29.1.1998, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1999, 562;
Trib. Napoli
31.12.1996, in Riv. giur.
circolaz. trasp., 1997, 837; App. Venezia 11.2.1993, in
Giur.
merito, 1994, 37).
A questo secondo orientamento,
negli ultimi anni, aveva aderito con uno storico
revirement
anche la III sezione della Corte di cassazione. La
sentenza che ha segnato il
mutamento di giurisprudenza
(Cass. 23.4.98 n. 4186, in Danno e resp., 1998, 686. In
questa sentenza, la S.C. ha
ritenuto che:
(a) la risarcibilità del danno
morale ai congiunti del leso è consentita sia dall’art.
1223
c.c., sia dall’art. 40 c.p.;
(b) non è impedita dalle
particolari norme che regolano il risarcimento del danno
morale
(artt. 2059 c.c. e 185 c.p.), in
quanto il danneggiato (civile) dal reato non è
necessariamente il titolare del
bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice;
Pagina 19 di
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(c) non è impedita dalla
particolare natura o dalla funzione del risarcimento del
danno
morale, in quanto - che sia la
funzione che si intenda assegnare al risarcimento del
danno morale (risarcitoria,
satisfattiva, punitiva, mista) - comunque la
risarcibilità del
danno morale ai congiunti del
leso non contrasterebbe con essa.
La tesi della risarcibilità del
danno morale ai congiunti del leso, successivamente alla
sentenza di cui si è detto, è
stata costantemente ribadita dalla III sezione civile
della
Corte di cassazione (si vedano,
nello stesso senso, Cass. 1.12.1999 n. 13358, in Foro
it.
Rep., 1999, Danni civili, n.
148; Cass. 19.5.1999 n. 4852, in Foro it., 1999, I,
2874).
Con questa tesi, invece, si è
posta in consapevole contrasto la sezione lavoro della
Corte
di cassazione, rimasta fedele
all’orientamento tradizionale. Secondo la sezione lavoro
della S.C., il danno morale ai
congiunti del leso non sarebbe risarcibile per il motivo
che
esso non è una conseguenza
diretta delle lesioni, ma solo mediata, e quindi
rappresenta
un danno irrisarcibile ex art.
1223 c.c.. Quanto poi al nuovo orientamento inaugurato
da
Cass. 4186/98, sopra riportata,
la sezione lavoro ne ha ritenuto la insostenibilità,
osservando che “anche nella
materia in oggetto deve trovare applicazione il generale
principio fissato dall'art. 1223
c.c. con la conseguente risarcibilità dei soli danni
diretti
(tali dovendosi considerare per
i congiunti unicamente i danni derivanti dalla morte
della vittima)” (Cass. 23.2.2000
n. 2037, in Riv. giur. circ. trasp., 2000, 520).
Legittimata, infine, è stata
ritenuta la madre nel caso di aborto prematuro ed
involontario, causato dal fatto
illecito del terzo (Cass. 11.3.1998 n. 2677, in Riv.
giur.
circolaz. trasp., 1998, 564;
Trib. Roma 27.10.1999, in Giurispr. romana, 1999, 402;
Trib. Roma 24.1.1995, in Riv.
giur. circolaz. trasp., 1995, 543; Trib. Camerino
17.2.90,
in Arch. circolaz., 1990, 783).
L’obbligo di risarcire il danno
morale, oltre che nel caso di lesioni personali, può
sorgere ovviamente nel caso di
morte della vittima.
In questo caso, il diritto al
risarcimento può spettare ai congiunti di quest’ultima
sia iure
proprio
che iure successionis.
Il diritto al risarcimento del
danno morale spetta iure successionis quando la
vittima,
dopo avere subìto una
compromissione dell’integrità psicofisica, muoia prima
di essere
stata risarcita, purché sussista
un apprezzabile lasso di tempo tra la lesione e la morte
(Cass. 25.2.1997 n. 1704, in
Riv. giur. circolaz. trasp., 1997, 316; Cass. 6-10-1994
n.
8177, in Foro it., 1995, I, 1852; Trib.
Roma 13.10.1999, in Giurispr. romana,
2000, 156
- secondo cui, peraltro, la
liquidazione del danno morale in questi casi deve tenere
conto
del lasso di tempo trascorso tra
la lesione e la morte -; Trib. Viterbo 24.1.1997, in
Giurispr. romana, 1997, 421;
Trib. Trento 19.5.1995, in Riv. giur. circolaz. trasp.,
1995,
782). In questo caso il diritto
al risarcimento del danno morale per le lesioni subìte,
entrato nel patrimonio della
vittima al momento del fatto illecito, viene da questa
trasmesso ai propri eredi.
Ai congiunti di una persona
deceduta in conseguenza dell’altrui atto illecito spetta
poi,
iure proprio,
il risarcimento del danno morale da essi direttamente
sofferto, in
conseguenza della scomparsa
della persona cara (Cass. 25.2.1997 n. 1704, in Riv.
giur.
circolaz. trasp., 1997, 316).
Sono legittimati a domandare il
risarcimento del danno morale per la morte del
congiunto i parenti più stretti
della vittima (coniuge, genitori, figli, fratelli).
Pacifica è
pure la risarcibilità del danno
morale in favore del convivente more uxorio,
purché
dimostri la stabilità e la
durevolezza del rapporto (App. Milano 16-11-1993, in
Foro it.,
1994, I, 3212; Trib. Roma
9-7-1991, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1992, 138). La
risarcibilità del danno morale è
stata invece esclusa per il coniuge separato, quando sia
dimostrata l’esistenza tra i
coniugi di un profondo dissidio al momento della morte
di
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51
uno di essi (Cass. 20.12.2001 n.
16073, in Guida al dir., 2002, fasc. 2, 44; Trib.
Venezia
22-1-94, in Riv. giur. circolaz.
trasp., 1994, 862).
La giurisprudenza ammette che il
risarcimento possa essere domandato anche da altri
parenti, e pure se non
conviventi, ma a condizione che dimostrino da essere
legati allo
scomparso da un intenso vincolo
affettivo (Trib. Roma (ord.) 25.11.1997, in Riv. giur.
circolaz. trasp., 1998, 90;
Trib. Viterbo 24.1.1997, in Giurispr. romana, 1997, 421;
in
ambedue le decisioni ora citate
è stato liquidato il danno morale in favore del nipote
ex
fratre).
4.4. Danno morale e danno psichico.
Secondo una formula tralatizia,
spesso ricorrente nelle sentenze di legittimità, il
danno
morale consisterebbe nel
“turbamento psichico soggettivo e transeunte, causato
dall’atto
illecito”. Il danno morale, più
esattamente, viene identificato con la “sofferenza”,
cioè
con lo stato di prostrazione ed
abbattimento provocato dall’evento dannoso.
Il danno morale non va però
confuso con il danno psichico, cioè con la
compromissione
patologica dell’integrità
psichica. Tra le due nozioni, infatti, sussistono due
differenze
strutturali.
In primo luogo, il danno
psichico deve fondarsi su una patologia, cioè su una
alterazione
patologica delle funzioni
psichiche dell’individuo, patologia che deve essere a
sua volta
nota alla psichiatria, e
medicolegalmente accertabile. Il danno morale al
contrario, non
costituisce una malattia: esso è
fonte di sofferenza per il danneggiato, ma non altera in
senso patologico le sue funzioni
psichiche (Ziviz, Viaggio ai confini del danno
psichico,
in Resp. civ. prev., 1996, 176).
In secondo luogo, diversi sono
gli effetti (o, secondo altri, i “contenuti”) delle due
nozioni di danno. Il danno
psichico, in quanto danno biologico, per definizione
sussiste
quando il danneggiato, per
effetto della lesione, è costretto a rinunciare, in
tutto od in
parte, ad alcune tra le attività
esistenziali cui era solitamente dedito prima del
sinistro. Il
danno morale, al contrario, non
comporta una perdita od una riduzione di attività
esistenziali, ma soltanto una
sensazione di dolore (Giannini e Pogliani, Il danno
da
illecito civile,
Milano 1997, 186-187).
La differenziazione tra danno
psichico e danno morale va dunque ricercata nei
presupposti (presenza d’una
patologia nel primo caso; assenza di patologie nel
secondo
caso) e nei contenuti
(limitazione di attività esistenziali nel primo caso;
nessuna
limitazione nel secondo caso), e
non già nella mera quantità od intensità della
sofferenza
provata dal danneggiato.
4.5. Il danno sofferto in stato di incoscienza.
Dal principio secondo cui il
danno morale risarcibile soltanto nei casi in cui sia
dimostrata, anche in via
presuntiva ex art. 2727 c.c., una sofferenza morale,
dovrebbe
logicamente dedursi la
irrisarcibilità del danno morale quando la vittima (ad
esempio, di
lesioni personali) a causa del
proprio stato di incoscienza, non abbia avvertito alcuna
sofferenza.
Su tale questione, tuttavia,
deve registrarsi un contrasto (inconsapevole) di
giurisprudenza.
Secondo un primo orientamento,
il danno morale è risarcibile anche quando la vittima
versi in stato di incoscienza.
In questo caso, infatti, la distruzione della coscienza
preclude sì al danneggiato di
avvertire le sensazioni dolorose causate dalle lesioni,
ma
gli preclude altresì tutte le
alte sensazioni gioiose della vita quotidiana, e quindi
anche il
danno morale sopportato in stato
di incoscienza è senz’altro risarcibile. Ha osservato,
al
riguardo, la S.C., che “il
danno non patrimoniale (o morale), che per il combinato
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disposto degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p. è risarcibile
nel solo caso in cui derivi da un
fatto illecito configurante gli estremi di un reato, ha
il suo fondamento in un ingiusto
anche se non duraturo turbamento dello stato d'animo in
diretta conseguenza
dell'offesa subita e può consistere nella riduzione e
nello squilibrio delle capacità
intellettive del leso.
Conseguentemente il danno non patrimoniale è
ipotizzabile anche nel caso di sofferenze
fisiche e morali sopportate in stato di incoscienza ed è
risarcibile di regola, al pari di
quello economico, mediante un indennizzo pecuniario
(pecunia doloris) inteso a dare al
danneggiato una soddisfazione in compenso del
pregiudizio morale o psichico sofferto”
(Cass., sez. III, 6-10-1994 n. 8177, in Resp. civ.
prev., 1995, 309).
Questa decisione, in
verità, aveva suscitato
l’obiezione secondo cui costituirebbe una
contradictio in adiecto
parlare di “sofferenze (…)
sopportate in stato di incoscienza”, posto che se non
v’è
coscienza, non vi può essere
capacità di provare sensazioni di sorta. La tesi della
S.C.,
nondimeno, era stata condivisa
anche da diversi giudici di merito: ad esempio, da Trib.
Como 24-7-1991, in Riv. giur.
circ. trasp., 1992, 134, il quale osservò che il
risarcimento del danno morale
non comprende “le sole situazioni di dolore o di
disagio,
ma comprende anche la lesione dei diritti soggettivi non
caratterizzati da una valenza
economica, nonché la perdita della possibilità di fruire
dei beni materiali e spirituali
che la natura riserva agli uomini e, quindi si estende
anche alla distruzione della
coscienza, che è premessa necessaria per l'esercizio dei
cennati diritti e della detta
possibilità”.
In altre decisioni, però, la
Corte di legittimità è pervenuta conclusioni opposte,
negando
la risarcibilità del danno
morale ad un bimbo nato cerebroleso per colpa del
ginecologo,
sul presupposto che le
gravissime menomazioni psico-motorie subite dal neonato
avevano annullato la sua
personalità psichica, rendendolo conseguentemente del
tutto
dipendente dai suoi familiari,
soltanto ai quali poteva pertanto riconoscersi il danno
morale per le sofferenze
direttamente patite (Cass., sez. I, 05-12-1995, n.
12505, in Foro
it., 1996, I, 2494, ma si badi
che lo specifico punto qui in discussione, trattato nel
§ 7
dei “motivi della decisione”,
non ha formato oggetto di massimazione). Anche questo
orientamento risulta condiviso
da alcuni giudici di merito, secondo i quali, se il
danno
morale consiste nella sofferenza
per una “privazione”, non può sussistere tale danno in
chi non abbia conosciuto il
genitore, e quindi non abbia provato - verosimilmente -
il
dolore del distacco (Trib.
Casale Monferrato 11.11.1998, in Arc. giur. circ. sin.
strad.,
1999, 132).
Più di recente, la S.C. sembra
avere adottato una linea “empirica”, stabilendo che nel
caso di lesioni gravissime con
perdita della coscienza, alla vittima di esse può
spettare,
come può non spettare, il
diritto al risarcimento del danno morale: tutto dipende
da una
questione tecnica, e ciò
stabilire da un punto di vista medico legale se la
vittima,
nonostante la gravità delle
lesioni, aveva perduto o conservato la capacità di
avvertire
sensazioni dolorose fisiche o
psichiche. La Corte aggiunge anche, incidenter tantum,
che la perduta capacità di
provare sensazioni dolorose può concepirsi unicamente
nel
caso in cui il leso sia ridotto
ad una vita meramente vegetativa, con totale
soppressione
di tutte le facoltà mentali
(Cass. 4.4.2001 n. 4970, in Dir. e giust., 2001, fasc.
16, 28).
Il problema qui in esame appare
di difficile soluzione, in quanto a sostegno di ciascuna
delle tesi contrapposte possono
rinvenirsi validi argomenti.
A favore della tesi più
permissiva (il danno morale è risarcibile anche nel caso
di coma
od incoscienza) militano le
ragioni del buon senso: diversamente, infatti, il
responsabile
sarebbe esentato dal
risarcimento del danno morale proprio nei casi in cui la
condotta
illecita è stata di tale gravità
da provocare l’incoscienza od il coma della vittima.
Come
dire che una responsabilità più
grave è premio a se stessa.
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Tuttavia anche la tesi più
restrittiva ha dalla sua qualche argomento, ed in
particolare la
pregressa giurisprudenza della
Corte, ove si cerca di definire la nozione di danno
morale. Frequentissime sono
infatti le decisioni nelle quali la sofferenza psichica,
il
disagio psichico, il turbamento
psichico, vengono considerati tout court danno
morale:
si vedano ad esempio Cass.
14.6.1965 n. 1203, in Resp. civ. prev. 1965, 479
(secondo
cui il danno morale consiste
nella riduzione o nello squilibrio delle capacità
intellettive
del paziente); Cass. 10.1.1966
n. 198, in Resp. civ. prev. 1966, 254 (secondo cui il
danno morale costituisce una
perturbazione psichica); Cass. 23.2.1968 n. 631, in
Resp.
civ. prev. 1969, 107 (secondo
cui il danno morale consiste nel perturbamento arrecato
dall’autore del fatto illecito
alla sfera psichica del soggetto passivo); Cass.
25.3.1970 n.
829 e Cass. 23.5.1975 n. 2063,
ambedue inedite (secondo cui il risarcimento del danno
morale serve a compensare il
danneggiato delle sofferenze psichiche patite); Cass.
15.2.1972 n. 405, in Resp. civ.
prev. 1972, 576, e Cass. 7.4.1979 n. 1996, inedita
(secondo cui il danno morale
consiste nelle menomazioni che si ripercuotono sulla
sfera
psichica del danneggiato); Cass.
6.4.1983 n. 2396, in Resp. civ. prev., 1983, 760
(secondo cui il danno non
patrimoniale consiste nel turbamento determinatosi entro
la
psiche del soggetto in
conseguenza dell’illecito); ed infine Cass. 6.10.1994 n.
8177, cit.,
secondo cui il danno morale
consiste in un turbamento ingiusto dello stato d'animo o
in
uno squilibrio o riduzione delle
capacita' intellettive della vittima. Tutte queste
definizioni fanno chiaramente
riferimento al danno morale come ad un vulnus
delle
capacità psichico-intellettive
della vittima, sicché - a volere tenerle per ferme -, si
dovrebbe concludere che là dove
la psiche è soppressa, non può concepirsi un danno
morale.
V’è, infine, da considerare il
problema della liquidazione: se, cioè, il danno morale
sofferto in stato incoscienza
debba essere liquidato con gli stessi criteri
ordinariamente
adottati per la liquidazione del
danno morale sofferto dal soggetto compos sui. Sul
punto si rinviene un solo,
remoto precedente di legittimità, secondo cui
l’eventuale
“ottundimento dell’animo” (per
usare le parole della S.C.), preesistente all’evento di
danno, non vale ad escludere il
risarcimento del danno morale, ma può essere “tenuto
presente” - secondo le
circostanze del caso - dal giudice di merito al fine di
personalizzare la liquidazione
del risarcimento (Cass. 4.7.1962 n. 1687, in Resp. civ.
prev., 1962, 632).
4.6. Reati punibili a querela.
Con la recente sentenza
10.4.2002 n. 5121, in Dir e giust., 2002, fasc. 19, le
Sezioni
Unite della Cassazione hanno
stabilito che “il danno da reato, derivante da delitti
perseguibili a querela quando
questa non sia stata proposta, si prescrive non già nel
termine di cui all’art. 2947,
comma terzo, c.c., ma nel più breve termine dettato dai
primi due commi dell’art. 2947
c.c.”. Nel corpo della motivazione di questa decisione
la
Corte, per conciliare la
soluzione adottata col disposto dell’art. 75 c.p.p.,
afferma obiter
dictum che: (a) la remissione
della querela estingue il reato (art. 152 c.p.); (b) nel
caso
di estinzione del reato per
rimessione della querela si applicano i termini di
prescrizione
brevi di cui ai primi due commi
dell’art. 2947 c.c.; (c) ergo, sarebbe illogico
assoggettare il diritto al
risarcimento al termine di prescrizione lungo, se la
querela non
è mai stata proposta; ed a
quello breve, se è stata proposta e poi rimessa.
Questa motivazione ha posto
all’interprete un nuovo problema: sarà risarcibile il
danno
morale in tutti i casi in cui la
querela non sia stata proposta? Si potrebbe infatti
sostenere, in teoria, che la
Corte ha sussunto la mancanza di querela tra le ipotesi
di
estinzione del reato; e che
l’estinzione del reato impedisce la liquidazione del
danno
morale.
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Non sembra, tuttavia, che questa
conclusione possa condividersi, per due ragioni.
Da un lato, perché la S.C. ha
sempre consentito al giudice civile di accertare
l’esistenza
del reato, ai fini della
liquidazione del danno morale, anche quando sia estinto
(ex
plurimis,
Cass., sez. III, 23-06-1999, n. 6400, in RFI, 1999,
Giudizio (rapporto), n. 19).
Dall’altro, perché le Sezioni
Unite non hanno affatto affermato che la mancanza di
querela è causa di estinzione
del reato, ma hanno affermato - il che è cosa ben
diversa -
che ai soli fini
dell’individuazione del termine di prescrizione
applicabile, l’estinzione
del reato per remissione di
querela è equiparabile in via interpretativa all’ipotesi
di
mancanza ab origine della
querela.
5. I “nuovi danni”.
5.1. La lesione di diritti costituzionalmente protetti.
Si è già accennato (supra,
§ 4.1) alla tendenza giurisprudenziale vòlta a ridurre
sempre
più l’ambito di operatività
della limitazione risarcitoria posta dall’art. 2059
c.c..
Secondo questo orientamento, la
lesione di qualsiasi diritto costituzionalmente
protetto,
quand’anche non dia luogo ad
alcun pregiudizio patrimoniale, costituisce comunque un
danno risarcibile ex se,
in base al combinato disposto dell’art. 2043 c.c. e
della norma
che si assume di volta in volta
violata.
Molteplici sono le sentenze,
anche di legittimità, che hanno affermato tale
principio, me
in epoca recente il “manifesto”
di tale tendenza può essere a buon diritto individuato
nella motivazione di Cass.
10.5.2001 n. 6507, in Dir. e giust., 2001, fasc. 22, 15.
Con tale sentenza, la Corte ha
esteso al danno da lesione della reputazione, così come
a
tutti i danni da lesione di un
diritto della personalità, la fortunata formula già
sperimentata con riguardo al
danno biologico, e che può così sillogizzarsi:
(a) i diritti fondamentali della
persona, costituzionalmente garantiti, sono altrettanti
diritti soggettivi perfetti;
(b) la lesione di tali diritti,
in virtù del combinato disposto dell’art. 2043 c.c., e
della
norma costituzionale che
sancisce il diritto leso, genera un danno risarcibile;
(c) tale danno deve essere
risarcito in aggiunta sia al danno morale, sia a quello
patrimoniale in senso stretto.
Per pervenire a questa
conclusione, la Corte si rifà ampiamente alla celebre
decisione
resa da Corte cost. 14/7/1986 n.
184 (in Giust. civ., 1986, I, 2324), con la quale la
Consulta proclamò che la lesione
della salute è immediatamente risarcibile in base al
combinato disposto degli artt.
32 cost. e 2043 c.c. (peraltro il giudice delle leggi
non
chiarì mai se tale applicazione
dell’art. 2043 c.c. fosse diretta od in via analogica).
Come nella decisione del 1986,
anche la sentenza 6507/01 parte dalla Costituzione,
affermando che il diritto alla
reputazione è uno dei diritti fondamentali
dell’individuo;
che esso rientra quindi nell’
“elenco aperto” di cui all’art. 2 cost.; che, pertanto,
la
lesione di essa genera un danno
risarcibile, accanto ed in aggiunto rispetto al danno
patrimoniale ed a quello
patrimoniale. Su questo “nucleo duro”, rappresentato
dall’equazione “2 cost. + 2043
c.c. = danno risarcibile” la Corte innesta poi ulteriori
precisazioni, a maggior
definizione della fattispecie.
La lesione di un diritto
costituzionalmente protetto, secondo il giudice di
legittimità, può
dunque generare tre pregiudizi
diversi:
(a) un danno morale (ex art.
2059 c.c.), se il fatto lesivo integra gli estremi di un
reato;
(b) un danno patrimoniale (ex
art. 2043 c.c.), se per effetto della lesione la vittima
ha
subito una deminutio
patrimonii;
(c) un danno personale, il quale
sussiste sempre e necessariamente, sol che sia provata
la
lesione: all’attore dunque, per
ottenere il risarcimento, sarà sufficiente dimostrare
soltanto la lesione del diritto
(ad esempio, l’offesa alla reputazione), perché da
questa
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“consegue automaticamente la
perdita o la riduzione di un valore della persona umana,
che dà diritto al risarcimento del danno”.
Sintetizzando, si potrebbe
quindi dire che mentre la sola prova della condotta
illecita
non è mai prova sufficiente, né
del danno patrimoniale, né del danno personale, la prova
della lesione di un diritto
della personalità è prova idonea e sufficiente per
ottenere il
risarcimento del danno
personale.
Questo nuovo orientamento della
Cassazione, come già accennato, sembra porre
all’interprete diversi problemi.
In primo luogo, v’è da chiedersi
se davvero lo schema dogmatico messo a punto dalla
sentenza n. 184/86 della Corte
costituzionale, con riferimento al danno biologico,
possa
essere “esportato” verso altri
tipi di danno.
Il danno biologico ha infatti
una peculiarità tutta sua, rappresentata dalla obiettiva
accertabilità e misurabilità in
termini medico-legali. Ma tutti gli altri danni, anche
derivanti dalla lesione di
diritti personalissimi, non accertabili obiettivamente,
e che
incidono in senso ampio nella
sfera emotiva del soggetto, sono danni morali belli e
buoni. Data un’offesa
calunniosa, come distinguere la sofferenza morale
causata da
essa, e risarcibile ex art. 2059
c.c., con il danno da “lesione del diritto
“personalissimo”,
ex art. 2 cost.? Insomma,
l’impressione è che la corte abbia attuato, anche in
questo
caso, la tecnica dello
“svuotamento”. Vale a dire che la Corte, non potendo o
non
volendo rilevare quel che appare
ormai evidente, e cioè che la limitazione posta
dall’art.
2059 c.c. impedisce di
apprestare adeguata tutela risarcitoria a diritti
costituzionalmente
protetti, al fine di soddisfare
le ragioni dei danneggiati “sottrae” dall’ambito di
applicazione dell’art. 2059 c.c.
ora questo, ed ora quel diritto. Insomma, si lascia
ferma
la noma limitatrice del
risarcimento, ma si erode continuamente il suo raggio
d’azione.
In secondo luogo, l’operazione
compiuta dalla Corte (che potremmo intitolare “come il
danno biologico, così il danno
alla reputazione”), riposa sul principio secondo cui,
quando viene leso un diritto
costituzionalmente protetto, “ una volta provata detta
lesione, il danno è in re
ipsa”. Questo principio, in effetti, venne formulato
nella
sentenza 184/86 della Corte
costituzionale. Tuttavia, in seguito, sia la Consulta,
sia la
stessa Corte di cassazione,
l’avevano espressamente abbandonato. Era stato infatti
proprio il giudice delle leggi
che, interpretando “autenticamente” la sentenza 184/86,
aveva affermato: “là dove
qualifica come «presunto» [il danno alla salute],
identificandolo col fatto (illecito) lesivo della
salute, [la sentenza n. 184/86] intende
dire che la prova della lesione è, in re ipsa, prova
dell'esistenza del danno (…), non già
che questa prova sia sufficiente ai fini del
risarcimento. E' sempre necessaria la prova
ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione
che la lesione ha prodotto una
perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223
c.c., costituita dalla diminuzione
o privazione di un valore personale (non patrimoniale)” (così Corte cost. 27.10.1994 n.
372, in Giust. civ., 1994, I, 3029).
Ora, se si compara questa
motivazione con quella di Cass. 6507/01, ci si avvede
che le
due sentenze affermano principi
esattamente opposti: per la Consulta, la prova della
lesione non è sufficiente ai
fini del risarcimento; per la Cassazione, invece, “una
volta
provata detta lesione, il danno
è in re ipsa”.
Un terzo aspetto problematico è
rappresentato dalla possibilità che l’orientamento
manifestato da Cass. 6507/01,
cit., possa prestarsi ad interpretazioni distorsive ed
“alluvionali”.
Infatti la Corte, nell’affermare
che esiste un unico diritto della personalità,
comprensivo
di tutti gli aspetti di
quest’ultima, ha aggiunto che spetta agli interpreti “costruire
tutte
le posizioni soggettive idonee a dare garanzia (…) ad
ogni proiezione della persona
nella realtà sociale”.
Ciò vuol dire che il singolo giudice potrà creare un
nuovo danno,
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ogni volta che ritenga leso un
diritto costituzionalmente garantito. A tale facoltà, la
Corte ha pensato di porre anche
un limite: ed infatti, non tutte le “proiezioni della
persona nella realtà sociale”
godono di pari tutela costituzionale e, perciò
risarcitoria.
Ove sia leso un diritto
personale, potrà farsi luogo al risarcimento soltanto
ove
quest’ultimo “si ponga come
conseguenza della tutela dei diritti inviolabili
dell’uomo”.
Ma ecco allora il problema: come
distinguere le ipotesi in cui l’impedimento
all’esercizio di una attività
personale costituisce lesione di un diritto inviolabile,
e
quindi danno, dalle ipotesi in
cui, pur essendovi impedimento all’esercizio d’una
attività
personale, non vi è lesione d’un
diritto inviolabile, e quindi non vi è danno? I due
rischi
opposti sono, da un lato, quello
di dare tutela risarcitoria soltanto ai diritti primari
(vita,
salute, onore); dall’altro,
quello di attribuire il rango di “diritto inviolabile” a
qualsiasi
bizzarra attività qualcuno abbia
deciso di dedicarsi.
5.2. Il danno esistenziale.
Tra le nuove categorie di danno
proposte all’attenzione degli interpreti, lo sforzo
attualmente più articolato è
motivato è quello volto a sostenere la tesi del c.d.
“danno
esistenziale”, inteso quale
categoria unica ed unificante dei danni non patrimoniali
diversi da quelli morali, che
necessariamente riassorbe in sé il danno biologico,
quello
alla vita di relazione, quello
alla serenità familiare, alla vita sessuale, eccetera
(Ziviz,
Alla scoperta dal danno esistenziale,
in Contr. e impr., 1994, 864-865).
Secondo i sostenitori della tesi
in esame, il danno esistenziale si differenzia da tutti
e tre
i consueti tipi di danno: da
quello biologico, in quanto esiste a prescindere da una
lesione della psiche o del
corpo; da quello morale, in quanto esso non consiste in
una
sofferenza (la quale,
ovviamente, può essere indotta dal danno, ma non si
identifica con
esso), ma nella rinuncia ad una
attività concreta; da quello patrimoniale, in quanto
esso
può sussistere a prescindere da
qualsiasi compromissione del patrimonio. E’ stato
icasticamente osservato, a
questo riguardo, che il danno morale si identifica con
“le
lacrime”, il danno esistenziale
si identifica in una “rinuncia al fare” (Cendon, Non
di
sola salute vive l’uomo,
in Studi Rescigno, V, Milano 1999, 139).
Il danno esistenziale viene
dunque configurato come un pregiudizio areddituale (in
quanto il relativo risarcimento
prescinde del tutto dal reddito del danneggiato), non
patrimoniale (in quanto non ha
ad oggetto la lesione di beni od interessi
patrimoniali),
tendenzialmente omnicomprensivo,
in quanto qualsiasi privazione, qualsiasi lesione di
attività esistenziali del
danneggiato può dar luogo a risarcimento.
I sostenitori della nozione di
danno esistenziale precisano altresì che la nuova figura
non
viola (o meglio, non aggira) il
disposto dell’art. 2059 c.c.. Si sostiene, infatti, che
la
rigida dicotomia tra danno
patrimoniale e danno morale, voluta dal legislatore del
1942
ed incentrata sugli artt.
2043-2059 c.c., è definitivamente entrata in crisi con
l’emersione della nozione di
danno biologico: di un danno, cioè, tipicamente non
patrimoniale, ma ritenuto
risarcibile e sottratto all’ambito di applicabilità
dell’art. 2059
c.c.. L’affermata risarcibilità
ex artt. 2043 c.c. e 32 cost. del danno biologico
dimostrerebbe che non esiste una
irrisarcibilità assoluta dei danni non patrimoniali non
causati da reato. Insomma, il
diritto vivente per come elaborato dalla giurisprudenza
costituzionale e da quella di
legittimità ha sempre di più eroso l’ambito di
applicazione
dell’art. 2059 c.c., sicché
occorre prendere atto che esiste oggi non una, ma
molteplici
categorie di danni non
patrimoniali: di queste, sono soggette alla limitazione
di cui
all’art. 2059 c.c. soltanto i
danni non patrimoniali consistenti in sofferenze
dell’animo (i
danni morali propriamente
detti), mentre la suddetta limitazione non sussiste per
le altre
categorie di danni non
patrimoniali (Monateri, Alle soglie di una nuova
categoria
risarcitoria: il danno esistenziale,
in Danno e resp., 1999, 6).
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La risarcibilità del danno
esistenziale viene fondata dunque puramente e
semplicemente
sul disposto dell’art. 2043
c.c., secondo un sillogismo argomentativo che può così
riassumersi:
(a) lo svolgimento di attività
non remunerative costituisce un interesse
dell’individuo,
che l’ordinamento tutela;
(b) la lesione della possibilità
di svolgere tali attività costituisce di conseguenza un
danno ingiusto ex art. 2043
c.c.;
(c) l’ingiustizia del danno ne
comporta necessariamente la risarcibilità.
I sostenitori della categoria
del danno esistenziale adducono, a sostegno della
validità di
essa, una serie di decisioni
giurisprudenziali, solitamente distinte in due gruppi:
quelle
che hanno fatto espresso
riferimento al “danno esistenziale”; quelle che hanno di
fatto
liquidato un danno esistenziale
(cioè un danno non patrimoniale asseritamente diverso
da quello morale), ma
problematicamente etichettandolo con una categoria nota
(biologico, patrimoniale, ecc.)
o creata ad hoc (danno edonistico, danno da
perdita del
rapporto parentale, ecc.).
Alla nozione di danno
esistenziale sono stati mossi in dottrina diversi
rilievi, che
possono essere così riassunti:
(a) eccessiva indeterminatezza:
infatti, intendendo per “danno” qualsiasi privazione,
qualsiasi rinuncia a qualsiasi
attività anche non communis omnium, si renderebbe
risarcibile ogni e qualsiasi
“capriccio” del danneggiato;
(b) il danno esistenziale, in
quanto danno non patrimoniale, non potrebbe essere
risarcito se non nei casi di cui
all’art. 2059 c.c., e cioè nella ricorrenza di una
ipotesi di
reato. Affermare, pertanto, la
risarcibilità di questo tipo di danno al di fuori dello
schema normativo di cui all’art.
2059 c.c. significa aggirare il contenuto di
quest’ultima
norma;
(c) il danno esistenziale è
spesso un danno imprevedibile, e come tale non
imputabile al
danneggiante a titolo di colpa.
A queste critiche i sostenitori
della nozione di danno esistenziale replicano che:
(a) per quanto concerne la
pretesa indeterminatezza del danno esistenziale, essa è
davvero tale soltanto se si
considerano le conseguenze del danno (ciò che non rileva
ai
fini dell’inquadramento
dogmatico), piuttosto che il danno stesso. Allo stesso
modo del
danno esistenziale, anche il
danno biologico può comportare una gamma indeterminata
ed indeterminabile di privazioni
esistenziali: e nondimeno la giurisprudenza continua a
ripetere che di esse tutte,
nessuna esclusa, il giudice deve tenere conto nella
liquidazione
del danno alla salute.
(b) Per quanto concerne, invece,
la pretesa sovrapponibilità concettuale tra danno
esistenziale e danno morale, si
replica che il danno esistenziale consiste propriamente
in
una rinuncia: una rinuncia, per
l’esattezza, a compiere una qualsivoglia attività od
atto
per l’innanzi frequentemente
compiuto. Il danno esistenziale, pertanto, non è un
soffrire,
un “lagrimare”, ma è
propriamente un non facere forzosamente indotto
dal fatto illecito
del terzo. Per quanto, poi,
attiene al fondamento teorico della nozione, all’accusa
di
surrettizio aggiramento
dell’art. 2059 c.c. si replica che occorre - piaccia o
non piaccia -
prendere atto che la dicotomia
tradizionale danno biologico-danno patrimoniale è
definitivamente entrata in crisi
con l’emersione del danno biologico. Anche
quest’ultimo, infatti,
costituisce una ipotesi di danno patrimoniale risarcito
al di fuori, e
nonostante, l’art. 2059 c.c..
Non varrebbe, pertanto, trincerarsi dietro il dettato
dell’art.
2059 c.c. per negare legittimità
alla nozione di danno esistenziale, perché proprio la
vicenda del danno biologico
dimostrerebbe che l’ostacolo costituito dalla norma
codicistica non è
insormontabile.
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(c) Per quanto concerne, infine,
la pretesa imprevedibilità del danno (e quindi
l’impossibilità di imputarlo a
titolo di colpa al danneggiante), i sostenitori della
nozione
di danno esistenziale osservano
che, ai fini dell’accertamento della sussistenza della
colpa, è necessario che sia
prevedibile l’evento dannoso, e non le conseguenze
dannose
di esso.
In conclusione, sul danno
esistenziale si può osservare come le teorie che ne
sostengono
la risarcibilità muovono tutte
da un rilievo difficilmente contestabile: il nostro
ordinamento non prevede una
tutela risarcitoria completa, a 360°, di qualsiasi tipo
di
pregiudizio. Il danno biologico
è sempre risarcibile; il danno patrimoniale è sempre
risarcibile; ma il danno morale
è risarcibile soltanto nei limiti di cui all’art. 2059
c.c..
Questa tutela incompleta
costituisce indubbiamente una irrazionalità del nostro
sistema,
specialmente dopo che le Sezioni
Unite della Cassazione hanno “riletto” il testo
dell’art.
2043 c.c., stabilendo che tale
norma non è affatto una norma in bianco, bisognevole
d’essere integrata con altre
disposizioni, dalle quali desumere la natura “ingiusta
del
danno”. Al contrario, l’art.
2043 c.c. è una norma completa, dotata di precetto e
sanzione, in virtù della quale
deve ritenersi “danno ingiusto” qualsiasi lesione non
solo
di diritto soggettivi, ma anche
di interessi, comunque denominati, altrui, purché “presi
in considerazione” da una norma
giuridica (Cass., 22-7-1999, n. 500/SU, in Foro it.,
1999, I, 2487).
Dopo tale sentenza, appare
oggettivamente difficile conciliare, da un lato, la
piena
risarcibilità della lesione di
qualsiasi interesse, e dall’altro, la limitata
risarcibilità del
danno morale. La tesi del danno
esistenziale nasce quindi da una esigenza obiettiva, da
una difficoltà realmente
esistente, al limite, vien fatto di dire, da una
iniquità non più
tollerabile.
E tuttavia, non sembra che lo
strumento prescelto per superare questa anomalia sia
consentaneo allo scopo.
Alla tesi del danno
esistenziale, infatti, possono muoversi tre obiezioni,
relative:
(a) all’imputabilità del danno;
(b) al contenuto del danno;
(c) - soprattutto - alla
distinzione dal danno morale.
(A) L’imputabilità del danno.
Come noto, il nostro sistema
della responsabilità civile si fonda sul criterio della
colpa,
con poche (anche se non
marginali) eccezioni (ad esempio, quelle di cui agli
artt. 2048,
2050, 2052 c.c.). La nozione di
colpa civile, distinta da quella di colpa penalmente
rilevante (Cass., 22-2-1996, n.
1375, in Arch. circolaz., 1996, 537; Pret. Forlì, 19-2-
1986, in Resp. civ. prev., 1986, 176), viene
tradizionalmente fondata su due elementi:
da un lato l’idea di deviazione,
di scostamento, di abbandono, di inosservanza di una
regola di condotta, sia essa
frutto di una norma di legge, regolamentare,
contrattuale,
deontologica, di comune prudenza
(arg. ex art. 1176 c.c.). Dall’altro lato, la nozione di
colpa viene tradizionalmente
fondata sull’idea della concreta prevedibilità ed
evitabilità
dell’evento. Nella prevedibilità
ed evitabilità, anzi, risiede la distinzione tra colpa e
caso
fortuito: giacché non sarebbe
giusto né condivisibile ascrivere ad un soggetto le
conseguenze di un fatto che egli
non poteva né prevedere né evitare (per una recente ed
approfondita disamina di questo
tema si veda Radé, L’impossibile divorce de la faute
et
de la responsabilité civile,
in Recueil Dalloz, 1998, 301). La necessaria
prevedibilità
dell’evento dannoso è stata
affermata anche dalla Corte costituzionale, la quale ha
espressamente affermato che, là
dove essa manchi, non è possibile una valutazione
autonoma della colpa (Corte
cost., 27-10-1994, n. 372, in Giust. civ., 1994, I,
3029).
Ovviamente, la prevedibilità o
prevenibilità dell’evento non va confusa con la
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prevedibilità delle conseguenze
dannosa da esso scaturite. Come noto, infatti, in
materia
extracontrattuale il
danneggiante risponde anche delle conseguenze
imprevedibili della
propria condotta.
E’ a questo punto, però, che la
nozione di danno esistenziale sembra entrare in
apparente collisione con la
nozione di colpa come ora tratteggiata. Infatti delle
due
l’una:
(a) se il danno esistenziale,
come i suoi sostenitori mostrano di ritenere, va
qualificato
“danno-conseguenza”, la
prevedibilità o la prevenibilità dell’evento dannoso
(fonte del
danno esistenziale, cioè il
“danno-evento” propriamente detto) dovrà necessariamente
concernere una lesione
ontologicamente diversa dalla perdita dell’attività
esistenziale: e
quindi, ancora una volta, una
lesione o biologica, o patrimoniale o morale. Insomma,
se
il danno esistenziale è un
danno-conseguenza, esso presuppone un danno-evento che
difficilmente potrebbe
collocarsi al di fuori delle tre categorie tradizionali.
Ma, se così è,
gli effetti della lesione
dovranno essere retti dalle regole consuete, e quindi:
(-) in caso di lesione della
salute, le perdite esistenziali da questa causate sono
già oggi
risarcibili, ex artt. 32 cost. e
2043 c.c.;
(-) in caso di danno
patrimoniale, le perdite esistenziali da esso causate
non sono
risarcibili, ex artt. 1223 e
2056 c.c.;
(-) in caso di danno morale, le
perdite esistenziali, in quanto fonte di sofferenza,
sono
già oggi risarcibili ex art.
2059 c.c.;
(b) se invece, per evitare le
secche del doppio nesso causale tra condotta illecita e
danno-evento, e tra quest’ultimo
e danno-conseguenza, si volesse configurare il danno
esistenziale come danno-evento,
allora verrebbe a mancare del tutto il requisito della
prevedibilità o prevenibilità
dell’evento di danno, e con esso la configurabilità
stessa
della colpa civile. Le attività
esistenziali perdute in conseguenza dell’altrui
illecito,
infatti, sono troppo varie e
multiformi per potere essere ritenute prevedibili dal
danneggiante (come potere
seriamente affermare, infatti, che l’offensore possa
astrattamente prefigurarsi che
l’offeso, in conseguenza dell’illecito, non giocherà più
a
scacchi, non tirerà più di
scherma, non collezionerà più etichette di acqua
minerale,
eccetera?).
Il primo nodo irrisolto della
nozione di danno esistenziale appare dunque così
riassumibile: se questo danno è
un danno-evento, esso è imprevedibile e dunque non
può essere ascritto
all’offensore a titolo di colpa; se esso è un
danno-conseguenza,
presuppone necessariamente un
danno-evento, che dovrà essere biologico, patrimoniale
o morale, ed ubbidire alla
regole risarcitorie normativamente poste o
giurisprudenzialmente elaborate
per questi tre tipi di danno.
(B) Il contenuto del danno.
Come si è visto in precedenza,
il danno esistenziale è tendenzialmente
omnicomprensivo: qualsiasi
rinuncia, qualsiasi privazione, qualsiasi perdita di
attività
dell’esistenza, rappresenterebbe
una lesione astrattamente risarcibile. Anche qui,
dunque, la nozione di danno
esistenziale deve affrontare una “scelta tragica”:
(a) o ammettere che persino la
perduta possibilità - ad esempio - di fare schiamazzi,
imbrattare i muri, ed insomma di
compiere qualsiasi insignificante gesto quotidiano
costituisca un danno
risarcibile: ed in questo caso l’interprete deve
spiegare perché mai
debba considerarsi “ingiusta” la
perdita della possibilità di compiere un gesto od
un’attività insignificanti,
inutili od illeciti;
(b) ovvero, ammettere che non
qualsiasi perdita esistenziale possa costituire un danno
risarcibile: ed in questo caso
l’interprete avrà il non agevole compito di individuare
il
“selettore”, cioè il criterio in
base al quale discernere le perdite esistenziali
meritevoli di
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tutela risarcitoria da quelle
non risarcibili, e non è difficile prevedere che
l’attività
esistenziale meritevole di
tutela sarà immancabilmente ancorata o a princìpi
costituzionali, o a norme di
legge. Ma, in questo modo, viene a perdersi tutta la
portata
innovativa del danno
esistenziale: se infatti, perché il danno sia
risarcibile, è necessario
individuare la norma
costituzionale o la norma di legge alla quale “ancorare”
l’ingiustizia del danno, non c’è
bisogno di mettere in campo una nuova figura, in quanto
già oggi la lesione di un
interesse normativamente qualificato costituisce un
danno
risarcibile, secondo quanto
stabilito da Cass. S.U. 500/99. Secondo quest’ultima
decisione della Corte di
legittimità, qualsiasi lesione, e quindi qualsiasi
perdita
(patrimoniale, biologica, morale
od esistenziale), può dar luogo a un risarcimento, a
condizione che l’interesse leso:
(a) sia protetto da disposizioni specifiche; ovvero (b)
sia
oggetto di norme che rivelano
una esigenza di protezione. Nel primo caso, il
risarcimento sarà sempre dovuto,
purché sussistano gli altri elementi dell’illecito; nel
secondo caso, il risarcimento
sarà dovuto se il giudice accerti, nel caso concreto, la
prevalenza dell’interesse leso
rispetto a quello, eventualmente concorrente,
dell’offensore.
La rilettura dell’art. 2043
c.c., proposta dalle Sezioni Unite, pare in qualche modo
“spiazzare” il danno
esistenziale: infatti, nel momento in cui si proclama la
risarcibilità
della lesione di qualsiasi
interesse, purché “preso in considerazione
dall’ordinamento”,
si ammette per ciò solo la
risarcibilità anche di qualsiasi perdita esistenziale, a
condizione che essa abbia
formato oggetto di tutela da parte di una norma
positiva.
(C) La distinzione dal danno morale.
Ma il vero punctum dolens
della tesi del danno esistenziale è, a parere di chi
scrive, la
sua distinzione dal danno
morale.
Secondo i sostenitori della tesi
del danno esistenziale, quest’ultimo costituisce una
rinuncia ad un facere, ad
una attività positiva, mentre il danno morale
costituisce una
mera sofferenza soggettiva,
interiore, inesprimibile, un pati.
In primo luogo, è pericoloso e
controproducente sostenere che il danno morale
costituisce una sofferenza
“interna”. Se così fosse, tale danno non potrebbe mai
essere
dedotto né provato in giudizio,
giacché i moti dell’animo sono noto solo a chi li prova.
Il risarcimento del danno morale
diverrebbe così una pura e semplice sanzione, o - se si
preferisce - un grazioso regalo,
che il danneggiato avrebbe sempre diritto di pretendere,
a prescindere da qualsiasi
dimostrazione circa l’effettiva esistenza di esso.
In secondo luogo, non convince
la distinzione tra danno morale e danno esistenziale
fondata sul rilievo secondo cui
chi subisce un danno morale “soffre”, mentre chi subisce
un danno esistenziale “non fa”.
La sofferenza morale causata dall’illecito, infatti, è
sempre una sofferenza causata da
una rinuncia. Chi non può più andare a cavallo in
conseguenza dell’altrui illecito
subisce un danno non già nella rinuncia alla cavalcata,
ma sofferenza causata da tale
rinuncia: tanto è vero che nessuno potrebbe
ragionevolmente sostenere che
costituisce un danno la rinuncia ad attività sgradite o
spiacevoli. Ma se così è, deve
concludersi che il c.d. “danno esistenziale” non è che
la
sofferenza causata da una
rinuncia, cioè un pregiudizio d’affezione, e
quindi un danno
morale.
Così, per fare un esempio: la
vedova inconsolabile che non trova la forza di uscire di
casa dopo la perdita del
coniuge, indubbiamente rinuncia a molteplici attività
esistenziali (andare al cinema,
andare a passeggio, visitare musei e mostre, eccetera).
Ma questo tipo di danno,
conseguenza della sofferenza morale, già oggi viene
messo in
conto a valutato al momento
della liquidazione del danno morale. Se si ammettesse,
accanto a quest’ultimo, la
risarcibilità anche del danno esistenziale, delle due
l’una: o si
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compie una duplicazione
risarcitoria, liquidando due volte la pecunia doloris
per le
medesime privazioni; oppure, se
si “scomputa”, per così dire, il danno esistenziale da
quello morale, quest’ultimo
corre il rischio di divenire davvero una entità
sfuggente e
difficilmente valutabile.
Ove si condividano le
osservazioni sin qui svolte, deve concludersi che il la
teoria del
danno esistenziale non
costituisce che un raffinatissimo tentativo di aggirare
(consapevolmente o meno) il
divieto di cui all’art. 2059 c.c., secondo una tecnica
che la
storia del nostro ordinamento ha
già conosciuto.
5.3. Il danno da nascita indesiderata.
Una fattispecie peculiare di
danno, che taluni giudici di merito ritengono
costituisca una
ipotesi di danno alla salute, è
rappresentata dal c.d. danno da nascita indesiderata.
Ricorre questo tipo di danno
quando la nascita di un figlio avviene contro la volontà
del
genitore (come nell’ipotesi di
insuccesso di un intervento abortivo, ovvero nel caso di
insuccesso di un intervento di
sterilizzazione); od anche oltre la volontà del genitore
(come nell’ipotesi di omessa
informazione circa le malformazioni del feto, con
conseguente perdita della
possibilità di interrompere la gravidanza).
In queste ipotesi, la
giurisprudenza ha innanzitutto escluso che il concepito,
una volta
venuto ad esistenza, possa
accampare pretese risarcitorie. Il fatto di venire ad
esistenza
non può infatti essere
considerato un danno in sé, quale che sia la qualità
dell’esistenza.
Di conseguenza, è stato negato
che i genitori del bimbo venuto alla luce con gravi
malformazioni congenite, la cui
esistenza non era stata rilevata per imperizia dei
medici,
possano agire in giudizio, in
rappresentanza di lui, per chiedere il risarcimento del
danno alla salute subìto dal
proprio figlio (Trib. Roma 13.12.1994, in Dir. famiglia,
1995, 662).
La conclusione muta nel caso in
cui il concepito abbia riportato un danno alla salute,
durante la vita prenatale, per
imperizia del medico: ma in questo caso il danno che si
risarcisce è la lesione della
salute, non già la nascita indesiderata.
Escluso dunque che l’evento
“nascita” in quanto tale possa rappresentare un danno
per
il nato, occorre esaminare se
tale evento possa costituire un danno per i genitori. Al
riguardo la giurisprudenza è
divisa tra due orientamenti: quello di chi ritiene che
la
nascita indesiderata per i
genitori non sia un danno in sé, ma ben possa costituire
causa
di danno alla salute (specie
psichica); e quello di chi ritiene che la nascita
indesiderata
costituisca un danno in sé,
diverso dalla lesione della salute, e consistente nella
lesione
del diritto alla procreazione
libera e cosciente.
Secondo il primo orientamento,
la nascita in quanto tale non può assolutamente essere
considerata un evento dannoso,
neppure nei casi in cui venga ad esistenza un bimbo
malato o malformato. Un danno
risarcibile è ipotizzabile soltanto quando la nascita
non
desiderata, ovvero la nascita di
un bimbo malformato senza che i genitori siano stati
previamente avvertiti,
costituisca un fattore traumatico che provochi nei
genitori un
danno psichico, cioè una vera e
propria malattia (Trib. Roma 13.12.1994, in Dir.
famiglia, 1995, 662; Trib.
Bergamo 16.11.1995, in Giust. civ., 1996, I, 867; ma va
detto
che, nella sentenza del
tribunale lombardo ora citata, il richiamo alla lesione
della salute
appare “di stile”, e compiuto al
solo fine di giustificare la liquidazione del danno in
un
caso in cui non era stata
dimostrata alcuna lesione anatomo patologica dei
genitori).
Questo orientamento, che è
quello condiviso dalla Corte di cassazione, si fonda
sulla
seguente argomentazione:
(a) una nascita indesiderata,
dovuta all’imperizia del medico, costituisce una lesione
del
diritto all’interruzione della
gravidanza;
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(b) questo diritto, che spetta
unicamente alla donna, non è però assoluto, in quanto la
legge consente l’interruzione
volontaria della gravidanza soltanto nel caso in cui
essa sia
necessaria per la tutela della
salute, anche psichica, della madre;
(c) ergo, la violazione
del diritto all’interruzione della gravidanza rileva
solo quando da
essa derivi la lesione di quel
bene che la norma intendeva proteggere, cioè la salute
della
madre (Cass. 8-7-1994 n. 6464,
in Corriere giur., 1995, 91; nonché in Giust. civ.,
1995,
I, 767; in Giur. it., 1995, I,
1, 790; in Resp. civ. prev., 1994, 1029).
Le condizioni di risarcibilità
del danno alla salute psichica, derivato da una nascita
indesiderata, mutano nel caso in
cui quest’ultima sia ricollegabile non ad un errore
medico nell’esecuzione
dell’intervento di interruzione della gravidanza, ma ad
una
omessa informazione, da parte
del medico, circa l’esistenza di malformazioni del feto,
con conseguente violazione del
diritto della madre a praticare l’interruzione della
gravidanza. In questo caso la
condotta del medico è stata ritenuta fonte di danno
risarcibile soltanto ove sia
dimostrato che, se la madre fosse stata tempestivamente
informata, ella avrebbe potuto
legittimamente esercitare il diritto all’aborto, in
quanto
ricorrevano tutte le condizioni
previste dalla l. 194/78. Queste condizioni sono, come
noto, diverse a seconda che
l’interruzione della gravidanza avvenga nei primo 90
giorni,
ovvero successivamente.
Nel primo caso (art. 4 l.
22.5.1978 n. 194), per praticare l’aborto è sufficiente
che
sussista il “serio pericolo” per
la salute fisica o psichica della madre. Pertanto in
caso di
nascita indesiderata, per
ottenere il risarcimento del danno alla salute psichica,
la madre
dovrà dimostrare soltanto che,
se fosse stata informata delle malformazioni, questa
informazione avrebbe causato un
“serio pericolo” per la sua salute.
Nel secondo caso (art. 6 l.
22.5.1978 n. 194), e cioè dopo il 90° giorno di
gravidanza, la
gestante può esercitare il
diritto all'aborto solo in presenza di due condizioni
positive e
di una negativa, e cioè:
(a) sussista un processo
patologico (fisico o psichico, anche indotto da
accertate
malformazioni del feto) in atto
per la madre;
(b) sussista il pericolo (da
accertare con valutazione ex ante) che tale
processo
patologico degeneri recando un
danno grave alla salute della madre;
(c) non sussista possibilità di
vita autonoma per il feto (così, ad litteram,
Cass. 1-12-
1998 n. 12195, in Danno e resp.,
1999, 522).
In questi casi, pertanto, per
ottenere la condanna del medico al risarcimento del
danno
biologico (psichico) causato
dalla nascita indesiderata, la donna ha l’onere di
dimostrare
che la tempestiva conoscenza
delle malformazioni del feto avrebbe ingenerato in lei
un
processo patologico fisico o
psichico, dal quale poteva derivare un pericolo grave
per la
salute della donna (Cass.
24.3.99 n. 2793, in Danno e resp., 1999, 766).
Ove sussistano tutti i requisiti
sopra indicati, l’omessa informazione da parte del
medico, circa l’esistenza di
malformazioni fetali, costituisce una condotta illecita,
che
legittima la domanda di
risarcimento del danno alla salute subìto sia dalla
madre, in
conseguenza della nascita, sia
dal padre, in conseguenza del danno alla salute sofferto
dal coniuge (Cass. 1.12.1998 n.
12195, cit.).
Vi è invece contrasto, nella
giurisprudenza di legittimità, in merito alla
risarcibilità delle
spese di mantenimento ed
educazione del bimbo la cui nascita era indesiderata.
La soluzione negativa muove dal
rilievo che la l. 194/78 è preordinata a tutelare la
salute, e non il patrimonio,
della donna, e dunque la lesione del diritto all’aborto
rileva
soltanto quando è violato il
bene protetto dalla norma (Cass. 8-7-1994 n. 6464,
cit.).
In senso esattamente contrario,
invece, si è pronunciata Cass. 1.12.1998 n. 12195, cit.,
almeno con riferimento
all’ipotesi in cui sia configurabile una responsabilità
contrattuale del medico (ma dopo
il decisum di Cass., sez. III, 22-01-1999, n.
589, in
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Danno e resp., 1999, 294, l’atto
illecito del medico è sempre disciplinato dalle norme
sulla responsabilità
contrattuale, secondo la tesi della “responsabilità da
contatto”).
Secondo Cass. 12195/98, dunque,
poiché nel caso di wrongful birth si versa in
tema di
inadempimento contrattuale, “il
danno, al cui inadempimento il debitore inadempiente è
tenuto ex art. 1218 c.c., deve essere valutato secondo i
criteri di cui agli artt. 1223,
1225, 1227 c.c. (…). In questo danno rientra non solo il
danno alla salute in senso
stretto ma anche il danno biologico in tutte le sue
forme ed il danno economico, che sia
conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento del
sanitario, in termini di
causalità adeguata”.
Come si accennava più sopra, in
tema di danno da nascita indesiderata vi è poi un
secondo orientamento, sinora
registrato soltanto tra i giudici di merito, secondo il
quale
la wrongful birth
costituisce un danno risarcibile di per sé (in base al
combinato
disposto degli artt. 2 e 13
cost., e 2043 c.c.), a prescindere dall’esistenza d’un
danno alla
salute. Questa conclusione viene
fondata sul presupposto che il danno da nascita
indesiderata costituisce, per
entrambi i coniugi, lesione del diritto primario e
costituzionalmente
all’autodeterminazione ed alla pianificazione familiare,
e come tale
genera un danno (danno-evento)
immediatamente risarcibile (Trib. Milano 20.10.1997,
in Danno e resp., 1999, 82).
L’individuazione di un “diritto
a non avere figli”, e l’affermazione secondo cui la
lesione di tale diritto dà luogo
ad un danno risarcibile in numerario, ha indotto parte
della dottrina a ravvisare nella
pronuncia da ultimo citata un esempio di liquidazione
del
c.d. “danno esistenziale”.
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Allegato 1
Una lettura “costituzionalmente orientata” dell’art.
2059 c.c.
Cassazione - Sezione terza civile - sentenza 24
gennaio-10 maggio 2001, n. 6507
Presidente Duva - relatore Segreto
Pm Marinelli, conforme - ricorrente Cancani –
controricorrente Pagliarini
Svolgimento del processo
Con citazione notificata il 16
gennaio 1988 Nello Cancani conveniva in giudizio davanti
al tribunale di Roma, Bernardo
Pagliarini e, premesso che il convenuto aveva inviato
all’Acea, datrice di lavoro
dell’attore, una comunicazione in esito alla quale
quest’ultima aveva assunto
provvedimenti nei suoi confronti, chiedeva la condanna
del
Pagliarini al risarcimento dei
danni.
Precisava in proposito l’attore
che la lamentata missiva aveva fatto seguito all’invito
che
egli, quale amministratore del
condominio di via Amiterno 3, aveva inviato al
convenuto, quale amministratore
del condominio di via Amiterno 1 e 5, di consentire i
lavori di sostituzione di una
tubatura idrica. Aggiungeva che, a seguito dello scritto
del
convenuto, la sua datrice di
lavoro, adottando un provvedimento illegittimo ed
arbitrario, lo aveva messo a
disposizione.
Si costituiva il convenuto, che
resisteva alla domanda.
Il tribunale di Roma, con
sentenza depositata il 15 luglio 1995 rigettava la
domanda.
Proponeva appello il Cancani.
La Corte di appello di Roma, con sentenza depositata il
18 giugno 1998, rigettava
l’appello.
Riteneva la Corte che l’attore
aveva ristretto la domanda, come posto in luce dal primo
giudice, ai danni patiti e
patiendi in conseguenza della comunicazione del
Pagliarini alla
Acea; che nemmeno in sede di
appello l’attore aveva fornito la prova di detti danni;
che
il procedimento disciplinare da
lui subito era relativo ad addebito del 12 giugno 1986,
mentre gli scritti del
Pagliarini risultavano inoltrati tra il dicembre del
1987 ed il 6
maggio 1988.
Conseguenzialmente riteneva la
Corte di merito che l’attore non avesse fornito la prova
dei danni lamentati. Avverso
questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il
Cancani.
Resiste con controricorso il
Pagliarini.
Motivi della decisione
1.1. Preliminarmente va
rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso,
sollevata dal
resistente, per mancata
esposizione sommaria del fatto, a norma dell’articolo
366, n. 3
Cpc.
Infatti, sebbene in modo
estremamente sintetico, i fatti di causa sono stati
esposti nel
ricorso.
1.2. Con il primo motivo di
ricorso il ricorrente lamenta la violazione
dell’articolo 112
Cpc.
Assume il ricorrente che la
Corte di appello ha omesso di pronunciarsi in ordine
all’antigiuridicità del
comportamento diffamatorio e denigratorio, posto
arbitrariamente
in essere dal Pagliarini.
Assume il ricorrente che, avendo
il convenuto riferito all’Acea presunte irregolarità
addebitabili ad esso attore, in
qualità di amministratore di condominio, in contrasto
con
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51
gli interessi dell’azienda,
datrice di lavoro di esso ricorrente, aveva danneggiato
la
reputazione personale e
professionale di esso ricorrente.
Ritiene il ricorrente che, nella
fattispecie non era in discussione il rapporto di lavoro
di
esso ricorrente con l’Acea, ma
doveva essere valutato anche il solo fatto
dell’antigiuridicità del
comportamento del Pagliarini nell’inoltrare dette
missive
all’Acea.
1.3. Con il secondo motivo di
ricorso il ricorrente lamenta la violazione
dell’articolo
2043 Cc; assume il ricorrente
che la Corte di merito «ha valutato in negativo il danno
sofferto dalla reputazione
personale e professionale del Cancani, in conseguenza
delle
iniziative epistolari
denigratorie del Pagliarini» e questa perdita di
reputazione
professionale e personale,
costituiva il danno, che doveva liquidarsi
equitativamente.
3.1. I due motivi, essendo
strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.
Essi sono infondati e vanno
rigettati.
Va, anzitutto, premesso che la
sentenza impugnata ha esaminato la domanda del
Cancani nell’ottica della
domanda di risarcimento del danno patrimoniale alla
reputazione professionale per
responsabilità aquiliana ex articolo 2043 Cc e non del
danno non patrimoniale (morale)
da reato di diffamazione (articolo 2059 Cc).
Lo stesso ricorrente, per quanto
assuma anche l’esistenza di un danno alla reputazione
personale oltre che
professionale, rimane nel paradigma dell’articolo 2043
Cc
(espressamente invocato),
assumendo non l’esistenza di un reato e di un suo danno
morale ex articolo 2059 Cc
(nell’atto di appello – pagina 2 – dà atto che il
magistrato
penale aveva ritenuto non
sussistere fatti di rilevanza penale), ma un
comportamento
antigiuridico del Pagliarini che
avrebbe procurato un «ingiusto danno» con riferimento
alla «posizione personale e
professionale del Cancani».
Si rimane, quindi, sempre
nell’ambito del danno patrimoniale ex articolo 2043 Cc,
sia
pure nel diverso atteggiarsi di
danno (evento) patrimoniale per lesione di un diritto
della
persona umana – la reputazione
personale – ovvero di danno (conseguenza)
patrimoniale consistente nel
pregiudizio economico, conseguente alla lesione del
diritto
alla reputazione professionale
(o lavorativa), di cui si dirà più diffusamente in
seguito.
Premesso ciò, osserva questa
Corte che non può condividersi l’assunto del ricorrente
secondo cui il solo fatto
dell’inoltro all’Acea, datrice di lavoro del Cancani, di
una
missiva con cui venivano
addebitati fatti non veritieri, sia causa di
risarcimento del
danno perché lede la reputazione
del soggetto, cui lo scritto si riferisce.
La linea logica svolta in questa
doglianza, si fonda essenzialmente sul presupposto che,
una volta acquisita la certezza
della non veridicità dei fatti addebitati e comunicati
al
datore di lavoro e della
riconducibilità del contenuto dello scritto stesso a
colpa
dell’autore, la dimostrazione
del danno sarebbe in re ipsa, per cui non
ricadrebbe
sull’attore originario l’onere
della dimostrazione delle singole situazioni di
pregiudizio
subite e risarcibili.
Questa impostazione logica non è
accettabile.
Ed invero, sostenere che, in
presenza di uno scritto non veritiero, la prova del
danno, ed
in particolare dei vari tipi di
danno richiesti, è in re ipsa, significa
affermare la
sussistenza di una presunzione
in base alla quale, una volta verificatosi il fatto
illecito,
appartiene alla regolarità
causale la realizzazione del tipo di danno oggetto della
domanda risarcitoria, per cui la
mancata conseguenza del pregiudizio debba ritenersi
come eccezionale.
Così operando si pone a carico
del convenuto danneggiante l’onere della prova contraria
all’esistenza del danno, senza
che esso sia stato provato dall’attore danneggiato,
Pagina 35 di
51
ritenendo che il fatto illecito
costituisca di per sé, sulla base di un criterio di
regolarità
causale, dimostrazione del
danno.
3.2. Ritiene questa Corte che la
sola comunicazione al datore di lavoro da parte di un
terzo di fatti attribuiti al
lavoratore e non veritieri, anche se astrattamente
idonei ad
influire negativamente sul
rapporto di lavoro, integra solo pericolo di danno e non
costituisce da solo un elemento
sufficiente a provarne l’esistenza, per cui compete
all’attore dimostrare nel
singolo caso se da detta comunicazione sia derivato un
pregiudizio (Vedansi Cassazione
sentenze 13002/97; 2873/77; 3065/75; 1750/71;
2452/65, che, per quanto
attinenti al danno da illegittimo protesto di assegno,
distinguono tra fatto
potenzialmente dannoso e l’effettiva sussistenza dello
stesso).
3.3. In altri termini,
sussumendo la questione nel paradigma dell’articolo 2043
Cc, la
prova della comunicazione non
veritiera è solo la prova del fatto altrui, ma non
ancora
la prova del danno ingiusto.
Il verificarsi del danno non è,
tuttavia, automaticamente e necessariamente collegato
alla falsità di quanto
comunicato. Tali fatti, benché ascrivibili a colpa, sono
solo
potenzialmente produttivi di
danno: implicano, cioè, il pericolo del suo verificarsi
ma
non la certezza che lo stesso si
sia, in concreto, prodotto e non esonerano quindi
l’attore
dal fornire la prova delle
conseguenze dannose che, in concreto, gli siano
derivate. Tale
prova può essere data,
indubbiamente, con ogni mezzo, ed anche attraverso
presunzioni,
che debbono fondarsi, peraltro,
su circostanze gravi, precise e concordanti (articolo
2729 Cc) e non sulla semplice
«ragionevolezza» delle asserzioni dell’interessato circa
il
pregiudizio all’immagine ed il
discredito professionale o personale.
4.1. Secondo un più recente
orientamento giurisprudenziale di questa Corte
(Cassazione
11103/98; 2576/96), per quanto
formatosi in tema di illegittimo protesto cambiario, il
fatto lesivo della reputazione,
non può essere considerato in un’ottica esclusivamente
commerciale o imprenditoriale,
perché esso può costituire causa di discredito sia
personale, che commerciale o
professionale, e, pertanto, se illegittimo, è idoneo a
provocare un danno patrimoniale,
anche sotto il profilo della lesione dell’onore e della
reputazione del debitore come
persona, al di là dei propri interessi tipicamente
economici. Infatti nel caso in
cui il fatto illegittimo abbia leso diritti della
persona, come
quelli alla reputazione, per il
discredito subito, il danno è in re ipsa e dovrà
essere
risarcito senza che incomba sul
danneggiato l’onere di fornire la prova dell’esistenza
del
danno. Solo ove sia dedotta la
lesione della reputazione commerciale – a causa
dell’illegittimità del fatto
(nella specie del surricordato orientamento: il
protesto) –
quest’ultima costituisce
semplice indizio dell’esistenza del danno alla
reputazione, da
valutare nel contesto di tutti
gli altri elementi della situazione in cui si inserisce.
Si è, pertanto concluso che
allorché il fatto illecito sia stato causa di discredito
sia
personale che commerciale, il
danno è in re ipsa quanto alla lesione della
reputazione
personale e dovrà essere
risarcito senza che incomba al danneggiato l’onere di
fornire la
prova dell’esistenza del danno;
del caso in cui, invece, sia dedotta la lesione della
reputazione commerciale
quest’ultima costituisce semplice indizio dell’esistenza
del
danno alla reputazione, da
valutare nel contesto di tutti gli altri elementi della
situazione
in cui si inerisce.
4.2. Ritiene questa Corte che
quest’ultimo orientamento vada condiviso solo in parte,
dovendosi effettuare un adeguato
coordinamento con i principi in precedenza esposti.
Anzitutto, come sopra detto,
la sola falsità della comunicazione,
effettuata da un terzo
al datore di lavoro, di
comportamenti negativi relativi al lavoratore, non
integra ancora
danno
per quest’ultimo (sia alla reputazione personale o a
quella professionale).
Pagina 36 di
51
La prova della falsità dello
scritto costituisce, quindi, solo la prova del fatto
altrui
potenzialmente generatore di un
danno ingiusto.
Occorre provare che da detto
fatto sia appunto conseguito l’evento della lesione
della
reputazione personale o di
quella professionale (o commerciale o lavorativa) del
lavoratore dipendente: e detta
prova grava su quest’ultimo, secondo i principi di cui
all’articolo 2043 Cc.
5.
Provata la lesione della reputazione professionale del
lavoratore, poiché il danno
risarcibile a norma
dell’articolo 2043 Cc è il danno-conseguenza
patrimoniale,
occorrerà provare che detta
lesione abbia cagionato al lavoratore una perdita
patrimoniale, senza la quale il
risarcimento manca di oggetto.
Solo la prova dell’esistenza di
detta perdita patrimoniale (che certamente può essere
data anche attraverso
presunzioni, con le caratteristiche codicistiche di cui
all’articolo
2729 Cc) integra la prova
dell’esistenza di un danno risarcibile da lesione della
reputazione professionale.
6.1. Diverso è il discorso nel
caso in cui il fatto illegittimo abbia dato luogo ad una
lesione della reputazione
personale (intesa come reputazione che il
soggetto gode come
persona umana, tra gli altri
consociati; altrimenti detta, più impropriamente, onore
o
prestigio).
Anche in questo caso andrà
provato l’evento dannoso della detta lesione.
6.2. Sennonché, ai fini della
risarcibilità secondo le regole ordinarie dei pregiudizi
recati
ai diritti della persona, deve
anche tenersi presente quanto affermato dalla Corte
costituzionale con la sentenza
184/86, che ha dichiarato infondata la questione di
costituzionalità dell’articolo
2059 Cc, nella parte in cui prevederebbe la
risarcibilità del
danno per lesione del diritto
alla salute solo quando sia conseguenza di un reato. La
Corte costituzionale ha infatti
affermato che l’articolo 2059 riguarda soltanto i danni
non patrimoniali soggettivi,
mentre il pregiudizio obiettivo ai diritti che rientrano
nei
fondamentali attributi della
personalità umana, come il decoro, il prestigio, la
dignità e
la salute, deve trovare
indefettibilmente ristoro, in applicazione dell’articolo
2043 Cc, al
di là dei limiti previsti per il
risarcimento dei danni non patrimoniali derivanti da
reati.
La più recente dottrina e lo
stesso orientamento giurisprudenziale ritengono che
esista
un vero e proprio diritto alla
reputazione personale anche al di fuori delle ipotesi
espressamente previste dalla
legge ordinaria, che va inquadrato nel sistema di tutela
costituzionale della persona
umana, traendo nella Costituzione il suo fondamento
normativo, in particolare
nell’articolo 2 e nel riconoscimento dei diritti
inviolabili della
persona (in questo senso anche
Corte costituzionale 479/87, secondo cui «l’articolo 2
Costituzione sancisce il valore
assoluto della persona umana»).
In tale contesto si inserisce
certamente la disciplina degli ambiti di tutela della
reputazione del soggetto, come
persona, che sebbene non trovi espressa menzione nelle
disposizioni costituzionali,
tuttavia si ricava dai principi di cui all’articolo 2
Costituzione (oltre che
dall’articolo 3, che fa riferimento alla dignità
sociale).
6.3. Infatti, superata ormai da
anni la questione relativa alla funzione precettiva e
non
programmatica dell’articolo 2
Costituzione, con conseguente affermazione della
rilevanza costituzionale della
persona umana, in tutti i suoi aspetti, questa norma
comporta che l’interprete, nella
ricerca degli spazi di tutela della persona, è
legittimato a
costruire tutte le posizioni
soggettive idonee a dare garanzia, sul terreno
dell’ordinamento positivo, ad
ogni proiezione della persona nella realtà sociale,
entro i
limiti in cui codesto risultato
si ponga come conseguenza della tutela dei diritti
inviolabili dell’uomo, sia come
singolo sia nelle formazioni sociali nelle quali si
esplica
la sua personalità.
Pagina 37 di
51
L’espresso riferimento alla
persona come singolo (articolo 2 Costituzione)
rappresenta
certamente valido fondamento
normativo per dare consistenza di diritto soggettivo
alla
reputazione del soggetto, con
conseguente sua tutela da parte dell’ordinamento.
La considerazione del diritto
alla reputazione quale diritto della personalità
consente nel
contempo di individuare il
correlativo fondamento giuridico, ancorandolo
direttamente
nell’articolo 2 Costituzione:
inteso quale precetto nella sua più ampia dimensione di
clausola generale, «aperta»
all’evoluzione dell’ordinamento e suscettibile, per ciò
appunto, di apprestare copertura
costituzionale ai nuovi valori emergenti della
personalità, in correlazione
anche all’obiettivo primario di tutela «del pieno
sviluppo
della persona umana», di cui al
successivo articolo 3 Cpv (implicitamente su questo
punto Corte costituzionale
13/1994).
Quest’ultima puntualizzazione,
che presuppone l’adesione ad una concezione
«monistica» dei diritti della
personalità (in questo senso v. Cassazione 978/96;
5658/98), aiuta a definire,
senza perplessità, in termini di diritto soggettivo
perfetto, la
struttura della situazione
soggettiva considerata.
7.1. Nell’ambito di questa
concezione «monistica» dei diritti della personalità
umana,
con fondamento costituzionale,
il diritto all’immagine, al nome, all’onore, alla
reputazione, alla riservatezza
non sono che singoli aspetti della rilevanza
costituzionale
che la persona, nella sua
unitarietà, ha acquistato nel sistema della
Costituzione.
Trattasi quindi di diritti
omogenei, essendo unico il titolare ed il bene protetto.
7.2. La reputazione si
identifica con il senso della dignità personale in
conformità
all’opinione del gruppo sociale,
secondo il particolare contesto storico (Cassazione
pen.,
Sez. V, 3247/95). Essa va
valutata in abstracto, cioè con riferimento al
contenuto della
reputazione, quale si è formata
nella comune coscienza sociale di un determinato
momento e non quam suis,
e cioè alla considerazione che ciascuno ha della sua
reputazione («amor proprio»).
7.3. Sennonché una volta provata
detta lesione, il danno è in re ipsa, in quanto
si
realizza una perdita di tipo
analogo a quello indicato dall’articolo 1223 Cc,
costituita
dalla diminuzione o dalla
privazione di un valore (per quanto non patrimoniale)
alla
quale il risarcimento deve
essere commisurato, come osserva la Corte costituzionale
372/94, sia pure in tema di
danno biologico.
Ciò, pur costituendo un più
esatto inquadramento dogmatico degli schemi operativi
del
risarcimento del danno, ai sensi
dell’articolo 2043 Cc, di valori assoluti della persona
umana, in quanto tale, poiché
non viene risarcito il fatto di lesione in sé (cioè,
l’evento)
ma la riduzione (o la perdita)
di tale valore, che l’evento lesivo ha prodotto, non
contraddice il principio che
detto danno è in re ipsa.
7.4. Infatti con detta formula
non si intende dire che viene risarcita la lesione in sé
e non
la perdita o diminuzione del
valore leso, secondo gli schemi operativi della
conseguenzialità giuridica, che,
fissati dall’articolo 1223 Cc, sono applicabili anche in
tema di responsabilità
aquiliana, giusto il rinvio a detta norma operato
dall’articolo 2056
Cc.
Si intende solo dire che provata
la lesione della reputazione personale, ciò comporta la
prova anche della riduzione o
della perdita del relativo valore. In altri termini non
si
contesta la distinzione
ontologica tra lesione del valore e conseguenziale
perdita o
diminuzione della stessa, ma si
assume solo che provata la prima risulta provata anche
la seconda.
Trattasi, cioè di una formula
sintetica, per quanto dogmaticamente probabilmente
inesatta, molto simile a quella
che, soprattutto in passato, si è adottata in materia
penale
in tema di dolus in re ipsa
per alcune specie di reato (soprattutto in tema di
falso). Per
Pagina 38 di
51
quanto anche lì l’espressione
non fosse dogmaticamente esatta e fu sotto questo
profilo
oggetto di accese critiche, non
si voleva con essa significare che l’elemento soggettivo
doloso scomparisse nella sola
esistenza del fatto cosciente e volontario, ma che,
provato
questo, risultava provato anche
il dolo, pur rimanendo lo stesso ontologicamente
differente, giusto quanto
previsto dall’articolo 43 Cp, dalla mera coscienza e
volontarietà del fatto.
8.1. La conseguenza di quanto
sopra detto è che per effetto della falsa comunicazione
al
datore di lavoro da parte di un
terzo di notizie negative attinenti al lavoratore può
verificarsi sia una lesione alla
reputazione professionale del lavoratore, dalla quale
può
conseguire un danno patrimoniale
(oggetto di risarcimento), sia una lesione alla
reputazione del lavoratore quale
persona, dalla quale consegue automaticamente la
perdita o la riduzione di un
valore della persona umana, che dà diritto al
risarcimento
del danno.
8.2. Da quanto sopra derivano
ulteriori conseguenze.
Anzitutto varia l’estensione
degli oneri probatori, a seconda che si versi in ipotesi
di
lesione di reputazione personale
o di reputazione professionale.
In entrambi i casi, come detto
al punto 3, non è sufficiente la prova del «fatto
altrui»
(dichiarazione non veritiera o
offensiva) per ritenersi provato anche l’evento. Infatti
una
cosa è la condotta del
danneggiante ed altra è l’evento lesivo subito dal
danneggiato.
Inoltre, se il danno di cui si
chiede il risarcimento, ha natura patrimoniale
(dannoconseguenza),
il danneggiante deve anche
provare il pregiudizio economico
conseguente alla lesione della
reputazione.
8.3. Soprattutto, per quanto
interessa ai fini del presente motivo di ricorso, il
soggetto
danneggiato, con la sua domanda
giudiziale, può richiedere sia il risarcimento per il
danno da lesione della
reputazione professionale, sia quello da lesione della
reputazione
personale, sia entrambi.
8.4. Quanto al risarcimento del
danno da perdita o diminuzione della reputazione
professionale, trattandosi di
tipico danno patrimoniale-conseguenza, l’esistenza di
esso
andrà valutata dal giudice con
espresso riferimento ai singoli pregiudizi economici che
l’attore danneggiato assume aver
subito per effetto dell’evento lesivo.
9.
Nella fattispecie, la sentenza impugnata, dopo aver
premesso (pag. 3) che l’attore
assumeva che a seguito della non
veritiera comunicazione era stato «messo a
disposizione» dal suo datore di
lavoro, ritiene (pag. 4) che il Cancani «non ha offerto
la
prova dei danni lamentati non
potendosi in alcun modo desumere dalla documentazione
prodotta che egli abbia, a causa
delle comunicazioni anzidette, subito le conseguenze
che assume di aver patito».
Osserva, infatti, la Corte di merito che il procedimento
disciplinare nei suoi confronti
risale al giugno 1986, mentre gli scritti del
Pagliarini,
oggetto di causa sono successivi
(dicembre 1987 e maggio 1988):
In altri termini il giudice di
appello ha ritenuto che la domanda risarcitoria fosse
stata
proposta solo con riferimento ai
pregiudizi economici subiti dall’attore nel suo rapporto
di lavoro, pregiudizi
espressamente indicati.
Da ciò consegue che la sentenza
impugnata, avendo ristretto la sua decisione agli
specifici pregiudizi
conseguenziali (danno risarcibile) assunti dall’attore,
nell’ambito
dei rapporti di lavoro, ha
ritenuto che la domanda fosse limitata al solo
risarcimento dei
danni economici, conseguenti
alla lesione della reputazione professionale, poiché
solo
questi erano stati prospettati
con la domanda.
Pagina 39 di
51
10.1. L’interpretazione della
domanda, come è noto, compete al giudice di merito, come
l’interpretazione dell’atto di
appello (Cassazione 5829/95) e non è censurabile in
Cassazione se adeguatamente
motivata.
Ne consegue che, nella
fattispecie solo dopo aver rilevato l’erroneità di detta
interpretazione riduttiva della
domanda, poteva farsi valere il vizio dell’omessa
pronuncia, ai sensi
dell’articolo 112 Cpc, relativamente a quelle richieste,
che, pur
avanzate nell’atto introduttivo,
ove correttamente interpretato, non erano state oggetto
di
pronuncia da parte del giudice.
Sennonché nell’atto di citazione
il ricorrente lamenta che, per effetto delle
comunicazioni effettuate dal
convenuto all’Acea, quest’ultima l’aveva privato delle
funzioni fino a quel momento
espletate ed, al di fuori di questo evento dannoso, non
ne
indica altri. Infatti egli ha
notificato l’atto di citazione anche all’Acea, perché
mettesse a
disposizione del giudice
istruttore queste comunicazioni, di cui ignorava il
contenuto
(per cui l’unico pregiudizio che
egli aveva potuto constatare era quello relativo alla
sua
attività professionale, e cioè
alla privazione delle funzioni fino ad allora
espletate).
Ne consegue che non appare
viziata l’interpretazione della sentenza impugnata che
ha
ritenuto che la domanda di
risarcimento attenesse ai soli danni relativi alla
reputazione
professionale dell’attore. Lo
stesso ricorrente non indica quali fossero i vizi di
interpretazione dell’atto
introduttivo in cui era incorso il giudice di merito.
10.2. Peraltro i ricorrenti
lamentano nel primo motivo la violazione dell’articolo
112
Cpc, ma l’oggetto di tale
assunta omessa pronuncia attiene all’omessa decisione
sull’accertamento
dell’antigiuridicità del comportamento del Pagliarini.
Sennonché, a parte il rilievo
relativo a quanto detto in tema di potere del giudice di
merito nell’interpretazione
dell’atto introduttivo del giudizio con solo riferimento
ai
danni da lesione della
reputazione professionale, in ogni caso nella struttura
dell’azione
ex articolo 2043 Cc non era
autonomamente rilevante che fosse da qualificare
antigiuridico il fatto in sé del
Pagliarini, ma era anche necessario che da detto fatto
si
fosse realizzato un danno,
consistente o nella lesione della reputazione personale
o nei
pregiudizi economici conseguenti
alla lesione della reputazione professionale (la cui
prova gravava sull’attore
danneggiato).
Avendo il giudice di merito
ritenuto non provato il danno lamentato, correttamente
si è
limitato a rigettare la domanda,
non emettendo alcuna specifica pronuncia sul punto se il
comportamento del Pagliarini
fosse, in ogni caso, antigiuridico, non avendo tale
elemento una specifica autonomia
nella struttura normativa dell’articolo 2043 Cc, tale
da giustificare una pronuncia
sullo stesso, pur in assenza di un (provato) danno.
Infatti l’ingiustizia, cui fa
riferimento detta norma, è esclusivamente quella che
connota
il danno («danno ingiusto») e
non il fatto generatore dello stesso.
Se il danno ingiusto manca (id
est: non è provato), è irrilevante che il fatto
dell’agente
possa essere in sé
antigiuridico.
11.
Infondata è anche la censura, secondo cui erroneamente
il giudice di appello non
avrebbe provveduto alla
liquidazione equitativa del danno.
Infatti le problematiche
relative alla forma di liquidazione equitativa del
danno, ai sensi
degli articoli 2056 e 1226 Cc,
presuppongono che sia fornita la prova certa che un
danno si sia verificato e che
siano forniti gli elementi ed i dati di fatto sui quali
il
giudice possa fondare il proprio
apprezzamento atto a colmare le ineliminabili lacune
probatorie derivanti dalla
natura della fattispecie (ciò vale in particolare per i
danni ai
diritti assoluti ed inalienabili
della persona umana), mentre se ne deve escludere la
possibilità allorché quella
prova manchi.
Pagina 40 di
51
Nella fattispecie, avendo il
giudice di appello ritenuto che non fosse stata provata
l’esistenza del danno assunto,
correttamente non ha provveduto ad alcuna liquidazione,
neppure equitativa, del danno.
12.
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
Esistono giusti motivi per
compensare per intero tra le parti le spese di questo
giudizio
di legittimità.
PQM
rigetta il ricorso. Compensa tra
le parti le spese di questo giudizio di legittimità.
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51
Allegato 2
L’ultima questione di legittimità costituzionale
dell’art. 2059 c.c.
R E P U B B L I C A I T A L I A N A
IL TRIBUNALE DI ROMA
- Sez. XIII Civile -
in persona del giudice unico,
dott. Marco Rossetti, ha pronunciato la seguente
O R D I N A N Z A
nella causa civile in primo
grado iscritta al n° 30772/98 del R.G.A.C.,
trattenuta in
decisione all'udienza del
14.1.2002, vertente
tra
- Luciano Manetti, Tiziana
Manetti, Grazia Scolamacchia, Vito Scolamacchia,
Giuseppina Floris,
elettivamente domiciliati in Roma, p.za Mazzini 27,
presso l'Avv.
Pierpaolo De Angelis e Per
Francesco Sica che li rappresenta e difende per procura
apposta in margine all’atto di
citazione;
- attori -;
e
-) Daniela Ingretolli,
elettivamente domiciliata in Roma, v.le Angelico 193,
presso
l'Avv. Maria Cristina Manni che
la rappresenta e difende per procura apposta in
margine alla comparsa di
risposta;
- convenuta -;
nonché
-) Assitalia s.p.a. , in
persona del legale rappresentante pro tempore,
elettivamente
domiciliata in Roma, v.le delle
Medaglie d'Oro 199, presso l'Avv. Alessandro Italo
Masucci e Maria Masucci che la
rappresentano e difendono per procura apposta in calce
alla copia notificata dell’atto
di citazione;
- convenuta -;
nonché
-) Aurora Assicurazioni
s.p.a. , in persona del legale rappresentante pro
tempore,
elettivamente domiciliata in
Roma, v. Nomentana 231, presso l'Avv. Carlo Magaldi che
la rappresenta e difende per
procura apposta in calce alla copia notificata dell’atto
di
citazione;
- chiamato in causa -;
nonché
-) Catia Ingretolli,
elettivamente domiciliata in Roma, v.le Angelico 193,
presso l'Avv.
Maria Cristina Manni che la
rappresenta e difende per procura apposta in margine
alla
comparsa di intervento;
- intervenuta -;
nonché
-) Mauro Mastrofini, Mario
Mastrofini, Giuliana Ciuffa, Alberto Ciuffa,
elettivamente domiciliati in
Roma, p.za Verbano 8, presso l'Avv. Antonio Paparatti
che
li rappresenta e difende per
procura apposta in margine alla comparsa di intervento;
- intervenuti -;
nonché
-) Alessandro Ingretolli,
elettivamente domiciliato in Roma, v. A. Genovesi 29,
presso
l'Avv. Armando Tatafiore che lo
rappresenta e difende per procura apposta in margine
alla comparsa di costituzione in
prosecuzione;
- intervenuto -.
***
Pagina 42 di
51
1. Fatto.
Nella tarda serata dell’11
maggio 1997, all’altezza del km 3+900 della via
Maremmana
III, si verificava uno scontro
frontale tra due autoveicoli: una Alfa 33, assicurata
per la
r.c.a. dalla Siad s.p.a., ed una
Fiat Uno, assicurata per la r.c.a. dalla Assitalia
s.p.a..
In conseguenza del violentissimo
urto, perdevano la vita quattro persone.
Gli eredi di una di esse (il
conducente dell’Alfa 33) convenivano in giudizio il
proprietario e l’assicuratore
del veicolo Fiat Uno, il cui conducente veniva indicato
come unico responsabile del
sinistro.
Il proprietario della Fiat Uno
si costituiva e, oltre chiedere il rigetto della domanda
attorea, allegava che la
responsabilità dell’evento andava ascritta al congiunto
degli
attori, dei quali chiedeva in
via riconvenzionale la condanna al risarcimento dei
danni
patiti in conseguenza della
morte della propria madre, che al momento del fatto si
trovava alla guida della Fiat
Uno.
Nel giudizio intervenivano anche
gli eredi delle altre persone decedute nel tragico
scontro, ciascuno chiedendo la
condanna “di chi di dovere” al risarcimento dei danni
rispettivamente patiti.
Nel giudizio interveniva,
altresì, una persona trasportata sul veicolo Fiat Uno al
momento del sinistro, la quale
chiedeva anch’essa nei confronti “di chi di dovere” il
risarcimento del danno
biologico, patrimoniale e morale subito in conseguenza
del
sinistro.
In esito all’istruzione, dopo
avere trattenuto la causa in decisione, questo Tribunale
ritiene che nessuna delle parti
sia riuscita a superare la presunzione posta a carico di
ciascuno dei conducenti
dall’art. 2054, comma secondo, c.c.. Ciascuno dei
conducenti,
pertanto si dovrebbe presumere
corresponsabile del sinistro, nella misura del 50%.
Di conseguenza, essendo stata la
responsabilità accertata non in base alla ricostruzione
obiettiva del fatto, ma in base
ad una presunzione, dovrebbero essere rigettate tutte le
domande di risarcimento del
danno morale.
L’art. 2059 c.c., infatti,
consente il risarcimento del danno non patrimoniale solo
nei
casi previsti dalla legge, tra i
quali rientra in primis l’ipotesi di commissione
di un reato,
l’unica che nel caso di specie
potrebbe legittimare il risarcimento del danno suddetto.
E’ noto tuttavia che, per
“diritto vivente”, si ritiene che il danno non
patrimoniale
derivante da fatto illecito
astrattamente costituente reato non possa essere
liquidato,
quando la responsabilità
dell’autore sia stata accertata in base ad una
presunzione, e non
in base all’oggettiva
ricostruzione del fatto.
Questo Tribunale, nondimeno,
ritiene che il suddetto art. 2059 c.c. non sia conforme
a
Costituzione, ed intende
pertanto sollevare incidente di costituzionalità, nei
termini che
seguono.
2. Sulla rilevanza della
questione.
Nel caso di specie, il
collegamento giuridico, e non di mero fatto, tra la
regiudicanda e
la norma della cui
costituzionalità si dubita, appare in re ipsa.
Infatti, ove si ritenesse l’art.
2059 c.c. conforme a Costituzione, tutte le domande di
risarcimento del danno morale,
formulate nel presente giudizio, andrebbero rigettate.
Danno che, nel caso di perdita
del congiunto per fatto illecito altrui, costituisce di
norma
l’aliquota principale (se non
unica) dell’intera aestimatio.
Ove, per contro, si ritenesse
l’art. 2059 c.c. in contrasto con la Costituzione, le
suddette
domande dovranno essere accolte.
3. Sulla non manifesta
infondatezza.
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51
Per ritenere conforme a
Costituzione l’art. 2059 c.c. occorrerebbe affermare che
la
limitata risarcibilità del danno
morale non violi alcun precetto costituzionale.
Questo assunto, nell’attuale
congerie economico-sociale, non sembra possa essere più
condiviso, per due motivi:
(a) perché lede un diritto
fondamentale dell’individuo, come quello alla serenità
morale,
e talora produce disparità di
trattamento inique ed ingiustificate, violando gli artt.
2 e 3
cost., quest’ultimo sotto il
profilo della uguaglianza;
(b) perché talaltra produce -
per effetto degli orientamenti giurisprudenziali che si
sono
venuti consolidando negli ultimi
anni, sino a divenire “diritto vivente” - ingiustificate
duplicazioni risarcitorie,
violando l’art. 3 cost. sotto il profilo della
ragionevolezza
(rispetto al tertium
comparationis rappresentato dall’art. 2043 c.c.).
Questi due profili saranno
esaminati partitamente.
3.1. Violazione dell’art. 2, e
dell’art. 3 cost. sotto il profilo dell’uguaglianza.
Per circa 2100 anni non si è mai
dubitato che il pregiudizio morale causato dal fatto
illecito altrui potesse
costituire fonte di una obbligazione civile, della quale
l’offeso era
creditore, e l’offensore
debitore. Talora l’oggetto di tale obbligazione era
concepito
come una sanzione, ma restava
comunque una “sanzione” ben strana, in quanto versata
non allo Stato, ma all’offeso od
ai suoi congiunti. E basterà richiamare, al riguardo,
Ulpiano, secondo cui utraque
actio concurrit et legis Aquiliae et iniuriarum, sed
duales
erunt aestimationes, alia damni, alia contumeliae
(Dig. 9, 2, 23, 9); o Paolo, secondo
cui qui servum alienum
iniuriose verberat, ex uno facto incidit et in Aquiliam,
et in
actionem iniuriarum. Iniuriam enim ex affectu sit;
damnum, ex culpa
(Dig. 44, 7, 33,
pr.).
Princìpi non infirmati da Dig.
9, 3, 1, 5 (Ulpiano), secondo cui in homine libero,
nulla
corporis aestimatio fieri potest.
Quest’ultimo principio, citato spesso a sproposito, va
infatti rettamente inteso non
già nel senso che il danno (morale) da lesione della
salute
fosse nel diritto romano
irrisarcibile, ma piuttosto nel senso che la persona
lesa
dall’altrui illecito, se non
avesse subìto o dimostrato alcuna perdita patrimoniale,
non
poteva ricorrere all’actio
utilis legis Aquiliae (nella cui formula era
necessario inserire
la aestimatio rei), ma
poteva pur sempre contare sul pagamento della somma
richiesta o
statuita dal pretore per l’iniuria.
Tali principi, tenuti fermi da
Glossatori e Commentatori, vennero ripresi e ribaditi
dai
giusnaturalisti: Grozio, ad
esempio, definì espressamente il danno come omnem
laesionem, corruptionem, diminutionem aut sublationem
eius quod nostrum est, aut
interceptionem eius quod ex jure perfecto debeamus
habere, sive id datum sit a natura
sive accidente facto humano aut lege attributum, sive
denique omissionem aut
degenerationem alicuius praestationis quam nobis alter
ex obligatione perfecta
exhibere teneatur
(De iure belli ac pacis, II, 17, 1), non
limitandone in alcun modo la
risarcibilità alle sole ipotesi
di reato.
Ed anche altri giuristi del
Seicento e del Settecento non dubitarono mai del fatto
che
tanto i pregiudizi patrimoniali,
quanto quelli morali, potessero e dovessero essere
riparati in denaro, sempre e
comunque, quale che ne fosse l’eziogenesi: così Jean
Louis
Domat, secondo cui toutes les pertes et tous les
domrnages qui peuvent arriver par le
fait de quelque personne, soit imprudence, légéreté,
ignorance de ce qu'on doit savoir,
ou autres fautes semblables, si légères qu'elles
puissent étre, doivent étre réparées par
celui dont l'imprudence ou la faute y a donnez lieu
(Le lois civiles, I, 2, XX); o
Melchiorre Gioia, secondo cui
il soddisfacimento è completo (…) quando somministra
compenso sì per le sensazioni dolorose accompagniate
[sic] da apparenze sensibili, che
per le sensazioni dolorose scevre di esse. In somma,
poiché la parola danno non
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51
inchiude solamente le alterazioni nel sistema visibile
delle cose, ma anche le alterazioni
nel sistema invisibile de' sentimenti, perciò se il
soddisfacimento debb'essere completo,
alle une debbesi estendere e alle altre
(Dell’ingiuria, I, 260).
La complessa e risalente
esperienza giuridica, sopra sommariamente descritta,
venne
recepita nella prima delle
codificazioni moderne, il Code Napoleon del 1805,
il cui
articolo 1382 stabilì che
tout fait quelconque de l’homme, qui cause à autrui un
dommage, oblige celui par le faute duquel il est arrivé
à le réparer.
E quel legislatore,
nell’introdurre tale norma,
volle che essa abbracciasse “nella sua vasta
estensione tutte
le specie di danni, e li sottopone[sse]
ad una riparazione uniforme, la quale ha per
misura il valore del pregiudizio sofferto. Dall’omicidio
fino alla più lieve ferita,
dall’incendio di un edifizio fino alla rottura di uno
spregevole mobile, tutto è sottoposto
alla stessa legge; tutto è dichiarato capace di un
prezzo che indennizzerà la persona
offesa da qualsivoglia danno sofferto”
(così il tribuno Tarrible illustrò all’assemblea, il
19 piovoso (9 febbraio) 1803,
“la legge relativa alle obbligazioni che si formano
senza
convenzione”).
La dottrina formatasi sul
Code napoleon, sin dal XIX sec., non dubitò mai
della piena e
totale risarcibilità dei danni
patrimoniali e di quelli morali: così, ad esempio, il
Laurent,
il quale alla domanda se il
danno morale dà luogo a riparazione pecuniaria,
rispondeva
che “la soluzione affermativa
è ammessa dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Essa si
fonda sulla lettera e sullo spirito della legge: l’art.
1382 parla di “danno” in termini
assoluti, che non comportano alcuna distinzione;
qualsiasi danno deve perciò essere
risarcito, il danno morale come quello materiale”
(Principii di diritto civile, n.
359).
L’art. 1382 Code Napoleon
venne recepito, in forma pressoché identica, nell’art.
1151
del Codice civile italiano del
1865, ed anche la giurisprudenza formatasi su
quest’ultimo
corpus
normativo, fino alla fine del XIX sec., rimase costante
nell’affermare la
risarcibilità assoluta del danno
morale, quale che fosse la natura dell’atto illecito che
l’aveva arrecato: in tal senso,
ex multis, Cass. Palermo 23.2.1895, in Foro it.,
1896, I,
685; App. Torino 20.1.1900,
in Foro it. Rep., 1900, Responsabilità civile,
156; Cass.
Napoli 18.1.1900, Filangieri,
1900, 769; App.
Torino 4.6.1880, in Foro it. Rep. 1880,
Danni penali,
23; Cass. Roma 10.3.1890, in Foro it. Rep., 1890,
Danno, 22; Trib.
Genova 19.2.1900, Mon. trib.
mil., 1900, 556; App. Palermo 16.3.1903, in Foro it.,
1903, I, 944; Trib. Roma
29.5.05, Pal. giust., 1905, 325; Cass. Napoli 23.2.05,
Riv. giur.
sociale, 1905, 214; Trib. Napoli
27.10.1909, Dir. e giur., XXV, 292; Cass. Napoli
11.12.1908, in Giur. it., 1909,
I, 2, 624; App. Palermo 22.3.1910, in Foro sic., 1910,
202; App. Trani 25.6.1910, in
Riv. dir. civ., 1911, II, 240; App. Venezia 20.4.1911,
Foro ven., 1911, 399; App.
Genova 19.4.1913, in Riv. dir. comm., 1913, II, 800;
Trib.
Messina 9.7.1914, Trib. giud.,
1915, 250; App. Trani 30.1.1915, Filangieri 1915, 631;
App. Trani 24.11.1919, in Foro
it. Rep., 1920, Responsabilità civile, 79; App.
Milano
21.1.21, in Riv. dir. comm.,
1921, II, 448; App. Catania 3.4.1925, Foro sic., 1925,
34).
Fu soltanto alla fine dell’ ‘800
che cominciò ad emergere, prima in dottrina, poi in
giurisprudenza, l’idea che
l’art. 1151 c.c. del 1865 consentisse soltanto il
risarcimento
del danno patrimoniale, e mai di
quello morale. Tale idea, allora, veniva giustificata
con
l’assunto secondo cui i danni
morali non sarebbero veri danni: e ciò in quanto “il
diritto
ha (…) per sua natura ad oggetto sempre un oggetto
esteriore e sensibile. Non hanno
questa natura, e non si possono neppure propriamente
dire diritti personali, né
tampoco diritti, od elementi del patrimonio giuridico
personale, gli oggetti dell’offesa e
del danno morale, come p. es. l'onore, la pudicizia.
Essi sono bensì elementi integranti
dell’umana personalità, e intangibili e inviolabili come
questa, ma appunto
l’intangibilità e inviolabilità dell’umana persona non è
per sé medesima un diritto
civile o privato, perché non ha oggetto esteriore
sensibile, non è pretensione di nessun
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51
atto o fatto esteriore determinato, che un'altra persona
determinata debba porre in
essere od evitare. E’ un diritto al certo (…), ma,
perché non si traduce di sua natura e
necessariamente in esteriori determinate prestazioni,
non è un vero elemento del
patrimonio giuridico-privato dell'individuo, neppure
personale. E’ un diritto la cui
tutela è prestata propriamente dal diritto pubblico
penale. Or se i danni morali non
sono veri danni in senso civile, cioè giuridico-privato,
egli è chiaro che già per questo
motivo essi non possono dar fondamento e materia a
risarcimento in senso civile, o
giuridico-privato, cioè pecuniario”
(così lo scritto che può considerarsi il “manifesto”
della nuova tesi della
irrisarcibilità del danno morale, in Foro it., 1896, I,
685; il passo
sopra trascritto è in 701).
Questo nuovo orientamento venne
fatto proprio da parte della giurisprudenza e, dopo
aspri contrasti, definitivamente
consacrato dalla Cassazione di Roma a sezioni unite
(Cass. Roma 27.4.1912, in Giur.
it., 1913, I, 1, 837), e quindi dalla nuova Cassazione
(unica) del Regno (Cass.
20.10.1924, in Giur. it., 1924, I, 1, 952).
La giurisprudenza, nell’aderire
alla tesi che negava la risarcibilità del danno morale,
recepì puntualmente i concetti
elaborati della dottrina e sopra ricordati, aggiungendo
altri motivi: (a) il codice
civile disciplina unicamente i rapporti
giuridico-patrimoniali, e
quindi l’art. 1151 c.c.,
inserito in tale codice, non può concernere i rapporti
morali; (b)
non esistono criteri certi per
la liquidazione del danno morale; (c) il pagamento di
una
somma di denaro all’offeso non
può mai costituire un “risarcimento” in senso tecnico,
in quanto non è possibile che
l’offeso “si conforti nella contemplazione dell’oro del
suo
offensore”.
Questo fu lo “stato delle cose”,
ovvero l’esperienza giuridica concreta, rinvenuto dal
codificatore del 1942. Egli
quindi, allorché introdusse l’art. 2059 dell’attuale
codice
civile, non fece che recepire il
“diritto vivente”. Tale diritto vivente, in base al
combinato disposto degli artt.
1151 c.c. del 1865; e 185 c.p. del 1930, consentiva la
risarcibilità del danno morale
soltanto nel caso in cui l’illecito integrasse gli
estremi di
un reato.
Non era, dunque, affatto vero
quanto si legge nella relazione al c.c., e cioè che la
resistenza della giurisprudenza
alla estensione della risarcibilità dei danni morali “può
considerarsi limpida espressione della nostra coscienza
giuridica”. E non era vero per
tre motivi:
(a) perché la limitazione
suddetta, al momento della promulgazione del codice, si
era
affermata in giurisprudenza da
poco più di vent’anni, mentre in precedenza la tesi
opposta aveva dominato
incontrastata per due millenni;
(b) perché, comunque, si era
affermata dopo asperrimi contrasti;
(c) perché era una tesi sorta
nel chiuso dei gabinetti dove si forma l’opinio
doctorum, e
non nella palpitante dialettica
delle aule giudiziarie: onde, quand’anche si volesse
ammettere il concetto di
“coscienza giuridica”, la tesi della limitata
risarcibilità del
danno morale era stata suggerita
dall’alto, e non scaturita dal Volksgeist.
3.2. Da quanto sinora esposto
emerge che l’art. 2059 c.c., nel limitare ai casi
previsti
dalla legge la risarcibilità del
danno morale, ha recepito una “idea ordinante”, fondata
sull’assunto secondo cui i
diritti della personalità non costituiscono elementi del
patrimonio del titolare, e la
loro lesione non dà perciò luogo a risarcimento.
Ma se davvero questo - come si
spera di avere dimostrato - è il fondamento logico della
norma, ovvero il suo nucleo
primigenio, appare evidente come esso non possa avere
alcuna cittadinanza
nell’ordinamento costituzionale.
I diritti della personalità,
nessuno escluso, sono riconosciuti e tutelati dagli
artt. 2 e 3
cost.. Insostenibile, quindi,
sarebbe oggi la tesi secondo cui “il diritto ha (…)
per sua
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51
natura ad oggetto sempre un oggetto esteriore e
sensibile”, e che quindi “non si
possono (…) propriamente dire diritti personali, né
tampoco diritti, od elementi del
patrimonio giuridico personale, gli oggetti dell’offesa
e del danno morale”.
Ed infatti sia la giurisprudenza
di legittimità, sia quella di merito, sia la migliore
dottrina, da tempo ritengono che
i diritti della personalità costituiscano elemento del
patrimonio dell’individuo, e la
loro lesione dà diritto al risarcimento del danno: così,
ad
esempio, si è ritenuta
risarcibile la lesione dell’integrità personale o della
reputazione,
anche a prescindere dalla
commissione di un fatto reato (ex permultis, per
brevità,
basterà richiamare la
motivazione di Cass., sez. I, 07-02-1996, n. 978, in
Foro it., 1996,
I, 1253).
Orbene, questo tribunale ritiene
impossibile continuare a fingere di ritenere che la
sofferenza morale causata dalla
perdita di un prossimo congiunto non sia tutelata da
alcun precetto costituzionale, e
quindi - non costituendo un diritto della personalità -
non possa essere risarcita se
non nei casi di cui all’art. 2059 c.c..
Nel caso sottoposto all’esame di
questo tribunale, due genitori hanno perso un figlio,
una figlia ha perso la propria
madre, un fratello ha perso la propria sorella. Il
devastante
dolore causato da tali perdite,
secondo l’attuale legislazione, potrebbe essere
risarcito
solo nei casi in cui l’atto
illecito integri gli estremi di un reato, e quindi mai
quando la
responsabilità dell’autore sia
dichiarata in base ad una presunzione di legge.
Si dovrebbe quindi ammettere,
per ritenere conforme a costituzione l’art. 2059 c.c.,
che
le persone sopra indicate non
abbiano subìto alcun vulnus nei propri diritti
della
personalità, o meglio, nel
proprio diritto della personalità, in conseguenza della
perdita
del congiunto.
Ma quanto assurda sia questa
conclusione emerge già soltanto da una considerazione di
fatto, e non giuridica: e cioè
che, come bene scrisse Miguel de Unamuno, “quel che
distingue l’uomo dagli altri animali è che veglia sui
suoi morti”.
Il senso di inconsolata
prostrazione che sorge dalla scomparsa della persona
cara è
talmente fisiologico e
connaturale all’essenza umana, che il mito e l’arte ne
forgiarono
esempi indimenticati: così nel
mito di Antigone, in quello di Castore e Polluce, in
quello
di Orfeo ed Euridice od in
quello di Admeto ed Alcesti; così nel “Lamento”
di Jacopone
da Todi; così nella Pietà
di Michelangelo; così nella Mamma Roma di Pier
Paolo
Pasolini.
La conclusione qui contestata
(la perdita del congiunto non vulnera alcun diritto
della
personalità) non è meno assurda
sul piano più strettamente giuridico.
Secondo l’orientamento
prevalente della dottrina, della giurisprudenza di
legittimità e di
quella costituzionale, l’art. 2
cost. “sancisce il valore assoluto della persona
umana”
(Corte cost. 10.12.1987 n. 479),
ed è norma a contenuto precettivo e non
programmatico.
Di conseguenza, “ogni
proiezione della persona nella realtà sociale, entro i
limiti in cui
codesto risultato si ponga come conseguenza della tutela
dei diritti inviolabili
dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali
nelle quali si esplica la sua
personalità”,
è suscettibile di assurgere al rango di diritto
soggettivo perfetto, con la
conseguente configurabilità di
una tutela risarcitoria in caso di lesione (così Cass.
10.5.2001 n. 6507, §§ 6.2. e 6.3
dei “Motivi della decisione”).
Ebbene, è indubbio che: (a) la
famiglia è una delle formazioni sociali nelle quali
l’individuo esplica la propria
personalità; (b) l’affetto e, più in generale, i vincoli
di
sodalitas
che sorgono dall’esistenza del rapporto parentale,
costituiscono “proiezione
della persona nella realtà sociale”;
(c) ergo, i suddetti vincoli costituiscono, ex
art. 2
cost., oggetto di un diritto
soggettivo perfetto, secondo l’iter logico
seguito dalla S.C.
nella sentenza da ultimo citata.
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La conseguenza è che l’art. 2059
c.c., impedendo la risarcibilità del dolore che
scaturisce dalla lesione dei
suddetti vincoli se non nei casi previsti dalla legge,
viola nel
contempo sia l’art. 2 cost., in
quanto frustra uno dei diritti fondamentali
dell’individuo;
sia l’art. 3 cost., in quanto
ingiustamente differenzia la condizione di chi perde il
congiunto in conseguenza di un
illecito accertato, e chi perde il congiunto in
conseguenza di un illecito
presunto ex art. 2054 c.c. (ovvero in base ad altra
presunzione di legge).
4. Dell’impossibilità di una
lettura dell’art. 2059 c.c. costituzionalmente corretta
(violazione dell’art. 3 cost.
sotto il profilo della ragionevolezza).
Si potrebbe sostenere, e vi è
stato in giurisprudenza chi l’ha fatto, che l’art. 2059
c.c. sia
suscettibile di una lettura
costituzionalmente orientata, in grado di salvarlo dal
dubbio di
illegittimità.
Secondo tale orientamento, la
lesione di un diritto costituzionalmente protetto, anche
in
presenza di una norma come
l’art. 2059 c.c., sarebbe comunque risarcibile in base
al
combinato disposto dell’art.
2043 c.c., e della norma che si assume di volta in volta
violata. Questa ricostruzione è
stata adottata dallo stesso giudice delle leggi, al fine
di
escludere che l’art. 2059 c.c.
precludesse la piena risarcibilità del danno biologico
(Corte cost. 14.7.1986 n. 184).
Nondimeno, questo tribunale
ritiene che la tesi del “combinato disposto” (secondo
cui i
pregiudizi non patrimoniali
sarebbero risarcibili anche se non derivanti da illecito
costituente reato, se lesivi di
diritti costituzionalmente protetti), nel caso di
specie, non
valga a salvare l’art. 2059 c.c.
dai dubbi di legittimità costituzionale, con riferimento
all’art. 3 cost., sotto il
profilo della ragionevolezza, e ciò per tre motivi.
4.1. Il primo motivo è che la
tesi del “combinato disposto”, sopra riassunta, sta e
cade
con l’assunto (postulato, più
che dimostrato) su cui si fonda: e cioè che l’art. 2043
c.c. è
una norma in bianco. Tale norma,
si dice, contiene solo la sanzione (il risarcimento del
danno), mentre il precetto
andrebbe ricercato in altre norme dell’ordinamento, e
prime
fra tutte quelle costituzionali.
Tuttavia l’autorevolezza delle
Sezioni Unite, alla cui opinione questo Tribunale si
uniforma convintamente, ha ormai
abbandonato l’idea secondo cui l’art. 2043 c.c. sia
una norma in bianco.
La Corte di cassazione ha infatti espressamente definito
il danno risarcibile come
“lesione di interesse”, e per
l’esattezza come “la lesione dell'interesse al bene
della vita
al quale l'interesse
[leso], secondo il concreto atteggiarsi del suo
contenuto,
effettivamente si collega”
(Cass., sez. un., 22-07-1999, n. 500, in Giust. civ.,
1999, I,
2261).
Per la Corte, dunque,
costituisce danno risarcibile non soltanto la lesione di
interessi
costituzionalmente protetti, ma
anche quella di qualsiasi interesse “rilevante per
l’ordinamento”, cioè preso in
considerazione da una norma o da un blocco normativo.
Ne consegue che se l’interesse
leso è rilevante per l’ordinamento, esso sarà senz’altro
risarcibile, senza necessità di
ricorrere all’argomentazione costituzionale; se, per
contro,
quell’interesse non è rilevante
per l’ordinamento, esso sarà irrisarcibile per tale
motivo,
e non perché non contemplato
dalla costituzione.
Ebbene, non vi è dubbio che
l’interesse alla propria serenità morale sia preso in
considerazione dall’ordinamento,
come evidenziato da numerosissimi indici normativi:
per tutti, basterà ricordare
l’art. 2087 c.c., il quale impone al datore di lavoro le
misure
necessarie a tutelare la
personalità morale dei prestatori di lavoro; l’art. 342
bis c.c.
(introdotto dalla l. 4.4.2001 n.
154), il quale consente al giudice di adottare “ordini
di
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51
protezione”, quando la condotta
del coniuge è causa di grave pregiudizio all'integrità
fisica o morale dell’altro
coniuge; l’art. 1 l. 27.12.1956 n. 1423, come modificato
dalla
l. 3.8.1988 n. 327, il quale
consente l’adozione di misure di prevenzione nei
confronti di
chi mette in pericolo
l’integrità morale dei minorenni; od ancora i delitti di
cui agli artt.
564 e 565 c.p. (raccolti in un
capo rubricato “dei delitti contro la morale
famigliare”);
ovvero quelli di cui agli artt.
610-613 c.p. (delitti contro la libertà morale).
Se dunque l’interesse alla
propria integrità morale (ricomprendendo in tale
concetto
anche l’interesse a non subire
turbative dell’animo) è preso in considerazione
dall’ordinamento, appare
irrazionalmente discriminatoria la limitazione
risarcitoria di
cui all’art. 2059 c.c., prevista
soltanto per la lesione del suddetto interesse morale.
Tutti
gli altri interessi presi in
considerazione dall’ordinamento, infatti, non sono
soggetti a
limitazioni risarcitorie
analoghe, e sono sempre risarcibili, quale che sia la
condotta
ilelcita per mezzo della quale
vengono violati.
4.2. Il secondo motivo è che la
tesi del “combinato disposto” prova troppo. Essa,
infatti,
perviene ad un risultato
ermeneutico non consentito all’interprete, ma solo al
legislatore:
e cioè l’interpretatio
abrogans dell’art. 2059 c.c..
Si consideri, al riguardo, che
la nostra costituzione è una costituzione “lunga”, e che
l’art. 2 cost. è ritenuto elenco
“aperto”, suscettibile di essere integrato di volta in
volta
con tutti i nuovi diritti che
l’evoluzione sociale dovesse fare emergere.
Ne consegue che, di fatto,
qualsiasi pregiudizio alla serenità morale
dell’individuo
sarebbe in astratto risarcibile
ex art. “x” cost. e 2043 c.c., anche in assenza di una
dimostrata perdita patrimoniale:
così, ad esempio, la perduta possibilità di scrivere
lettere d’amore (ex art. 15
cost. e 2043 c.c.); di andare a passeggio (ex art. 16
cost. e
2043 c.c.); di incontrarsi con
gli amici (ex art. 17 cost. e 2043 c.c.); di scrivere
romanzi
d’appendice (ex art. 21 cost. e 2043 c.c.).
Il che potrebbe anche essere un
risultato auspicabile, ma che di fatto aggirerebbe,
salvis
legis verbis,
il divieto di cui all’art. 2059 c.c., rendendo
quest’ultima norma un guscio
vuoto, una fattispecie priva di
descrizione, posto che in nulla si distinguerebbe il
pregiudizio morale “puro”, da
quello derivante da una lesione di interessi
costituzionalmente protetti.
Si consideri, a questo riguardo,
che la sofferenza causata dalla morte di un prossimo
congiunto, in rerum natura,
è una soltanto, ed a meno di coonestare il contrario con
circonvoluti sofismi, non è
possibile distinguere il pregiudizio derivante dalla
turbativa
dell’animo, dal pregiudizio
derivante dalla lesione del diritto della personalità.
Una è la
persona lesa, una è la fonte
della sofferenza, uno è il pregiudizio da questa patito.
Ne consegue che, se si volesse
sottrarre l’art. 2059 c.c. ai dubbi di legittimità
costituzionale, sostenendo che
la turbativa dell’animo causata dall’altrui illecito
costituisce lesione di un
diritto costituzionalmente protetto, la quale fa sorgere
ipso iure
il diritto al risarcimento del
relativo pregiudizio (in aggiunta al danno morale
propriamente detto), si
perverrebbe al risultato di rendere inoperante lo
sbarramento di
cui all’art. 2059 c.c., in
quanto di qualsiasi pregiudizio morale potrebbe
facilmente
predicarsi la sussumibilità in
questo o quel diritto costituzionalmente protetto. Il
che
vuol dire abrogare, di fatto,
l’art. 2059 c.c..
Così ad esempio, nel caso di
specie, se si ritenesse che la perdita del prossimo
congiunto
costituisca lesione di un
diritto costituzionalmente protetto, di fatto si
risarcirebbe la
sofferenza provata dal
superstite, anche in assenza dell’accertamento di un
reato. Si
perverrebbe, cioè, proprio
all’esito che l’art. 2059 c.c. voleva scongiurare.
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Tuttavia l’obbligo, per il
giudice di merito, di preferire sempre l’interpretazione
conforme a costituzione,
sussiste soltanto là dove la scelta fosse tra due
interpretazioni
che consentissero parimenti alla
norma di produrre effetti.
Ma, per un evidente principio di
corretta ermeneutica, tra una interpretatio abrogans
conforme a costituzione, ed una
interpretatio utilis difforme da costituzione,
l’interprete
deve scegliere necessariamente
la seconda, altrimenti finirebbe per sostituirsi
inammissibilmente non solo al
legislatore, ma anche alla Corte costituzionale. Se,
infatti, fosse possibile al
giudice di merito addivenire ad interpretazioni
sostanzialmente
disapplicative
della norma, come quella qui contestata, questi
finirebbe per esercitare in
proprio il controllo di
costituzionalità, il che gli è vietato dall’art. 134
cost..
E poiché, come si è visto, la
pretesa interpretazione adeguatrice dell’art. 2059 c.c.
conduce alla sostanziale
disapplicazione di esso, tale interpretazione non può
essere
seguita.
4.3. Il terzo motivo,
strettamente connesso al precedente, è che se si
ritenesse il
pregiudizio morale risarcibile
in base al combinato disposto degli artt. 2 cost. (o
altra
norma di rango costituzionale) e
2043 c.c., nei casi in cui il fatto illecito integra
comunque gli estremi di un
reato, si risarcirebbe due volte il medesimo danno.
Così, nel caso di morte del
congiunto causata dall’altrui illecito, ove si ritenesse
che la
rottura del vincolo familiare
costituisca lesione di un diritto costituzionalmente
protetto,
la vittima avrebbe certamente
diritto al risarcimento del danno ingiusto, ex art. 2
cost. e
2043 c.c.. E tuttavia, là dove
l’illecito integrasse pacificamente gli estremi di un
reato, la
medesima vittima potrebbe
legittimamente pretendere anche il risarcimento del
danno
morale. In questo modo un
pregiudizio assolutamente identico (la sofferenza per la
morte del congiunto) verrebbe
risarcito due volte: sia a titolo di lesione di un
diritto
costituzionalmente protetto; sia
a titolo di danno morale.
Il che costituisce un esito
interpretativo non solo in contrasto col generale canone
di
ragionevolezza di cui all’art. 3
cost., ma anche col principio di uguaglianza di cui alla
medesima norma, in quanto
privilegerebbe ingiustificatamente la vittima di un
illecito
accertato, rispetto alla vittima
di un illecito presunto (ad esempio, ex art. 2054 c.c.),
quali sono gli attori e gli
intervenuti nel giudizio a quo.
4.4. Alla soluzione qui
prospettata non sembra potersi obiettare che anche nel
caso di
lesione della salute il medesimo
fatto lesivo fa sorgere il diritto al risarcimento sia
del
danno biologico, sia del danno
morale, e ciò per due motivi.
In primo luogo, perché il danno
biologico, per effetto della promulgazione della l.
57/2001, può ben farsi rientrare
nei “casi previsti dalla legge” di cui all’art. 2059
c.c..
Sicché il cumulo, in questa
ipotesi, sarebbe normativamente previsto.
In secondo luogo, quel che più
rileva, perché nel caso di danno biologico il
pregiudizio
incide su un elemento (la
complessiva validità dell’individuo) concettualmente
distinto
dalla “serenità morale” del
leso. Sicché, sia pure a livello soltanto logico, è
possibile
concepire e valutare
separatamente la ridotta validità biopsichica della
vittima, dalla sua
sofferenza morale.
Per contro, nel caso di perdita
di un prossimo congiunto (come pure nel caso di
qualsiasi
pregiudizio morale causato
dall’altrui illecito), il pregiudizio morale del
superstite non
potrebbe distinguersi in nulla
dal pregiudizio asseritamente derivante dalla lesione
del
diritto costituzionalmente
protetto all’integrità della famiglia. Pretendere di
distinguere
l’uno dall’altro tipo di danno
sarebbe operazione puramente definitoria, che sfocerebbe
in una ingiustificata
duplicazione dei risarcimenti nei casi di illeciti
costituenti reato.
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E neppure varrebbe obiettare
che, nei casi in questione, l’art. 2059 c.c.
conserverebbe
una propria autonomia, in quanto
il risarcimento del danno morale avrebbe la funzione
di sanzionare il responsabile.
Che il danno morale possa avere
una funzione anche sanzionatoria, non vi è dubbio; che
tale funzione possa essere
l’unica, deve radicalmente escludersi: la S.C., infatti,
è
assolutamente costante nel
ritenere che il risarcimento del danno morale deve
essere
liquidato non tenendo conto
della capacità patrimoniale dell’offensore: “è (…)
irrilevante
- osserva la S.C. -, in relazione alla funzione
consolatoria-satisfattiva della
corresponsione di una somma di denaro a titolo di
risarcimento del danno non
patrimoniale conseguente a lesioni personali (…), la
considerazione dello stato di
«bisogno del danneggiato» e, ancor di più, della
«capacità patrimoniale
dell'obbligato», che potrebbe logicamente correlarsi
solo ad una finalità
prevalentemente «punitiva» del risarcimento in relazione
al particolare disvalore
sociale della condotta cui l'evento si ricollega, da
escludersi in caso di lesioni personali
colpose
(Cass. 14-10-1997 n. 10024, in Arch. circolaz., 1998,
149; Cass. 14.2.2000 n.
1633). Con analoga ratio
decidendi, più recentemente, anche Cass. 20.12.2001
n.
16073, in Guida al dir., 2002, fasc. 2, 44, ha escluso
la risarcibilità del danno morale da
morte del congiunto (nella
specie, del coniuge separato), ove l’attore non dimostri
di
avere provato una effettiva e
reale sofferenza. Affermazione, quest’ultima, che si
spiega
soltanto attribuendo al ristoro
del danno morale natura di vero e proprio risarcimento,
poiché la sanzione per un atto
illecito oggettivamente commesso non potrebbe essere
esclusa in base alla mera
circostanza che la vittima non ha provato dolore.
Se dunque il risarcimento del
danno morale non è una sanzione, resta confermato
quanto già esposto in
precedenza, e cioè che il risarcimento di esso non può
affiancarsi,
a pena di inammissibili
duplicazioni risarcitorie, alla liquidazione di pretesi
danni da
lesione di interessi
costituzionalmente protetti, quando questi ultimi in
nulla si
distinguano dai pregiudizi
puramente morali, come appunto nel caso di danno morale
da
perdita del prossimo congiunto.
5. In via subordinata.
Qualora la Corte costituzionale
ritenesse l’art. 2059 c.c. non in contrasto con i
parametri
costituzionali indicati, questo
Tribunale ritiene di dovere sollevare una questione
subordinata di legittimità
costituzionale della norma ora citata, per contrasto con
l’art. 3
cost., là dove non consente la
liquidazione del danno morale nei casi in cui la
responsabilità dell’offensore
sia stata affermata in base ad una presunzione di legge
(ad
es., ex art. 2054 c.c.).
Si è già detto che tale
interpretazione della norma è talmente risalente,
consolidata e
monolitica da costituire diritto
vivente (ex permultis, Cass. 2-10-1998 n. 9794,
in Foro
it. Rep., Responsabilità civile, 315; Cass.
25-9-1998 n. 9598, in Foro it. Rep., 1998,
Danni civili,
137; Cass. 21-4-1998 n. 4030, in Arch. circolaz.,
1998, 774; Cass. 11-3-
1998 n. 2674, in Foro it. Rep.,
1998, Danni civili, 139; Cass. 18-7-1997 n. 6632,
in Foro
it. Rep., 1997, Danni civili,
154; Cass. 27-6-1997 n. 5781, in Foro it. Rep., 1997,
Danni
civili,
153; Cass. 28-8-1995 n. 9045, in Foro it. Rep., 1995,
Danni civili, 159; Cass. 14-
3-1995 n. 2932, in Foro it.
Rep., 1995, Danni civili, 160; Cass. 3-12-1993 n. 11999,
in
Arch. circolaz., 1994, 226, per
citare solo alcune tra le più recenti decisioni).
L’orientamento in esame,
tuttavia, sorse in un’epoca storica in cui, vigendo
l’art. 3
c.p.p. del 1930, e la
conseguente necessità di sospendere obbligatoriamente il
processo
civile nell’attesa della
definizione di quello penale, l’accertamento
dell’illecito in sede
civile era necessariamente
subordinato all’accertamento del fatto reato in sede
penale.
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In quel sistema, pertanto,
giustamente si escludeva la risarcibilità del danno
morale nei
casi di responsabilità presunta:
l’inesistenza del reato, stabilita nell’esercizio della
giurisdizione penale, per la
preminenza logica e giuridica di quest’ultima non poteva
essere contraddetta dagli esiti
del processo civile.
Il rapporto tra il processo
civile e quello penale, tuttavia, è radicalmente mutato
per
effetto dell’introduzione del
nuovo art. 75 c.p.p., il quale consente che l’azione di
risarcimento possa avere un
iter del tutto scisso da quello del procedimento
penale, ed
anzi tollera addirittura esiti
contrastanti tra il giudizio penale e quello civile.
Ciò vuol dire che la vittima,
qualora decida di azionare la propria pretesa
risarcitoria
dinanzi al giudice civile, deve
poter contare sull’intero strumentario probatorio
messole
a disposizione del legislatore;
e quindi anche sulle presunzioni semplici previste dalla
legge.
E tuttavia l’orientamento della
cui legittimità si dubita impedisce alla parte, che
abbia
deciso di promuovere l’azione
risarcitoria dinanzi al giudice civile, di avvalersi di
uno
dei mezzi di prova più tipici e
risalenti del processo civile, cioè la presunzione.
In tal modo, il suddetto
orientamento si pone in contrasto con l’art. 3 cost., in
quanto -
in modo irrazionale rispetto al
dettato dell’art. 75 c.p.p., considerato quale
tertium
comparationis
-, ad onta della conclamata parità delle giurisdizioni,
di fatto disincentiva
il danneggiato che promuova
l’azione risarcitoria dinanzi al giudice civile,
precludendogli il ricorso ai
mezzi di prova previsti dall’ordinamento per il giudizio
civile di risarcimento del
danno.
P.q.m.
il Tribunale, visti gli art. 134
Cost. e 23 l. 87/1953, ritenutane la rilevanza e la non
manifesta infondatezza, solleva
d’ufficio la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 2059 c.c., per
contrasto con gli artt. 2 e 3 cost., nei sensi di cui in
motivazione;
- in via subordinata, solleva
d’ufficio la questione di legittimità costituzionale
dell’art.
2059 c.c., per contrasto con
l’art. 3 cost., nella parte in cui non cosnente la
risarcibilità
del danno morale, là dove la
responsabilità dell’autore dell’illecito sia stata
ritenuta in
base ad una presunzione
semplice;
- sospende il presente giudizio;
- manda alla Cancelleria di
provvedere alla immediata trasmissione degli atti alla
Corte
Costituzionale.
- manda alla Cancelleria di
notificare la presente ordinanza alle parti costituite
ed al
Presidente del Consiglio dei
Ministri;
- manda alla Cancelleria di
comunicare la presente ordinanza ai Presidenti delle due
Camere del Parlamento.
Roma, 11.5.2002.
Il Giudice
(dott. Marco Rossetti) |