Dopo l’approvazione, da
parte del Consiglio dei Ministri, del disegno di
riforma costituzionale della giustizia, è in
atto un ampio ed acceso dibattito sugli effetti
che tale riforma avrà sul processo penale.
In questa sede si ritiene invece opportuno
rappresentare una diversa prospettiva della
questione, e cioè le ricadute del mutamento
della Carta Costituzionale sulle misure di
prevenzione patrimoniali, che oramai
unanimemente vengono considerate come lo
strumento essenziale di lotta alla criminalità
organizzata, attraverso la ablazione, in favore
dello Stato, dei patrimoni accumulati
illecitamente dalle organizzazioni criminali.
A parere degli scriventi, gli effetti delle
modifiche Costituzionali saranno negativi per i
sequestri antimafia, anche per via di ulteriori
proposte di riforma, come l’introduzione del
processo breve nel giudizio di prevenzione,
previsto dal Piano contro le mafie.
Occorre al riguardo precisare che il processo in
prevenzione si svolge - nella fase delle
indagini di polizia - “inaudita altera parte”,
per evidenti motivi di segretezza e quindi di
efficacia del sequestro.
Di conseguenza, dopo il congelamento dei beni è
solo all’interno del processo che si svolge
pienamente quel contraddittorio (fatto di
testimonianze, perizie, acquisizione di
documentazione) che permette all’imputato
colpito dal sequestro di provare la sua
estraneità al sodalizio economico criminale.
Ora, secondo le complessive prospettive di
riforma, da un lato il “Piano contro le mafie”
prevede che il processo di prevenzione deve
durare al massimo due anni e mezzo, pena
l’inefficacia del sequestro; dall’altro la
riforma costituzionale sancisce la non
appellabilità delle sentenze di proscioglimento.
Se quest’ultima previsione, come è ben
possibile, verrà intesa come espressione di un
principio generale, riguardante tutte le
pronunce con effetti sfavorevoli al reo, il
tribunale, entro termini strettissimi, e nella
impossibilità di avere una approfondita visione
generale, dovrà decidere sommariamente (cosa
inammissibile in uno stato di diritto) se
dissequestrare o confiscare.
Conseguentemente, sarà molto probabile che,
salvo che nelle marginali ipotesi di una
istruttoria molto semplice in merito ai
presupposti del sequestro, il giudice si troverà
di fronte ad un bivio che contrasta
irrimediabilmente con il principio del libero
convincimento: dissequestrare in via definitiva
i beni degli imputati, senza avere una piena
prova della loro non pericolosità sociale o
della non riconducibilità dei loro beni al
sodalizio criminoso; o disporre la confisca del
patrimonio, in un processo che evidentemente non
avrà potuto garantire quella pienezza di
contraddittorio a tutela del soggetto colpito
dal sequestro.
Ma in tale ultima scelta, e sempre per effetto
della paventata riforma costituzionale, il
magistrato dovrebbe confrontarsi con un
ulteriore aspetto che nulla ha che vedere con la
serenità di giudizio che deve pervadere la sua
attività giurisdizionale e che avrebbe natura
squisitamente extraprocessuale. Infatti, il
novellato art. 113 Cost. prevederebbe che “i
magistrati sono direttamente responsabili degli
atti compiuti in violazione di diritti al pari
degli altri funzionari e dipendenti dello
Stato”. Sicché, ove la corte di appello
annullasse la confisca sommariamente disposta in
primo grado, per quanto sopra detto, gli stessi
prevenuti potrebbero direttamente citare in
giudizio le persone fisiche componenti il
tribunale per il risarcimento dei danni.
Ma vi è di più.
Il testo costituzionale proposto parla
genericamente di diritti, comprendendo quindi
anche quelli patrimoniali gestiti durante il
sequestro. Ciò significa che, nell’ipotesi di
dissequestro, potranno essere contestati al
giudice, da parte del presunto mafioso, a titolo
di risarcimento danni, anche tutti quegli atti
di straordinaria amministrazione autorizzati dal
giudicante e pregiudizievoli dei diritti
patrimoniali (come il fallimento, la
liquidazione, la vendita di immobili e/o di
parte del patrimonio).
Inoltre i magistrati potrebbero rispondere di
“colpe” non loro. Infatti, nel momento stesso in
cui la Costituzione svincolasse la polizia
giudiziaria dal filtro del pubblico ministero,
tutte le indagini patrimoniali verrebbero
autonomamente svolte dalle forze dell’ordine,
rimanendo il pubblico ministero del tutto
esterno alle verifiche di natura economica,
assumendo quindi il requirente solo una funzione
“notarile” delle altrui indagini. Ma, ove si
verifichi un errore o una negligenza nella
verifica del patrimonio del prevenuto o dei suoi
familiari da parte degli organi di polizia, tali
da provocare in sede dibattimentale il
successivo il dissequestro, il pubblico
ministero che sostiene la accusa nel
procedimento, pur non avendo partecipato o
coordinato le indagini, risponderebbe comunque
di una responsabilità “per fatto altrui”,
circostanza del tutto inammissibile in uno stato
di diritto.
Alla luce di queste osservazioni, e pur
condividendo la necessità di una riforma della
giustizia e di una modifica dell’attuale
assetto, non convince la tesi che il recente
disegno di legge di riforma costituzionale non
inciderebbe sulla intangibilità dei principi
della autonomia ed indipendenza della
magistratura: tali principi sarebbero già lesi
nel momento stesso in cui il magistrato
adottasse le proprie decisioni essendo
influenzato da una possibile azione di
responsabilità nonché da una ristrettezza di
tempi derivanti dalla istituzione del processo
breve, tutto a detrimento del necessario ed
ineludibile approfondimento probatorio,
presupposto per una sentenza equa e che dia
conto integralmente delle posizioni in
contraddittorio.
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