L’intervento del Ministro dell’Economia per
salvare la proprietà italiana di Parmalat
attribuisce un ruolo centrale alla Cassa
Depositi e Prestiti. La Cassa è una istituzione
pubblica poliedrica, oggi chiamata a risolvere
uno dei mali antichi del sistema economico
italiano: un capitalismo senza capitali. Ma la
CDP non è la risposta giusta alle debolezze
della nostra economia.
La possibilità che una società francese possa
acquisire il controllo di una nostra grande
azienda, la Parmalat, ha dato vita a diverse
iniziative legislative da parte del Ministro del
tesoro, volte a cercare di conservarne la
proprietà in mani italiane. L’art. 7 del decreto
31 marzo 2011, n. 34 prevede che la Cassa
Depositi e Prestiti (CDP) possa “assumere
partecipazioni in società di rilevante interesse
nazionale in termini di strategicità del settore
di operatività, di livelli occupazionali, di
entità di fatturato ovvero di ricadute per il
sistema economico-produttivo del Paese”.
L’acquisizione può essere realizzata anche
indirettamente, mediante veicoli societari o
fondi di investimento partecipati, oltre che
dalla CDP, da altre società private e pubbliche.
Con questa disposizione si consente alla CDP di
acquistare partecipazioni rilevanti nella
Parmalat, per contrastare l’avanzata nel
capitale della società francese Lactalis.
La difesa pubblica della proprietà italiana
della Parmalat, in funzione protezionista,
appare una battaglia di retroguardia che
difficilmente porterà benefici al nostro sistema
economico nel lungo periodo, come hanno
sottolineato gli articoli di Barucci e Messori
su questa rivista. Problemi solleva anche la
scelta di utilizzare la Cassa come una carta
“jolly” nella partita della definizione degli
assetti del capitalismo italiano. Secondo molti
commentatori si tratta del ritorno dello Stato
imprenditore, dopo circa venti anni dall’avvio
delle privatizzazioni in Italia: la CDP
rappresenterebbe un nuovo IRI (l’Istituto per la
ricostruzione industriale creato nel 1933).
In realtà, la CDP è una istituzione pubblica
difficile da classificare. Nasce nel 1863,
sulla scorta dell’esempio della Caisse des
dépôts e consignations francese. Alla fine
dell’Ottocento diventa una direzione generale
del Ministero del tesoro, dotata di sola
autonomia contabile. L’oggetto sociale erano
soprattutto prestiti agli enti locali e al
Tesoro, offerti utilizzando il risparmio
postale. Nel 1983 è stata dotata di autonomia
amministrativa e organizzativa. Nel 2003 è
diventata società per azioni, sempre controllata
dal Tesoro. Fino ad allora la CDP era stata
classificata come un ente dell’Amministrazione
centrale. Oggi è inclusa fra le istituzioni
finanziarie monetarie europee. Non è una banca,
anche se dal 2006 paga, come tutte le banche
europee, la riserva obbligatoria, perché non è
iscritta all’albo delle banche; è soggetta, in
parte, alla vigilanza prevista per gli
intermediari finanziari non bancari.
Il possesso di partecipazioni in società
industriali non è un fatto nuovo per la CDP. In
passato, la CDP partecipava al capitale dell’IMI
e del Crediop. Con la trasformazione in spa, lo
Stato ha trasferito alla nuova società quote del
capitale di ENI, ENEL e Poste italiane spa. La
novità è rappresentata dalla possibilità per la
Cassa di acquistare le partecipazioni nelle
imprese considerate strategiche mediante
“utilizzo di risorse provenienti dalla raccolta
postale”. Non si tratterebbe, quindi, di un
“nuovo IRI”, ma di un nuovo “Credito mobiliare”
che, a differenza della “Società Generale di
Credito mobiliare”, fallita nel 1893, sarebbe
di proprietà pubblica. Gli istituti di credito
mobiliare sono stati tra i primi modelli di
banca moderna affermatisi in Europa
nell’Ottocento. Essi effettuavano investimenti
stabili in industrie, attingendo, oltre che al
capitale proprio, alle risorse finanziarie
derivanti da depositi e dalle obbligazioni
emesse, anche al fine di contribuire allo
sviluppo dei mercati mobiliari. L’utilizzo in
questa funzione della CDP appare una risposta a
un problema antico del nostro sistema
finanziario: la scarsità di capitali di rischio.
Le riforme, pur importanti, degli anni novanta,
che hanno disegnato un modello di banca
universale (testo unico bancario del 1993) e
hanno accresciuto la tutela degli investitori e
la trasparenza dei mercati mobiliari (testo
unico della finanza del 1998) non sono riuscite
a cambiare i tratti distintivi del nostro
capitalismo, in particolare la debolezza
relativa dei mercati finanziari. Al pari della
Francia siamo un sistema finanziario “ibrido”,
senza la “haus-bank” tedesca e senza mercati
finanziari spessi, come in Gran Bretagna, ma con
un forte intervento dello Stato. In questo
contesto, dato che i capitalisti privati da soli
non si mobilitano per difendere la proprietà
italiana della Parmalat, si sceglie di far
intervenire la CDP. Con questa soluzione il
Tesoro italiano mostra di voler ripercorrere una
strada del passato. L’acquisto di Parmalat da
parte della CDP rappresenta, insieme alla
proposta dell’istituzione della Banca del Sud,
uno dei tasselli di un disegno di un sistema
bancario “funzionalizzato” per lo sviluppo
dell’economia, per tanti versi simile a quello
degli anni sessanta e settanta del secolo
scorso, basato sul credito speciale a medio e a
lungo termine, spesso affidato a banche
pubbliche. Il ritorno dello Stato-banchiere si è
registrato anche in altri paesi europei; in
questi casi si è trattato di una scelta
obbligata per il salvataggio di istituzioni
finanziarie troppo grandi per fallire.
L’intervento della CDP per sostenere il sistema
industriale italiano non è indispensabile.
L’esperienza degli anni settanta di intermediari
“funzionalizzati” per rispondere a esigenze di
sviluppo ha prodotto distorsioni nella
concorrenza e gestioni inefficienti che hanno
contribuito a indebolire il nostro sistema
economico non a rafforzarlo. Infine, il caso CDP
presenta pericolose ambiguità. Se
quest’istituzione acquista i caratteri tipici di
una banca - per la verità già in parte presenti
- non può essere più sottratta alla
regolamentazione delle banche e alla vigilanza
della Banca d’Italia per questo tipo di
intermediari, soprattutto per ragioni di parità
concorrenziale. |