Ieri l’Organismo Unitario dell’Avvocatura ha rilanciato
la proposta, avanzata dall’Ordine degli Avvocati di
Firenze, di chiedere la disapplicazione da parte dei
giudici della mediazione/conciliazione obbligatoria.
Secondo l’OUA, “il Giudice, su
richiesta di una delle parti, può dichiarare la
procedibilità della domanda, disapplicando
l’art. 5 comma 1 del D.Lgs. n. 28/2010, perché in
contrasto con l’art. 47 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea”.
L’OUA riprende gli argomenti dell’Ordine di Firenze, ed
in particolare:
“La disciplina che introduce l’obbligatorietà della
mediazione … merita, infatti, di essere disapplicata per
contrasto con l’art. 47 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, la cui portata, ai
sensi dell’art. 52, terzo comma, della Carta,
corrisponde a quella dell’art. 6 della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo.
Le norme introdotte dal D.Lgs. sulla conciliazione,
riguardante sia le liti transfrontaliere che quelle
interne, pongono seri problemi di compatibilità con
l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea.
Per alcuni aspetti normativi e per le difficoltà di
attuazione pratica che il predetto decreto legislativo
probabilmente incontrerà, il ‘diritto a un ricorso
effettivo dinanzi a un giudice’ viene limitato in modo
grave e sproporzionato rispetto allo scopo fatto valere
di ridurre il carico di lavoro degli uffici giudiziari.
La nozione di ‘ricorso effettivo dinanzi a un giudice’
riconosciuto dall’articolo 47 della Carta dei diritti
fondamentali, corrisponde (articolo 52/3 della stessa
Carta) a quella elaborata dalla Corte europea dei
diritti dell’uomo (CEDU).
Con giurisprudenza costante dopo la sentenza Golder c.
Regno Unito del 21 febbraio 1975, la CEDU ritiene che il
diritto di effettivo accesso al giudice, pur non
espressamente menzionato all’art. 6 della Convenzione, è
un diritto che deve essere ‘concreto ed effettivo’».
“La Corte di Giustizia ha esaminato per esempio una
fattispecie simile alla obbligatorietà della
mediaconciliazione in merito a un tentativo
obbligatorio di conciliazione extragiudiziale davanti al
Co.re.com, come condizione di procedibilità dei ricorsi
giurisdizionali in talune controversie civili.
Le condizioni per la illegittimità della normativa sono
le seguenti:
- il risultato della procedura di conciliazione non deve
essere vincolante nei confronti delle parti interessate
e non deve incidere sul loro diritto ad un ricorso
giurisdizionale;
- la procedura di conciliazione non deve comportare un
ritardo sostanziale nella proposizione di un ricorso
giurisdizionale. Infatti, il termine per chiudere la
procedura di conciliazione non può superare i trenta
giorni a decorrere dalla presentazione della domanda e,
alla scadenza di tale termine, le parti possono proporre
un ricorso giurisdizionale, anche ove la procedura non
sia stata conclusa;
- la prescrizione dei diritti non va sospesa per il
periodo della procedura di conciliazione;
- i costi derivanti dalla procedura di conciliazione
dinanzi al Co.re.com devono essere inesistenti.”
Posto che, nel caso della mediazione/conciliazione
obbligatoria introdotta in Italia le suddette condizioni
non sono state rispettate … il giudice può dichiarare la
disapplicazione della norma nazionale sulla
mediaconciliazione per contrasto con un principio
generale fondamentale dell’ordinamento europeo.
D’altronde la Corte di Giustizia, nella sentenza della
Grande Sezione del 19 gennaio 2010, nel procedimento
C-555/07, Kucukdeveci contro Sweedex GmbH & Co. KG, ha
statuito che dopo l’entrata in vigore del Trattato di
Lisbona la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea ha lo stesso valore giuridico dei Trattati, nel
senso che al singolo giudice nazionale è concesso il
potere di disapplicazione della legge interna di fronte
alla violazione dei principi di derivazione comunitaria,
e, in particolare, non soltanto nei rapporti tra i
singoli e lo Stato (efficacia diretta verticale), ma
anche nei rapporti tra privati, consentendo a un singolo
di invocare una norma comunitaria nei confronti di un
altro (efficacia diretta orizzontale).
Ciò senza alcuna necessità di sollevare né una questione
di legittimità davanti alla Corte Costituzionale, né una
questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia
UE. La sentenza richiamata, pertanto, attribuisce
direttamente al giudice nazionale il potere di sindacare
la norma legislativa interna in contrasto con un diritto
fondamentale europeo”.
ISTANZA DI DISAPPLICAZIONE
DELL’ART. 5, COMMA 1, DEL D.LG.VO 28/2010
1. Nel presente giudizio, l’attore
non ha esperito il procedimento di mediazione previsto
dall’art. 5 del D. Lgs. 4 marzo 2010, n. 28 , pur
ricorrendone l’obbligo.
Le domande proposte non devono,
tuttavia, essere dichiarate improcedibili perché la
disciplina che introduce l’obbligatorietà della
mediazione merita di essere disapplicata per contrasto
con l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, la cui portata, ai sensi dell’art.
52, terzo comma, della Carta, corrisponde a quella
dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo.
Le norme introdotte dal D.Lgs. n.
28/2010, riguardante sia le liti transfrontaliere che
quelle interne, pongono seri problemi di compatibilità
con l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea. Per alcuni aspetti normativi e per
le difficoltà di attuazione pratica che il predetto
decreto legislativo incontrerà, il “diritto a un ricorso
effettivo dinanzi a un giudice” viene limitato in modo
grave e sproporzionato rispetto allo scopo fatto valere
di ridurre il carico di lavoro degli uffici giudiziari.
2. La Corte di giustizia UE fin
dalla sentenza Johnston,C-22/84 del 15 maggio 1986 ha
tratto dalla tradizione costituzionale comune e dagli
articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, il principio generale del diritto al
controllo giurisdizionale (così anche tra le altre le
sentenze UNECTEF,C-222/86 del 15 ottobre1987; Oleificio
Borrelli,C-97/91 del 3 dicembre 1992 e Mono Car Styling,
C-12/08 del 16 luglio 2009).
La nozione di “ricorso effettivo
dinanzi a un giudice ” riconosciuto dall’articolo 47
della Carta dei diritti fondamentali, corrisponde
(articolo 52/3 della stessa Carta) a quella elaborata
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Con
giurisprudenza costante dopo la sentenza Golder c. Regno
Unito del 21 febbraio 1975, la CEDU ritiene che il
diritto di effettivo accesso al giudice, pur non
espressamente menzionato all’art. 6 della Convenzione,
sia un diritto presupposto rispetto a quelli ivi
elencati e costitutivi del processo equo. In numerose
sentenze tale diritto è stato ritenuto particolarmente
importante nel sistema della Convenzione, poiché si
tratta di una condizione essenziale dello stato di
diritto e della “preminenza del diritto” menzionata nel
Preambolo della Convenzione. E si tratta di un diritto
che deve essere “concreto ed effettivo” e non come la
CEDU spesso si esprime,“teorico e illusorio ”.
A tale diritto possono
legittimamente essere poste limitazioni, a condizione
che però esse rispondano a uno scopo legittimo, siano
proporzionate rispetto allo scopo e non colpiscano il
diritto di accesso al giudice nella sua essenza (tra le
tante, Ashingdane c. Regno Unito del 28 maggio 1985,§
57).
La Corte di Giustizia ha esaminato
una fattispecie simile a quella di cui qui si tratta,
nella sentenza R.A. del 18 marzo 2010, C-317, 318, 319,
320/08 concernente la normativa italiana (art. 84
D.Lgs.1 agosto 2003, n. 259) che prevede un tentativo
obbligatorio di conciliazione extragiudiziale davanti al
Co.re.com, come condizione di procedibilità dei ricorsi
giurisdizionali in talune controversie civili. La Corte
ha affermato che tale normativa non è tale da rendere
praticamente impossibile o eccessivamente difficile
l’esercizio dei diritti conferiti ai singoli dalla
direttiva “servizio universale” (direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio 7 marzo 2002,
2002/22/CE), in quanto:
- il risultato della procedura di
conciliazione non è vincolante nei confronti delle parti
interessate e non incide sul loro diritto ad un ricorso
giurisdizionale;
- la procedura di conciliazione non
comporta, di regola, un ritardo sostanziale nella
proposizione di un ricorso giurisdizionale. Infatti, il
termine per chiudere la procedura di conciliazione è di
trenta giorni a decorrere dalla presentazione della
domanda e, alla scadenza di tale termine, le parti
possono proporre un ricorso giurisdizionale, anche ove
la procedura non sia stata conclusa;
- la prescrizione dei diritti è
sospesa per il periodo della procedura di conciliazione;
- i costi derivanti dalla procedura
di conciliazione dinanzi al Co.re.com sono inesistenti.
Quanto alla compatibilità con gli
articoli 6 e 13 Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, la Corte di Giustizia ha osservato che,
subordinando la ricevibilità dei ricorsi giurisdizionali
proposti in materia di servizi di comunicazioni
elettroniche all’esperimento di un tentativo
obbligatorio di conciliazione, la normativa nazionale
sopra menzionata ha introdotto una tappa supplementare
per l’accesso al giudice e che tale condizione potrebbe
incidere sul principio della tutela giurisdizionale
effettiva.
Tuttavia, secondo una
giurisprudenza costante, i diritti fondamentali non si
configurano come prerogative assolute, ma possono
soggiacere a restrizioni, a condizione che queste
rispondano effettivamente a obiettivi d’interesse
generale e non costituiscano, rispetto allo scopo
perseguito, un intervento sproporzionato e
inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei
diritti così garantiti. Le disposizioni nazionali di cui
trattasi hanno a oggetto una definizione più spedita e
meno onerosa delle controversie in materia di
comunicazioni elettroniche, nonché un decongestionamento
dei tribunali, e perseguono quindi legittimi obiettivi
di interesse generale.
Secondo la Corte di Giustizia,in
considerazione della disciplina specifica della
procedura di risoluzione extragiudiziale considerata,
non sussiste una sproporzione manifesta tra i legittimi
obiettivi perseguiti e gli eventuali inconvenienti
causati dal suo carattere obbligatorio.
I criteri indicati dalla Corte di
giustizia quali condizioni necessarie ad escludere che
l’introduzione di un obbligo di partecipare da una
procedura di conciliazione, quale condizione di
procedibilità della successiva domanda giudiziale, si
ritrovano anche nella Direttiva del Parlamento europeo e
del Consiglio 2008/52/CE relativa a determinati aspetti
della mediazione in materia civile e commerciale. Si
tratta proprio della direttiva richiamata in premessa
del D.Lgs. 4 marzo 2010 n. 28.
3. Alla luce di quanto detto, la
compatibilità del D.Lgs.n.28/2010 con il “diritto al
giudice” riconosciuto dalla Carta dei diritti
fondamentali della Unione Europea e dalla Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, pare sotto diversi
aspetti più che dubbia.
Il D.Lgs. n. 28/2010 all’art. 5
comma 1, introduce l ’obbligo, a pena di improcedibilità
della domanda, di esperire il procedimento di mediazione
prima di esercitare in giudizio un’azione relativa ad un
vastissimo ambito di materie. Non si tratta di una
qualunque procedura amministrativa prodromica alla
introduzione della causa avanti al giudice, ma di
procedura obbligatoria che riguarda controversie già in
atto e precede immediatamente l ’azione giudiziale cui
una parte (normalmente già assistita da un avvocato,
articolo 4 comma 3) ha ormai deliberato di far ricorso.
La procedura di mediazione, se ha successo, si conclude
con un accordo il cui verbale costituisce titolo
esecutivo (articolo 12 comma 2), assimilabile quanto
agli effetti alla sentenza del giudice (a differenza del
caso esaminato e ritenuto compatibile con il diritto di
accesso al giudice dalla Corte di Giustizia dell’Unione
europea nella sentenza sopra ricordata).
Sussiste, dunque, una analogia ed
equivalenza evidente tra la procedura di mediazione e
quella giudiziaria. La prima, tuttavia, non prevede che
la parte sia assistita da avvocato, pur trattandosi di
una procedura “alternativa ” (ADR –Alternative Dispute
Resolution), che, se la mediazione ha successo, conduce
allo stesso risultato di una decisione giudiziaria,
vincolante per le parti. E perfino la dichiarata
irrilevanza nel successivo giudizio di ciò che è
avvenuto nella procedura di mediazione infruttuosa, è
solo parzialmente vera, così come si ricava dalla
disciplina delle spese di giudizio delineata
all’articolo 13.
Le considerazioni che precedono,
inducono ad assimilare la procedura di mediazione
obbligatoria a quella giudiziaria,di cui rappresenta
un’alternativa (quanto a risultato) e una fase
antecedente obbligatoria (quanto a procedura). Ma se
così è, è necessario che le essenziali garanzie
procedurali siano assicurate anche nel procedimento di
mediazione, idoneo a definire la controversia. In
particolare, occorre che alle parti sia assicurato
l’esercizio della “facoltà di farsi consigliare,
difendere e rappresentare ” (articolo 47 comma 2 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione). In caso
diverso il diritto di accesso al giudice dovrebbe essere
reso possibile prevedendo una fase ulteriore giudiziaria
(Corte europea dei diritti dell’uomo, a partire dalla
sentenza Le Compte,Van Leuven e De Meyere c.Belgio,del
23 giugno 1981, §§ 44,51). Ma questa ulteriore
possibilità è esclusa, mentre la procedura di omologa da
parte del presidente del Tribunale (articolo12 comma 1
del D.Lgs.n. 28/2010) non assicura l’accesso al giudice,
perché non corrisponde ai requisiti propri del processo
equo di cui agli articoli 47 della Carta dei diritti
fondamentali e 6 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo e perché, in ogni caso, i limiti del controllo
effettuato escludono che si tratti della decisione di un
giudice di piena giurisdizione.
Né si può sostenere che la natura
delle controversie assoggettate all’obbligo di esperire
il procedimento di mediazione non richieda particolari
garanzie procedurali, in particolare quella derivante
dalla difesa tecnica. Le materie che il legislatore ha
indicato per definire il campo dell’obbligo di esperire
la procedura di mediazione, talora implicano complesse
valutazioni e concernono rilevanti interessi.
Della complessità delle necessarie
valutazioni (per le parti e per il mediatore) è
consapevole lo stesso legislatore, che, infatti, prevede
la possibilità che il mediatore ricorra ad esperti ed
anche la possibilità della nomina di mediatori ausiliari
quando si tratti di controversie che “richiedono
specifiche competenze tecniche ” (articolo 8).
Nel corso della procedura di
mediazione, le parti non assistite da avvocato non sono
certo in grado di consapevolmente determinarsi nei casi
complessi e specialmente in quelli in cui il mediatore
ritiene necessario il contributo dell’esperto (un
significativo esempio può essere quello delle cause in
materia di responsabilità professionale medica, in cui
almeno una delle parti non è esperta della specifica
materia).
Merita di essere segnalato che, a
differenza di ciò che è stabilito per la procedura di
mediazione di cui al D.Lgs.n. 28/2010, nella normale
procedura civile avanti il Conciliatore, la legge
comprensibilmente stabilisce stretti limiti di valore
della causa (euro 516,46), perché la parte possa agire
personalmente (art. 82 Codice di procedura civile). Ed
anche a livello comunitario l’assenza della difesa
tecnica è ammessa restrittivamente. Il Reg.CE 11 luglio
2007 n.861/2007, all’articolo 10 ammette infatti che la
rappresentanza da parte di un avvocato o di altro
professionista del settore legale non sia obbligatoria,
secondo il Procedimento europeo per le controversie di
modesta entità (valore non eccedente euro 2.000), con
esclusione comunque di una serie di materie, tra le
quali si ritrovano alcune di quelle invece indicate
all’art. 5 comma 1, del D.Lgs. n. 28/2010 (come quelle
relative alle successioni, locazioni, diffamazione). E
proprio in tema di “diffamazione a mezzo stampa o altro
mezzo di pubblicità ” è interessante ricordare che la
Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Steel e
Morris c. Regno Unito del 15 febbraio 2005) ha ritenuto
che la natura della controversia civile instaurata
richiedesse, ai fini dell’equità del processo, la difesa
tecnica dei convenuti e che essa fosse loro assicurata
mediante l’ammissione al gratuito patrocinio. Nella
procedura di mediazione di cui si tratta, invece, la
difesa tecnica non trova alcuna menzione.
Gli interessi in gioco in gran
parte delle procedure di mediazione che il D.Lgs. n.
28/2010 rende obbligatorie e nel corso delle quali la
parte dispone del proprio diritto, sono certo molto più
gravi e sensibili di molti di quelli che la legge
ritiene richiedano l’assistenza dell’avvocato nella
procedura davanti al giudice. Senza contare che il
giudice offre alle parti una garanzia maggiore rispetto
al mediatore, il quale è imparziale rispetto agli
interessi delle parti, ma non rispetto all’esito della
mediazione (nell’ipotesi di successo della mediazione le
indennità previste sono aumentate. (articolo 17, comma
4, lett.c).
Ma anche altri aspetti della
disciplina della procedura di mediazione,che il D.Lgs.
n. 28 rende obbligatoria,vanno segnalati perché tali da
rendere inaccettabilmente dispendioso e defatigante il
percorso da compiere prima di poter accedere al giudice.
La procedura non è gratuita (a
differenza di quella considerata dalla Corte di
giustizia UE nella sentenza sopra riportata). I costi
della procedura sono ancora imprecisati (articoli 16 e
17), ma è da credere che non saranno irrilevanti,
specialmente quando il mediatore si avvalga di esperti
(articolo 8 comma 2). La possibilità di accedere al
gratuito patrocinio (articolo 17) non esclude il rilievo
del costo della procedura ai fini della valutazione
della sua compatibilità con il diritto di accesso al
giudice.
Il termine stabilito per lo
svolgimento del procedimento di mediazione è di 4 mesi,
più lungo quindi di quello considerato accettabile nella
sentenza sopra menzionata della Corte di giustizia UE.
A differenza di quanto avviene
nella procedura di cui all’articolo 410 Codice di
procedura civile, l’effetto interruttivo della
prescrizione e della decadenza non è legato al deposito
della istanza di mediazione, ma alla comunicazione alle
altre parti dell’avvenuto deposito. L’effetto, quindi, è
condizionato dalla attività del personale addetto alla
segreteria dell’organismo di mediazione e dalle
prevedibili disfunzioni del servizio. Vero è che la
comunicazione a controparte può essere effettuata anche
a cura della parte istante (articolo 8 comma 1), ma solo
dopo che il responsabile dell’organismo di mediazione
abbia designato il mediatore e fissato la data del primo
incontro tra le parti. L’introduzione della domanda di
mediazione, quindi, non comporta di per sé stessa la
sospensione del decorso dei termini di prescrizione e di
decadenza. Si tratta di un profilo particolarmente grave
perché l’enorme campo di applicazione della nuova
condizione di procedibilità dell’azione –
improvvisamente definito dal legislatore senza alcuna
considerazione dei costi e tempi per la messa in opera
di strutture operative adeguate- rende facile prevedere
che i tempi di azione degli organismi di mediazione non
potranno essere brevi.
In proposito, per il significato
che assume rispetto al tema qui affrontato, va ricordato
che la Corte europea dei diritti dell’uomo, con
riferimento al diritto di accesso al giudice ha ritenuto
la violazione dell’articolo 6 della Convenzione in casi
nei quali la irricevibilità dell’azione dichiarata dal
giudice derivava da un vizio dipendente non dal
ricorrente, ma dal personale dell’amministrazione
pubblica (Platakou c. Grecia dell ’11 gennaio 2001;
Boulougouras c. Grecia del 27 maggio 2004) ed anche nel
caso in cui la procedura amministrativa da seguire
obbligatoriamente si sia rivelata inefficace per mancata
risposta della amministrazione nei termini di legge
(Faimblat c. Romania del 13 gennaio 2009; Maria Atanasiu
c. Romania del 12 ottobre 2010, non definitiva).
I tempi di definizione della
procedura di mediazione saranno sicuramente molto più
lunghi dei quattro mesi considerati dal D.Lgs.n.28.2010
(articolo 6 comma1). Ma in tale disciplina manca la
disciplina espressa delle conseguenze del superamento di
tale termine ed anzi, con interpretazione a contrario
rispetto a quanto stabilito all’articolo 410 bis del
Codice di procedura civile per le controversie in
materia di lavoro, sembra doversi ritenere che, prima di
poter introdurre la domanda avanti il giudice, occorra
comunque attendere il completamento del procedimento di
mediazione.
Conclusione certo incompatibile con
le esigenze proprie dell’art. 6 della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo e dell’art. 47 Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione.
In questo quadro si può aggiungere
che la rilevabilità di ufficio dell’improcedibilità
della domanda (articolo 5 comma 1), anche nel caso della
mancata eccezione da parte del convenuto, conferisce
alla disciplina dell’obbligo di cui si tratta il valore
della imposizione di un balzello irragionevole e di
un’inutile perdita di tempo.
In tal modo emergono evidenti la
sproporzione tra la soluzione adottata e lo scopo
perseguito e, di nuovo, quindi, l’incompatibilità con i
citati articoli della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo e della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione.
4. Per le ragioni indicate,
l’obbligatorietà della mediazione, introdotta dagli
artt.5 e ss. del D.Lgs. n.28/2010, rappresenta
un’interferenza non ragionevole e non proporzionata
rispetto allo scopo perseguito, tale da rendere
eccessivamente difficile ed oneroso l’esercizio del
diritto di accesso al giudice in contrasto con il
diritto fondamentale assicurato dagli artt. 24 Cost., 6
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e 47
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea.
5. Occorre ora argomentare sulla
possibilità che possa effettuarsi la disapplicazione
della norma nazionale per contrasto con un principio
generale fondamentale dell’ordinamento europeo.
La Corte di Giustizia, nella
sentenza della Grande Sezione del 19 gennaio 2010, nel
procedimento C-555/07, Kucukdeveci contro Sweedex GmbH &
Co. KG, ha statuito che dopo l’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona, la Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea ha lo stesso valore giuridico dei
trattati, nel senso che al singolo giudice nazionale è
concesso il potere di disapplicazione della legge
interna di fronte alla violazione dei principi di
derivazione comunitaria, e, in particolare, non soltanto
nei rapporti tra i singoli e lo Stato (efficacia diretta
verticale), ma anche nei rapporti tra privati,
consentendo a un singolo di invocare una norma
comunitaria nei confronti di un altro (efficacia diretta
orizzontale). Ciò senza alcuna necessità di sollevare né
una questione di legittimità davanti alla Corte
Costituzionale, né una questione pregiudiziale dinanzi
alla Corte di Giustizia UE.
La sentenza richiamata, pertanto,
attribuisce direttamente al giudice nazionale il potere
di sindacare la norma legislativa interna in contrasto
con un diritto fondamentale europeo.
Tale principio era già stato
affermato in precedenza dalla giurisprudenza europea. In
particolare, nella sentenza della Grande sezione della
Corte di Giustizia, del 22 novembre 2005, C-144/2004
Mangold, è stato affermato che è compito del giudice
nazionale, investito di una controversia che metta in
discussione un principio generale di derivazione
comunitaria, assicurare, nell’ambito di sua competenza,
la tutela giuridica che il diritto comunitario
attribuisce ai soggetti dell’ordinamento, garantendone
la piena efficacia e disapplicando ogni contraria
disposizione di legge nazionale.
In tal senso, si è pronunciato
anche il Tar Lazio, II Sezione, con la sentenza del 18
maggio 2010, n. 11984, secondo cui:” In seguito
all'adesione dell'Unione Europea alla Convenzione
europea dei diritti dell'uomo, disposta dall'art. 6 del
trattato Ue, come novellato dal Trattato di Lisbona,
entrato in vigore l'1 dicembre 2009, le norme della
Convenzione divengono immediatamente operanti negli
ordinamenti nazionali degli stati membri dell'Unione, e
quindi vengono ora ad operare nell'ordinamento italiano,
in forza del diritto comunitario, ai sensi dell'art. 11
cost., con il conseguente obbligo per il giudice
nazionale di interpretare le norme interne in conformità
al diritto comunitario, ovvero di procedere in via
immediata e diretta alla loro disapplicazione, previa
eventuale pronuncia del giudice comunitario, senza più
dover transitare per il filtro dell'accertamento della
loro incostituzionalità sul piano interno.”
Pertanto, il rispetto del principio
dell’accesso alla giustizia, dopo il Trattato di Lisbona
obbliga il giudice nazionale a riconoscere a tale
principio efficacia immediata nel processo e per il
principio di primazia del diritto comunitario, a
disapplicare la norma interna difforme.
6. Conseguentemente, si richiede
che il Giudice dichiari la procedibilità della domanda,
disapplicando l’art. 5 comma 1 del D.Lgs. n.28/2010,
perché in contrasto con il diritto di cui all’art. 47
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, anche, qualora fosse ritenuto necessario,
previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ai
sensi dell’art. 267 TFUE.
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