1) La vicenda
legislativa dell’azione di classe. I diritti tutelati.
Le parti.
L’azione di
classe (o, secondo la terminologia
nordamericana, “class action”, cioè azione di
una categoria di soggetti o azione collettiva) nei
confronti delle imprese private, è stata disciplinata
per la prima volta in Italia dai commi da 446 a 449
dell’articolo 2 della Legge n° 244 del 2007 (Legge
Finanziaria per il 2008) che introducevano l’art. 140-bis
nel “Codice del consumo”, contenuto nel Decreto
Legislativo n° 206 del 2005, definendola come azione
collettiva risarcitoria a tutela dei diritti e degli
interessi dei consumatori e degli utenti.
Questa prima norma,
chiaramente frutto di un compromesso fra gli interessi
dei consumatori e quelli delle imprese, non è però mai
entrata in vigore in quanto la sua applicabilità ha
subito una serie di rinvii, gli ultimi dei quali
chiaramente dovuti alla volontà del legislatore di
riformarne il testo originario.
Tale riforma è
giunta con l’art. 49 della Legge n° 99 del 2009
(intitolata “Disposizioni per lo sviluppo e
l’internazionalizzazione delle imprese”) che contiene,
al 1° comma, il nuovo testo dell’art. 140-bis
del Dlgs 206/2005 ed, al 2° comma, la previsione che
l’azione di classe disciplinata da questo articolo del
Codice del consumo si applichi soltanto “agli illeciti
compiuti successivamente alla data di entrata in vigore
della presente legge”, cioè della Legge 99/2009, vale a
dire a quelli compiuti dopo il 16 Agosto 2009, dato che
la legge citata è stata pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale n° 176 del 31 Luglio 2009.
Inoltre, è stato
possibile proporre le azioni di classe ai tribunali
competenti solo a partire dal 1° Gennaio 2010 in forza
del rinvio contenuto nella lettera a) del comma
3° dell’art. 23 della successiva Legge n° 102 del 2009
(di conversione del Decreto Legge n° 78 del 2009).
Questa azione,
infine, non è proponibile contro le Pubbliche
Amministrazioni ed i concessionari di servizi pubblici
per agire contro i quali il Governo ha previsto e
disciplinato una particolare azione di classe nel
Decreto Legislativo n° 198 del 2009 attuativo della
riforma “Brunetta” della Pubblica Amministrazione
contenuta nella Legge – Delega n° 15 del 2009 (per la
precisione, tale particolare azione di classe è prevista
dalla lettera l del comma 2° dell’art. 4 di
questa Legge – Delega). Per questa ultima azione, che è
di competenza del Giudice Amministrativo (e non del
Giudice Civile come la class action di cui
all’art. 140-bis del “Codice del consumo”), è
escluso il risarcimento del danno previsto dall’art.
140-bis del Dlgs 206/2005, per cui se il
cittadino vuole ottenere tale risarcimento per la
violazione di un diritto o di un interesse legittimo da
parte di una Amministrazione, deve agire singolarmente e
non collettivamente sempre davanti al Giudice
Amministrativo (il TAR) in forza dell’art. 35 del
Decreto Legislativo n° 80 del 1998 (modificato dalla
Legge n° 205 del 2000) che regola questa materia.
Invece, nel caso di un concessionario di un servizio
pubblico che sia una impresa privata, riteniamo che si
possa agire collettivamente contro di essa in base
all’art. 140-bis citato, il che dovrebbe
rendere praticamente quasi del tutto inutile l’azione di
classe “pubblicistica” verso questi concessionari.
Veniamo ora alla
disciplina dell’azione di classe. Il 1° ed il 2° comma
dell’art. 140-bis del Dlgs 206/2005 riformato
stabiliscono che
l’azione di classe tutela i diritti individuali omogenei dei
consumatori e degli utenti, e
precisamente:
1.
i
diritti contrattuali (cioè quelli che
trovano origine in un contratto stipulato fra un
consumatore od utente ed una impresa) di una pluralità
di consumatori e utenti che versano nei
confronti di una stessa impresa in situazione
identica, inclusi i diritti relativi ai contratti
stipulati ai sensi degli artt. 1341 (condizioni generali
di contratto) e 1342 c.c. (contratti conclusi mediante
moduli o formulari, detti anche “contratti per adesione”
o contratti di massa”) a cui si aggiungono logicamente
gli artt. da 33 a 38 del Dlgs 206/2005 sulla disciplina
delle clausole contrattuali vessatorie;
2.
i diritti identici che spettano ai consumatori finali di
un
determinato prodotto nei confronti del
produttore di questo, anche a prescindere da un
diretto rapporto contrattuale (per esempio, il diritto
al risarcimento del danno derivante da difetti del
prodotto, disciplinato dagli artt. da 114 a 127 del
Codice del consumo);
3.
i diritti identici al ristoro del pregiudizio,
cioè al risarcimento del danno, derivante agli stessi
consumatori e utenti da pratiche commerciali
scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali
da parte della stessa impresa, visto che, come chiarisce
il 4° comma dell’art. 140-bis, l’azione può
essere proposta solo contro una impresa (e non contro un
“professionista”, concetto più ampio, che, come previsto
dal 1° comma dell’art. 19 del Dlgs 206/2005, è il
soggetto che può porre in esse le pratiche commerciali
scorrette contro i consumatori e che la lettera b
dell’art. 18 dello stesso Decreto identifica in una
impresa o in un libero professionista che esercita una
professione regolamentata o in colui che agisce in nome
e per conto o soltanto per conto di un professionista,
cioè in un rappresentante o in un agente).
A tal fine ciascun
componente della classe (o categoria) dei consumatori o
degli utenti che vantano identici diritti nei confronti
della stessa impresa (ripetiamo che solo le imprese,
private, pubbliche od a proprietà mista possono essere
il convenuto di questa azione), sia
singolarmente (e questa è una grande novità della
riforma dell’art. 140-bis), sia
mediante associazioni a cui dà mandato
o comitati a cui partecipa, può agire
con l’azione di classe per l’accertamento della
responsabilità e per la condanna al risarcimento del
danno e alle (eventuali) restituzioni (1° comma).
Ovviamente, l’attore di questa causa collettiva può
essere una singola persona fisica, o associazione, o
comitato, ma possono esservi anche una pluralità di
attori persone fisiche e/o associazioni e/o comitati.
Le associazioni ed
i comitati legittimati ad agire a tutela degli interessi
collettivi dei consumatori e/o utenti che possono quindi
proporre l’azione di classe sono sia le associazioni dei
consumatori e degli utenti rappresentative a livello
nazionale inserite nell’elenco tenuto dal Ministero
dello Sviluppo Economico (ora delle Attività Produttive)
di cui all’art. 137 del Dlgs 206/2005, sia tutte le
altre associazioni o comitati in qualche modo
rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere.
E’ scomparso dalla
norma riformata il concetto della adeguata
rappresentatività degli interessi collettivi fatti
valere con l’azione di classe da parte dei comitati e
delle associazioni che era presente nel 2° comma del
testo originario dell’art. 140-bis. In tal modo
è venuta meno (stranamente, per una riforma che doveva
garantire di più proprio le aziende) la garanzia per le
imprese di non vedersi convenute in giudizio da
associazioni di consumatori e utenti del tutto
improvvisate e poco o per nulla rappresentative degli
interessi di questi ultimi.
Segnaliamo,
inoltre, che il consumatore è
chiaramente definito dalla lettera a) dell’art.
3 del Dlgs 206/2005 come “la persona fisica che agisce
(acquistando ed utilizzando beni o servizi) per scopi
estranei all’attività imprenditoriale o professionale
eventualmente svolta”, mentre nel concetto di
“utente” (non definito dalla legge) rientrano,
a nostro parere, oltre ai consumatori persone fisiche,
anche i liberi professionisti, le imprese e le altre
organizzazioni (enti pubblici o privati non profit)
che utilizzano in base ad un contratto un servizio
pubblico di rete, come, per esempio, l’erogazione
dell’elettricità, dell’acqua, del gas, ecc. od un
servizio privato di rete come, per esempio, la
telefonia, l’accesso ad Internet, i servizi di trasporto
(anche quelli pubblici), ecc.
Infine, anche se
sarà piuttosto raro in pratica, non dovrebbe essere
impossibile che le imprese convenute nell’azione di
classe siano più di una. Si consideri, per esempio, il
caso in cui più imprese producano e vendano tutte uno
stesso prodotto o servizio sulla base delle licenze
ottenute dal titolare di un medesimo brevetto o sulla
base del know-how (insieme di conoscenze
tecniche e commerciali) ceduto alle imprese aderenti (franchisee)
ad una associazione commerciale o franchising
da una impresa associante (franchisor) .
Il 3° comma
dell’art. 140-bis stabilisce poi che
consumatori e gli utenti che intendono avvalersi
dell’azione di classe vi possono aderire
senza ministero di un difensore. L’adesione ad essa
comporta la rinuncia ad ogni azione restitutoria o
risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo
(diritto), fatti salvi i diritti degli aderenti che non
danno il loro consenso alle rinunce e/o alle transazioni
che sono intervenute tra le parti (tra il convenuto e
l’attore, che è chi per primo ha promosso il giudizio,
che può essere, come abbiamo visto, una persona fisica,
un’associazione od un comitato) nel corso del giudizio e
compresi i casi di estinzione del giudizio e di chiusura
anticipata del processo.
L’atto di adesione
deve contenere l’elezione di domicilio dell’aderente e,
soprattutto, “l’indicazione degli elementi costitutivi
del diritto fatto valere con la relativa documentazione
probatoria”. Questo atto è depositato in cancelleria,
anche tramite l’attore, entro il termine perentorio,
fissato dal Tribunale, non superiore a 120 giorni dalla
scadenza di quello per l’esecuzione della pubblicità
relativa all’azione, su cui vedi oltre nel paragrafo
successivo.
Gli effetti di
interruzione della prescrizione di cui agli artt. 2943 e
2945 c.c. decorrono dalla data di notificazione della
domanda e, per coloro che hanno aderito successivamente,
da quella del deposito in cancelleria dell’atto di
adesione all’azione di classe. Pertanto, l’esercizio
dell’azione di classe in forma individuale o collettiva
o, se successiva, l’adesione del singolo consumatore o
utente a tale azione produce l’interruzione della
prescrizione ai sensi dell’art. 2945 c.c. e,
soprattutto, del suo 2° comma per cui “la prescrizione
non corre fino al momento il cui passa in giudicato la
sentenza che definisce il giudizio”.
Infine, segnaliamo
che per l’azione di classe l’esperimento del tentativo
di conciliazione non è condizione di procedibilità della
domanda giudiziale, secondo quanto previsto dall’ultimo
periodo del 1° comma dell’art. 5 del Dlgs 28/2010.
Se in questa azione
si esperisce il procedimento di mediazione disciplinato
dal Dlgs 28/2010 l’accordo di conciliazione
intervenuto dopo la scadenza del termine per
l’adesione dei consumatori ad essa ha effetto
solo nei confronti degli aderenti che vi abbiano
espressamente consentito, come previsto
dall’art. 15 di questo Decreto. Il testo della norma
citata dice esattamente: “anche nei
confronti degli aderenti che vi abbiano espressamente
consentito” ma questo “anche” è un chiaro errore
materiale perché la conciliazione, essendo un accordo,
cioè un contratto tra le parti, come si ricava dagli
artt. 1° e 11 del Dlgs 28/2010, non può vincolare chi ad
essa non presta il suo consenso.
§ 2) La
disciplina dell’azione di classe.
Mentre la prima
versione dell’art. 140-bis del Dlgs 206/2005
prevedeva che la domanda si potesse presentare presso
qualsiasi tribunale, il testo attuale prevede la
competenza del solo tribunale ordinario avente
sede nel capoluogo della regione in cui ha sede
l’impresa convenuta, ma per la Valle d’Aosta è
competente il tribunale di Torino, per il Trentino –
Alto Adige ed il Fruirli – Venezia Giulia è competente
il tribunale di Venezia, per le Marche, l’Umbria,
l’Abruzzo e il Molise è competente il tribunale di Roma
e per la Basilicata e la Calabria è competente il
tribunale di Napoli. E’ chiara la volontà del
legislatore di istituire un Giudice
specializzato in questa materia, come avvenuto
anche per quello specializzato nella tutela della
proprietà industriale ed intellettuale. Il tribunale
tratta la causa in composizione collegiale
(4° comma).
La domanda si
propone con atto di citazione notificato anche
all’ufficio del pubblico ministero presso il tribunale
adito, il quale può intervenire limitatamente al
giudizio di ammissibilità dell’azione di classe (5°
comma).
Ai sensi del 6°
comma dell’art. 140 – bis, alla prima udienza,
il Tribunale, sentite le parti e assunte, quando
occorre, sommarie informazioni, decide con
ordinanza sull’ammissibilità della domanda. La
domanda è dichiarata
inammissibile:
1.
quando è
manifestamente infondata,
2.
quando
sussiste un conflitto di interessi (caso piuttosto
difficile ma non impossibile da ravvisare in concreto:
si consideri, per esempio, il caso di consumatori o
utenti che siano dipendenti, soci o amministratori di
imprese concorrenti di quella da cui si pretendono
danneggiati),
3.
quando
il Giudice non ravvisa l’identità dei diritti
individuali tutelabili dall’azione di classe ai sensi
del comma 2° dell’art. 140-bis, che abbiamo visto nel paragrafo precedente,
4.
quando
il proponente (cioè l’attore) dell’azione di classe non
appare in grado di curare adeguatamente l’interesse
della classe stessa (criterio piuttosto pericoloso
perché potrebbe, per esempio, fare dichiarare
inammissibili azioni di classe giuridicamente fondate ma
proposte da singoli consumatori o da piccole
associazioni o comitati di consumatori e utenti in base
alla complessità ed ai prevedibili forti costi di esse.
Sarebbe stato meglio, come abbiamo detto prima,
mantenere il criterio della adeguata rappresentatività
degli interessi collettivi fatti valere da parte delle
associazioni o dei comitati che promuovono l’azione di
classe).
Il tribunale può
anche sospendere il giudizio quando sui
fatti rilevanti al fine della decisione è in corso
un’istruttoria davanti ad una Autorità Indipendente (si
pensi, per esempio, al caso in cui l’Autorità Garante
della Concorrenza e del Mercato, la c.d. “Autorità
Antitrust”, abbia promosso un’istruttoria relativa ad
una pratica commerciale scorretta verso i consumatori,
ai sensi dell’art. 27 del Dlgs 206/2007) oppure un
giudizio davanti al Giudice Amministrativo.
L’ordinanza
pronunciata dal Tribunale sull’ammissibilità della
domanda è reclamabile davanti alla Corte di Appello, nel
termine perentorio di 30 giorni dalla comunicazione o
notificazione di essa, se anteriore. Sul reclamo la
Corte d’Appello decide a sua volta con ordinanza in
camera di consiglio entro 40 giorni dal deposito del
ricorso. Questo reclamo non sospende, però, il
procedimento davanti al Tribunale (7° comma).
Questo
filtro giurisdizionale operato dal Tribunale, cioè da
un soggetto per definizione terzo rispetto alle parti in
causa, rappresenta il compromesso e la garanzia che è
stata raggiunta con le imprese e le loro organizzazioni
rappresentative. E’ stranamente saltata, invece,
rispetto al testo originario dell’art. 140-bis,
l’altra garanzia rappresentata dalla titolarità
dell’azione di classe conferita alle sole associazioni
dei consumatori ed utenti e non anche alle singole
persone fisiche che salvaguardava le imprese dalla
possibilità di una proposizione dell’azione
generalizzata e da quella di azioni temerarie ed
infondate che potrebbero moltiplicare i costi legali
sostenuti dalle aziende.
Con l’ordinanza di
inammissibilità, il Giudice regola le
spese, anche ai sensi dell’art. 96 del Codice di
Procedura Civile, cioè condanna al risarcimento del
danno il soccombente (l’attore) che ha proposto l’azione
con mala fede o colpa grave, ed ordina la più opportuna
pubblicità a spese dello stesso soccombente (comma 8°).
Se invece ritiene
ammissibile la domanda, il Giudice
fissa, a cura e spese di chi ha proposto l’azione di
classe, i termini e le modalità della più idonea
pubblicità dei contenuti dell’azione proposta
per favorire l’adesione ad essa di tutti i consumatori
interessati. L’esecuzione della pubblicità è condizione
di procedibilità della domanda. Il termine entro cui
essa deve essere effettuata è da considerarsi
perentorio, dato che è tale quello che da esso decorre
per l’adesione dei consumatori e degli utenti all’azione
di classe. Con la stessa ordinanza il Tribunale dà i
provvedimenti per la prosecuzione del giudizio e, in
particolare:
1.
definisce i caratteri dei diritti individuali (che, come abbiamo visto debbono essere identici) dei consumatori e/o
degli utenti oggetto del giudizio, specificando i
criteri in base ai quali i soggetti che chiedono di
aderire sono inclusi nella classe o devono ritenersi
esclusi dall’azione;
fissa un
termine perentorio, non superiore a 120 giorni
dalla scadenza di quello per l’esecuzione della
pubblicità, entro il quale gli atti di adesione,
anche a mezzo dell’attore (per esempio, un comitato),
sono depositati in cancelleria. Copia dell’ordinanza è
trasmessa, a cura della cancelleria, al Ministero dello
Sviluppo Economico (attualmente delle Attività
Produttive) che ne cura ulteriori forme di pubblicità,
anche mediante la pubblicazione sul suo sito Internet
(9° comma). E’ escluso l’intervento di terzi nella causa
ai sensi dell’art. 105 c.p.c. (10° comma): nell’azione
di classe si può intervenire solo per mezzo
dell’adesione e soltanto per fare valere un diritto
identico a quello dell’attore e degli altri aderenti ad
essa.
Sempre con la
stessa ordinanza di ammissibilità dell’azione di classe
il Tribunale determina il corso della procedura
assicurando, nel rispetto del contraddittorio tra le
parti, l’equa, efficace e sollecita gestione del
processo. Con la stessa o con una successiva ordinanza,
modificabile o revocabile in ogni tempo, il Tribunale
prescrive le misure atte a evitare indebite ripetizioni
o complicazioni nella presentazione di prove o
argomenti; onera le parti della pubblicità necessaria
alla tutela degli aderenti all’azione; regola nel modo
che ritiene più opportuno l’istruzione probatoria e
disciplina ogni altra questione di rito, omessa ogni
formalità non essenziale al contraddittorio (comma 11°).
Se accoglie
la domanda, il Tribunale pronuncia una
sentenza di condanna con cui liquida, ai sensi
dell’art. 1226 c.c. (cioè con una valutazione
equitativa del danno se esso non può essere
provato nel suo preciso ammontare), le somme
definitive dovute a coloro che hanno aderito
all’azione o stabilisce il criterio omogeneo di
calcolo per la liquidazione di dette somme
(comma 12°).
E questa è l’altra
grossa novità della riforma della class action:
chi decide l’ammontare del risarcimento
dovuto ai consumatori ed agli utenti che hanno promosso
od aderito all’azione è, in tutto e per tutto,
il Giudice, mentre nella versione originaria
del testo dell’art. 140-bis (4° comma) egli
determinava soltanto i criteri in base ai quali
liquidare la somma da corrispondere ai singoli
consumatori o utenti che avevano aderito all’azione
collettiva oppure, se possibile allo stato degli atti,
determinava la somma minima da corrispondere a ciascun
consumatore od utente. Nei sessanta giorni successivi
alla notificazione della sentenza, l’impresa convenuta
proponeva il pagamento di una somma, con atto
sottoscritto dal legale rappresentante, comunicato a
ciascun avente diritto e depositato in Cancelleria. La
proposta in qualsiasi forma accettata dal consumatore o
dall’utente avrebbe costituito titolo esecutivo. Se
l’impresa condannata al risarcimento del danno od alla
restituzione delle somme spettanti ai singoli
consumatori o utenti non avesse comunicato la proposta
economica di cui al 4° comma nei sessanta giorni
successivi alla notificazione della sentenza o se questa
non fosse stata accettata anche solo da alcuni dei
consumatori o utenti che avevano aderito all’azione
collettiva o erano intervenuti nel giudizio (col vecchio
testo era possibile l’intervento di terzi nel giudizio
ai sensi dell’art. 105 c.p.c.), il Presidente del
Tribunale avrebbe dovuto costituire un’unica
camera di conciliazione per la
determinazione delle somme da corrispondere o da
restituire ai consumatori o utenti che avevano aderito
all’azione collettiva e che ne facevano domanda.
La camera di
conciliazione sarebbe stata composta da un avvocato
indicato dai soggetti che avevano proposto l’azione
collettiva (le associazioni e i comitati, quindi, nella
prima versione del testo dell’art. 140-bis e
non i singoli consumatori o utenti), da un avvocato
indicato dall’impresa convenuta e da un terzo avvocato
nominato dal Presidente del Tribunale tra gli iscritti
all’albo speciale per le giurisdizioni superiori (la
Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato) che
l’avrebbe presieduta.
La camera di
conciliazione doveva quantificare, con un verbale
sottoscritto dal suo Presidente, i modi, i termini e
l’ammontare delle somme da corrispondere ai singoli
consumatori o utenti. Il verbale di conciliazione
avrebbe costituito titolo esecutivo.
In alternativa alla
camera unica di conciliazione, su concorde richiesta del
promotore dell’azione collettiva (associazione o
comitato di consumatori o utenti) e dell’impresa
convenuta, il Presidente del Tribunale avrebbe disposto
che la composizione non contenziosa della controversia
avesse luogo presso uno degli organismi di
conciliazione di cui all’art. 38 del Decreto
Legislativo n° 5 del 2003 (contenente la nuova
disciplina dei procedimenti in materia di diritto
societario, di intermediazione finanziaria, nonché in
materia bancaria e creditizia), operante nel territorio
del Comune in cui ha sede il Tribunale, quindi, in primo
luogo, quelli costituiti dalle Camere di Commercio ai
sensi dell’art. 4 della Legge n° 580 del 1993 che
riporta il vigente ordinamento di questi Enti. A questa
procedura di conciliazione si sarebbero applicate, in
quanto compatibili, le disposizioni di cui agli artt. 39
e 40 del Dlgs 5/2003 e successive modificazioni.
Oggi, questa
procedura, molto garantista ed equilibrata sia per i
consumatori danneggiati che (soprattutto, se vogliamo)
per le imprese è stata sostituita, sia per l’an
(il “se” sussiste il diritto al risarcimento) che per il
quantum (il preciso ammontare di esso), dalla
sola decisione del Giudice. A nostro parere, questo tipo
di decisione è molto rischioso soprattutto per le
imprese, perché, molto spesso, i giudici tendono a
tutelare maggiormente la parte debole, in questo caso i
consumatori. Mentre, il fatto di poter
contrattare l’ammontare del risarcimento in una
procedura di conciliazione era senz’altro una garanzia
in più contro il rischio di vedersi condannati
a pagare un risarcimento eccessivo che può mettere
l’impresa (specie la PMI, cioè la piccola o media
impresa) in grosse difficoltà finanziarie, fino, nei
casi estremi, a portarla alla chiusura. La composizione
collegiale del tribunale non è poi una garanzia efficace
perché, come tutti sanno, nei collegi, un solo Giudice è
quello che studia la causa e, di fatto e quasi sempre,
decide.
Nel caso di
accoglimento di una azione di classe proposta nei
confronti di gestori di servizi pubblici o di pubblica
utilità, il Tribunale deve tenere conto di quanto
riconosciuto nei confronti degli utenti e dei
consumatori danneggiati nelle relative carte dei servizi
eventualmente emanate. La sentenza
diviene esecutiva decorsi 180
giorni dalla sua pubblicazione. I pagamenti
delle somme dovute effettuati durante tale periodo sono
esenti da ogni diritto o incremento, anche per gli
accessori di legge maturati dopo la pubblicazione della
sentenza (come, per esempio, gli interessi legali)
(comma 12°).
La Corte
di Appello, richiesta della sospensione dell’efficacia esecutiva o
dell’esecuzione della sentenza impugnata ai sensi
dell’art. 283 c.p.c., deve tenere conto dell’entità
complessiva della somma gravante sul debitore (l’impresa
condannata), del numero dei creditori e della difficoltà
di ripetere le somme già pagate nel caso di accoglimento
dell’appello contro la sentenza di primo grado
dell’azione di classe. La Corte può disporre, a garanzia
dei consumatori e/o utenti aderenti all’azione, che,
fino al passaggio in giudicato della sentenza, la somma
complessivamente dovuta dall’impresa sia depositata e
resti vincolata nelle forme ritenute più opportune (13°
comma).
La sentenza che
definisce il giudizio fa stato nei confronti di tutti i
consumatori e/o utenti che hanno aderito all’azione di
classe. E’ fatta salva l’azione individuale dei
consumatori o utenti che non aderiscono all’azione
collettiva. Le rinunce e le transazioni intervenute tra
le parti non pregiudicano i diritti degli aderenti
all’azione di classe che non vi hanno espressamente
consentito. Gli stessi diritti sono fatti salvi anche
nei casi di estinzione del giudizio o di chiusura
anticipata del processo (commi 14° e 15°).
Non sono
proponibili ulteriori azioni di classe per i medesimi
fatti e nei confronti della stessa impresa dopo la
scadenza del termine per l’adesione dei consumatori o
utenti assegnato dal Giudice ai sensi del comma 9°
dell’art. 140-bis che abbiamo esaminato in
precedenza. Le azioni di questo tipo proposte entro
detto termine sono riunite d’ufficio se pendenti davanti
allo stesso Tribunale, altrimenti il Giudice
successivamente adito ordina la cancellazione della
causa dal ruolo, assegnando un termine perentorio non
superiore a 60 giorni per la riassunzione di essa
davanti al primo Giudice (comma 14°).
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