L’ingresso
dell’informatica nelle pubbliche amministrazioni ha
comportato un’inevitabile trasformazione delle procedure
amministrative che, da meccanizzate o manuali, si sono
necessariamente evolute in elettroniche. A questo
passaggio è corrisposta la transizione dall’atto
amministrativo cartaceo a quello informatico, con tutto
ciò che ne consegue in termini di adattamento dei
requisiti di validità dello stesso ai nuovi strumenti in
mano ormai degli operatori delle PPAA e in termini di
nuova disciplina della procedura di certificazione della
conformità delle copie di atti agli originali. O,
almeno, questo sarebbe dovuto accadere… Pubblichiamo il
contributo di Francesca Giannuzzi e Luigi
Foglia - Digital & Law Department dello Studio
legale Lisi che sollevano alcune perplessità sul Glifo
il contrassegno elettronico introdotto dalle recenti
modifiche al Codice dell Pa digitale.
L’Atto amministrativo
prima del D. Lgs. 39/93
Autorevole ed unanime
dottrina (GIANNINI) parte dal principio generale di
libertà di forma degli atti amministrativi sino ad
arrivare ad ammettere, a titolo di eccezione alla citata
regola generale, la necessità della forma scritta per la
maggior parte delle tipologie di provvedimenti da porre
in essere da parte della PA (ovvero per quegli atti in
cui la forma scritta è prevista dalla legge o è
richiesta dalla natura stessa dell’atto).
La giurisprudenza amministrativa, poi, si è pronunciata
nel tempo nel senso di richiedere la forma scritta ad
substantiam anche nel silenzio della legge, in
quanto necessaria per garantire la certezza dei
rapporti e rendere possibile il successivo
controllo, non solo giurisdizionale, sull’operato delle
pubbliche amministrazioni, il tutto in funzione della
realizzazione del principio costituzionale del buon
andamento (art. 97 Cost.). Corollario della necessaria
esternazione in forma scritta dell’atto è la sua sicura
riferibilità all’autorità emanante, in modo da poter
risalire facilmente al suo autore e consentire la
definizione delle relative responsabilità (Orofino A.
G., Forme elettroniche e procedimenti amministrativi).
Inizialmente, pertanto,
la sottoscrizione del provvedimento amministrativo
costituisce requisito della sua validità, sottoscrizione
che deve necessariamente provenire dalla persona fisica
titolare dell’organo competente ad emanarlo. Nel caso di
mancanza della sottoscrizione, l’atto è nullo proprio
per l’impossibilità di riferire tale atto a un
determinato soggetto/organo.
In verità, la sottoscrizione quale requisito di validità
viene man mano, per così dire, “sgretolata” da una serie
di pronunce giurisprudenziali che circoscrivono sempre
di più la necessità della firma autografa, ammettendo la
valida esistenza di provvedimenti anche quando la firma
manchi:
-
nel caso si tratti
di atti privi di rilevanza esterna (cd. “atti
endoprocedimentali”);
-
o quando la
provenienza dell’atto è ricavabile aliunde,
ovvero da altri elementi diversi dalla firma, purché
l’attività amministrativa posta in essere consista
sostanzialmente in certificazioni o accertamenti di
fatto, o nella riproduzione del contenuto di altri
atti.
Invero, tale principio
era contenuto già nell’art. 15-quinquies del D.L.
28.12.1989 n. 415 applicabile agli atti anagrafici e di
stato civile, che prevede che tali tipologie di
certificazioni in cui la sottoscrizione dell’ufficiale
d’anagrafe o di stato civile sia stata sostituita da
quella in formato grafico del sindaco o dell’assessore
delegato, sono validi a tutti gli effetti di legge
qualora la loro originalità sia, però, garantita “da
accorgimenti che non ne consentano la riproduzione per
copie, come l’utilizzo di fogli filogranati o timbri a
secco”.
Sembra quasi che il
legislatore e la giurisprudenza siano “dilaniati” tra
l’esigenza di semplificare la “produzione” di atti
amministrativi e quella di garantire comunque la loro
sicura riconducibilità all’autore degli stessi, sia per
permettere il controllo sul provvedimento e, dunque, la
determinazione delle relative responsabilità, sia per
scongiurare il più possibile il rischio di future
riproduzioni.
L’atto amministrativo
dopo il D. Lgs. 39/1993: l’atto amministrativo
informatico
Il comma 1 dell’art. 3
del
D. Lgs. 39/93 universalizza l’obbligo per tutte le
pubbliche amministrazioni di predisporre gli atti
amministrativi tramite i sistemi informativi
automatizzati. Ma ciò che qui più interessa è il comma
successivo e la reale portata che lo stesso ha avuto nel
mondo del diritto.
Tale secondo comma, infatti, oltre a conferire valore
normativo all’esigenza di conoscere la provenienza e il
responsabile degli atti amministrativi emanati
attraverso i sistemi informatici o telematici, prevede
espressamente che “se per la validità di tali
operazioni e degli atti emessi sia prevista
l'apposizione di firma autografa, la stessa è sostituita
dall'indicazione a stampa, sul documento prodotto dal
sistema automatizzato, del nominativo del soggetto
responsabile”.
Con tale articolo sembrava si fosse “sorpassata” la
necessità della sottoscrizione autografa del soggetto
titolare dell’organo deputato a emanare l’atto
amministrativo, in quanto si conferiva legislativamente
una generale validità a tutti i provvedimenti
amministrativi che, seppur mancanti della firma,
contenevano l’indicazione a stampa del soggetto che lo
aveva posto in essere. In tal modo, infatti, apparivano
soddisfatte le esigenze che poi sono alla base della
sottoscrizione stessa, ovvero:
-
la riferibilità
dell’atto a un soggetto individuato come
appartenente a una determinata PA;
-
conseguentemente, la
maggior garanzia in mano ai cittadini in termini di
controllo dell’operato della PA.
In realtà, la reale
portata applicativa dell’art. 3 comma 2 del D. Lgs.
39/93 è stata via via ridimensionata dalle successive
pronunce giurisprudenziali, ma soprattutto dal Codice
dell’Amministrazione Digitale, anche alla luce della sua
recente novella ad opera del D. Lgs. 235/2010.
Da un lato,
infatti, la giurisprudenza ha limitato l’ambito
di applicazione della suddetta norma agli atti
certificativi e ai c.d. “atti amministrativi in senso
stretto”, ovvero a quegli atti provenienti dalla PA
la cui emanazione non richiede una valutazione
discrezionale, né una motivazione calibrata al caso
concreto. In altre parole, l’intento semplificatorio
della citata legge veniva circoscritto a quegli atti
amministrativi seriali che, appunto perché non
necessitano di una ponderazione degli interessi
coinvolti, vengono elaborati direttamente ed
automaticamente dal sistema informatico della PA
procedente. Al contrario, quando dall’atto
amministrativo possono scaturire effetti gravemente
lesivi nella sfera giuridica del destinatario,
l’indicazione a stampa del nominativo del responsabile
non sarà più sufficiente, e sarà necessaria la firma
autografa o, quantomeno, un sicuro metodo che garantisca
la certa attribuzione di paternità del documento e,
dunque, l’individuazione dei soggetti ai quali imputare
la volontà esternata[1].
Dall’altro, poi, anche la normativa
succedutasi non solo ha stravolto la portata dell’art. 3
comma 2 del D. Lgs. 39/93, ma altresì l’ha resa
assolutamente anacronistica ed inapplicabile. L’art. 24
comma 2 del CAD, infatti, prevede che “l'apposizione
di firma digitale integra e sostituisce l'apposizione di
sigilli, punzoni, timbri, contrassegni e marchi di
qualsiasi genere ad ogni fine previsto dalla
normativa vigente”. La firma digitale, dunque,
essendo equiparata a tutti gli effetti alla
sottoscrizione olografa, è un mezzo alternativo a
quest’ultima per l’attribuzione della paternità del
documento. Tale affermazione:
-
è una conferma del
fatto che il segno grafico della sottoscrizione
olografa non è l’unico mezzo per identificare il
soggetto che pone in essere l’atto amministrativo;
-
comporta che
l’apposizione della firma digitale sul documento
amministrativo sostituisce e rende inutili ogni tipo
di riferimento (quali la carta filogranata,
l’esistenza di un timbro a secco etc. correlati
comunque al documento amministrativo cartaceo) e
diverso dalla sottoscrizione, che fino a poco tempo
fa era considerato uno strumento per ricondurre un
determinato provvedimento al suo autore.
Se le amministrazioni
devono utilizzare gli strumenti informatici per
esternare la propria attività e, dunque, creare atti
amministrativi, tutte queste “indagini sul cartaceo”
alla scoperta di segni identificativi della provenienza
dell’atto non hanno ragion d’essere: ecco che appare
assolutamente contraddittoria l’esigenza di analizzare
il cartaceo, quando l’atto amministrativo dovrebbero
nascere come documento informatico sigillato solo dalla
firma digitale.
Un ritorno al passato:
il Glifo
Su Saperi PA trovate
il testo del CAD già coordinato con le modifiche
pubblicate nel decreto legislativo n. 235/2010
Eppure neanche il CAD,
soprattutto a seguito della recente modifica operata con
il D. Lgs. 235/2010, risulta indifferente a questo
passaggio irrinunciabile al cartaceo, il cui senso
sfugge a chi scrive: prova ne è l’art. 23-ter
che, al comma 5, introduce il “Glifo”, ovvero “un
contrassegno generato elettronicamente, formato nel
rispetto delle regole tecniche stabilite ai sensi
dell'articolo 71 e tale da consentire la verifica
automatica della conformità del documento analogico a
quello informatico”. Tale contrassegno costituirebbe
una specie di sigillo che deve essere apposto a stampa e
che ha la funzione di “assicurare la provenienza e la
conformità all'originale, sulle copie analogiche di
documenti informatici”.
La stampa dei documenti amministrativi informatici,
dunque, appare di nuovo un bisogno irrinunciabile che il
legislatore non manca di disciplinare, seppur con
intenti di semplificazione…
In sostanza, i documenti che il cittadino acquisisce
per via informatica e stampa dal suo computer personale
avranno la stessa validità dei documenti originariamente
prodotti dalla Pubblica Amministrazione proprio “grazie”
a questo contrassegno creato elettronicamente, che
garantirebbe la conformità di quella stampa
all’originale in possesso della PA. Quali siano le
modalità con cui sarà realizzata questa operazione non
possiamo ancora saperlo in quanto non è stato ancora
emanato il già annunciato decreto ministeriale
contenente le regole tecniche per l’effettiva
introduzione ed utilizzo del Glifo; probabilmente esso
consisterà in un’immagine bidimensionale in cui viene
contenuta l’immagine del documento originale creato e
detenuto dalla PA.
Stando a quanto previsto
dal comma 3 dell'art 23-ter del CAD viene
conferito al Glifo un potere di assicurare la
conformità all'originale molto simile al potere di
autentica che è sempre stato ed è ancora (vedasi lo
stesso CAD, che, all’art. 25, presuppone comunque
l’opera del pubblico ufficiale per l’autentica della
firma elettronica, sia essa avanzata o no) nelle mani di
un pubblico ufficiale. Ci si chiede come possa un
software sostituirsi alla persona fisica a cui la legge
stessa conferisce tale potere certificativo: per quanto
funzionale ed affidabile possa essere, il programma che
genera il Glifo non può fare le veci di un pubblico
ufficiale! Né può sottacersi che tale timbro sul
documento stampato dal cittadino possa essere facilmente
contraffatto, con tutto ciò che ne deriva in termini di
assoluta mancanza di certezza nei rapporti giuridici con
la PA emanante. Da ciò l’impossibilità, per il Glifo, di
offrire quelle garanzie di provenienza dell’atto che
fino a poco tempo fa erano soddisfatte, ad esempio,
dalla stampa del provvedimento su un particolare tipo di
carta filogranata utilizzata solitamente da quella PA
emanante. Solo alla firma digitale è riconosciuta la
possibilità di sostituire, ai fini della validità
dell'atto stesso, elementi quali timbri punzoni o carta
filigranata richiesti dalla legge.
Se non può avere questa
funzione certificativa, allora qual è la “vocazione” del
Glifo? Sicuramente il Glifo non è requisito di validità
dell’atto amministrativo, in quanto, come si è detto,
questa può essere garantita solo dalla firma digitale.
Sarebbe più corretto ammettere una funzione di
assicurazione del Glifo, limitatamente alle
certificazioni da rilasciarsi ai cittadini in carta
semplice, prevedendo sempre la presenza del Pubblico
Ufficiale nel caso in cui sia necessaria l’autentica.
Il Glifo sarebbe, quindi, deputato a offrire una certa
garanzia di certezza per la circolazione del documento,
solo quando si tratti di certificazioni in carta
semplice che il cittadino può liberamente stampare da
casa propria. Non sembra, dunque, potersi realizzare, in
concreto, quello che era inizialmente l’intento del
legislatore, ovvero di offrire ai cittadini la
possibilità di procurarsi direttamente copie analogiche
degli atti amministrativi informatici originali detenuti
dalla PA procedente, aventi lo stesso valore giuridico
di questi ultimi. L’introduzione del Glifo, anzi, appare
un passo indietro rispetto ai traguardi raggiunti con
l’emanazione del D. Lgs. 82/2005, in quanto si sostanzia
in una specie di “riedizione” dell’art. 3 comma 2 del D.
Lgs. 39/93, che ha già conosciuto un ridimensionamento
prima e un superamento poi non solo ad opera della
giurisprudenza, ma anche dallo stesso CAD, con
l’introduzione della firma digitale.
Sarà molto probabile,
dunque, che quanto è accaduto per il citato art. 3 comma
2 del D. Lgs. 39/93 avvenga presto anche per il Glifo,
il quale, una volta introdotto e regolato compiutamente,
vedrà la sua concreta attuazione necessariamente
limitata progressivamente agli atti certificativi, o,
comunque seriali, rilasciati al cittadino in copia
semplice.
*Avv.ti Francesca
Giannuzzi e Luigi Foglia – Digital & Law Department –
Studio legale lisi
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