Nell’ambito dei coinvolgenti temi riguardanti la vasta
ed articolata disciplina della responsabilità civile, un
argomento particolarmente spinoso - animatamente
discusso in dottrina ed al quale la giurisprudenza,
ormai da tempo, offre scarne ed eterogenee soluzioni - è
senza dubbio relativo alla questione della
responsabilità civile derivante da un fatto dannoso
cagionato da un soggetto affetto da patologia psichica.
Il tema acquista maggior spessore laddove ci si
concentri sulla figura di un infermo di mente il quale
sia, al contempo, un soggetto incapace naturale, non
interdetto né inabilitato; intendendo, a tal fine,
tenere in considerazione l’auspicabile ridursi del
ricorso agli strumenti di protezione riconducibili alle
- obsolete e rigide - pronunce che conducano ad una
dichiarazione di incapacità legale.
Gli
strazianti fatti giunti agli onori della cronaca
spingono, spesso, gli interpreti (e la stessa società
civile) a posizioni istintuali di chiusura ed autotutela
- motivate dalla percezione di pericolo di atti di alta
lesività - le quali, in prima analisi, di frequente
conducono, alcuni, ad ipotizzare come la causa primaria
sia da rinvenire nell’inadeguatezza della liberale
regolamentazione della Legge sul trattamento delle
malattie mentali - L.180/78 confluita nella L. 833/78 -
alla quale (nel caso di realizzazione di uno sfortunato
evento di danno da parte del malato psichico) fa da
cornice l’arcaica regolamentazione predisposta dal
codice civile, del 1942, con gli artt. 2046 c.c. 2047
c.c.
L’allarme sociale generato dalle rappresentazioni -
talvolta enfatizzate e colorite - dei mass media, con
estrema facilità, può condurre ad istanze di ampliamento
di tutela interventista da parte dello Stato, sul quale
grava il compito di tutelare la salute degli individui e
della società (Art. 32 Cost.). (v. Cass. Civ. Sez. III,
20 giugno 2008, n. 16803, in Giust. Civ. 2009, 10, c.
2195).
Tuttavia, al fine di evitare un’indagine eccessivamente
riduttiva della sentita questione, è necessario
analizzare la tematica chiedendosi inoltre:
-“se e sino a che punto” il quadro dipinto dalla cronaca
nera possa considerarsi quale veritiera rappresentazione
statistica degli eventi “tipo”, dei quali possano
rendersi autori i malati psichiatrici;
-“se e sino a che punto” la malattia abbia,
effettivamente, rivestito un ruolo nell’esplicarsi degli
eventi nel singolo caso;
-se sia possibile riconoscere uno scarto così rilevante,
nei dati offerti dalle eventuali ricerche statistiche,
tra i danneggiamenti ad opera dei soggetti sani di mente
e quelli dei soggetti affetti da malattia mentale;
- e soprattutto “se e sino a che punto” l’evento di
danno possa concretamente imputarsi al tipo di
regolamentazione, predisposto per la cura delle malattie
mentali, o possa, in realtà, essere ricondotto ad una
mancanza di cautele, possibili ed attuabili, da parte
dei soggetti ai quali sia ammissibile, legislativamente
e ragionevolmente, ricondurre tale compito, in ragione
della particolare relazione - o del peculiare ruolo che
rivestono - nei confronti del malato psichico. (v. Cass.
Civ. Sez. III, 16 giugno 2005, n. 12965, in Giust. Civ.
2006, I, p. 72).
Ma il punto centrale è individuare quale sia la “pura
immagine” offerta dalla realtà concreta, quando ci si
trovi, nella ordinaria quotidianità, ad essere il
casuale bersaglio dell’azione dannosa di un soggetto
incapace di intendere e di volere a causa della propria
condizione mentale, dunque è ammissibile chiedersi:
- se il summenzionato danno possa essere riconosciuto
quale lesione meritevole di una tutela risarcitoria;
- quali saranno gli eventuali strumenti a disposizione,
della sfortunata vittima, ai fini della riparazione del
torto subito;
- se vi sia effettivamente qualche soggetto – possa
essere, questo, l’autore materiale o in sua vece un
garante – che sia tenuto a rispondere per quell’evento
ed entro quali, eventuali, limiti possa riconoscersi una
responsabilità risarcitoria.
Occorre analizzare cosa sia mutato, nel quadro giuridico
e sociale, dopo l’emanazione della legge 180/78, ma
soprattutto occorre chiedersi se - a distanza di più di
un trentennio dall’emanazione della summenzionata legge
- gli standard richiesti per la cura, la terapia e
riabilitazione della malattia mentale possano essere i
medesimi o sia legittimo attendersi degli interventi
differenti in ragione delle nuove acquisizioni
scientifiche in materia psichiatrica. Bisogna essere in
grado di ammettere che l’intervento normativo, attuato
attraverso la c.d. Legge Basaglia, fosse, all’epoca,
l’unica strategia adeguata ad offrire un reale
cambiamento di rotta e che, dunque, fosse necessario una
ferma presa di posizione.
Ad oggi, dopo tutti questi anni, è veramente ammissibile
rimettere in discussione i risultati raggiunti? È
veramente utile e funzionale screditare un sistema che
ha permesso, obiettivamente, al malato mentale di
tramutarsi da oggetto di diritti a soggetto di
diritto?...
Certamente è possibile migliorare; è ammissibile,
inoltre, ampliare gli intervenirti rivolti alla massima
efficienza dei servizi di cura della malattia e al
supporto alle famiglie dei malati mentali.
Ma le eventuali riserve sull’attuazione della legge
180/78 dovrebbero essere circoscritte all’oggetto di
disciplina della citata legge - ossia al trattamento
terapeutico della malattia mentale - e non essere
strumentali alle esigenze di tutela giuridica per
eventuali azioni dannose di questi soggetti.
Lo scopo primario del trattamento delle malattie mentali
deve essere il raggiungimento di un equilibrio
psico-fisico e relazionale del malato, il quale potrà,
certamente, avere anche effetti secondari importanti,
consentendo di arginare possibili gesti auto o etero
aggressivi del paziente (estrinsecazione della stessa
patologia e sofferenza), a tutto vantaggio anche dello
stesso soggetto affetto da malattia mentale.
Indubbiamente occorrerebbe chiedersi cosa sia possibile
fare, prima del eventuale gesto lesivo, per la “cura”
dell’infermo di mente.
Ma - laddove il danno sia, ormai, venuto in essere - uno
sguardo critico, al più, potrebbe essere rivolto alla
disciplina offerta dal legislatore civile per la
regolamentazione degli illeciti aquiliani ad opera degli
incapaci naturali per malattia mentale.
Tuttavia, anche in questo caso, vi è da chiedersi:
quanta inadeguatezza debba essere attribuita alle regole
e quanta all’eventuale mal governo, delle stesse, ad
opera delle Corti, le quali debbano interpretare ed
applicare le medesime ai singoli casi concreti, al fine
di garantire tutela ai danneggiati?...
Ancora maggiore interesse, dunque, può porsi
nell’analisi delle risposte offerte dalle pronunce
giurisprudenziali sull’argomento, quanto queste possano
dirsi effettivamente rispondenti alle reali esigenze di
tutela del danneggiato, ma - non in ultimo - agli stessi
interessi del danneggiante infermo di mente, i quali non
possono esaurirsi nei soli interessi attinenti la sfera
economica, ma abbracciano l’intera sfera personale e
giuridica del disagiato psichico.
Gli aspetti più opinabili, quindi, del tema non sono da
ricondurre al solo dato normativo codicistico – rimasto
immutato nonostante l’evolvere della realtà che lo
circonda – ma è soprattutto oggetto di discussione,
l’atteggiamento di alcune Corti Giudicanti il quale, in
più occasioni, ha condotto a contestabili soluzioni
pratiche. (v. ad esempio: Cass. Civ. Sez. III, 1° giugno
1994, n. 5306, in Resp. Civ. e Prev. 1994, pag. 1067;
Corte Appello Trieste, 22 settembre 2001, in Studium
Iuris 2002; emblematico il caso: Trib. Reggio Emilia, 18
novembre 1989, in Nuova Giur. Civ. Comm. 1990, I, p.
549).
Ampiamente discusso in dottrina è l’individuazione
dell’effettivo numero di vittime di tali fatti dannosi.
Inoltre gli interpreti mettono, spesso, in evidenza come
questo “eccezionale” evento di danno (ad opera di un
incapace naturale per infermità di mente), nella maggior
parte dei casi rischi di restare senza alcun ristoro; e
vi è, purtroppo, da costatare come le risposte della
nostra giurisprudenza sovente - attraverso
interpretazioni rigorose e restrittive - possano
agevolare una tale percezione.
Ma è necessario mettere in luce come questa non sia la
sola strada percorribile, e come – in realtà –
l’interprete possa giungere a soluzioni differenti e –
talvolta - più equilibrate.
Si vuole sottolineare, in ogni caso, come ancora oggi
possa affermarsi che cruciale, riguardo il tema del
danno cagionato da un malato di mente, sia rispondere
agli ormai ridondanti quesiti, i quali possono,
essenzialmente, essere ricondotti alle classiche due
domande:
1) se gli strumenti offerti, dalla nostra normativa
civile, possano effettivamente ritenersi adeguati alle
attuali tendenze in ordine alla funzione riparatoria e
ridistributiva attribuite come preminenti alla
responsabilità aquiliana ed, al contempo, adeguati
all’immagine che si debba attribuire alla malattia
mentale?
e di conseguenza ancora:
2) se le soluzioni offerte dalla nostra giurisprudenza,
nei casi concreti sottoposti alla propria attenzione,
siano effettivamente rispondenti agli orientamenti più
recenti in tema di riparabilità del torto subito ed
all’idea di “cura e assistenza” che si voglia
riconoscere – quale diritto – per lo stesso malato di
mente?
È fuori discussione che il rapporto tra malattia di
mente e responsabilità civile sia estremamente delicato,
quest’ultimo richiede un serio bilanciamento dei vari
interessi in gioco, il quale possa essere rispettoso sia
della situazione della vittima del danno ingiusto, sia
della fragile posizione del malato psichico.
Ciononostante, vi è da costatare come non sia
ammissibile avvallare, in toto, un eccessivo
protezionismo nei confronti del malato psichico, o
quanto meno, oltre il necessario.
Anzi occorrerebbe rispettare lo stesso quale soggetto di
diritto (dunque titolare tanto di diritti quanto
doveri), offrirgli la possibilità di essere riconosciuto
quale parte effettiva della collettività.
Per far ciò, naturalmente, occorre - prima di ogni cosa
– garantire, al medesimo soggetto, l’effettivo godimento
dei propri “diritti sociali”, assicuragli un concreto
diritto alla salute, all’assistenza e, talvolta, alla
sorveglianza; diritti strettamente legati e strumentali
alla possibile realizzazione dell’essere umano anche, e
non solo, qualora questo sia un malato psichico.
Pur ammettendo la possibilità e/o l’opportunità di
ritocchi e miglioramenti della normativa sul tema - alla
luce dell’evoluzione della stessa scienza psichiatrica e
delle nuove acquisizioni normative relative al generale
status del malato psichico – allo stato odierno al
giurista non resta che confrontarsi con ciò che viene
offerto dal quadro normativo in vigore.
Tuttavia, lungi dall’arrestarsi ad una posizione di
semplice passività, il compito dello studioso non si
esaurisce in un ruolo puramente ricognitivo dello stato
degli atti, ma deve essere anche quello di ricercare
soluzioni più adeguate alle nuove istanze di tutela
risarcitoria, soprattutto laddove ci si possa trovare
dinnanzi a lesione di interessi primari della persona.
Allo stesso tempo, per la medesima ragione, occorre che
tali soluzioni si concilino con le nuove tendenze, in
ordine alla responsabilità civile, in modo da cogliere,
tra le righe dei provvedimenti giurisprudenziali, quegli
input che possano essere idonee basi di partenza ad
interpretazioni evolutive e, il più possibile,
bilanciate delle questioni.
Le interpretazioni ammissibili debbono poter ritenersi
in armonia con il complessivo quadro giuridico in vigore
ed i principi sui quali poggia l’intero ordinamento. (v.
ad esempio: Cass. Civ. Sez. Lav., 03 agosto 2007, n.
17066, in D&L 2007, 4, p. 1113; Trib. Monza 04 luglio
1996, in Resp. Civ. e Prev. 1997, 4, p. 776; Corte
Appello di Bologna, 04 gennaio 1996, inedita).
Al contempo, non ci si può esimere, talvolta, da
necessarie critiche a quelle soluzioni offerte dalle
Corti, confuse, poco elastiche e intrise di pregiudizi e
preconcetti, le quali si allontanano dai più moderni
orientamenti in tema di responsabilità aquiliana.
Queste ultime - talvolta, attraverso un formale, ma solo
apparente, richiamo ai diritti di libertà del malato ed
alla caduta dell’impronta custodialistica del
trattamento (v. Cass. Civ. Sez. III, 20 giugno 2008, n.
16803, cit.; Corte Appello Trieste, 22 settembre 2001,
cit.;Trib. Reggio Emilia, 18 novembre 1989, cit.);
nonché, tal’altre, al contrario, adottando una lettura
incline ad un’eccessiva estensione degli obblighi di
sorveglianza, la quale non tenga in considerazione la
reale attuabilità ed esigibilità, dei medesimi, nel
singolo caso di specie (Cass. Civ. Sez. III, 1° giugno
1994, n. 5306, cit.) - in realtà, da un punto di vista
concreto, spesso mal si adattano persino alle reali
“esigenze di tutela dello stesso malato psichico” e
potenzialmente aprono la strada a surrettizie
interpretazioni che conducono a snaturare la stessa
essenza da attribuirsi ai diritti di “cura ed
assistenza” del soggetto affetto da malattia mentale.
(…).
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