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IL DELICATO RAPPORTO TRA INFERMITA’ DI MENTE E RESPONSABILITA’ CIVILE: SE IL FOLLE DANNEGGIA QUALI DOMANDE PORSI E QUALI RISPOSTE OFFRIRE?” – Donatella M. E. BONOMO –Persona e danno.it

 

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Nell’ambito dei coinvolgenti temi riguardanti la vasta ed articolata disciplina della responsabilità civile, un argomento particolarmente spinoso - animatamente discusso in dottrina ed al quale la giurisprudenza, ormai da tempo, offre scarne ed eterogenee soluzioni - è senza dubbio relativo alla questione della responsabilità civile derivante da un fatto dannoso cagionato da un soggetto affetto da patologia psichica.

Il tema acquista maggior spessore laddove ci si concentri sulla figura di un infermo di mente il quale sia, al contempo, un soggetto incapace naturale, non interdetto né inabilitato; intendendo, a tal fine, tenere in considerazione l’auspicabile ridursi del ricorso agli strumenti di protezione riconducibili alle - obsolete e rigide - pronunce che conducano ad una dichiarazione di incapacità legale.

Gli strazianti fatti giunti agli onori della cronaca spingono, spesso, gli interpreti (e la stessa società civile) a posizioni istintuali di chiusura ed autotutela - motivate dalla percezione di pericolo di atti di alta lesività - le quali, in prima analisi, di frequente conducono, alcuni, ad ipotizzare come la causa primaria sia da rinvenire nell’inadeguatezza della liberale regolamentazione della Legge sul trattamento delle malattie mentali - L.180/78 confluita nella L. 833/78 - alla quale (nel caso di realizzazione di uno sfortunato evento di danno da parte del malato psichico) fa da cornice l’arcaica regolamentazione predisposta dal codice civile, del 1942, con gli artt. 2046 c.c. 2047 c.c.

L’allarme sociale generato dalle rappresentazioni - talvolta enfatizzate e colorite - dei mass media, con estrema facilità, può condurre ad istanze di ampliamento di tutela interventista da parte dello Stato, sul quale grava il compito di tutelare la salute degli individui e della società (Art. 32 Cost.). (v. Cass. Civ. Sez. III, 20 giugno 2008, n. 16803, in Giust. Civ. 2009, 10, c. 2195).

Tuttavia, al fine di evitare un’indagine eccessivamente riduttiva della sentita questione, è necessario analizzare la tematica chiedendosi inoltre:

-“se e sino a che punto” il quadro dipinto dalla cronaca nera possa considerarsi quale veritiera rappresentazione statistica degli eventi “tipo”, dei quali possano rendersi autori i malati psichiatrici;

-“se e sino a che punto” la malattia abbia, effettivamente, rivestito un ruolo nell’esplicarsi degli eventi nel singolo caso;

-se sia possibile riconoscere uno scarto così rilevante, nei dati offerti dalle eventuali ricerche statistiche, tra i danneggiamenti ad opera dei soggetti sani di mente e quelli dei soggetti affetti da malattia mentale;

- e soprattutto “se e sino a che punto” l’evento di danno possa concretamente imputarsi al tipo di regolamentazione, predisposto per la cura delle malattie mentali, o possa, in realtà, essere ricondotto ad una mancanza di cautele, possibili ed attuabili, da parte dei soggetti ai quali sia ammissibile, legislativamente e ragionevolmente, ricondurre tale compito, in ragione della particolare relazione - o del peculiare ruolo che rivestono - nei confronti del malato psichico. (v. Cass. Civ. Sez. III, 16 giugno 2005, n. 12965, in Giust. Civ. 2006, I, p. 72).

Ma il punto centrale è individuare quale sia la “pura immagine” offerta dalla realtà concreta, quando ci si trovi, nella ordinaria quotidianità, ad essere il casuale bersaglio dell’azione dannosa di un soggetto incapace di intendere e di volere a causa della propria condizione mentale, dunque è ammissibile chiedersi:

- se il summenzionato danno possa essere riconosciuto quale lesione meritevole di una tutela risarcitoria;

- quali saranno gli eventuali strumenti a disposizione, della sfortunata vittima, ai fini della riparazione del torto subito;

- se vi sia effettivamente qualche soggetto – possa essere, questo, l’autore materiale o in sua vece un garante – che sia tenuto a rispondere per quell’evento ed entro quali, eventuali, limiti possa riconoscersi una responsabilità risarcitoria.

Occorre analizzare cosa sia mutato, nel quadro giuridico e sociale, dopo l’emanazione della legge 180/78, ma soprattutto occorre chiedersi se - a distanza di più di un trentennio dall’emanazione della summenzionata legge - gli standard richiesti per la cura, la terapia e riabilitazione della malattia mentale possano essere i medesimi o sia legittimo attendersi degli interventi differenti in ragione delle nuove acquisizioni scientifiche in materia psichiatrica. Bisogna essere in grado di ammettere che l’intervento normativo, attuato attraverso la c.d. Legge Basaglia, fosse, all’epoca, l’unica strategia adeguata ad offrire un reale cambiamento di rotta e che, dunque, fosse necessario una ferma presa di posizione.

Ad oggi, dopo tutti questi anni, è veramente ammissibile rimettere in discussione i risultati raggiunti? È veramente utile e funzionale screditare un sistema che ha permesso, obiettivamente, al malato mentale di tramutarsi da oggetto di diritti a soggetto di diritto?...

Certamente è possibile migliorare; è ammissibile, inoltre, ampliare gli intervenirti rivolti alla massima efficienza dei servizi di cura della malattia e al supporto alle famiglie dei malati mentali.

Ma le eventuali riserve sull’attuazione della legge 180/78 dovrebbero essere circoscritte all’oggetto di disciplina della citata legge - ossia al trattamento terapeutico della malattia mentale - e non essere strumentali alle esigenze di tutela giuridica per eventuali azioni dannose di questi soggetti.

Lo scopo primario del trattamento delle malattie mentali deve essere il raggiungimento di un equilibrio psico-fisico e relazionale del malato, il quale potrà, certamente, avere anche effetti secondari importanti, consentendo di arginare possibili gesti auto o etero aggressivi del paziente (estrinsecazione della stessa patologia e sofferenza), a tutto vantaggio anche dello stesso soggetto affetto da malattia mentale. Indubbiamente occorrerebbe chiedersi cosa sia possibile fare, prima del eventuale gesto lesivo, per la “cura” dell’infermo di mente.

Ma - laddove il danno sia, ormai, venuto in essere - uno sguardo critico, al più, potrebbe essere rivolto alla disciplina offerta dal legislatore civile per la regolamentazione degli illeciti aquiliani ad opera degli incapaci naturali per malattia mentale.

Tuttavia, anche in questo caso, vi è da chiedersi: quanta inadeguatezza debba essere attribuita alle regole e quanta all’eventuale mal governo, delle stesse, ad opera delle Corti, le quali debbano interpretare ed applicare le medesime ai singoli casi concreti, al fine di garantire tutela ai danneggiati?...

Ancora maggiore interesse, dunque, può porsi nell’analisi delle risposte offerte dalle pronunce giurisprudenziali sull’argomento, quanto queste possano dirsi effettivamente rispondenti alle reali esigenze di tutela del danneggiato, ma - non in ultimo - agli stessi interessi del danneggiante infermo di mente, i quali non possono esaurirsi nei soli interessi attinenti la sfera economica, ma abbracciano l’intera sfera personale e giuridica del disagiato psichico.

Gli aspetti più opinabili, quindi, del tema non sono da ricondurre al solo dato normativo codicistico – rimasto immutato nonostante l’evolvere della realtà che lo circonda – ma è soprattutto oggetto di discussione, l’atteggiamento di alcune Corti Giudicanti il quale, in più occasioni, ha condotto a contestabili soluzioni pratiche. (v. ad esempio: Cass. Civ. Sez. III, 1° giugno 1994, n. 5306, in Resp. Civ. e Prev. 1994, pag. 1067; Corte Appello Trieste, 22 settembre 2001, in Studium Iuris 2002; emblematico il caso: Trib. Reggio Emilia, 18 novembre 1989, in Nuova Giur. Civ. Comm. 1990, I, p. 549).

Ampiamente discusso in dottrina è l’individuazione dell’effettivo numero di vittime di tali fatti dannosi.

Inoltre gli interpreti mettono, spesso, in evidenza come questo “eccezionale” evento di danno (ad opera di un incapace naturale per infermità di mente), nella maggior parte dei casi rischi di restare senza alcun ristoro; e vi è, purtroppo, da costatare come le risposte della nostra giurisprudenza sovente - attraverso interpretazioni rigorose e restrittive - possano agevolare una tale percezione.

Ma è necessario mettere in luce come questa non sia la sola strada percorribile, e come – in realtà – l’interprete possa giungere a soluzioni differenti e – talvolta - più equilibrate.

Si vuole sottolineare, in ogni caso, come ancora oggi possa affermarsi che cruciale, riguardo il tema del danno cagionato da un malato di mente, sia rispondere agli ormai ridondanti quesiti, i quali possono, essenzialmente, essere ricondotti alle classiche due domande:
1) se gli strumenti offerti, dalla nostra normativa civile, possano effettivamente ritenersi adeguati alle attuali tendenze in ordine alla funzione riparatoria e ridistributiva attribuite come preminenti alla responsabilità aquiliana ed, al contempo, adeguati all’immagine che si debba attribuire alla malattia mentale?

e di conseguenza ancora:

2) se le soluzioni offerte dalla nostra giurisprudenza, nei casi concreti sottoposti alla propria attenzione, siano effettivamente rispondenti agli orientamenti più recenti in tema di riparabilità del torto subito ed all’idea di “cura e assistenza” che si voglia riconoscere – quale diritto – per lo stesso malato di mente?

È fuori discussione che il rapporto tra malattia di mente e responsabilità civile sia estremamente delicato, quest’ultimo richiede un serio bilanciamento dei vari interessi in gioco, il quale possa essere rispettoso sia della situazione della vittima del danno ingiusto, sia della fragile posizione del malato psichico.

Ciononostante, vi è da costatare come non sia ammissibile avvallare, in toto, un eccessivo protezionismo nei confronti del malato psichico, o quanto meno, oltre il necessario.
Anzi occorrerebbe rispettare lo stesso quale soggetto di diritto (dunque titolare tanto di diritti quanto doveri), offrirgli la possibilità di essere riconosciuto quale parte effettiva della collettività.

Per far ciò, naturalmente, occorre - prima di ogni cosa – garantire, al medesimo soggetto, l’effettivo godimento dei propri “diritti sociali”, assicuragli un concreto diritto alla salute, all’assistenza e, talvolta, alla sorveglianza; diritti strettamente legati e strumentali alla possibile realizzazione dell’essere umano anche, e non solo, qualora questo sia un malato psichico.

Pur ammettendo la possibilità e/o l’opportunità di ritocchi e miglioramenti della normativa sul tema - alla luce dell’evoluzione della stessa scienza psichiatrica e delle nuove acquisizioni normative relative al generale status del malato psichico – allo stato odierno al giurista non resta che confrontarsi con ciò che viene offerto dal quadro normativo in vigore.

Tuttavia, lungi dall’arrestarsi ad una posizione di semplice passività, il compito dello studioso non si esaurisce in un ruolo puramente ricognitivo dello stato degli atti, ma deve essere anche quello di ricercare soluzioni più adeguate alle nuove istanze di tutela risarcitoria, soprattutto laddove ci si possa trovare dinnanzi a lesione di interessi primari della persona.

Allo stesso tempo, per la medesima ragione, occorre che tali soluzioni si concilino con le nuove tendenze, in ordine alla responsabilità civile, in modo da cogliere, tra le righe dei provvedimenti giurisprudenziali, quegli input che possano essere idonee basi di partenza ad interpretazioni evolutive e, il più possibile, bilanciate delle questioni.

Le interpretazioni ammissibili debbono poter ritenersi in armonia con il complessivo quadro giuridico in vigore ed i principi sui quali poggia l’intero ordinamento. (v. ad esempio: Cass. Civ. Sez. Lav., 03 agosto 2007, n. 17066, in D&L 2007, 4, p. 1113; Trib. Monza 04 luglio 1996, in Resp. Civ. e Prev. 1997, 4, p. 776; Corte Appello di Bologna, 04 gennaio 1996, inedita).

Al contempo, non ci si può esimere, talvolta, da necessarie critiche a quelle soluzioni offerte dalle Corti, confuse, poco elastiche e intrise di pregiudizi e preconcetti, le quali si allontanano dai più moderni orientamenti in tema di responsabilità aquiliana.

Queste ultime - talvolta, attraverso un formale, ma solo apparente, richiamo ai diritti di libertà del malato ed alla caduta dell’impronta custodialistica del trattamento (v. Cass. Civ. Sez. III, 20 giugno 2008, n. 16803, cit.; Corte Appello Trieste, 22 settembre 2001, cit.;Trib. Reggio Emilia, 18 novembre 1989, cit.); nonché, tal’altre, al contrario, adottando una lettura incline ad un’eccessiva estensione degli obblighi di sorveglianza, la quale non tenga in considerazione la reale attuabilità ed esigibilità, dei medesimi, nel singolo caso di specie (Cass. Civ. Sez. III, 1° giugno 1994, n. 5306, cit.) - in realtà, da un punto di vista concreto, spesso mal si adattano persino alle reali “esigenze di tutela dello stesso malato psichico” e potenzialmente aprono la strada a surrettizie interpretazioni che conducono a snaturare la stessa essenza da attribuirsi ai diritti di “cura ed assistenza” del soggetto affetto da malattia mentale. (…).

 

 

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