La questione se il decentramento
fiscale produca una maggiore o una minore spesa
pubblica complessiva e, di conseguenza, una
maggiore o una minore pressione fiscale, è stata
al centro della teoria economica del federalismo
fiscale. Questa letteratura si forma, alle
origini, attorno all’idea che l’attribuzione
delle funzioni fiscali, di spesa e di prelievo,
a molteplici livelli di governo, anziché ad un
unico governo centrale, debba generare un
livello e una composizione della spesa pubblica
più efficiente, vale a dire più aderente alle
preferenze dei cittadini.
In qualche misura si trattava della
trasposizione, nel campo dell’economia pubblica,
del risultato secondo il quale un mercato
concorrenziale produce un maggior benessere
sociale rispetto ad un monopolio ed una
distribuzione di tale benessere più favorevole
ai consumatori. Si immaginava che un sistema di
finanza pubblica a più livelli consentisse di
mettere tra loro in concorrenza i governi di
diverso livello (concorrenza verticale) oppure i
diversi governi di uno stesso livello
(concorrenza orizzontale) con gli stessi effetti
benefici, in termini di efficienza allocativa,
che si riconoscono alla concorrenza tra imprese
in un mercato privato di beni o servizi. In
alcuni modelli si suppone che i cittadini
penalizzino i cattivi governi con l’opzione
exit, cioè la migrazione in altra giurisdizione,
in altri con l’opzione voice, in particolare con
il voto alle elezioni.
La teoria del federalismo fiscale si è, in anni
più recenti, arricchita di altri interessanti
contributi. Un gruppo di lavori individua nella
vicinanza, a livello locale, tra governi e
governati il vantaggio di una maggiore
accountability. Accountability significa
possibilità, da parte dei cittadini-elettori, di
attribuire le responsabilità degli esiti, buoni
o cattivi, della gestione dei propri denari e di
comportarsi di conseguenza, premiando o
sanzionando con il proprio voto gli
amministratori.
Si deve però avvertire che, sul piano analitico,
l’idea che un’ampia articolazione del sistema di
finanza pubblica su molteplici livelli di
governo produca una migliore allocazione delle
risorse non è unanimemente condivisa e che
alcuni autori ritengono siano presenti
significative forze di segno opposto a quelle
che porterebbero a governi più snelli ed
efficienti. Si sottolinea, in particolare, il
maggior costo del mantenimento di una pluralità
di assemblee elettive, di esecutivi e di
apparati burocratici; i costi e le complicazioni
del coordinamento tra livelli di governo; la
possibilità che la vicinanza tra governi ed
elettorati produca, anziché gli effetti benefici
attesi dalla teoria della responsabilizzazione,
un maggior peso delle lobbies, quando non della
criminalità organizzata, e una maggiore
esposizione degli amministratori al rischio di
corruzione; non risulterebbe inoltre
sufficientemente affidabile la capacità degli
elettorati locali di punire con il voto i
cattivi governi.
Anche sul piano della ricerca empirica vi è una
notevole varietà di risultati, in particolare in
merito alla questione se da un’articolazione
multilivello ci si debba o meno attendere un
settore pubblico complessivamente più piccolo.
Vi è tuttavia una certa prevalenza dei lavori
che trovano conferma empirica a tale ipotesi: di
circa 30 lavori econometrici, pubblicati dal
1972 ad oggi, relativi ad un numero di paesi
molto ampio, circa i 2/3 provano l’esistenza di
una relazione inversa, statisticamente
significativa, tra decentramento e livello della
spesa pubblica, mentre il restante 1/3 trova
effetti non significativi o anche di segno
opposto.
L’analisi descrittiva dà, invece, un risultato
sicuro e incontrovertibile: vi è stata negli
ultimi 30 anni a livello mondiale una forte
tendenza al decentramento fiscale e politico.
Risulta che il decentramento cresce al crescere
del reddito medio, del tasso di democrazia e
libertà economica, della dimensione della
popolazione e del territorio, del grado di
frammentazione etnica, linguistica e religiosa.
In Italia con la legge 42 del 2009 si è
cominciato a dare attuazione alla riforma del
Titolo V della Costituzione approvata nel 2001.
L’articolo ricostruisce l’impalcatura della
legge. Si sottoliena l’ampio ricorso, nel
finanziamento di ciascuno dei tre livelli
decentrati di governo, alle forme di
condivisione dei due grandi tributi erariali -
Irpef e Iva – reso necessario dalla fine di ogni
forma di finanza derivata, decretata dalla
riforma del 2001.
Si illustrano poi, per grandi linee, le
principali modifiche al sistema di finanziamento
delle regioni, in particolare sotto il profilo
della maggiore autonomia impositiva che viene
loro riconosciuta nell’ambito dell’addizionale
Irpef e dell’Irap, oltre che con la possibilità
di istituire tributi con propria legge. Si
criticano, peraltro, alcuni vincoli che vengono
posti a tale autonomia.
Per quanto riguarda la finanza comunale si
discute, in particolare l’ipotesi della nuova
imposta immobiliare, l’IMU, che rimane
pesantemente condizionata dalla decisione, per
ora giudicata politicamente incontrovertibile,
di escludere dall’imposta l’abitazione
principale.
Si conclude sottolineando come la questione
degli effetti sulla pressione fiscale risulti
intrecciata a quella degli effetti della maggior
autonomia. La pressione fiscale risulterà, in
una certa misura, diversa da giurisdizione a
giurisdizione. Si tratterà di giudicare,
guardando anche in casa del vicino, se
un’eventuale maggiore pressione fiscale dipenda
da sprechi e inefficienze, oppure dalla scelta
di garantire, nella spesa sociale, livelli delle
prestazioni superiori al minimo imposto dal
legislatore centrale, oppure ancora da maggiori
impegni in programmi di spesa in settori diversi
da quelli garantiti dal centro.
Ha anche rilievo, per le aspettative relative
agli effetti della riforma sulla pressione
fiscale, un altro importante obiettivo della
legge: quello di un maggiore e più efficace
coinvolgimento dei livelli subcentrali di
governo nelle politiche di contrasto
all’evasione. La riforma, se avrà successo su
questo versante, potrà consentire un
riequilibrio della distribuzione del carico
fiscale a vantaggio delle categorie che hanno
una minore possibilità di evadere
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