L’articolo 7 del Decreto 34 del 31
marzo 2011 segna un passaggio chiave per il
governo dell’economia italiana con conseguenze
potenzialmente pericolose.
Dopo una stagione lunga venti anni di
privatizzazioni e liberalizzazioni con la
definizione di un assetto di regole che miravano
a mettere l’economia sotto l’ombrello di un
governo tecnico, assistiamo ad una svolta ad U:
lo Stato torna a svolgere un ruolo attivo come
proprietario senza (al momento) accorgimenti
adeguati e senza porsi finalità ben definite.
L’intervento muove dall’incapacità del sistema
finanziario ed economico (privato) italiano di
rispondere alle sfide che mercati liberalizzati
e altri sistemi più competitivi portano alla
nostra economia per proporre un nuovo assetto di
governo dai risvolti per niente rassicuranti.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze
stabilisce che la Cassa Depositi e Prestiti
possa acquisire partecipazioni ‘‘in società di
rilevante interesse nazionale in termini di
strategicità del settore di operatività, di
livelli occupazionali, di entità di fatturato
ovvero di ricadute per il sistema
economico-produttivo del Paese’’. I requisiti
delle società sono definiti dal MEF con Decreto.
La Cassa può operare direttamente o via
fondi/veicoli in compartecipazione con imprese
private.
Le risposte delle forze politiche e del mondo
economico sono state flebili. Non si capisce se
non viene colta la rilevanza del passo, se vi è
un assenso più o meno esplicito o, più
semplicemente, sono attonite di fronte alla
portata degli eventi. Da più parti si è
sollevato lo spettro dell’IRI, giustamente il
Ministro Tremonti ha detto che non si vuole
passare tramite i fondi di dotazione che
ripianano a piè di lista le perdite delle
imprese - un sistema che ha mostrato di non
garantire una corretta gestione. Ciò non vuol
dire che il sistema messo a punto sia più
efficace. Lo Stato ha dimostrato di saper essere
un buon azionista nel caso in cui prenda alcuni
accorgimenti di governance (no sussidi,
quotazione dell’impresa) e si ponga obiettivi
vicini a quelli del privato. Quindi, non c’è una
preclusione a priori verso lo Stato
proprietario. Semplicemente lo deve fare con gli
anticorpi giusti affinché obiettivi diversi
dalla corretta gestione non prendano il
sopravvento. Il problema è che il Decreto non
fornisce risposte in merito:
Gli obiettivi individuati nel Decreto sono
vaghi,
C’è un ruolo forte del MEF che ‘‘detta’’ le
condizioni delle acquisizioni via Decreto,
La Cassa Depositi e Prestiti non è una società
quotata, la sua gestione è fortemente
condizionata dall’azionista di maggioranza (il
MEF) senza un confronto con il mercato,
La Cassa possiede una competenza nel campo delle
infrastrutture (un ruolo che potrebbe anche
essere virtuoso), ma non ha competenza nella
gestione di imprese industriali, che ad oggi è
fuori dalla sua mission,
I fondi della Cassa derivano principalmente
dalla raccolta postale che viene remunerata a
condizioni non di mercato per via della
assicurazione che lo Stato garantisce: la Cassa
gode quindi di una forma di ‘‘sussidio’’. Di
fatto la Cassa è una banca senza essere soggetta
alla regolazione delle banche.
Questi sono i presupposti per tramutare
interventi fatti con le migliori intenzioni (non
per salvare imprese decotte) in una avventura
sciagurata. L’intervento diretto della Cassa in
particolare sembra essere pericoloso. Nel
Decreto si lascia spazio ad una possibilità più
virtuosa: partecipazione a fondi/società assieme
a privati. Questa strada potrebbe essere
perseguita (come è stato fatto con il fondo F2I
e il fondo per le imprese) a condizioni che la
CDP svolga un ruolo davvero limitato (con largo
spazio al fund raising sul mercato) e la
gestione sia lasciata a manager all’altezza.
Veniamo alle ripercussioni immediate. Due sono
le vicende alla ribalta: Parmalat e
ricapitalizzazione delle banche.
Parmalat che passa in mani francesi è una
perdita secca per il Paese, questo per le
opportunità che questa ‘‘piccola’’
multinazionale offre in termini di valore
aggiunto sul fronte dell’innovazione e del
capitale umano. Il passaggio andrebbe
scongiurato? Sì ma oramai siamo fuori tempo
massimo. La vicenda Parmalat è il frutto
dell’incapacità del nostro mondo finanziario ed
economico non di ‘‘fare sistema’’ – come
qualcuno sostiene a sproposito - ma
semplicemente di guardare aldilà del suo naso:
una public company che si fa trovare con un capo
azienda seduto su una montagna di soldi senza
una vera strategia di espansione, banche e fondi
italiani che sono uscite oramai da tempo dal suo
capitale. Si sapeva che così non poteva andare
avanti, ma si sapeva anche che se qualcuno
avesse avuto qualche centinaio di milioni di
euro da investire Parmalat sarebbe diventata un
bel giocattolo. Lactalis lo ha capito: le nostre
banche, i nostri managers, i nostri
imprenditori, i nostri fondi? No e, si badi
bene, il fallimento è tutto del ‘’privato’’. A
parte qualche cavillo che viene studiato con
molta attenzione, purtroppo adesso l’unica
soluzione sembra essere un intervento pesante da
parte del pubblico (non necessariamente CDP),
costruire un fondo privato con una
partecipazione del pubblico appare difficile
visti i tempi stretti. Non si tratta di una
bella soluzione perché il latte fino a prova
contraria i privati lo sanno produrre. A questo
proposito occorre anche sfatare un mito:
Parmalat francese non è un bene per il Paese, ma
per le ragioni mostrate sopra Parmalat italiana
controllata senza strumenti adeguati dal
pubblico può esserlo altrettanto.
Veniamo alle banche. Qui ci vogliono un sacco di
soldi, le fondazioni (almeno alcune, quelle che
hanno contravvenuto all’obbligo di
diversificare) non li hanno. La possibilità che
la CDP sia chiamata a giocare un ruolo
importante (direttamente sotto forma di azioni
nelle banche o indirettamente via finanziamento
alle fondazioni) non è remota. Dopo di che si
realizzerà uno scenario inquietante: la Cassa
utilizza il risparmio postale garantito dallo
Stato per rafforzare il sistema finanziario.
Siamo consci di cosa potrebbe succedere di
fronte ad una nuova crisi finanziaria?
Esattamente quello che Tremonti ha sempre detto
che in Italia non poteva avvenire: una perdita
secca per il contribuente. Più in generale siamo
al corrente che così lo Stato (e quindi tutti
noi) utilizza la sua garanzia per dare fondi a
privati (le fondazioni) - che dovrebbero mirare
a fare profitti - e che così facendo alcuni
politici potrebbero cedere alla tentazione di
condizionare la gestione delle banche?
Non è detto che questa sia una cura virtuosa per
sanare il malfunzionamento del sistema. Ce n’è
abbastanza per essere preoccupati e soprattutto
occorre una proposta per il Paese che ponga
rimedio ai problemi, questa non può essere che
imperniata su un nuovo ruolo del pubblico nelle
infrastrutture e un irrobustimento del sistema
finanziario che è troppo schiacciato sulla
centralità delle banche.
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