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1. I recenti casi di Edison, Premafin-Fonsai e Parmalat hanno alimentato la paura che il sistema produttivo italiano fosse all’asta; e l’attivismo, manifestato al riguardo da imprese francesi, ha rinfocolato vecchie polemiche sul tema della non reciprocità nell’ambito dell’Unione europea.


Per giunta la pressione, esercitata dai mercati e dai regolatori sui gruppi bancari italiani per un rapido allineamento della loro patrimonializzazione ai più severi requisiti imposti a regime da Basilea 3, ha fatto emergere le debolezze della struttura proprietaria di tali gruppi e ha posto il problema di come collocare i loro annunciati o futuri aumenti di capitale. Oltre ad accrescere la volatilità delle quotazioni bancarie nel mercato di borsa, questo problema rappresenta una grave minaccia per la stabilità della ragnatela proprietaria che avviluppa i più importanti intermediari finanziari italiani. Il precipitare della crisi di governance in Generali è, certamente, servito a sanare uno stato di conflitto interno all’organo di amministrazione che era diventato insostenibile e che interferiva con la stessa gestione ordinaria; esso è stato, però, anche indotto dalla necessità di evitare ulteriori tensioni nei rapporti fra Mediobanca e la nostra principale compagnia assicurativa.
Qui non mi soffermo sul fatto che i timori di un’invasione di capitali stranieri negli assetti proprietari del nostro sistema produttivo siano smentiti dai dati sui bassi investimenti esteri in Italia; e non mi dilungo a dimostrare che ogni ritorsione di sistema contro le presunte barriere, erette da partner europei, innescherebbe una spirale viziosa (per gli amanti della teoria dei giochi, una strategia inefficiente “tit-for-tat”) e porterebbe, così, alla distruzione del mercato unico europeo. Mi interessa, viceversa, approfondire il tema delle minacce agli attuali assetti proprietari italiani e valutare se le reazioni di policy, finora attuate, promettano soluzioni adeguate.

2.  La scarsa attrazione, esercitata dalla nostra economia verso gli investimenti esteri, è la spia che il Paese non offre un ambiente competitivo; nonostante ciò, l’Italia mantiene realtà di eccellenza sia nel settore industriale che in quello dei servizi e offre vantaggi comparati nei segmenti retail del mercato finanziario. La strategia degli investitori esteri consiste, quindi, nel cogliere i frutti più succosi che, malgrado tutto, continuano a essere presenti nel nostro mal curato “frutteto” produttivo (la cosiddetta politica del cherry picking) e di inserirli nelle loro più efficienti reti di impresa. Ognuno di tali trasferimenti può avere effetti positivi anche per l’economia italiana se elimina aree di rendita, rafforza la concorrenza e induce un salto dimensionale nelle imprese acquisite. A lungo andare però, se non migliorano le condizioni del “frutteto” e se il processo di cherry picking si estende dai frutti maturi più a portata di mano a frutti pregiati (Generali, Fiat, Mediobanca, i maggiori gruppi bancari), vi è il rischio che il sistema produttivo italiano finisca per avvizzire. La soluzione non è di chiudere gli accessi al “frutteto” e di proteggere i frutti più succosi fino al punto da farli marcire sugli alberi. Dopo essersi assicurati che pochi ‘monelli’ non procedano a saccheggi (ma per questo bastano le attuali regole europee e qualche elemento di reciprocità a livello di singola impresa), si tratta di curare meglio il nostro “frutteto” mediante una moderna politica per l’industria e per i servizi. L’obiettivo è di fare sì che il mercato moltiplichi e rafforzi i frutti succosi e che gli investitori esteri trovino conveniente localizzare nel “frutteto” italiano una parte delle loro attività.
L’interrogativo è se il Decreto legge, emanato l’ultimo giorno dello scorso marzo, sia uno strumento idoneo ad aiutare il raggiungimento di tale obiettivo. Come ricorda Emilio Barucci in questo stesso numero di Nelmerito, l’articolo 7 di quel Decreto prevede che una società per azioni, controllata con una quota di maggioranza assoluta dal Ministero dell’economia e posseduta per la quota restante da un ampio numero di fondazioni di origine bancaria, possa assumere “partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale in termini di strategicità del settore di operatività, di livelli occupazionali, di entità di fatturato ovvero di ricadute per il sistema economico-produttivo del Paese”. La società in questione è la Cassa Depositi e Prestiti (CDP); e le partecipazioni sopra dette possono essere acquisite mediante le risorse provenienti dalla raccolta postale.

3. Tradizionalmente, la CDP ha svolto attività di raccolta postale e di erogazione di credito alle amministrazioni pubbliche. Con la riforma del 2003, questa attività tradizionale è stata denominata “gestione separata”; inoltre, la CDP ha rafforzato la sua presenza proprietaria (anche di controllo) in grandi società a partecipazione pubblica; infine, essa ha sviluppato un’attività di raccolta di mezzi finanziari sul mercato, utilizzati per il finanziamento di opere di infrastruttura o per la partecipazione in fondi destinati al sostegno di opere di infrastruttura. Grazie alla tradizionale “gestione separata” e alla nuova attività (denominata “gestione ordinaria”), la CDP ha assunto una funzione decisiva per la costituzione di una delle componenti essenziali di un “frutteto” più curato: l’ammodernamento infrastrutturale del nostro Paese. Dal 2008 tale funzione è stata resa ancora più cogente mediante un’iniziativa normativa, che presenta però risvolti delicati. La CDP ha infatti potuto svolgere quel perimetro di attività, prima confinato alla gestione ordinaria di mercato, anche mediante l’utilizzo della raccolta postale.
Come si è detto, il Decreto di fine marzo 2011 prevede che questa nuova gestione separata post-2008, denominabile “gestione separata 2”, si estenda all’acquisizione di quote proprietarie di società di mercato. Ciò può avvenire per mezzo di investimenti azionari diretti o mediante la costituzione di “veicoli societari o fondi di investimento partecipati dalla CDP ed eventualmente da società private o controllate dallo stato o enti pubblici”.
Fino a che il Decreto non sarà convertito in legge e non sarà corredato da una stringente definizione delle società di mercato potenzialmente coinvolte, è difficile valutare il nuovo ambito di intervento e i connessi rischi di liquidità e di mercato che la CDP potrà assumere a fronte della raccolta postale. La genericità dell’articolo 7 lascia, però, presumere che la CDP sia destinata ad acquisire partecipazioni anche di controllo in un numero di società estremamente ampio e al solo fine di difendere l’”italianità” dei loro assetti proprietari. Se ciò trovasse conferma, vi sarebbero da fare almeno tre considerazioni. La prima è che la CDP assumerebbe compiti che non trovano rispondenza nel contesto né francese né tedesco. La seconda considerazione è che tali compiti interferirebbero con la già troppo complessa ma fondamentale funzione, svolta dalla CDP come attore cruciale dei processi di infrastrutturazione del Paese. La terza considerazione è che, per riprendere la precedente metafora del frutteto, le iniziative di policy non mirerebbero a curare meglio il terreno ma a proteggere i frutti più succosi fino a farli marcire sugli alberi.

4. Per illustrare con un esempio perché la scorciatoia del Decreto di fine marzo non possa sostituirsi a una nuova e articolata politica industriale, è utile assumere che l’estensione della “gestione separata 2” spinga la CDP ad acquisire quote proprietarie rilevanti nei maggiori gruppi bancari al fine di facilitarne la ricapitalizzazione e togliere dall’imbarazzo i loro azionisti di controllo. In un caso del genere la ragnatela proprietaria, che già oggi avviluppa i maggiori intermediari finanziari italiani, assumerebbe una configurazione paradossale. In quanto co-azionisti della CDP e azionisti di controllo dei tre maggiori gruppi bancari italiani, le fondazioni si collocherebbero in più punti cruciali di tale ragnatela con evidenti conflitti di interesse; una parte significativa del settore bancario italiano tornerebbe a essere di proprietà pubblica, non come risposta contingente a una fase acuta di crisi ma come scelta strutturale di policy; la tela degli intrecci proprietari diverrebbe così fitta da rendere ancora più lucrosa la posizione di centralità.

     

 

 

 

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